Un messaggio di Luigi
Riceviamo il contributo di Luigi Gilberti, che è oggi l'ospite graditissimo del gruppo. Trovate tra
i documenti il file "Vale la spesa per Luigi", una riflessione, che alcuni di voi avranno forse
ascoltato in presenza, e che è stata parzialmente riprodotta su OPPInformazioni 92
Luigi ci ha inviato il file insieme al seguente messaggio:
"il testo mi sembra che faccia intravedere non solo il metodo, ma
anche il sapere, il quadro teorico di riferimento (spesso implicito
nel formatore OPPI) e anche quello che in pedagogia si chiama l'asse
assiologico: cioè il perché si fa così. (questo lo schema pedagogico:
antropologia - metodologia - teleologia ... e ciascuno di questi
termini è connesso all'altro come in un sistema)
Io penso che il metodo possa trasmutare in metodi e possa modificarsi
se ancorato al "pensiero" che l'ha generato.
Una cosa che ho imparato è che "non esiste un solo modo per fare una
cosa" e l'ho appresa nel mio "andar per gruppi", facendo,
collaborando, confliggendo, leggendo, cambiando un po' ... imparando
il rispetto (ma non ho finito di imparare) per l'altro ...
conquistando a fatica .. questioni attorno alla diversità (abbiamo
uno slogan – haimè - che la diversità è un valore, ma quando la
pensiamo, la pensiamo sempre come la diversità di quell'altro, a
fatica ci accorgiamo che anche per quell'altro la nostra è una
diversità -IO sono diverso- e anche lui ha una fatica da fare nei
miei confronti non solo nei suoi).
Dal punto di vista evangelico: "siamo portatori di travi nei nostri
occhi" "siamo ciechi e poiché diciamo di vedere .. il nostro peccato
rimane" ... la prima è una citazione di Luca la seconda è di Giovanni.
Penso anche si intraveda nel teso anche un po' dell'epistemologia
che ci piace dichiarare: quella del costruttivismo e anche un po' di
Maturana…"
Seguono parole di apprezzamento per il lavoro che stiamo svolgendo
("un ringraziamento da Presidente dell'Associazione")... e la
considerazione che anche le modalità di questo nostro lavoro "ci
collocano un futuro possibile"
Vale la spesa di progettare un futuro per l’OPPI ?
A cura di Luigi Gilberti
Una premessa
Carissimi soci e collaboratori, mi permetto in questa mia prima comunicazione in qualità di
Presidente dell’Associazione, uno sguardo non complessivo, non “di scenario”.
Ho pensato che per togliere il punto di domanda al titolo di questa lettera potevo ricorrere alla mia
esperienza, al significato che ha avuto per me incontrare l’Associazione … un po’ di tempo fa.
L’intenzione è quella di restituire la ricchezza, per me, di quell’incontro e sulla base di
quell’esperienza trovare una ragione per togliere il punto di domanda.
So che esistono altre ragioni, altri pensieri e sguardi più complessivi e che è possibile ridenominare
fatti e contenuti di quell’esperienza usando vocabolari più adatti.
Vi chiedo allora un apporto alla ricostruzione del testo, inviandomi i vostri perché, i vostri sguardi,
le configurazioni di scenario che mancano, volutamente, in questo approccio.
Vi chiedo di sfidarvi e sfidarci a costruire assieme il testo che toglie il punto di domanda.
Un’esperienza
Il mio incontro con l’Associazione ha segnato la mia avventura professionale nell’insegnare (così
allora chiamavo il mio mestiere), ero un maestro, un insegnante di scuola elementare.
Studiavo anche, cercavo logiche, strumenti, teorie per dare risposte a problemi, insoddisfazioni, a
domande professionali anche se non ancora ben formulate – un po’ come punti interrogativi al
termine di una frase che non è ancora emersa -.
In OPPI ho fatto, da subito, esperienze che mi hanno aiutato ad elaborare le domande, hanno aperto
una prospettiva professionale e personale, hanno contribuito a dare significato ad un fare ricco di
buone intenzionalità, hanno prodotto una pratica di lavoro nella mia classe, con gli altri e
nell’organizzazione che ha anticipato temi, questioni, problematiche ed anche mode che oggi (venti
anni dopo) appaiono sull’agenda delle innovazioni sperate nel mondo della scuola.
Vale dunque la spesa, per me, di pensare ad un futuro dell’Associazione se sappiamo
mantenere aperta questa possibilità anche per altri.
Racconto allora questo incontro con l’OPPI tentando di dare titoli, di denominare qualche brano di
quell’apprendimento.
Si è trattato di due corsi: un corso di informatica di base (c’erano due gruppi che confluivano in un
intergruppo ed erano coordinati da Fulvio Benussi e Augusto Tarantini) e un corso Training (i due
trainer erano Alessandra Tartarelli e Luigi Barzaghi).
In questi miei primi due corsi, dopo momenti di “confusione” iniziale, emergeva un fatto nuovo e
inaudito (così era almeno per me): la situazione che mi era proposta era una situazione in cui si
poteva sbagliare (e forse anche si doveva sbagliare) e contemporaneamente eravamo sollecitati ad
usare il nostro sapere.
Insomma si ribaltava un processo, quello teso a “fare le cose giuste imparando dal docente” magari
aprendo un franco e sereno dibattito.
Era un percorso da fare con gli altri.
La collaborazione non era un fatto un po’ etico, ma era uno strumento, un fatto da realizzare, un
comportamento professionale da acquisire e necessario per apprendere.
Mi era apparso che “collaborare” significava proprio con – lavorare … c’erano cose da fare,
assieme, per apprendere.
E sulla porta dell’aula del training e del laboratorio era come se ci fosse scritto:
Qui si può sbagliare
Gli uomini sanno per questo possono imparare
C’era anche qualcuno che “insegnava” o meglio, questo era quello che ci aspettavamo.
Ci aspettavamo un docente ricco di sapere e di contenuti e che in qualche modo ce li trasmettesse.
Invece questa aspettativa non si realizzava e qualcuno, pochi mi sembra, usciva dal corso deluso per
non aver realizzato l’aspettativa.
Questo docente faceva cose e diceva anche, ma spesso ci si poteva accorgere che anche non faceva
e non diceva, che usava una competenza diversa da quella della “spiegazione” di contenuti.
Il “docente” competente d’apprendimento
Sembrava proprio che l’apprendimento, l’apprendere, fosse il suo punto di vista e che si trattava del
mio, del nostro apprendimento.
Forse era sempre stato così, anche nella mia pratica d’insegnamento, e forse no.
In ogni caso, nel corso eravamo in una relazione nella quale l’apprendere stava al primo posto e
appariva che il “lavoro”, la professionalità, le condotte di quello strano docente erano fortemente
così orientate,
Si trattava del mio apprendimento e l’azione del docente OPPI lo facilitava; anche quando sembrava
porre ostacoli … come quello di indirizzare, suggerire, “aprire” alla complessità quando, ad
esempio, ci appariva, nel processo di lavoro, una “semplice” soluzione:
Il docente facilitatore dell’apprendimento di altri
E il sapere? I contenuti?
Certo che si trattava di apprendere, ma di apprendere qualcosa e questo qualcosa doveva venire da
noi, costruito assieme, comunicato ad altri, confrontato.
C’era una grande attenzione di ascolto da parte dei nostri docenti (a proposito, l’esperienza di essere
ascoltati, di non essere giudicati, di essere così importanti da determinare le scelte del nostro
docente OPPI era un’esperienza innovativa e determinante) e finalmente intervenivano sui contenuti
del sapere, ma, anche qui, con una sorpresa:
Le mie prime lezioni in OPPI
le hanno chiamate sistematizzazioni
Fulvio, Augusto, Alessandra, Luigi non spiegavano.
Offrivano, invece, connessioni ai brani della nostra elaborazione che apparivano slegati,
proponevano riorganizzazioni, offrivano strumenti per connettere e far avanzare la nostra
elaborazione.
Facevano un difficile lavoro e lo facevano fare .
Ci sembrava allora di capire la differenza fra una materia di studio e la disciplina scientifica: questa
non era un contenuto da trasmettere, ma uno strumento per comprendere, per far comprendere e
operare scelte.
Conoscevano ed usavano un metodo
Conoscevano ed usavano la disciplina
C’era poi un comportamento reiterato nel fare dei “docenti” OPPI: usavano le domande.
Anche qui c’era qualcosa di diverso e di nuovo.
A tutti noi capitava di fare domande nel percorso di insegnamento, ma, soprattutto quelle
importanti, erano domande di cui conoscevamo la risposta, le usavamo per controllare quanto
avevano capito gli studenti, ottenere la risposta giusta era l’indicatore dell’attenzione, dell’impegno,
della bontà dello studente.
In quel corso di informatica e nel training, invece, le domande erano vere.
Capitava ai docenti di imparare
Erano capaci di fare domande senza conoscere “la risposta”
Alla domanda non conseguiva una sola risposta, capivamo, nel fare, che la ricerca di risposte già
date nascondeva il problema, impediva di apprendere.
Era necessario confrontare le risposte e negoziare i percorsi conseguenti.
Comprendevamo che conoscere la disciplina produceva domande su noi, sul fare del processo, sul
gruppo, sui prodotti.
Ci appariva una disciplina, un sapere un po’ diverso. Non un archivio di risposte a problemi già
dati, ma un sistema di trasformazione, un processo di elaborazione di problemi non ancora posti.
Eravamo sollecitati ad apprendere le domande, ad apprendere a fare domande .. prima di elaborare
le risposte.
Ero chiamato ad assumermi
la responsabilità del mio apprendimento
E per chi lo voleva, all’interno di quel processo, era possibile scegliere e decidere che ciò andava
bene per sé, che assunta quella proposta era possibile cambiare, che non si trattava solo di
aggiungere al già saputo nuovi contenuti, metodologie, strumenti.
Quell’apprendimento era possibile e non stava chiuso nelle relazioni didattiche, che (almeno per me
è stato così) avevo a che fare anche con il mio quotidiano, che era sollecitata non solo la
professionalità ma anche la persona.
Insomma, non si trattava più solo dell’insegnare e di aprire a nuovi approcci disciplinari, ma, per
esempio, la questione del fare domande, del non dare le risposte già acquisite, del riconoscere
problemi non ancora assunti … cambiava … poteva cambiare anche i miei approcci quotidiani, la
relazione con i miei figli.
Il gruppo come strumento per apprendere, conoscere, inventare
Quel percorso era fatto assieme ad altri, in gruppo, all’interno di una “tenuta” metodologica attenta,
amichevole, severa e paziente.
Potevamo apprendere a stare nel gruppo, ad utilizzarlo e, finalmente, fuori da una dimensione
psico-sociologica.
Dal gruppo non uscivo “ben socializzato”, ma sapevo un po’ più di me, un po’ più di
comunicazione, avevo frequentato e usato un metodo, avevo nuovi campi d’esplorazione e di studio
disciplinare “individuale” (ne valeva la spesa), non avevo solo imparato a programmare in Basic e
usare il computer (allora non c’erano i pacchetti applicativi … Bill Gate non era ancora
all’orizzonte) ma si era aperto anche lo spazio disciplinare dell’informatica.
E non mi hanno insegnato cosa fare, non mi hanno dato uno schema, una ricetta.
Potevo decidere di inventarmi un nuovo modo di fare scuola, nella classe e con i colleghi.
Se avessi voluto non si trattava più, soltanto, di insegnare, ma di ripensare e ristrutturare il mio
lavoro, di orientarmi verso una diversa professionalità. Insomma: Potevo fare anch’io così