Teatro Due - 18 e 19 maggio 2006, ore 21.00

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Christoph Marthaler
WINCH ONLY
su musiche di Monteverdi, Schubert, Fauré, Bach, Wagner, Saint-Saëns, Brahms
drammaturgia
Malte Ubenauf
Attori e cantanti
Marc Bodnar
Olivia Grigolli
Rosemary Hardy
Sasha Rau
Graham F. Valentine
scene
Anne Viebrock
Frieda Schneider
costumi
Sara Shittek
luci
Dierk Breimeier
musiche
Bendix Dethleffsen
ideazione e regia
Christoph Marthaler
Produzione Kunsten FESTIVAL des Arts / Bruxelles
In coproduzione con
Fondazione Teatro Due, Teatro Festival Parma,
KVS, Hebbel am Ufer (Berlin), Théâtre National de Chaillot (Paris),
Festival de Otoño (Madrid), Le duo Dijon, Le-Maillon (Strasbourg),
Grand Théâtre de Luxembourg, Fundaçao Calouste Gulbenkian – State of the World (Lisbon)
con il sostegno di
Kulturstiftung des Bundes (Berlin)
PRIMA NAZIONALE
Teatro Due - 24 e 25 maggio 2006, ore 21.00
Lo spettacolo è prodotto da Teatro Festival e Teatri di cinque paesi europei e debutterà nel
maggio del 2006. E’ inoltre prevista una lunga tournée nei principali teatri del continente.
Concepito come una variante della Poppea di Monteverdi e Busenello nella forma aperta
caratteristica dell’opera barocca, con la regia di Marthaler - uno dei più prestigiosi registi
europei - la rinuncia di un’orchestra che illumina il luogo del dramma, lo spettacolo diviene
sinfonia di un “basso continuo” portato all’estremo.
Con la creazione di WINCH ONLY per il KustenFESTIVALdesArts 2006 di Bruxelles, il regista
svizzero Chritoph Marthaler aggiunge una nuova ed originale pagina alle sue produzioni di
teatro musicale e di parola.
Figura di punta del teatro europeo, Christoph Marthaler è uno specialista dei “segreti”; quei
segreti che, taciuti per pudore, traspaiono dai comportamenti strani o ansiosi, che affettano le
voci, incastrano i corpi e molestano gli individui.
Marthaler è il regista dei silenzi, eminentemente coreografico e musicale.
In WINCH ONLY esplora le complesse e, più o meno intense, relazioni d’amore all’interno del
nucleo familiare. Il regista, ispirato dalle numerose ricerche che ha condotto su Bruxelles e la
sua popolazione, ha voluto situare l’azione nel cuore di questa città, da lui profondamente
amata: è nel quadro opulento di un salone belga, in occasione di una riunione familiare che si
incontrano i suoi personaggi i quali, pur essendo parenti, adottano un’attitudine curiosamente
scettica l’uno nei confronti degli altri.
Nelle vicinanze del palazzo di giustizia di Bruxelles, evocato dalla scenografia di Anna Viebrock,
si cominciano ad indovinare le facce nascoste della storia familiare comune.
Ogni membro della famiglia sembra oscuramente incatenato alla sorte degli altri e autore di
infamie trasformate in segreti di famiglia: fra scale nascoste e porte segrete i suoi personaggi,
attraverso la voce, il canto e i corpi, mettono in atto eloquenti ed inquietanti comportamenti.
Una prigione mentale…un vero dedalo a tinte fiamminghe.
Tutto è impercettibilmente permeato da una pesante atmosfera che, caricata da velleità di
vendetta e di potere, giunge al culmine nel momento in cui i convenuti alla riunione intonano
bruscamente canti tratti da L’Incoronazione di Poppea di Monteverdi, momento in cui il ritratto
di una famiglia contemporanea minaccia di scivolare tragicamente nella sfera sanguinaria
dell’Antichità.
Christoph Marthaler, di origine svizzera, classe 1951, è oggi considerato uno dei registi più
poeticamente liberi e inventivi, a cavallo tra le arti.
Musicista e allievo di Lecoq a Parigi, lavora a partire dagli anni ’70 con i maggiori teatri dell’area
germanica, dapprima come autore di musiche di scena, poi come regista. Ottiene il suo primo
grande successo nel 1993 con Uccidi l’europeo! Uccidilo! Fallo fuori! Presentato alla Volksbühne
di Berlino. I suoi lavori nascono da un’ attenta osservazione della realtà, la cui rilettura critica
impietosamente ne fa emergere i lati grotteschi e sgradevoli. È anche regista di opere liriche e
del mondo della lirica ha dato una sua personale lettura satirica e in The unanswered question
(1998) in cui si avvale del direttore d’orchestra Jurg Hennenberg e della coreografa Pina
Bausch. Ora zero o l’arte di servire (1995), presentato nel corso della celebrazione del
cinquantenario della fine della seconda guerra mondiale, è il suo primo spettacolo andato in
scena in Italia: nel 1998, al Festival Teatrale d’Autunno dell’Eti, a Firenze. Nello stesso anno ha
ricevuto a Taormina il premio Europa per le Nuove Realtà Teatrali. Fino al 2003 è stato
direttore della Schauspielhaus di Zurigo.
GIULIO CESARE
di William Shakespeare
traduzione
Alessandro Serpieri
con
Valerio Binasco Giulio Cesare
Luca Giordana Marc’Antonio
Paolo Serra Cassio
Fulvio Pepe Bruto
Roberta Sferzi Porzia
Andrea Narsi Ottavio
Stefano Moretti Casca
Fabricio Amansi Decio
Eleonora Pippo Metello
Ivan Olivieri Trebonio
Ilenia Caleo Calpurnia
Davide Lora Cicerone
Filippo Berti Lucio, servo di Bruto
scene e costumi
Mauro Tinti
luci
Claudio Coloretti
assistente
Carolina Migli
regia
Tim Stark
Produzione
Fondazione Teatro Due, Teatro Festival Parma, Teatro De Gli Incamminati
In collaborazione con
Festival Shakespeariano di Verona e British Council
Lo spettacolo viene presentato in anteprima al Teatro Festival Parma e debutterà in
prima nazionale al Festival Shakespeariano di Verona.
Teatro Due - 18 e 19 maggio 2006, ore 21.00
“Ho scelto di mettere in scena il Giulio Cesare di Shakespeare perché è un testo politico.
Rispetto ad altri testi shakespeariani, come Enrico V o al Riccardo III, in cui il lettore distingue
le fazioni in lotta e buoni e cattivi sono immediatamente riconoscibili e contrapposti, nel Giulio
Cesare regna una certa ambiguità rispetto alla contrapposizione tra il bene e il male.
Il nemico non è dichiarato non è identificabile; e ciò rende estremamente affine questo testo
alla situazione attuale in cui la società non sa più capire da chi si deve difendere favorendo così
il diffondersi di un isterico senso di paura. Saranno l’idea del nemico tra di noi e della paura che
mi guideranno nella messa in scena di questo Giulio Cesare.
La paranoia del potere è un altro tema fondamentale: la maggior parte delle azioni che Cesare
compie sono dettate dalla paura e dalla debolezza e la violenza e l’uso delle armi diventano
manifestazione non di forza o di potere ma di pavidità.”
Tim Stark
“Si capisce perché il dramma sia intitolato a Cesare, anche se egli muore prima della metà del
dramma: il nome Cesare ne governa l’intero svolgimento. La struttura drammatica rivela una
simmetria perfetta. Dall’inizio fino alla prima scena del terzo atto abbiamo il cesarismo al suo
culmine, al punto della sua imminente ratificazione monarchica e imperiale, e, in concomitanza,
il costituirsi della congiura repubblicana che l’attacca, appunto, nelle sue cerimonie, nelle sue
finzioni, e nelle sue mitologie. Dopo l’uccisione di Cesare, dovrebbe stabilizzarsi e rafforzarsi il
governo repubblicano, ma, sempre nel pieno del terzo atto, irrompe il nuovo cesarismo
incarnato da Antonio, che cambia il volto della storia con la sua orazione al popolo sul corpo di
Cesare morto. Il conflitto tra i due schieramenti politici, che costituiscono anche, come s’è
detto, due diverse concezioni del mondo, si sviluppa e si conclude negli ultimi due atti con la
sconfitta dei repubblicani. Il dramma resta sempre, dall’inizio alla fine, marcatamente politico. I
personaggi, anche quelli investigati in certe componenti profonde o in risvolti privati (come
Cesare e Bruto) non hanno di fatto che uno spazio pubblico. I loro ruoli e i loro destini sono
inestricabilmente legati a opzioni ideologiche e a conseguenti schieramenti politici. Che devono
esser messi alla prova del popolo, o meglio che devono persuadere il popolo. Non a caso, il
dramma inizia, nella prima scena, e culmina, nella seconda del terzo atto, con azioni
linguistiche volte alla persuasione della folla. Il popolo, apparente protagonista della storia, è di
fatto il materiale sul quale viene effettuata la trasformazione in potere dei contrapposti
orientamenti ideologici. Trattandosi di continue opposizioni politiche, non stupisce che sia
dominante il paradigma della persuasione. Che chiama con sé la retorica di parte, la recitazione
e, in quella, la simulazione. La storia non è fatta tanto di programmi razionali, quanto di
persuasioni, effettuate affinché gli altri aderiscano al proprio modello del mondo. I personaggi
delle varie parti parlano gli uni con gli altri, o al popolo che deve convalidare il potere degli uni
o degli altri, cercando di imporsi o di imporre un certo “contratto”. Quindi, non si dà azione
politica se non all’interno di una qualche finzione. La simulazione e la dissimulazione le sono
necessarie. Sia uno schieramento che l’altro devono farvi ricorso. E si notano come, prima della
battaglia di Filippi, Bruto e Cassio, da una parte, e Antonio dall’altra, si rinfaccino tutte le
simulazioni e le finzioni che hanno dovuto recitare per mettere in opera i rispettivi progetti
politici. Non è stato solo Antonio, infatti, ad usare i doppi fondi del linguaggio, a fare l’attore e
ad organizzare da regista la decisiva sollevazione popolare. Anche Bruto e Cassio hanno dovuto
dirigere e rappresentare l’atto finale della congiura, e cioè l’uccisione di Cesare, organizzandola
come una grande messinscena.”
Alessandro Serpieri
LA CASA D’ARGILLA
testo Lisa Ferlazzo Natoli
scrittura scenica con
Monica Angrisani
Valentina Curatoli
Tania Garribba
Alice Palazzi
Paola Tintinelli
scene e costumi
Fabiana Di Marco
luci
Luigi Biondi
musiche
Andrea Pandolfo, Gabriele Coen
suono
Fabio Vignaroli
regia,
Lisa Ferlazzo Natoli
Produzione Fondazione Teatro Due
PRIMA NAZIONALE
Teatro Due - 18, 19 maggio 2006, ore 19.30
20 maggio 2006, ore 21.00
"Quanto più allontano il mio cuore dalla casa d'argilla in queste notti spazzate dal vento e dalla
luna, tanto più sono…felice" (Emily Bronte)
Argilla, roccia nata dal fango, bianca e porosa, terra friabile, pronta a sgretolarsi.
Casa, luogo parentale e primordiale, interno abitato da fantasmi e memorie, mentre
dall'esterno penetra, per le crepe dei muri, un'aria che pullula di spettri e sortilegi. Casa che
emette suoni voci gemiti, sgocciolii d'acqua, respiri, come una creatura vivente.
Solo un tavolo lungo e stretto e cinque donne intorno, sei sedie, una vuota. Interno in cui
guardare come dal buco di una serratura.
Quattro donne sono appena tornate e con loro ritorna un rimosso; la quinta le accoglie, forse le
ha chiamate. Per assistere la madre morente? o per ricordarla? Ma è davvero la madre in
quella camera chiusa? E' lei che sta morendo?
Come fosse cibo, dopo una lunga astinenza, le donne consumano e divorano immagini e storie,
desideri, rancori, memorie d'infanzia e ossessioni, mentre il giorno s'incrina nella notte e la
notte nell'alba, il tempo bianco della vestizione.
Quel tavolo, come una trappola per topi, espone i corpi e li costringe a mutazioni inattese:
posture - di spalle di profilo, la sola nuca la schiena le gambe, come arti smembrati; spazi - il
sotto tavolo, il sopra, i lati, il piano orizzontale come un campo da esplorare, zona di scavo
archeologico; buchi temporali - memorie mobili, instabili tra passato e presente.
Si veglia una morte e una morte le veglia, c'è un corpo che resiste, ha un odore e un rumore,
chiama, chiede e si ostina a non voler morire. E una lotta s'ingaggia con i morti, in un'intimità
meravigliosa e terribile con i propri fantasmi. Si gioca con le paure e con le ombre, sgranando,
come sul rosario di famiglia, un inventario e una conta dei defunti, un calendario di abbandoni
precoci.
La veglia riguarda il morire e l'essere svegli-vigili, è una soglia, una terra e un tempo di mezzo,
tempo di festa, ricorrenza tra le morti, che sostituisce al coro antico dei lamenti un coro di risa
e di canti. Si celebra il defunto? o la vita che rimane? oppure è una festa d'addio?
Anche questa sembra una casa pronta allo sgombero e al disuso, destinata a disabitarsi, come
Casa Prozorov delle sorelle cechoviane, che accatastano mobili oggetti e affetti, mentre il loro
mondo declina e le abbandona.
Qui, l'argilla saprà forse sgretolare le mura, mentre dal fondo lentamente risale il fango antico.
Cinque donne, perché c’è un femminile che sa essere popolo minore, capace forse di disegnare
nuove mappe e infrangere divieti; che parla di un sapere come corpo e desiderio, dove
agiscono forze, affetti e passioni che perturbano il senso. Perché ha il potere di rompere patti,
di dar morte avendo dato vita - Medea - di stare sull'orlo, sulla soglia né viva né morta Antigone – d’essere intoccabile, altra dai vivi - Euridice - di legare vita e morte su un piano di
reversibilità - Alcesti. Alcune fra le attrici erano già interne ad un percorso comune, le altre si
sono aggiunte durante un laboratorio mirato. Scelte per una reciproca intuizione d’affinità, per
l’intelligenza della scrittura scenica e improvvisativa che fa nascere dai corpi, assieme alle
posture, anche le parole. “La casa d’argilla”, scrittura originale sui temi del desiderio, della
morte e del luogo familiare, si va disegnando sui corpi delle attrici, producendo biografie e
mutazioni, sdoppiando e sfocando le immagini, come in una foto in movimento. Non
esattamente testi, ma voci tracce suggestioni, affetti, per un gioco di assonanze e rimembranze
che esplora il linguaggio di un corpo-coro parentale.
NELLA SOLITUDINE DEI CAMPI DI COTONE
di Bernard-Marie Koltès
traduzione
Anna Barbera
con
Lino Guanciale, Mariano Pirrello
a cura di
Giovanni La Fontana
Produzione Teatro Festival Parma
Teatro Due – 21 e 22 maggio 2006, ore 21.00
Esempio paradigmatico della drammaturgia di montaggio novecentesca nonché raffinata
parodia della scrittura per la scena borghese schiettamente francese del XIX secolo, Dans la
solitude des champs de coton di ‘Saint’ Koltès (1986), ‘comédien’ e postmoderno ‘martyr’ delle
nuits fauves degli intellettuali maudits a cavallo tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso,
può essere assunta a modello di una nuova drammaturgia filosofica capace di rispondere alla
crisi contemporanea della forma ‘dramma’.
In ossequio al precetto diderotiano di «rappresentare […] condizioni» e non «caratteri» Koltès
porta in scena nel proprio dramma un equivoco incontro ‘commerciale’ tra il Dealer e il Cliente:
nel corso di un morboso cerimoniale che sembra alludere ai più classici e provocanti
adescamenti della prostituzione o del ricettaggio, i traffici economici cifrati negli intrighi amorosi
della canonica drammaturgia borghese ottocentesca sono rivelati da Koltès scegliendo ad
oggetto della propria pièce un losco deal.
In un universo frammentario - entro una scena rotta in «territorio», in «pezzetto di mondo» e
ad un’ora fugace sbrecciata a «frazione di tempo» - il sensuale e fascinoso corteggiamento tra
il Dealer e il Cliente si manifesta, anche se solo su di un piano verbale, come scontro, come
lotta senza quartiere, come rito cruento in cui si attualizza selvaggiamente l’eterno amplesso
tra Amore e Morte. Metafora dei «rapporti brutali fra gli uomini e gli animali» il deal koltèsiano
è un esplicito atto di accusa della lacerante violenza delle relazioni sociali contemporanee che
squartano con la loro tagliente indifferenza l’individuo riducendolo ad «un errore di sguardo, un
errore di giudizio, un errore, come una lettera appena iniziata e brutalmente stracciata subito
dopo aver scritto la data». Dans la solitude des champs de coton nasce da una disorganica
accumulazione di generi in tutto e per tutto simile a quell’ammasso di rifiuti e scarti della vita
pubblica e ufficiale, che costituisce l’ideale scena del deal. Una nuova ed efficace chiave di
lettura registica del testo potrebbe puntare al recupero della dimensione filosofica del copione,
tesa ad esplorare la ricchezza del lessico retorico letterario del dramma e la sua ricaduta in
termini di ridefinizione del concetto post-platonico di eros e conoscenza.
Claudio Longhi
Letture, mises en espace
LA DIDONE
di Giovan Francesco Busenello
Lettura a cura di
Francesca Cabrini
Alberto Nonnato
Davide Ortelli
Valentina Ricci
Serena Rocco
con
Alice Bachi, Valentina Bartolo, Enzo Curcurù, Paola D’Arienzo,
Paola De Crescenzo, Franca Penone, Francesco Rossini,
Marco Toloni, Nanni Tormen
Produzione Teatro Festival Parma
in collaborazione con
Università IUAV di Venezia
Teatro Due - 20 e 21 maggio 2006, ore 19.00
In occasione dell’allestimento in forma di opera lirica prodotto da La Fenice di Venezia, in
collaborazione con Unione Musicale di Torino, Università IUAV di Venezia, prevista per
settembre 2006, verrà realizzata la messa in scena del testo da parte di giovani registi,
scenografi e costumisti di IUAV di Venezia, che presenteranno una lettura-studio del libretto di
Gian Francesco Busenello de La Didone di Francesco Cavalli, rappresentata per la prima volta al
Teatro San Cassiano di Venezia, nel 1641. Lo studio rappresenta un’occasione preziosa per far
conoscere al pubblico lo spirito e la vivacità della tradizione barocca italiana, nell’attesa del
debutto della versione lirica, prevista per il 13 Settembre al Teatro Malibran di Venezia e diretta
dal M° Fabio Biondi, direttore e fondatore di Europa Galante. Biondi ha curato la revisione di
libretto e partitura: la puntuale ricerca filologica e il confronto fra partiture e libretti ha portato
alla ricostruzione della versione più vicina all’originale. Nel libretto, eccezionale per il solido
impianto drammatico, ricorrono le situazioni convenzionali dell’opera seicentesca, come il
lamento e la follia, e s’intrecciano tematiche eterne e universali come il rapporto col potere, il
conflitto fra corpo e ragione, fra destino e libero arbitrio.
Busenello, poeta di grande ironia, ha saputo sposare tradizione e gusto dell’innovazione, tipiche
del periodo barocco. Orientamento manifestato esplicitamente nel finale a sorpresa, e in merito
al quale lo stesso librettista ha dichiarato: «E perché secondo le buone dottrine è lecito ai poeti
non solo alterare le favole, ma le istorie ancora: Didone prende per marito Iarba».
Busenello – avvocato, membro di una ricca famiglia veneziana, “scrittore più per entusiasmo
che per professione” – è considerato il primo vero librettista della storia dell’Opera. Mentre i
predecessori e i contemporanei facevano soprattutto letteratura, egli cerca una scrittura legata
alla musica e allo sviluppo drammatico di un nuovo genere. La sua attività teatrale è sempre
sostenuta da una riflessione filosofica ed estetica. E’ membra dell’Accademia degli Incogniti che
raccoglie gli spiriti forti e libertini di Venezia e sviluppa nei suoi testi una visione del mondo
sorprendentemente moderna e personale, a volte edonista e pessimista, legata all’ambivalenza
barocca, tutta protesa a sperimentare nuovi principi formali per meglio servire la “poesia per
musica”. Gli intrecci realistici e stilizzati sviluppano i tempi più svariati – amore, corruzione,
destino, ragion di Stato, umana fragilità – e presentano dei personaggi straordinariamente vivi.
La grande inventiva della scrittura di questo poeta, sa dosare l’umorismo nella tragedia,
passare dal lirismo sublime al grottesco più popolare, all’ironia che distanzia. Proprio come
Shakespeare.
Nonostante l’Italia sia la patria del Teatro Musicale, il repertorio barocco è poco diffuso e
pressoché sconosciuto al pubblico. La versione sperimentale in forma di prosa, presentata dal
Teatro Festival Parma, s’inserisce nel lavoro condotto dalla Fondazione Teatro Due sulla
riscoperta dei libretti come testi teatrali veri e propri e non soltanto in funzione della musica.
Per scandagliare e riscoprire tutte le potenzialità del nostro patrimonio culturale.
DAEWOO
di François Bon
a cura di Charles Tordjman
in collaborazione con Théâtre de la Manufacture- Nancy
con il sostegno del Conseil Régional de Lorraine
Adattato da François Bon sulla base di testimonianze e documenti autentici relativi alla
chiusura di tre fabbriche dell’azienda Daewoo all’inizio del 2003, Daewoo racconta il
licenziamento di massa e lo sconvolgimento sociale di una intera regione della Francia.
Un dramma contemporaneo narrato dalla voce di quattro donne, che in un sabato sera
raccontano lotte e ribellioni di una vicenda umana ed esistenziale emblematica.
L’autore trasforma i racconti e gli articoli di giornale, accumulati in una racconto
inserito nel reale, con il preciso intento di far emergere l’impegno civile dall’invenzione
teatrale.
26 maggio, ore 17.00
Seminari
LA PAURA DELL’EVOLUZIONE
a cura di Guido Barbujani, scenziato, docente di genetica, scrittore
24 maggio, ore 18.00
LA PAURA DELLE DONNE
a cura di Eva Cantarella, docente di Diritto Romano e Greco e
studiosa del mondo antico
26 maggio, ore 18.00
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