Christoph Marthaler WINCH ONLY su musiche di Monteverdi, Schubert, Fauré, Bach, Wagner, Saint-Saëns, Brahms drammaturgia Malte Ubenauf Attori e cantanti Marc Bodnar Olivia Grigolli Rosemary Hardy Sasha Rau Graham F. Valentine scene Anne Viebrock Frieda Schneider costumi Sara Shittek luci Dierk Breimeier musiche Bendix Dethleffsen ideazione e regia Christoph Marthaler Produzione Kunsten FESTIVAL des Arts / Bruxelles In coproduzione con Fondazione Teatro Due, Teatro Festival Parma, KVS, Hebbel am Ufer (Berlin), Théâtre National de Chaillot (Paris), Festival de Otoño (Madrid), Le duo Dijon, Le-Maillon (Strasbourg), Grand Théâtre de Luxembourg, Fundaçao Calouste Gulbenkian – State of the World (Lisbon) con il sostegno di Kulturstiftung des Bundes (Berlin) PRIMA NAZIONALE Teatro Due - 24 e 25 maggio 2006, ore 21.00 Lo spettacolo è prodotto da Teatro Festival e Teatri di cinque paesi europei e debutterà nel maggio del 2006. E’ inoltre prevista una lunga tournée nei principali teatri del continente. Concepito come una variante della Poppea di Monteverdi e Busenello nella forma aperta caratteristica dell’opera barocca, con la regia di Marthaler - uno dei più prestigiosi registi europei - la rinuncia di un’orchestra che illumina il luogo del dramma, lo spettacolo diviene sinfonia di un “basso continuo” portato all’estremo. Con la creazione di WINCH ONLY per il KustenFESTIVALdesArts 2006 di Bruxelles, il regista svizzero Chritoph Marthaler aggiunge una nuova ed originale pagina alle sue produzioni di teatro musicale e di parola. Figura di punta del teatro europeo, Christoph Marthaler è uno specialista dei “segreti”; quei segreti che, taciuti per pudore, traspaiono dai comportamenti strani o ansiosi, che affettano le voci, incastrano i corpi e molestano gli individui. Marthaler è il regista dei silenzi, eminentemente coreografico e musicale. In WINCH ONLY esplora le complesse e, più o meno intense, relazioni d’amore all’interno del nucleo familiare. Il regista, ispirato dalle numerose ricerche che ha condotto su Bruxelles e la sua popolazione, ha voluto situare l’azione nel cuore di questa città, da lui profondamente amata: è nel quadro opulento di un salone belga, in occasione di una riunione familiare che si incontrano i suoi personaggi i quali, pur essendo parenti, adottano un’attitudine curiosamente scettica l’uno nei confronti degli altri. Nelle vicinanze del palazzo di giustizia di Bruxelles, evocato dalla scenografia di Anna Viebrock, si cominciano ad indovinare le facce nascoste della storia familiare comune. Ogni membro della famiglia sembra oscuramente incatenato alla sorte degli altri e autore di infamie trasformate in segreti di famiglia: fra scale nascoste e porte segrete i suoi personaggi, attraverso la voce, il canto e i corpi, mettono in atto eloquenti ed inquietanti comportamenti. Una prigione mentale…un vero dedalo a tinte fiamminghe. Tutto è impercettibilmente permeato da una pesante atmosfera che, caricata da velleità di vendetta e di potere, giunge al culmine nel momento in cui i convenuti alla riunione intonano bruscamente canti tratti da L’Incoronazione di Poppea di Monteverdi, momento in cui il ritratto di una famiglia contemporanea minaccia di scivolare tragicamente nella sfera sanguinaria dell’Antichità. Christoph Marthaler, di origine svizzera, classe 1951, è oggi considerato uno dei registi più poeticamente liberi e inventivi, a cavallo tra le arti. Musicista e allievo di Lecoq a Parigi, lavora a partire dagli anni ’70 con i maggiori teatri dell’area germanica, dapprima come autore di musiche di scena, poi come regista. Ottiene il suo primo grande successo nel 1993 con Uccidi l’europeo! Uccidilo! Fallo fuori! Presentato alla Volksbühne di Berlino. I suoi lavori nascono da un’ attenta osservazione della realtà, la cui rilettura critica impietosamente ne fa emergere i lati grotteschi e sgradevoli. È anche regista di opere liriche e del mondo della lirica ha dato una sua personale lettura satirica e in The unanswered question (1998) in cui si avvale del direttore d’orchestra Jurg Hennenberg e della coreografa Pina Bausch. Ora zero o l’arte di servire (1995), presentato nel corso della celebrazione del cinquantenario della fine della seconda guerra mondiale, è il suo primo spettacolo andato in scena in Italia: nel 1998, al Festival Teatrale d’Autunno dell’Eti, a Firenze. Nello stesso anno ha ricevuto a Taormina il premio Europa per le Nuove Realtà Teatrali. Fino al 2003 è stato direttore della Schauspielhaus di Zurigo. GIULIO CESARE di William Shakespeare traduzione Alessandro Serpieri con Valerio Binasco Giulio Cesare Luca Giordana Marc’Antonio Paolo Serra Cassio Fulvio Pepe Bruto Roberta Sferzi Porzia Andrea Narsi Ottavio Stefano Moretti Casca Fabricio Amansi Decio Eleonora Pippo Metello Ivan Olivieri Trebonio Ilenia Caleo Calpurnia Davide Lora Cicerone Filippo Berti Lucio, servo di Bruto scene e costumi Mauro Tinti luci Claudio Coloretti assistente Carolina Migli regia Tim Stark Produzione Fondazione Teatro Due, Teatro Festival Parma, Teatro De Gli Incamminati In collaborazione con Festival Shakespeariano di Verona e British Council Lo spettacolo viene presentato in anteprima al Teatro Festival Parma e debutterà in prima nazionale al Festival Shakespeariano di Verona. Teatro Due - 18 e 19 maggio 2006, ore 21.00 “Ho scelto di mettere in scena il Giulio Cesare di Shakespeare perché è un testo politico. Rispetto ad altri testi shakespeariani, come Enrico V o al Riccardo III, in cui il lettore distingue le fazioni in lotta e buoni e cattivi sono immediatamente riconoscibili e contrapposti, nel Giulio Cesare regna una certa ambiguità rispetto alla contrapposizione tra il bene e il male. Il nemico non è dichiarato non è identificabile; e ciò rende estremamente affine questo testo alla situazione attuale in cui la società non sa più capire da chi si deve difendere favorendo così il diffondersi di un isterico senso di paura. Saranno l’idea del nemico tra di noi e della paura che mi guideranno nella messa in scena di questo Giulio Cesare. La paranoia del potere è un altro tema fondamentale: la maggior parte delle azioni che Cesare compie sono dettate dalla paura e dalla debolezza e la violenza e l’uso delle armi diventano manifestazione non di forza o di potere ma di pavidità.” Tim Stark “Si capisce perché il dramma sia intitolato a Cesare, anche se egli muore prima della metà del dramma: il nome Cesare ne governa l’intero svolgimento. La struttura drammatica rivela una simmetria perfetta. Dall’inizio fino alla prima scena del terzo atto abbiamo il cesarismo al suo culmine, al punto della sua imminente ratificazione monarchica e imperiale, e, in concomitanza, il costituirsi della congiura repubblicana che l’attacca, appunto, nelle sue cerimonie, nelle sue finzioni, e nelle sue mitologie. Dopo l’uccisione di Cesare, dovrebbe stabilizzarsi e rafforzarsi il governo repubblicano, ma, sempre nel pieno del terzo atto, irrompe il nuovo cesarismo incarnato da Antonio, che cambia il volto della storia con la sua orazione al popolo sul corpo di Cesare morto. Il conflitto tra i due schieramenti politici, che costituiscono anche, come s’è detto, due diverse concezioni del mondo, si sviluppa e si conclude negli ultimi due atti con la sconfitta dei repubblicani. Il dramma resta sempre, dall’inizio alla fine, marcatamente politico. I personaggi, anche quelli investigati in certe componenti profonde o in risvolti privati (come Cesare e Bruto) non hanno di fatto che uno spazio pubblico. I loro ruoli e i loro destini sono inestricabilmente legati a opzioni ideologiche e a conseguenti schieramenti politici. Che devono esser messi alla prova del popolo, o meglio che devono persuadere il popolo. Non a caso, il dramma inizia, nella prima scena, e culmina, nella seconda del terzo atto, con azioni linguistiche volte alla persuasione della folla. Il popolo, apparente protagonista della storia, è di fatto il materiale sul quale viene effettuata la trasformazione in potere dei contrapposti orientamenti ideologici. Trattandosi di continue opposizioni politiche, non stupisce che sia dominante il paradigma della persuasione. Che chiama con sé la retorica di parte, la recitazione e, in quella, la simulazione. La storia non è fatta tanto di programmi razionali, quanto di persuasioni, effettuate affinché gli altri aderiscano al proprio modello del mondo. I personaggi delle varie parti parlano gli uni con gli altri, o al popolo che deve convalidare il potere degli uni o degli altri, cercando di imporsi o di imporre un certo “contratto”. Quindi, non si dà azione politica se non all’interno di una qualche finzione. La simulazione e la dissimulazione le sono necessarie. Sia uno schieramento che l’altro devono farvi ricorso. E si notano come, prima della battaglia di Filippi, Bruto e Cassio, da una parte, e Antonio dall’altra, si rinfaccino tutte le simulazioni e le finzioni che hanno dovuto recitare per mettere in opera i rispettivi progetti politici. Non è stato solo Antonio, infatti, ad usare i doppi fondi del linguaggio, a fare l’attore e ad organizzare da regista la decisiva sollevazione popolare. Anche Bruto e Cassio hanno dovuto dirigere e rappresentare l’atto finale della congiura, e cioè l’uccisione di Cesare, organizzandola come una grande messinscena.” Alessandro Serpieri LA CASA D’ARGILLA testo Lisa Ferlazzo Natoli scrittura scenica con Monica Angrisani Valentina Curatoli Tania Garribba Alice Palazzi Paola Tintinelli scene e costumi Fabiana Di Marco luci Luigi Biondi musiche Andrea Pandolfo, Gabriele Coen suono Fabio Vignaroli regia, Lisa Ferlazzo Natoli Produzione Fondazione Teatro Due PRIMA NAZIONALE Teatro Due - 18, 19 maggio 2006, ore 19.30 20 maggio 2006, ore 21.00 "Quanto più allontano il mio cuore dalla casa d'argilla in queste notti spazzate dal vento e dalla luna, tanto più sono…felice" (Emily Bronte) Argilla, roccia nata dal fango, bianca e porosa, terra friabile, pronta a sgretolarsi. Casa, luogo parentale e primordiale, interno abitato da fantasmi e memorie, mentre dall'esterno penetra, per le crepe dei muri, un'aria che pullula di spettri e sortilegi. Casa che emette suoni voci gemiti, sgocciolii d'acqua, respiri, come una creatura vivente. Solo un tavolo lungo e stretto e cinque donne intorno, sei sedie, una vuota. Interno in cui guardare come dal buco di una serratura. Quattro donne sono appena tornate e con loro ritorna un rimosso; la quinta le accoglie, forse le ha chiamate. Per assistere la madre morente? o per ricordarla? Ma è davvero la madre in quella camera chiusa? E' lei che sta morendo? Come fosse cibo, dopo una lunga astinenza, le donne consumano e divorano immagini e storie, desideri, rancori, memorie d'infanzia e ossessioni, mentre il giorno s'incrina nella notte e la notte nell'alba, il tempo bianco della vestizione. Quel tavolo, come una trappola per topi, espone i corpi e li costringe a mutazioni inattese: posture - di spalle di profilo, la sola nuca la schiena le gambe, come arti smembrati; spazi - il sotto tavolo, il sopra, i lati, il piano orizzontale come un campo da esplorare, zona di scavo archeologico; buchi temporali - memorie mobili, instabili tra passato e presente. Si veglia una morte e una morte le veglia, c'è un corpo che resiste, ha un odore e un rumore, chiama, chiede e si ostina a non voler morire. E una lotta s'ingaggia con i morti, in un'intimità meravigliosa e terribile con i propri fantasmi. Si gioca con le paure e con le ombre, sgranando, come sul rosario di famiglia, un inventario e una conta dei defunti, un calendario di abbandoni precoci. La veglia riguarda il morire e l'essere svegli-vigili, è una soglia, una terra e un tempo di mezzo, tempo di festa, ricorrenza tra le morti, che sostituisce al coro antico dei lamenti un coro di risa e di canti. Si celebra il defunto? o la vita che rimane? oppure è una festa d'addio? Anche questa sembra una casa pronta allo sgombero e al disuso, destinata a disabitarsi, come Casa Prozorov delle sorelle cechoviane, che accatastano mobili oggetti e affetti, mentre il loro mondo declina e le abbandona. Qui, l'argilla saprà forse sgretolare le mura, mentre dal fondo lentamente risale il fango antico. Cinque donne, perché c’è un femminile che sa essere popolo minore, capace forse di disegnare nuove mappe e infrangere divieti; che parla di un sapere come corpo e desiderio, dove agiscono forze, affetti e passioni che perturbano il senso. Perché ha il potere di rompere patti, di dar morte avendo dato vita - Medea - di stare sull'orlo, sulla soglia né viva né morta Antigone – d’essere intoccabile, altra dai vivi - Euridice - di legare vita e morte su un piano di reversibilità - Alcesti. Alcune fra le attrici erano già interne ad un percorso comune, le altre si sono aggiunte durante un laboratorio mirato. Scelte per una reciproca intuizione d’affinità, per l’intelligenza della scrittura scenica e improvvisativa che fa nascere dai corpi, assieme alle posture, anche le parole. “La casa d’argilla”, scrittura originale sui temi del desiderio, della morte e del luogo familiare, si va disegnando sui corpi delle attrici, producendo biografie e mutazioni, sdoppiando e sfocando le immagini, come in una foto in movimento. Non esattamente testi, ma voci tracce suggestioni, affetti, per un gioco di assonanze e rimembranze che esplora il linguaggio di un corpo-coro parentale. NELLA SOLITUDINE DEI CAMPI DI COTONE di Bernard-Marie Koltès traduzione Anna Barbera con Lino Guanciale, Mariano Pirrello a cura di Giovanni La Fontana Produzione Teatro Festival Parma Teatro Due – 21 e 22 maggio 2006, ore 21.00 Esempio paradigmatico della drammaturgia di montaggio novecentesca nonché raffinata parodia della scrittura per la scena borghese schiettamente francese del XIX secolo, Dans la solitude des champs de coton di ‘Saint’ Koltès (1986), ‘comédien’ e postmoderno ‘martyr’ delle nuits fauves degli intellettuali maudits a cavallo tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso, può essere assunta a modello di una nuova drammaturgia filosofica capace di rispondere alla crisi contemporanea della forma ‘dramma’. In ossequio al precetto diderotiano di «rappresentare […] condizioni» e non «caratteri» Koltès porta in scena nel proprio dramma un equivoco incontro ‘commerciale’ tra il Dealer e il Cliente: nel corso di un morboso cerimoniale che sembra alludere ai più classici e provocanti adescamenti della prostituzione o del ricettaggio, i traffici economici cifrati negli intrighi amorosi della canonica drammaturgia borghese ottocentesca sono rivelati da Koltès scegliendo ad oggetto della propria pièce un losco deal. In un universo frammentario - entro una scena rotta in «territorio», in «pezzetto di mondo» e ad un’ora fugace sbrecciata a «frazione di tempo» - il sensuale e fascinoso corteggiamento tra il Dealer e il Cliente si manifesta, anche se solo su di un piano verbale, come scontro, come lotta senza quartiere, come rito cruento in cui si attualizza selvaggiamente l’eterno amplesso tra Amore e Morte. Metafora dei «rapporti brutali fra gli uomini e gli animali» il deal koltèsiano è un esplicito atto di accusa della lacerante violenza delle relazioni sociali contemporanee che squartano con la loro tagliente indifferenza l’individuo riducendolo ad «un errore di sguardo, un errore di giudizio, un errore, come una lettera appena iniziata e brutalmente stracciata subito dopo aver scritto la data». Dans la solitude des champs de coton nasce da una disorganica accumulazione di generi in tutto e per tutto simile a quell’ammasso di rifiuti e scarti della vita pubblica e ufficiale, che costituisce l’ideale scena del deal. Una nuova ed efficace chiave di lettura registica del testo potrebbe puntare al recupero della dimensione filosofica del copione, tesa ad esplorare la ricchezza del lessico retorico letterario del dramma e la sua ricaduta in termini di ridefinizione del concetto post-platonico di eros e conoscenza. Claudio Longhi Letture, mises en espace LA DIDONE di Giovan Francesco Busenello Lettura a cura di Francesca Cabrini Alberto Nonnato Davide Ortelli Valentina Ricci Serena Rocco con Alice Bachi, Valentina Bartolo, Enzo Curcurù, Paola D’Arienzo, Paola De Crescenzo, Franca Penone, Francesco Rossini, Marco Toloni, Nanni Tormen Produzione Teatro Festival Parma in collaborazione con Università IUAV di Venezia Teatro Due - 20 e 21 maggio 2006, ore 19.00 In occasione dell’allestimento in forma di opera lirica prodotto da La Fenice di Venezia, in collaborazione con Unione Musicale di Torino, Università IUAV di Venezia, prevista per settembre 2006, verrà realizzata la messa in scena del testo da parte di giovani registi, scenografi e costumisti di IUAV di Venezia, che presenteranno una lettura-studio del libretto di Gian Francesco Busenello de La Didone di Francesco Cavalli, rappresentata per la prima volta al Teatro San Cassiano di Venezia, nel 1641. Lo studio rappresenta un’occasione preziosa per far conoscere al pubblico lo spirito e la vivacità della tradizione barocca italiana, nell’attesa del debutto della versione lirica, prevista per il 13 Settembre al Teatro Malibran di Venezia e diretta dal M° Fabio Biondi, direttore e fondatore di Europa Galante. Biondi ha curato la revisione di libretto e partitura: la puntuale ricerca filologica e il confronto fra partiture e libretti ha portato alla ricostruzione della versione più vicina all’originale. Nel libretto, eccezionale per il solido impianto drammatico, ricorrono le situazioni convenzionali dell’opera seicentesca, come il lamento e la follia, e s’intrecciano tematiche eterne e universali come il rapporto col potere, il conflitto fra corpo e ragione, fra destino e libero arbitrio. Busenello, poeta di grande ironia, ha saputo sposare tradizione e gusto dell’innovazione, tipiche del periodo barocco. Orientamento manifestato esplicitamente nel finale a sorpresa, e in merito al quale lo stesso librettista ha dichiarato: «E perché secondo le buone dottrine è lecito ai poeti non solo alterare le favole, ma le istorie ancora: Didone prende per marito Iarba». Busenello – avvocato, membro di una ricca famiglia veneziana, “scrittore più per entusiasmo che per professione” – è considerato il primo vero librettista della storia dell’Opera. Mentre i predecessori e i contemporanei facevano soprattutto letteratura, egli cerca una scrittura legata alla musica e allo sviluppo drammatico di un nuovo genere. La sua attività teatrale è sempre sostenuta da una riflessione filosofica ed estetica. E’ membra dell’Accademia degli Incogniti che raccoglie gli spiriti forti e libertini di Venezia e sviluppa nei suoi testi una visione del mondo sorprendentemente moderna e personale, a volte edonista e pessimista, legata all’ambivalenza barocca, tutta protesa a sperimentare nuovi principi formali per meglio servire la “poesia per musica”. Gli intrecci realistici e stilizzati sviluppano i tempi più svariati – amore, corruzione, destino, ragion di Stato, umana fragilità – e presentano dei personaggi straordinariamente vivi. La grande inventiva della scrittura di questo poeta, sa dosare l’umorismo nella tragedia, passare dal lirismo sublime al grottesco più popolare, all’ironia che distanzia. Proprio come Shakespeare. Nonostante l’Italia sia la patria del Teatro Musicale, il repertorio barocco è poco diffuso e pressoché sconosciuto al pubblico. La versione sperimentale in forma di prosa, presentata dal Teatro Festival Parma, s’inserisce nel lavoro condotto dalla Fondazione Teatro Due sulla riscoperta dei libretti come testi teatrali veri e propri e non soltanto in funzione della musica. Per scandagliare e riscoprire tutte le potenzialità del nostro patrimonio culturale. DAEWOO di François Bon a cura di Charles Tordjman in collaborazione con Théâtre de la Manufacture- Nancy con il sostegno del Conseil Régional de Lorraine Adattato da François Bon sulla base di testimonianze e documenti autentici relativi alla chiusura di tre fabbriche dell’azienda Daewoo all’inizio del 2003, Daewoo racconta il licenziamento di massa e lo sconvolgimento sociale di una intera regione della Francia. Un dramma contemporaneo narrato dalla voce di quattro donne, che in un sabato sera raccontano lotte e ribellioni di una vicenda umana ed esistenziale emblematica. L’autore trasforma i racconti e gli articoli di giornale, accumulati in una racconto inserito nel reale, con il preciso intento di far emergere l’impegno civile dall’invenzione teatrale. 26 maggio, ore 17.00 Seminari LA PAURA DELL’EVOLUZIONE a cura di Guido Barbujani, scenziato, docente di genetica, scrittore 24 maggio, ore 18.00 LA PAURA DELLE DONNE a cura di Eva Cantarella, docente di Diritto Romano e Greco e studiosa del mondo antico 26 maggio, ore 18.00