Liceo “Leopardi-Majorana” Anno scolastico 2010-11 Classe IID classico IL RISORGIMENTO ITALIANO È FINITO? 1. GLI AVVENIMENTI 1.UN’IDEA CHE VIENE DA LONTANO Lo storico Lucio Villari, nell'Introduzione al primo volume de Il Risorgimento, intitolata “Il lungo cammino dell'idea di Italia”, esordisce affermando che la nascita dell'Italia è stata lenta; traccia poi una serie di tappe fondamentali per il nostro Paese dall'inizio del secondo millennio fino all'epoca napoleonica, per capire meglio cosa per molto tempo ha impedito e contemporaneamente cosa ha portato all'unità d'Italia. Uno dei principi della nostra nazione è la lingua: quando il volgare, originato dal latino, comincia a diffondersi da nord a sud e diventa una lingua condivisa, che permette la comunicazione in tutta la penisola, si instaura un legame “nazionale” che preannuncia la futura unità. Inizialmente, come testimoniano i documenti in nostro possesso, questa lingua è utilizzata soprattutto per scopi economici e giuridici, che saranno alla base delle principali attività dei Comuni dopo il Mille. I primi due secoli dopo il Mille sono caratterizzati dalla “società feudale”, che con i suoi costumi, valori, relazioni e comportamenti costituirà un edificio rigidamente gerarchico e caratterizzato dal dominio aristocratico. Le grandi istituzioni sono l'Impero, il Papato e i Comuni; accanto a queste, si trovano però anche le idee di scrittori e filosofi che auspicano un ritorno all'antico, cioè allo splendore dell'Impero romano, che però si ritiene possa risorgere sotto il dominio degli imperatori tedeschi e non sotto quello dei papi. Questo avvia il fatale conflitto tra papato e impero; la creazione di uno stato nazionale italiano molti anni prima del 1861 viene impedita dagli scontri dovuti al desiderio di entrambi i rappresentanti del potere di prevalere uno sull'altro. Gli Imperatori tedeschi progettavano l'unificazione della penisola ma a loro si opponevano sia il papa che le famiglie nobili romane a lui affiliate, che preferivano essere sottomesse al papa che a un imperatore tedesco. Il progetto più famoso di tentata unificazione è quello di Federico II di Svevia, che aveva tentato di unificare l'Italia meridionale e i Comuni settentrionali per creare una sorta di monarchia nazionale come stava succedendo allora in Francia, Inghilterra e Spagna. Proprio durante l'unificazione dell'Italia nell'Ottocento, come ricorda Villari, liberali e democratici guardavano alla libertà dei Comuni e al sogno dell'imperatore tedesco come modelli: un'Italia libera dalla Chiesa e unita sotto un unico sovrano. Un progetto ancora attuale se si pensa ai dibattiti in corso su federalismo e centralismo. Dal 1154 le armate di Federico I Barbarossa avevano cercato di imporre l'autocrazia imperiale nei Comuni dell'Italia settentrionale; il papa, di conseguenza, appoggiava la lotta delle città per l'indipendenza. I Comuni erano alleati della chiesa, ma questo non impedì la nascita di schieramenti guelfi e ghibellini all'interno delle città, una tragica guerra civile secolare che divideva italiani e concittadini. Fu vittima di questi eventi anche Dante Alighieri, che espresse nei suoi scritti la speranza dell'arrivo di un sovrano inviato da Dio in grado di risollevare l'Italia dilaniata. Con una passione ancora maggiore, un altro importante poeta si è dedicato al destino politico dell'Italia: Francesco Petrarca, che auspicava un'identità nazionale moderna costruita però sulle fondamenta del mondo classico. La lotta fra papato e impero ha determinato la fine del sogno imperiale di creare un sistema politico omogeneo nell'Italia del nord, portando così allo sviluppo dei Comuni, città libere e indipendenti. Questa libertà è un tratto distintivo della vita nelle città italiane, non riscontrabile negli altri Paesi europei. Lo splendore dei queste città portò alla fioritura delle arti e delle scoperte tecnologiche e scientifiche e soprattutto fece nascere nei letterati il bisogno di tramandare la memoria del proprio tempo; la produzione letteraria più abbondante allora fu quella storiografica che, nella maggior parte dei casi, non era una cronaca oggettiva, bensì un appassionato racconto degli avvenimenti di cui gli autori erano testimoni. L'ideale delle città era il “buongoverno”, perseguito purtroppo mediante guerre interne ed esterne; questa fase di scontri permanenti durerà fino alla seconda metà del Cinquecento. Molti storici evidenziano come lo scontro tra Comuni avrebbe almeno dovuto unificare le fazioni all'interno di una stessa città, invece gli odi tra concittadini erano quasi superiori a quelli verso i nemici esterni. Appartenere a una delle due fazioni, guelfi o ghibellini, significava appoggiarsi a una delle due grandi istituzioni medievali, Chiesa o Impero; il guelfismo incarnava il rifiuto dell'intervento dell'impero nelle cose italiane, mentre il ghibellinismo l'opposizione all'intromissione della Chiesa negli affari temporali. I Comuni però non riuscirono ad affermare pienamente la loro indipendenza né dall'impero né dalla chiesa, diventando così nei secoli successivi solo merce di scambio all'interno degli interessi internazionali, rendendo la penisola aperta alle dominazioni straniere. Tutto questo succedeva semplicemente a causa della mancanza di una forza unificatrice superiore. Dai comuni infatti non si poté sviluppare un'intera nazione unificata, ma si crearono solo “città allargate”, che diventarono signorie e principati (Estensi, Gonzaga, Visconti, Medici, Sforza, Scaligeri, Savoia), che si affiancarono alle Repubbliche di Venezia e Genova, al regno di Napoli e allo Stato della Chiesa. Negli anni tra il 1347 e il 1354 sembrò realizzarsi il sogno politico-letterario di Petrarca, la rinascita sulle rovine della Roma classica di una Roma moderna, tramite le iniziative di Cola di Rienzo, un tribuno romano. Il suo esperimento consisteva nel ripristinare un governo popolare che veniva denominato con la classica formula Senatus Populusque Romanus: la sovranità e il potere non dovevano più dipendere dagli interessi delle famiglie nobili romane, ma da un ideale superiore e dal consenso dei cittadini. Il progetto di Cola era sostenuto anche dal papa, che però si trovava dal 1305 ad Avignone e quindi aveva scarse possibilità di intervento nelle vicende romane. La vittoria di Cola sui nobili fu effimera, perché i signori romani, poco tempo dopo, convinsero i cittadini che il tribuno fosse un tiranno oppressore e una sommossa popolare lo uccise. La situazione fu però sfruttata dal cardinale Albonorz, che riuscì a sottomettere i nobili ribelli e a riaffermare l'autorità del papato, preparando anche il terreno per il ritorno a Roma dei papi (nel 1377). Il cardinale organizzò l'intelaiatura di uno stato pontificio centralizzato, che avrebbe conservato quelle strutture per cinquecento anni, fino al suo crollo durante le guerre di indipendenza nell'Ottocento. Le imprese di Cola di Rienzo furono esaltate durante il Risorgimento da liberali, democratici e repubblicani; infatti il tribuno aveva cercato di affermare un'idea di Italia, convocando nel 1348 a Roma i rappresentanti di tutte le città italiane. Ma la riunione non ebbe mai luogo, anche a causa dell'epidemia di peste che aveva colpito l'Europa in quell'anno, creando un diffuso clima di angoscia. L'unico in grado di trasformare questo evento in un inno alla vita, alla rinascita, anticipando temi dell'Umanesimo e del Rinascimento, fu Giovanni Boccaccio. La ricchezza culturale dell'Italia e la sua modernità intellettuale rispetto al resto dell'Europa non corrispondevano però ad un analogo sviluppo nel campo politico. Il tramonto dei Comuni durante il Trecento e la conseguente nascita delle signorie non fece che peggiorare la situazione e rendere ancora più lontana la possibilità di un paese unito. Il potere dei più forti (quindi i più ricchi) aveva il vantaggio di poter evitare le lotte tra fazioni; infatti, il superamento della “divisione dei poteri” tipica dei Comuni portò ad un potere più centralizzato e quindi più efficace. Nello stesso tempo, nelle altre nazioni europee avveniva il processo inverso, cioè il potere prima detenuto da vari signori feudali passava nelle mani di un solo monarca nazionale. I tanti piccoli stati di cui era composta l'Italia non giunsero a costituirne uno solo, forte e unitario. In Italia, alla fine del Trecento, c'è il rigoglio delle arti, la magnificenza delle città, un modello ineguagliabile per il resto dell'Europa, ma anche una costante instabilità politica che la rende debole rispetto a tutte le altre nazioni. L'età rinascimentale è un altro momento in cui l'Italia trionfa per lo sviluppo delle arti e delle lettere. La storiografia sembra aver escluso da questo processo l'Italia meridionale, circoscrivendo l'area fiorente nelle città signorili da Roma in su, mentre anche il sud Italia ha avuto importanti centri artistici. La società del Rinascimento è però piuttosto passiva; i committenti delle opere sono importanti, ma non esercitano ruoli attivi. L'eccezione è la Chiesa, che non esita a farsi celebrare con quadri, sculture a architetture. Inoltre, il peso politico dei papi è sempre più significativo, tanto che è impossibile evitarne le conseguenze rovinose: tra il 1517 e il 1527 Roma è saccheggiata dai lanzichenecchi, di fede luterana, dell'imperatore Carlo V. Anche nel Cinquecento un ruolo importante spetta agli intellettuali: Francesco Guicciardini, che con la sua Storia d'Italia sembra anticipare l'idea di una nazione unita; Niccolò Machiavelli, grande teorico della politica moderna. Alle novità delle idee politiche e dell'arte rinascimentali si aggiungono poi le scoperte di Galileo Galilei, innovatore del pensiero scientifico. Ancora una volta interviene la Chiesa, ostacolando questi sviluppi culturali nel clima della Controriforma. Il barocco per l'Italia è il periodo delle dominazioni straniere. La Spagna di Filippo II assoggettò il Regno di Napoli, la Sicilia, la Sardegna, il Ducato di Milano e stabilì un'importante relazione con lo stato pontificio, a favore della lotta contro i protestanti e i musulmani. La Spagna riscuoteva le tasse, ma non favoriva lo sviluppo della nostra penisola. Manzoni, nei Promessi Sposi, rappresenta la terribile condizione di Milano in quel periodo, tra peste e degrado: il Ducato, prima molto produttivo, era stato condotto all'impoverimento dalla politica spagnola. Anche nel Regno di Napoli, il controllo economico della Spagna non dava slancio positivo, tanto che, nel corso della crisi economica internazionale (a causa dell'afflusso di oro e argento dai domini spagnoli in America, che fece crollare il valore delle monete e accrescere l'inflazione) e durante la guerra dei trent'anni, proprio a Napoli scoppiava una rivoluzione popolare capeggiata da Masaniello (1647). Nel corso della guerra (1618-1648) la nostra penisola fu coinvolta come territorio di scambio tra Francia, Germania e Spagna o come campo di battaglia. Le testimonianze più vive su questo periodo sono proprio quelle che abbiamo dai Promessi Sposi. Dalla pace di Westfalia (1648), che decretò la fine dell'influenza politica del papato, non vennero però risposte ai problemi dell'economia, della crisi politica e sociale che aveva portato a Napoli alla rivolta di Masaniello, che possiamo considerare, insieme alla contemporanea e ben più importante rivoluzione inglese di Cromwell, il primo confronto tra sostenitori della monarchia e seguaci degli ideali repubblicani. L'ordine politico appena instaurato quindi non era ancora al sicuro; sembrava inevitabile un cambiamento di pensiero, ma i sovrani e il potere religioso rifiutavano l'apertura alla rivoluzione scientifica. Un'altra data importante è il 1707, quando le truppe austriache penetrarono nel Regno di Napoli, mettendo cosi fine al bisecolare dominio spagnolo in Italia. Gli Asburgo vollero differenziarsi dagli spagnoli operando riforme, ma non ci furono grandi cambiamenti: utilizzarono lo stesso apparato amministrativo e le stesse modalità fiscali, talvolta aggravando ancora di più la situazione finanziaria. I nuovi metodi di governo austriaci, tuttavia, rafforzarono le istituzioni del regno napoletano. Un personaggio importante per questa città negli anni dal 1734 al 1776 fu Bernardo Tanucci, a cui si devono numerosi atti di governo volti a trasformare il regno in uno stato moderno ed efficiente; uno di questi, se realizzato, avrebbe forse potuto cambiare il corso della storia non solo per l'Italia meridionale. Il Settecento napoletano fu “europeo”: il Regno, infatti, fu prima retto dalla Spagna, poi dall'Austria; c'era insomma un'atmosfera internazionale, diversa dalle tradizioni del regno meridionale, le basi per una società quasi mitteleuropea che però non si svilupperà mai. Viaggiatori, poeti descrivevano Napoli come una terra felice, ma dietro questa apparenza si celava la minaccia di una “distruzione sociale”, che avverrà nel 1799 ad opera di contadini e popolani capeggiati dal cardinale Fabrizio Ruffo per contrastare la Rivoluzione. Al nord, è Milano la capitale dell'illuminismo italiano. Qui i governanti richiedevano spesso la competenza degli intellettuali in campo politico, ma il movimento riformatore in Italia non dava speranze, tanto che gli stessi intellettuali erano costretti ad ammettere che l'unico modo per cambiare qualcosa fosse la rivoluzione. Una nuova epoca inizia nel 1796 con l'arrivo di Napoleone Bonaparte, che porta in Italia i principi della rivoluzione del 1789. Napoleone aveva avuto dal Direttorio l'ordine di costringere gli austriaci, che occupavano l'Italia del nord, a ritirarsi. Questo progetto non aveva molto a che fare con i principi della rivoluzione, era semplicemente un'operazione militare destinata a proteggere i confini francesi dalle invasioni austriache. Napoleone però non si accontentò di eseguire questo facile compito e volle dare anche un valore politico alla campagna d'Italia, richiamandosi ai valori della rivoluzione. Grazie a lui, l'Italia guadagnò una libertà prima nemmeno immaginabile; questo successo e, inoltre, i primi effetti della incipiente rivoluzione industriale hanno permesso al nostro Paese di uscire dalla condizione di isolamento in cui si trovava da secoli rispetto al resto dell'Europa e hanno dato una forte spinta verso gli ideali del Risorgimento, fino alla conquista di una nazione unita. (Francesca Basso- Valentina) 2. I PRODROMI DEL RISORGIMENTO Lucio Villari, nel primo volume dell’opera già ricordata si sofferma sul fatto che verso la fine del 700 si diffonde una tempesta politica e culturale dalla Francia rivoluzionaria. L'Italia per prima assapora quest'aria e in essa si diffonde il concetto di libertà. La figura simbolo della libertà in Italia è appunto Napoleone, il quale viene visto come portatore di libertà attraverso il mito della rivoluzione francese, diventando alla fine lui stesso un mito della modernità. L'idea di Napoleone era di invadere l'Italia, ma questa invasione faceva parte di un astuto piano militare per allontanare gli Austriaci dall'Italia del nord, e quindi di liberare il confine sud orientale francese dalle minacce di invasione. Allontanati gli Austriaci e vinti i loro alleati italiani, i Piemontesi, Bonaparte si sarebbe concentrato nella guerra contro l'Inghilterra che, come gli Austriaci, era nemica della Francia rivoluzionaria. La campagna d'Italia, elaborata da Bonaparte con l'aiuto dei Giacobini, fu sottoposta al governo della Francia, il Direttorio. La proposta venne approvata, così Napoleone parti a capo dell'armata d'Italia il 2 marzo 1796. Questa era la versione ufficiale, ma quali erano i progetti segreti del Direttorio da una parte, e di Napoleone dall'altra? L'intenzione del Direttorio era quella di tenere fuori dalla Francia un militare abile che i conservatori, stanchi dell' politica provocata dalla rivoluzione, vedevano come il possibile capo che, con energia, risolveva i problemi del paese. Bonaparte invece vedeva nel buon esito delle campagne militari il trampolino di lancio per conquistare il potere politico. Questi propositi, contrapposti e segreti, si incrociavano con due ordini precisi che Napoleone ricevette dal Direttorio: l'armata francese era incaricata di depredare l'Italia delle maggiori ricchezze possibili per rimpinguare le casse dello stato. Così fu, infatti, e l'Italia fu letteralmente depredata per anni. Il secondo ordine del Direttorio consisteva nel non suscitare sentimenti giacobini in Italia e quindi accantonare ogni spirito rivoluzionario. In realtà per molti Italiani l'arrivo dei Francesi era legato proprio alla diffusione del pensiero rivoluzionario. La tattica di Napoleone, fino a quando lasciò l'Italia, fu quella di scatenare da una parte le speranze nella rivoluzione, dall'altra di tenerle sotto controllo, tanto da venir sempre visto come liberatore, piuttosto che come conquistatore. Infatti non si accontentava di lasciare un’ impronta di vincitore militare, ma voleva segnare più profondamente il territorio anche come organizzatore di nuovi istituti politici, giuridici ed economici : fu questa la vera rivoluzione provocata da Napoleone. La prima campagna in Italia portò alla formazione della Repubblica Cispadana (27 dicembre 1796) che si fondò in seguito con la Repubblica Cisalpina nel Giugno 1797. Con la formazione della Repubblica Cisalpina esplosero le ragioni, gli ideali sociali e culturali dell'identità nazionale italiana. All'interno di questi territori, deboli furono le insorgenze contro i francesi da parte di moderati conservatori fedeli al Papa. Con la fine del 1797 si proclamò anche la Repubblica Ligure, in seguito (15 febbraio 1798) si formò invece la Repubblica Romana, che vide il Papa ritirarsi a Siena. Se pur per un breve periodo questa indipendenza dimostrava che il potere temporale del Papa poteva essere spazzato e di conseguenza Roma poteva diventare uno stato moderno e libero. Si dimostrava inoltre con questa operazione lo spirito laico della rivoluzione francese. I francesi proseguirono per Napoli nonostante le resistenze e i tentativi di liberare Roma da parte di Ferdinando IV e Carolina ma anch'essi furono costretti a rifugiarsi a Palermo. Il 23 gennaio 1799 i francesi occuparono Napoli. I ceti più poveri rimasero fedeli al re e la repubblica fu diretta e sostenuta dagli esponenti della borghesia. Fu stesa una Costituzione sul modello di quella francese del ‘95, che riconosceva l'uguaglianza e la solidarietà come valori fondamentali. Fu anche redatta una proposta di legge che aboliva i privilegi feudali che però il nuovo governo non riuscì a promulgare. Questo governo non riuscì ad ottenere il consenso del popolo che considerava la borghesia ceto sociale ricco e distante dalle esigenze della popolazione. Su tale insofferenza poggiò la spedizione del cardinale Ruffo che consenti la riconquista del regno di Napoli. Ciò fu possibile grazie anche a sconfitte subite dai francesi per mano austriaca. Il governo cisalpino si rifugiò in Francia e il 14 giugno l'esercito si ritirò anche dalla Campania. A Napoli tornò il re che giustiziò più di cento patrioti; da questo momento in poi i ceti colti si allontanarono definitivamente dalla dinastia Borbone. Questo evento avrà poi un peso nella storia del Risorgimento. IL RISORGIMENTO. Si può dire che ebbe inizio nel 1796, con i fatti appena citati, e si concluse nel 1860-70. Tutto quindi ebbe origine con l'intervento francese in Italia, che da un lato iniziò a modificare irreversibilmente il tessuto sociale ed economico e, dall'altro, favorì il diffondersi di nuovi ideali politici. Influenzati da Napoleone, gli uomini di cultura simpatizzarono per la rivoluzione francese. La capacità di Bonaparte infatti fu quella di svegliare un popolo alla propria coscienza, incitarlo, entusiasmarlo, renderlo consapevole della capacità di rendersi libero. In tutto ciò Napoleone assicurava protezione e per questo veniva visto come un messia. Egli si appoggiò dapprima agli elementi più democratici: la borghesia e i nobili progressisti, allontanando gli aristocratici reazionari che volevano rimanere fedeli al vecchio sistema di privilegi. In seguito i comandanti francesi cercarono di avvicinarsi a personalità politicamente più moderate. Bonaparte era solito ricordare che c'erano tre raggruppamenti: gli amici degli antichi governi, coloro che volevano l'autonomia dell'Austria e coloro che volevano una pura democrazia su modello francese. Egli cercò di incoraggiare i secondi, che erano ricchi proprietari terrieri ed una parte del clero, ceti che potevano contare su un maggior consenso popolare; mentre moderava i terzi, scrittori e uomini di cultura che volevano fare la rivoluzione perché amanti della libertà. In ogni caso per l'Italia fu importante l'impulso alla rivoluzione dato da Bonaparte, in quanto con esso maturava l' esigenza dell'unificazione e le speranza di una trasformazione dei rapporti economico-sociali in senso liberale. I patrioti settentrionali erano persone di cultura appartenenti agli ambienti alto borghesi e in genere ricchi. Questa condizione sociale costerà cara al movimento democratico italiano perché si identificavano i ricchi con i giacobini, ma ciò rendeva il popolo diffidente nei confronti degli ideali rivoluzionari. I patrioti sognavano comunque per l'Italia liberale, una repubblica democratica centralista (su modello francese) o federalista, disputa questa che si protrarrà per diversi anni. PACE DÌ CAMPOFORMIO. La principale causa che disingannò i patrioti, i quali divennero finalmente coscienti del vero interesse francese, fu appunto questo Trattato, che vedeva il Veneto (appena conquistato dai Francesi) passare nelle mani dell'Austria, insieme all'Istria e la Dalmazia. Alla Francia vennero riconosciuti i territori alla sinistra del fiume Reno, ma venne anche riconosciuta la repubblica Cisalpina che si arricchiva di Brescia, Bergamo e Crema. La cosa fondamentale è che per la prima volta veniva legittimato uno Stato rivoluzionario. Per i patrioti il Trattato venne invece inteso come rinuncia o disinteresse alla causa dell'unificazione dei territori italiani e quindi essi si sentirono traditi dai Francesi. LA REPUBBLICA CISALPINA (Lombardia, Emilia Romagna, Trentino). Agli occhi dei democratici giacobini essa rappresentava il primo nucleo di Stato nazionale. Quando i francesi si accorsero che le spinte autonomistiche erano troppo forti e che la repubblica Cisalpina cercava di emanciparsi dall'ordine creato da Bonaparte nel 1798, attraverso un piccolo colpo di stato porteranno al governo di questa repubblica dei parlamentari fidati e vicini a loro. Le repubbliche italiane piacevano fintanto che rimanevano assoggettate ai Francesi. Ma questo atteggiamento arrogante cominciava a disturbare non solo i giacobini italiani. Si creò così una coalizione antifrancese (ne facevano già parte Inghilterra, Austria e Russia), che si estese fino a Roma e Napoli partendo dalla Repubblica cisalpina. A Roma tutti i simboli della cristianità erano osteggiati dai francesi, in più le tasse e la nuova riorganizzazione socio-economica contribuirono ad un malumore collettivo. A Napoli il nuovo governo abolì le istituzioni feudali, ma il popolo, non ancora pronto a ciò, vedeva in questo la demolizione di un assetto tradizionale che garantiva solidità e si sentiva vicino non alla borghesia intellettuale bensì alle antiche figure: il re e il signore feudale. Questi malumori, nel momento in cui Napoleone era impegnato nella campagna d’ Egitto, scoppieranno facendo sì che i vecchi organismi riprendessero il potere. Ma l'allontanamento di Napoleone durò poco e tornato in Italia da imperatore spazzò via la coalizione antifrancese e allontanò anche gli austriaci dalla Lombardia e dalla Liguria. Tra il 1801 e il 1805 Napoleone Bonaparte costruì le fondamenta di uno stato borghese- liberale italiano attuando riforme amministrative, finanziarie, economiche, culturali e giuridiche. L'Italia venne comunque divisa per mantenere l'equilibrio dei rapporti internazionali: a Roma ritornò il Papa, nel Regno di Napoli tornarono i Borboni, nel granducato di Toscana e di Parma si impose invece Lodovico di Borbone. Fra la figura di Napoleone e lo Stato della Chiesa si instaurarono subito conflitti inconciliabili. Napoleone adottò un atteggiamento ostile nei confronti dell'indipendenza della Chiesa in materia di religione e organizzazione ecclesiastica (il suo Codice civile del 1804 riduceva al minimo le prerogative della Chiesa in materia di matrimonio e rafforzava i poteri dello Stato). Chiaramente questo atteggiamento indispose il papa che non accettava la figura dell'imperatore come capo religioso e l'occasione per contrastarlo gli venne offerta allorchè rifiutò l'imposizione imperiale a bloccare i commerci con l'Inghilterra. Napoleone così occupò Roma nel 1809. Questa città per l'Imperatore francese doveva riagganciarsi all'immagine di capitale imperiale e slegarsi dalla tradizione cristiana: doveva divenire quindi la città del popolo, della scienza, della modernità e della laicità. Allo stesso modo la penseranno anche i patrioti ottocenteschi Mazzini, Cavour e Garibaldi che la vedevano come capitale naturale dell'Italia unita. Napoleone cercò di trasformare la città in modello esemplare della "potenza imperiale" e usò, per raggiungere l'obiettivo, l'architettura e l'urbanistica. A Napoli e in Toscana invece intervenne con strumenti di politica economica, con istituti giuridici che avevano lo scopo di piegare definitivamente le classi politiche tradizionali. In particolare, a Napoli, si redistribuirono le terre tra aristocrazia e nuovi proprietari di origine borghese, creando così delle forme amministrative meno subalterne al potere nobiliare. Nel nord agì cercando di riorganizzare il sistema finanziario con interventi di tipo capitalistico e con una riforma agraria. I nuovi strumenti che Napoleone cercò di introdurre in ogni stato saranno i punti di partenza "liberali" cui si ispireranno tutti i governi rivoluzionari successivi. L'INIZIO DELLA FINE. Napoleone voleva conquistare la Russia in quanto riteneva questa conquista fondamentale per ottenere l'egemonia politica ed economica sul continente. La Russia dal canto suo era stanca dell'alleanza con Napoleone poiché da questa era costretta ad un perenne isolamento economico. La campagna di Russia portò ad una pesante sconfitta francese e l'imperatore fu costretto ad abdicare. Gli austriaci e gli inglesi mandarono le loro truppe in Italia incuranti delle offerte di amicizia proposte da Murat. Egli era il reggente francese di Napoli che prese le distanze da Napoleone durante la campagna russa e avvicinatosi di più ai napoletani aveva abbracciato la causa dell'unificazione che voleva far partire proprio da quel territorio. L'occasione l'ebbe quando Napoleone, fuggito dall'isola d'Elba, sbarcò in Francia e tornò al trono per circa cento giorni. Murat nei primi mesi del 1815 partì con 80.000 uomini da Napoli alla volta del Po per battersi contro gli Austriaci. Il 30 marzo lanciò un appello agl'Italiani affinchè si levassero con lui per guadagnarsi con le armi l'unità e l'indipendenza. Era il "proclama di Rimini" in cui Murat così sollecitava lo spirito patriottico: "Italiani! Dall'Alpi allo stretto di Scilla odasi un grido solo: l'indipendenza dell'Italia... Una Costituzione degna del secolo e di voi garantisca la vostra libertà e prosperità interna": L'appello cadde nel vuoto e di li a poco Murat fu sconfitto definitivamente. Il 18 giugno seguì a Waterloo la sconfitta definitiva di Napoleone. Murat fece un ultimo tentativo per riconquistare Napoli, tornata sotto il dominio dei Borbone, Ferdinando e Carolina, sbarcando in Calabria e inneggiando alla libertà d'Italia ma fu subito arrestato e condannato a morte. (Maria Vittoria Bellot) 3. DAL 1820 AL 1846 Nel terzo volume de Il Risorgimento, Lucio Villari ricostruisce i principali eventi storici del periodo tra il 1831 e il 1846. Egli inizia osservando come, nonostante gli insuccessi dei moti italiani del 1820-21, gli sforzi e le agitazioni legate a quegli avvenimenti ottennero una risonanza a livello internazionale. La Francia divenne la vera Nazione portatrice di cambiamenti. In Italia come in altri Stati europei ci furono diverse insurrezioni, ma fu la Francia a divenire il vero scenario delle novità politiche. Al tempo c’erano i liberali (come ad esempio Thiers o Constant) che si opponevano ai conservatori battendosi per i diritti dei cittadini. I monarchi di conseguenza dovettero concedere maggiori libertà per assicurarsi il consenso popolare. Luigi XVIII aveva concesso una Carta Costituzionale per mantenere il controllo della situazione, al momento della Restaurazione Carlo X invece non riuscì a reggere le crescenti richieste progressiste, e nel 1830 scoppiò una crisi politica che il sovrano cercò di nascondere dando inizio alla conquista dell’Algeria. Le imprese coloniali servivano per da distogliere l’attenzione sulla delicata situazione interna. Tuttavia il suo fu uno sforzo vano: la popolazione si accorse dei cambiamenti contro i progressisti che stava effettuando Carlo X, e il 26 giugno scoppiò una rivolta a Parigi, con il risultato che il re fu costretto ad abdicare e il Parlamento investì della suprema autorità Luigi Filippo, duca d’Orleans. che aveva sempre mostrato la sua solidarietà verso le idee liberali. In questo modo si avviò la graduale creazione di un’ Europa liberale, che comprendeva parte degli Stati occidentali, in cui fossero garantite pari libertà a tutti i cittadini. Dunque il liberalismo, come sistema politico, si estendeva all’Inghilterra, al sistema Americano e Stati dotati di un sistema parlamentare, e il suolo francese era governato da un sistema costituzionale. Di fatto però questi cambiamenti sul suolo francese rappresentavano una frattura nei confronti della Santa Alleanza, tanto che la Francia dichiarò di non voler più intervenire negli affari interni dei singoli Stati negando così il privilegio d’intervento come diritto delle Grandi Potenze di sorvegliare gli altri Stati. Così si giunse alla formazione di una nuova Europa, suddivisa in due blocchi: il primo, formato da Austria, Russia e Prussia, conservatore; e il secondo, comprendente Francia e Inghilterra, liberale. In questo secondo blocco, per altro, si sperimentarono riforme politiche più avanzate. L’Inghilterra, ad esempio, divenne lo scenario di una nuova riforma elettorale, che favorì l’eguaglianza e la giustizia in materia di diritti politici e sociali. Gli echi di queste riforme raggiunsero altri Stati europei. In Belgio, Paese cattolico e industriale, il 25 agosto 1830 ci fu un’insurrezione che ottenne l’indipendenza del Paese e la fine dell’unione con l’Olanda che era stata decisa nel Congresso di Vienna. Nel novembre del 1830 il Belgio si dichiarò territorio neutrale, e nello stesso periodo la Francia si staccò dalla Santa Alleanza (Conferenza di Londra). In Italia un anno più tardi, il Ducato di Modena e lo Stato Pontificio furono i territori maggiormente soggetti ai moti liberali, e i Carbonari cominciarono preparare ed attuare atti di forza. In Francia nel frattempo si creò “La Società dell’italiana emancipazione” che fece stringere I rapporti tra i Carbonari italiani e i repubblicani francesi. Luigi Filippo disse che avrebbe ceduto Lombardia, Parma e Toscana a Francesco IV duca di Modena in cambio di un rapporto privilegiato con la Francia. Ciò non avvenne, tuttavia Francesco IV voleva ingrandire I suoi domini e si ritrovò a fianco Enrico Misley, un patriota favorevole alla Carboneria. Altra figura di rilievo nell’organizzazione di quei moti, fu Ciro Menotti, che invitò Francesco IV a partecipare alle cospirazioni carbonare. Non e’ chiaro, non esistendo documenti in proposito, se il sovrano abbia effettivamente preso parte alle attività carbonare. Anche se e’ certo che ad un certo punto il duca diffidò di Menotti dal mettere in atto il piano di una rivolta nell’Italia centrale. Lo scrittore Giovanni Ruffini che vi aderì, ha spiegato che la struttura della Carboneria era caratterizzata da un verticalismo e da complessi rituali simbolici, che erano allo stesso tempo la sua forza e il suo punto debole. Tutto ciò infatti faceva assumere alla società segreta un carattere molto chiuso che rendeva particolarmente difficile il contatto con i suoi affiliali. In un secondo momento, le tensioni della penisola si trasformarono in insurrezioni che coinvolsero le città di Bologna e Parma nelle giornate del 4 e del 14 febbraio 1831; videro la vittoria degli insorti, i quali si unirono creando il Governo delle Nazioni Unite (che comprendeva Romagna, Marche e Umbria). La situazione divenne subito complicata: a Bologna si instaurò un fragile governo provvisorio, che aveva Monaldo Leopardi, padre del celebre Giacomo, come deputato. Egli, aristocratico antirivoluzionario, chiuso agli influssi culturali del secolo, si trovò a dover affrontare il problema della “conquista” delle masse popolari, che dopo la Rivoluzione francese, avevano visto la crisi delle vecchie fedeltà fondate sulla deferenza. A Modena, invece, (il 10 marzo) il generale Zucchi fu costretto ad abbandonare la città dopo l’avanzata austriaca; a Parma il governo di Maria Luigia ormai in crisi fu sostituito da un nuovo governo provvisorio. Lo Stato Pontificio cadde anch’esso in crisi, e dopo la morte di Pio VII non si riusciva a designare il suo successore. Infine a Napoli salì al potere Ferdinando II, che aveva solo 20 anni. In questo frangente furono diversi i poeti e gli scrittori di rilievo (come Giovanni Berchet) che sostennero la causa della libertà comune, cercando supportare con le loro opere i cambiamenti in atto. Tuttavia ciò non fu sufficiente. Gli Austriaci, vista la situazione di debolezza delle Province Unite, diedero inizio alla conquista dell’Italia centrale. Qui si tentò di organizzare rapidamente un esercito efficiente, ma la scarsità di tempo e di risorse, lasciò il via libera agli Austriaci, che nel 1832 rioccuparono l’Italia. Intanto Francesco IV si vendicò su Minotti e lo fece condannare a morte. Gli avvenimenti del 1831 determinarono in Italia la crisi del movimento settario. Ne uscì diminuita la Francia, con la sua deludente politica a favore dell’Italia. Il governo francese infatti, aveva chiesto all’Austria di ritirare le truppe dai territori italiani occupati, in particolare dallo Stato pontificio. Ma questa richiesta non fece altro che aggravare la situazione delle popolazioni locali, dal momento che la Francia chiedeva al pontefice di concedere delle riforme e in particolare di ammettere la costituzione di governi locali laici con ampia autonomia amministrativa. Il papa ovviamente rifiutò. L’Austria sgomberò le Legazioni dei suoi soldati, che vennero sostituite da dure e insolenti milizie pontificie. Quest’ultime erano talmente violente che nacquero proteste così insistenti, che pochi mesi dopo, nel gennaio 1832, gli austriaci tornarono a occupare Bologna come i liberatori e i protettori delle popolazioni locali. La Francia, spaventata all’idea di poter perdere ulteriore credibilità, occupò Ancona. Tuttavia il papa non cedette mai, e solo dopo sei anni, nel 1838, austriaci e francesi lasciarono Bologna e Ancona. L’esperienza dei moti del ’30-’31, fondamentalmente non aveva portato cambiamenti radicali dal punto di vista politico, tuttavia aveva aperto le menti migliori e le forze più giovani del movimento liberale spingendole ad elaborare programmi più adatti alla lotta contro l’Austria e contro i governi reazionari. Primo tra tutti fu Giuseppe Mazzini che nel 1832 fondò una nuova associazione, la “Giovane Italia”, che aveva priorità politiche insurrezionali, il cui programma veniva pubblicato su un periodico al quale fu dato lo stesso nome. L'obiettivo di questa organizzazione era quello di trasformare l'Italia in una repubblica democratica unitaria, secondo i principi di libertà, indipendenza e unità, destituendo i governi dei precedenti Stati Preunitari. In realtà la Giovine Italia fu ideata nel 1831, quando Mazzini si trovava a Marsiglia in esilio dopo l'arresto e il processo subito l'anno prima in Piemonte a causa della sua collaborazione con la Carboneria. Non potendo provare la sua colpevolezza, la polizia lo mandò esilio. Mazzini nel febbraio del 1831 passò in Svizzera, da qui a Lione e , infine, a Marsiglia. Qui entrò in contatto con i gruppi di Filippo Buonarroti e col movimento sansimoniano allora diffuso in Francia. Con questi gruppi si avviò un'analisi delle cause del fallimento dei moti nei ducati e in Romagna del 1831. Si concordò sul fatto che le sette carbonare avevano fallito innanzitutto per la contraddittorietà dei loro programmi e per l'eterogeneità delle classi che ne facevano parte. Non si era riusciti poi a mettere in atto un collegamento più ampio delle insurrezioni per le ristrettezze provinciali dei progetti politici, com'era accaduto nei moti di Torino del 1821 quando era fallito analogamente ogni tentativo di collegamento con i fratelli lombardi. Infine bisognava desistere, come nel 1821, dal ricercare l'appoggio dei principi e, come nei moti del 1830-1831, l'aiuto dei francesi. Al programma della Giovine Italia aderirono soprattutto i giovani in Liguria, in Piemonte, in Emilia e in Toscana, i quali si misero subito alla prova organizzando negli anni 1833-1834 una serie di insurrezioni che si conclusero tutte con arresti, carcere e condanne a morte. In quegli stessi anni, durante il periodo dei processi in Piemonte e dopo il fallimento della spedizione di Savoia, l'associazione scomparve per quattro anni. Nel 1833 organizzò i tentativi insurrezionale a Chambery, poi a Torino, Alessandria e Genova, dove contava vaste adesioni. Ma prima ancora che l'insurrezione iniziasse la polizia sabauda a causa di una rissa avvenuta fra i soldati in Savoia, scoprì e arrestò molti dei congiurati. Fra i condannati figuravano i fratelli Giovanni e Jacopo Ruffini, l'avvocato Andrea Vochieri e l'abate torinese Vincenzo Gioberti. Tutti subirono un processo dal tribunale militare, e dodici furono condannati a morte, fra questi anche il Vochieri, mentre Jacopo Ruffini pur di non tradire si uccise in carcere mentre altri riuscirono a salvarsi con la fuga. Il fallimento di questo moto non fermò Mazzini: rifugiatosi a Ginevra, assieme ad altri italiani e alcuni polacchi, organizzò un'azione militare contro lo stato dei Savoia. A capo della rivolta mise il Generale Gerolamo Ramonio, questa scelta però si rivelò un fallimento, perché il Ramorino, rimasto senza soldi, rimandava continuamente la spedizione, e quando si decise a passare con le sue truppe il confine con la Savoia, la polizia ormai allertata da tempo, disperse i volontari con molta facilità. Nello stesso tempo doveva scoppiare una rivolta a Genova, sotto la guida di Giuseppe Garibaldi, che si era arruolato nella marina da guerra sarda per svolgere propaganda rivoluzionaria tra gli equipaggi. Quando giunse sul luogo dove avrebbe dovuto iniziare l'insurrezione, però, non trovò nessuno e fu costretto a fuggire. Di questa fuga, ne parla lo scrittore Alexandre Dumas, che nel suo libro “Garibaldi” ci ricorda come il generale italiano aveva combattuto a fianco degli Uruguaiani e poi degli Argentini, accrescendo la sua fama oltre oceano. Mazzini, invece, poiché aveva personalmente preso parte alla spedizione con Ramorino, fu espulso dalla Svizzera e dovette cercare rifugio in Inghilterra. Lì continuò la propria azione politica attraverso discorsi pubblici, lettere e scritti su giornali e riviste, aiutando a distanza gli italiani a mantenere il desiderio di unità e indipendenza. Anche se l'insuccesso dei moti fu assoluto, dopo questi eventi, la linea politica del re dei Piemontesi Carlo Alberto mutò, per il timore che reazioni eccessive potessero diventare pericolose per la monarchia. Fu così che Carlo Alberto cominciò a mostrare vaste aperture verso i sostenitori della causa italiana. I movimenti popolari di ispirazione liberale e patriottica si svilupparono in un’Europa che era ormai arrivata verso lo sviluppo industriale. Innanzitutto l’Inghilterra, che prima della metà dell’Ottocento diede inizio a una vera e propria <<febbre ferroviaria>> che ben presto raggiunse gran parte dell’Europa. Se da una parte però i liberali guardavano con orgoglio queste innovazioni, le classi dirigenti tradizionali cominciarono a sospettare di esse, ritenendole promotrici di tendenze rivoluzionarie. In Italia lo sviluppo di questa nuova risorsa fu ampiamente appoggiata dal milanese Carlo Cattaneo, il quale vedeva nella ferrovia il futuro della libertà e della mobilità di uomini e merci, che avrebbe aiutato ad attenuare le differenze sociali. Cattaneo grazie alla creazione di una rivista divenne il fautore di una prospettiva politica legata alle autonomie e al federalismo basato su una moderna cultura della <<città>>. Altro accanito sostenitore del sistema ferroviario, per il suo valore economico e simbolico, fu Camillo Benso di Cavour, giovane piemontese aperto al progresso e alle innovazioni tecniche. Nonostante il cofavore dei progressisti settentrionali, la prima rete ferroviaria italiana fu inaugurata a Napoli. Infatti era proprio nel Regno delle Due Sicilie che si trovava un gruppo dirigente curioso nei confronti delle novità scientifiche, sebbene fosse molto chiuso verso le riforme politiche e sociali. Queste innovazioni però non bastarono a spingere i governi stranieri ad approvare riforme politiche, e gli italiani si trovarono davanti ad un dilemma: il cambiamento sarebbe stato raggiunto tramite lente e graduali riforme, oppure si sarebbe dovuto ricorrere a rivolte e rivoluzioni più incisive? Ci fu un tentativo di rivolta nel 1844 quando, dopo l’attacco mazziniano fallito ad Imola, fratelli Emilio ed Attilio Bandiera prepararono una spedizione rivoluzionaria con patrioti italiani che si trovavano a Corfù e a Malta. Essi crearono una società segreta, “l’Esperia”, che si rifaceva agli ideali liberali democratici ed erano mossi dalla speranza di riuscire a realizzare una sollevazione popolare nel Sud Italia. Il 13 giugno 1844, partirono da Corfù alla volta della Calabria seguiti da 17 compagni, dal brigante calabrese Giuseppe Meluso e dal corso Pietro Boccheciampe. Il 16 giugno 1844 sbarcarono alla foce del fiume Neto, vicino Crotone e appresero che la rivolta scoppiata a Cosenza si era conclusa e che al momento non era in corso alcuna ribellione contro l'autorità del re. Pur non essendoci alcuna rivolta in atto su cui far leva, i fratelli Bandiera vollero lo stesso continuare l'impresa e partirono per la Sila. Il Boccheciampe, appresa la notizia che non c'era alcuna sommossa a cui partecipare, sparì e andò al posto di polizia di Crotone per denunciare i compagni. L'allarme dato raggiunse anche la cittadina di San Giovanni in Fiore. Subito iniziarono le ricerche dei rivoltosi ad opera delle guardie civiche borboniche. Proprio quando il gruppetto si trovava alle porte di San Giovanni in Fiore, venne avvistati dalle guardie civiche partite dal paese, e in seguito ad alcuni scontri a fuoco, i cospiratori vennero tutti catturati (meno il brigante Giuseppe Meluso). Furono portati dinanzi la corte marziale, che li condannò a morte. Il re Ferdinando II fu severo e ne graziò pochi; i fratelli Bandiera con altri sette compagni, vennero fucilati nel Vallone di Rovito nei pressi di Cosenza il 25 luglio 1844. La delusione e il dolore di Mazzini e dei suoi seguaci fu grande ma non tale da fermarli. Nel 1845 organizzarono un’insurrezione nello Stato della Chiesa: l’attacco a Rimini servì per risvegliare la Romagna, ma anche questo tentativo fu facilmente represso. Si capì, di conseguenza, che bisognava percorrere qualche altra strada per raggiungere l’indipendenza italiana. Massimo d’Azeglio nel 1846 scrisse “Degli ultimi casi di Romagna”, in cui evidenziò appunto l’inefficacia delle continue ribellioni mazziniane. Nello stesso anno d’Azeglio si fece ricevere da Carlo Alberto col l’intento di convincere il sovrano che il Piemonte potesse essere il candidato adatto per condurre la rivoluzione italiana, così da evitare ulteriori rivolte. Inaspettatamente fu la Chiesa ad accogliere la richiesta di d’Azeglio, e nel 1846 il pontefice Pio IX emanò “l’Editto del perdono” e nominò segretario di Stato Pasquale Gizzi, conosciuto per l’appoggio che da sempre aveva dato alle riforme. Nella società italiana si assistette all’impegno di molti artisti (scrittori, compositori..) che cogliendo gli influssi della nuova società orientata verso l’eguaglianza civile, scrissero e misero in scena capolavori ancora oggi riconosciuti come tali. Tra questi e’ importante ricordare: “il Nabucco” di Giuseppe Verdi, “Giovanna d’Arco” di Temstocle Sulera, e soprattutto “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni. Quest’ ultimo scrisse il suo romanzo più celebre utilizzando una lingua popolare. Che fosse comprensibile per chiunque. Un’altra figura di rilievo del Rinascimento italiano e’ senza dubbio Vincenzo Gioberti. Questi rifletté sull’identità europea e ne ricavò che non era altro che il prodotto del cristianesimo. Da ciò ne dedusse che l’Italia, poiché era la sede del Papato, era lo Stato più importante di tutta l’Europa. Esplicitò questa sua tesi nel trattato “Il primato” del 1843, nel quale per l’appunto sottolineava la supremazia italiana sul resto dell’Europa. Tuttavia Gioberti negò la possibilità di formare una Stato unitario italiano. Poiché questo doveva reggersi sulla sovranità popolare, che pur potendo contare sui prerequisiti dell’identità’ nazionale (come una lingua, una storia comuni..), era tuttavia priva di una coscienza politica comune. La soluzione che propose Gioberti fu perciò quella di unire tutti gli Stati della penisola già esistenti, lasciando che ognuno mantenesse una propria autonomia e creando così una confederazione. Questa prospettiva politica fu approvata da Cesare Balbo, un altro scrittore di rilievo del Risorgimento, che giustificò l’impossibilita di un’Italia Unita con le differenze storiche e geografiche delle diverse parti d‘Italia. (Margherita Pontisso) 4. L’INSURREZIONE DI MILANO Uno dei protagonisti delle Cinque Giornate di Milano fu Carlo Cattaneo, esponente del fronte democratico risorgimentale, storico ed economista, nato il 15 giugno 1801 a Milano. Il padre Melchiorre era un semplice orafo e, dunque, non essendo le sue condizioni economiche molto agiate non poté mandare il figlio in prestigiose scuole. Carlo comunque passò gran parte della sua infanzia a dividersi tra la città in cui viveva e i soggiorni nella non molto distante Casale, dove era solito curiosare e dedicarsi alla lettura dei classici nella biblioteca del prozio Giacomo Antonio. Il suo amore per le lettere lo indusse comunque a proseguire gli studi e, non potendo permettersi l’iscrizione a scuole importanti, li intraprese nei seminari di Lecco prima e Monza poi, che avrebbero dovuto portarlo alla carriera ecclesiastica, ma già all'età di diciassette anni, abbandonò il seminario per continuare la sua formazione presso il Sant'Alessandro di Milano e in seguito al liceo di Porta Nuova dove si diplomò nel 1820. Sempre nello stesso anno la Congregazione Municipale di Milano gli propose il ruolo di insegnante di grammatica latina ed in seguito di scienze umanistiche presso il ginnasio di Santa Maria. Cattaneo dovette accettare tale proposta a causa delle sue ristrettezze finanziarie e qui rimase per quindici anni. Durante questo periodo il giovane milanese cominciò a frequentare anche i corsi di diritto tenuti da Gian Domenico Romagnosi presso l’università di Pavia ove si laureò in giurisprudenza nel 1824. Numerose sono le vicissitudini che lo accompagnarono sino al 1848; anno in cui ottenne alcune concessioni da parte del vice governatore austriaco che vennero però immediata risposta a questo atteggiamento seguito a questa negazione Cattaneo, che era alla testa del Consiglio di Guerra, insieme a tutti i milanesi insorse contro il nemico austriaco nel corso delle Cinque giornate di Milano – dal 18 al 22 marzo 1848 - liberandosi in questo modo dalla soffocante presenza austriaca e rifiutando contemporaneamente anche l’intervento piemontese dal momento che Cattaneo credeva, o meglio, riteneva che il Piemonte non fosse un Regno con cui ci si potesse alleare, data la sua arretratezza sia economica che politica e soprattutto che fosse davvero in grado di contrastare il nemico. In seguito, dato l’esito fallimentare della guerra, Cattaneo fuggì dall’Italia per cercare riparo in Svizzera dove, per altro, stabilì una dimora fissa a Castagnola, presso Lugano, dove muore nel 1868. Pur essendo più volte eletto in Italia come deputato del Parlamento dell'Italia unificata, rifiutò sempre di andarci per non giurare fedeltà ai Savoia. Nel 1849 Cattaneo scrive un importante saggio dedicato al racconto dei fatti avvenuti in Italia durante il dominio austriaco “L’insurrezione di Milano nel 1848”. Nel libro vi sono due prefazioni dedicate una ai Francesi e l’altra agli Italiani. La prima serviva ad introdurre ai Francesi le tappe con cui si erano svolti realmente i fatti avvenuti in quei momenti –e Cattaneo era stato un testimone e un protagonista di quei tumulti- e per far quindi meglio comprendere che quello avvenuto a Milano era solo il primo stadio di una rivoluzione che, cominciando a mettere in luce gli aspetti negativi del dominio straniero, aveva in tal modo minato le basi dell’impero austriaco davanti agli occhi di gran parte degli Italiani. La prefazione rivolta invece a questi ultimi non ha finalità didattiche (che sarebbero state decisamente inutili); Cattaneo decide di usarla per riuscire a spiegare il motivo per cui ha scritto questo libro. Egli infatti fin dall’inizio ci informa di come gli altri stati hanno visto questa rivolta: i Francesi credevano che Carlo Alberto avesse tentato di aiutare tutta la popolazione italiana compiendo addirittura degli atti eroici che, però, erano stati vanificati dalla perfidia e dalla discordia degli stessi Italiani. Cattaneo decise di scrivere questo opuscolo perché, avendo egli vissuto di prima persona tali avvenimenti, desiderava far conoscere a tutti coloro che avrebbero letto il libro la verità circa i fatti avvenuti al 1848, in modo tale da individuare i meriti ma anche gli errori e le responsabilità all’origine della sconfitta militare. Il primo capitolo è intitolato “Antecedenti fino al 1847” e narra come, in seguito alla caduta di Napoleone, mentre l’Italia era solamente conquistata la Francia era invece assolutamente e totalmente vinta. Il Congresso di Vienna decretò che la Francia fosse posta sotto il controllo di un esercito straniero per prevenire qualunque insurrezione popolare. Venne fatta la stessa cosa nel Lombardo- Veneto ma qui la forza straniera era vista come una sorta di guardia di svizzeri; gli Austriaci erano infatti considerati dagli italiani più che altro alla stregua di difensori personali e quelli si fecero credere tali fino a che decisero di far crollare le apparenze; mostrandosi per ciò che erano realmente: occupatori. Ovviamente questi, temendo che nel popolo a loro sottomesso potesse nascere la volontà di creare una nazione coesa, decisero di smantellare non solo l’esercito ma anche ogni struttura o figura che avesse con questo qualche collegamento. Oltre a ciò vennero ad aggiungersi delle ingiustizie non solo a livello finanziario (secondo Cattaneo l’Italia in quegli anni pagava un terzo delle imposte dell’Impero sebbene gli Italiani fossero solamente un ottavo della popolazione complessiva) ma anche a quello intellettuale poiché stampa, dibattiti politici ed insegnamento erano sviliti dalla presenza di personalità ignote che pretendevano di modificare dalle fondamenta tutto il nostro sapere accumulato nel tempo. Tali ingiustizie e soprusi pesavano talmente tanto sul capo di molti Italiani che questi decisero di ribellarsi agli occupanti ma non avendo un esercito proprio e non volendo affidarsi a quello francese, decisero di rivolgersi, ne 1821, alla casata dei Savoia che però si mostrò riluttante ad intervenire; eccezion fatta per Carlo Alberto di Carignano (principe della casa di Savoia) che però, rendendosi conto della difficoltà dell’impresa, decise di ritirare il suo aiuto da questa “congiura” ai danni dell’Austria; lasciando così in balia della crudeltà austriaca tutti coloro che avevano dato vita a tale rivolta. Per la prima volta anche i nobili, che sempre avevano trattato con riverenza gli invasori, si ritrovarono ora a guardarli con una maggiore diffidenza e freddezza; instillando in tal modo negli altri paesi la credenza che fossero le classi agiate, in Italia, fomentare l’idea di rivoluzione. Questo era completamente sbagliato poiché in generale i nobili, osserva Cattaneo, si interessavano a stabilire facili alleanze con gli invasori in modo tale da poter conservare i loro privilegi di classe. Erano invece i cittadini borghesi a pensare all’unità della nazione; arruolandosi per questo scopo nella Giovine Italia e cercando di smuovere gli animi di tutti gli altri. Dopo un periodo di relativa tranquillità il governo austriaco tornò ad ostentare le antiche abitudini e i nobili, delusi ulteriormente da ciò, si rivolsero nel 1838 nuovamente a Carlo Alberto il quale, essendo divenuto regnante (1831), aveva la possibilità di organizzare un proprio esercito in funzione anti austriaca. Il ritorno degli esuli unito all’elezione di Pio IX contribuirono a far crescere la speranza negli Italiani di poter riconquistare quella libertà che da molto tempo avevano perduto. Era necessaria dunque una nuova rivoluzione che troncasse nettamente i rapporti con il passato politico dell’Italia. Nel secondo capitolo si parla invece delle “Dimostrazioni” fatte dal popolo; ossia quelle azioni atte a mostrare deliberatamente allo straniero la propria avversità nei confronti del regime a cui era sottoposto. Cattaneo qui ci descrive il comportamento che il popolo milanese ebbe quando venne eletto un arcivescovo italiano in seguito alla morte di quello austriaco Gaisruck. Attorno al Duomo e per le vie attigue i Milanesi festeggiarono tale avvenimento, esaltando il nuovo prelato come un vessillo della nazione. Questo “piccolo” moto di esaltazione nazionale venne subito messo a tacere dall’esercito nemico il quale, infiltratosi nella folla di nascosto, sguainò le sciabole per far finire tutto nel sangue. Da come si può capire dimostrazioni di questo tipo erano inutili e pericolose solamente per i cittadini; accanto a queste ve n’erano però delle altre che avevano una visione maggiormente lungimirante in quanto miravano ad attuare modifiche riguardo aspetti politici e legislativi del governo austriaco e cominciando dunque a far crollare le basi del potere nemico. Nel terzo capitolo intitolato “Prime Ostilità” Cattaneo racconta quello che gli italiani dovettero subire da parte dei soldati austriaci i quali, capeggiati dal crudele generale Radetzky, infliggevano deportazioni e dure punizioni a patrioti; da ricordarsi il 3 gennaio 1848 quando, dopo che di comune accordo molti giovani avevano smesso di fumare per creare problemi finanziari al governo austriaco, i granatieri ungheresi ed i dragoni tedeschi si sentirono autorizzati dai propri superiori a scagliarsi con le sciabole contro tutto il popolo che in quel momento era presente nel centro di Milano. Nel quarto capitolo si tratta finalmente della sollevazione degli Italiani. La sera del 17 marzo 1848 infatti, mentre si vociferava riguardo l’abolizione della censura, mentre Cattaneo si preparava a scrivere un articolo che spingesse tutti gli Italiani a creare una grande alleanza in grado di respingere i nemici, il podestà Casati (che era invece uomo succube tanto degli austriaci quanto dei sabaudi) si recò presso la struttura ove si trovava il governo nemico per domandare alcune concessioni da parte del popolo. Fu questo l’inizio della ribellione del 18 marzo 1848. Gli Austriaci e il generale Radetzky, terrorizzati che questa rivolta fosse stata istigata e governata da qualcuno, si ritirarono dalle loro postazioni abituali. Il generale austriaco trovò rifugio nel castello e da lì cominciò repentinamente a muovere assalti contro il popolo, che tentò in ogni modo di resistergli. La mattina del 19 marzo, contro le aspettative pessimistiche del Cattaneo, il popolo riprese ad accorrere presso le barricate che erano state erette la sera prima in maniera preventiva per tornare a combattere come il giorno prima. Nello stesso momento apparve la possibilità proposta da parte del generale Rivaira di affiancare agli insorti i 300 gendarmi presenti in Milano; questa offerta di aiuto venne però vanificata a causa della viltà del podestà Casati che voleva chiedere prima il permesso da parte del comandante della polizia austriaca di poter accettare tale supporto. Non restava altro da fare se non continuare a lottare e creare un Consiglio di Guerra con cui decidere le istruzioni belliche da dare al popolo non solo per agire contro il governo ma anche per difendersi. Casati, troppo timoroso per andare contro il governo, si limitò a creare una Congregazione Municipale in cui autorizzava certe personalità a presiedere tale azione militare in mancanza di un’autorità politica superiore. Collateralmente Cattaneo, insieme a Terzaghi, Clerici e Cernuschi, creò un vero e proprio Consiglio di Guerra il cui scopo principale era quello di rendere l’Italia libera e abbattere di conseguenza il nemico. Nel quinto capitolo intitolato “Il Consiglio di Guerra” Cattaneo informa che la prima cosa che fece il Consiglio di Guerra fu quella di dare un comune intento agli sforzi dei cittadini ribelli i quali, inoltre, furono esortati a non versare una stilla di sangue all’infuori dei combattimenti. Verso il 20 marzo arrivò un collaboratore del generale Radetzky che chiedeva di conoscere quale fosse la volontà della città riguardo quel conflitto. La Congregazione Militare capeggiata dal Casati proponeva un armistizio affinché Radetzky andasse a Vienna per riferire quanto accaduto e ottenesse la facoltà di fare le concessioni al popolo. Il Consiglio di guerra guidato invece da Cattaneo non era assolutamente concorde con tale decisione poiché ipotizzava il pericolo di un attacco a sorpresa da parte dei soldati austriaci, a meno che il generale non avesse lasciato nel Regno i soldati italiani conducendo fuori dai confini tutti gli altri. Infine era del tutto impossibile attuare l’armistizio proposto dal Casati perché i cittadini non avrebbero mai accettato di allontanarsi dalle barricate ove combattevano per proteggere i loro ideali. A causa di questo rifiuto, in seguito, la municipalità decretò di assumere ogni potere fino al ristabilimento dell’ordine: i milanesi erano dunque pronti a ripudiare il nome degli austriaci per passare sotto l’egida di un nuovo padrone. Intanto l’insurrezione popolare continuava e, per far giungere i messaggi di rivolta anche fuori Milano, la gente si ingegnò in moltissimi modi. Un esempio è quando cominciò a mandare in aria dei palloni che portassero messaggi in altri luoghi ove il suono dei cannoni non s’era ancora udito. A quel punto gran parte della penisola italiana era in fermento e moltissima gente decideva perfino di recarsi Milano da cui venivano inviati messaggi di speranze sempre più concrete per un’Italia libera. Durante il 21 marzo la Congregazione Militare ed il Consiglio di Guerra tornarono ad unirsi dal momento che avrebbero dovuto dare nuove disposizioni ai consoli austriaci. Questa volta la municipalità proponeva un armistizio di tre giorni durante i quali, attraverso una porta della città, veniva dato il libero accesso alla consegna dei viveri per la popolazione e, attraverso un’altra, era concessa la libera uscita per cittadini e stranieri. Cattaneo si oppose a tale idea e anche questa volta, dunque, non si trovò un accordo comune. Successivamente a ciò subentrò un altro problema: il Martini, inviato da Carlo Alberto, voleva che tutta la penisola si piegasse alla volontà del re sabaudo nel creare un governo provvisorio avente lui come capo, egli di conseguenza sarebbe giunto subito in soccorso dei ribelli. Cattaneo si oppose perché, per fare questo, sarebbe servita una votazione che in quel momento avrebbe distratto tutto il popolo dal combattimento. Era meglio dunque aspettare la fine della rivolta per prendere decisioni politiche. Inoltre, dando tutto il potere a Carlo Alberto, si sarebbe coinvolto solamente il Piemonte quando sarebbe stato meglio coinvolgere l’Italia intera. Se ciò però non fosse avvenuto,Carlo Alberto sarebbe stato l’unico alleato e, di conseguenza, egli sarebbe stato il nuovo padrone dell’Italia. Ma, a causa delle continue e pressanti sollecitazioni del Martini congiunte alla totale insicurezza della municipalità circa una vittoria sui nemici, nella tarda notte del 21 marzo, si decise di dare vita al governo provvisorio che, in tal modo, non richiedeva più la presenza del Consiglio di Guerra. All’alba del 22 Marzo appunto questa organizzazione deponeva il potere ma rimaneva comunque una istituzione necessaria in quanto il popolo obbediva solamente al loro comando. Il governo provvisorio, avendo preso atto di tale realtà, non si annunciò apertamente. Il Consiglio di Guerra visse ancora solamente per 48 ore. Nel sesto capitolo intitolato “il Comitato di Guerra” Cattaneo racconta di come il 22 Marzo tutti gli insorti si scagliarono contro l’esercito di Radetzky – che non aveva più forza di domare la città – in modo tale da cacciarlo definitivamente da Milano. Alla sera dello stesso giorno il generale arrancava in una disperata e precipitosa fuga. Dopo cinque dure giornate di lotta, costellate di numerosi morti, Milano si poteva dire libera dai nemici, ma ciò nonostante decise comunque di mantenere la città totalmente sorvegliata. Il giorno seguente alla vittoria il Comitato di Guerra decise di dividere la popolazione volonterosa parte nella guardia civica e parte nelle colonne mobili che avrebbero dovuto tenere occupate le Alpi, per rendere ancor più difficoltosa l’eventuale passaggio del nemico per quei luoghi. Le popolazioni accanto a Milano vennero invitate a dare un aiuto oppure a cercare e ad armare tutti gli uomini che volevano aiutare a rendere difficoltosa la fuga degli Austriaci. Accanto a tale impeto popolare Cattaneo pensò però di creare anche un ministero di guerra in cui si coniugassero la saggezza dei veterani con la forza della gioventù, in modo tale da rendere la forza militare maggiormente compatta e omogenea. Ma in quel momento subentrò il governo provvisorio che, volendo togliere il comando di tali azioni al popolo per rimetterlo in uno stato di servile obbedienza, aveva cominciato a pretendere che le decisioni del Consiglio di Guerra venissero sottoposte al suo controllo e, quando Carlo Alberto superò il Ticino, esautorò totalmente di ogni potere l’organizzazione di Cattaneo per rimettersi in tal modo nelle mani del re sabaudo. L’ultimo giorno di Marzo i componenti del Consiglio di Guerra diedero le loro dimissioni. Cattaneo spende tutto il settimo capitolo intitolato “La Politica di Carlo Alberto” per parlare della politica del re sabaudo. Questi era mosso a guerra da svariate ragioni: prima tra tutte era la possibilità di guadagnare più sudditi e dunque espandere in tal modo il suo regno. In secondo luogo compiendo tale passo avrebbe impedito la nascita di una Repubblica in Italia, cioè la forma di governo che da sempre aveva avuto in questa nazione grande gloria. Per farsi accettare in suolo italico era necessario che però si attorniasse con molte menti con false illusioni di libertà o comprando direttamente facendo leva sulla cupidigia del genere umano. L’8 febbraio 1848 il re di Savoia aveva promesso al suo popolo addirittura un patto costituzionale ma durante le cinque famose giornate di Milano, mentre i cannoni nemici vomitavano fuoco sugli italiani, si limitò ad inviare Martini il quale vendeva l’aiuto del re a patto che gli insorti tutti si piegassero al suo volere. Con la vittoria del popolo milanese però Carlo Alberto si ritrovò alle strette dal momento che l’insorgere del popolo avrebbe potuto creare il rischio di vedere sorgere una repubblica; decise allora il 23 marzo di dichiarare guerra. A causa dell’enorme ambizione di Carlo Alberto nel possedere quante più terre italiane poteva, egli non si curava degli screzi che intanto si andavano a creare all’interno dello stato, causate dalla sua smania di potere incontrollata e dettata dalla paura che qualche cosa potesse essere modificato senza il suo consenso. Inoltre vi furono molte lagnanze anche sul fatto che Torino, secondo il volere del re, avrebbe potuto superare d’importanza Milano, città più importante e che sin dai tempi più antichi era divenuta un punto cruciale dell’Italia settentrionale. Carlo Alberto era inoltre avverso nei confronti di tutti i volontari che avevano lottato durante le cinque giornate poiché questi avrebbero potuto traviare l’esercito sabaudo con fuorvianti discorsi sulla libertà; tale eventualità portò il re sabaudo ad accentrare nelle sue mani tutto il potere militare. Nell’ottavo capitolo intitolato “Il Governo Provvisorio” Cattaneo narra la situazione che si era venuta a creare in Italia dopo la precipitosa ritirata dei nemici al termine delle cinque giornate di Milano e dei vili comportamenti che tenne il Governo Provvisorio. Questo infatti era andato praticamente in bancarotta dal momento che, con l’ordinanza del 26 marzo con cui metteva a carico dei cittadini ogni sussistenza dell’esercito piemontese, svuotando in tal modo le proprie casse poiché ebbe a rimborsare ciò che gli altri avevano speso. Si ridusse in tal modo il Governo Provvisorio ad elemosinare presso i sudditi, senza tra l’altro essere in grado di risollevarsi dalle proprie difficoltà. Altra angheria che fece il governo, oltre che sottomettere costantemente la Lombardia al Piemonte, fu quella di ricreare la polizia plasmandola sullo stampo di quella austriaca, che in realtà vessava non solo gli uomini liberi ma reprimeva anche tentativi dell’opposizione di rendere nota la verità. La situazione che si era dunque venuta a creare era molto difficile: da una parte i nemici stavano tornando furtivamente nei luoghi da loro abbandonati mentre la guerra era nelle mani del re Carlo Alberto che non si decideva a far nulla prima che tutta l’Italia e soprattutto la Lombardia non si fosse piegata al suo volere. Il 12 Maggio venne alla fine posto dal Governo Provvisorio una sorta di “aut aut” in cui si chiedeva al popolo o una totale astensione dalla politica o un’assoluta sottomissione a Carlo Alberto. Quest’ultima scelta era fortemente voluta da tutti coloro che sostenevano il re sabaudo e con ogni mezzo spingevano gli indecisi a fare lo stesso passo. In quel giorno venne stipulato un patto di sudditanza che sarà poi visto come la rovina dei patrioti. Nel capitolo seguente, il nono, Cattaneo descrive la situazione che si era venuta a creare tra le file dei nemici, dal momento che il titolo è “Gli oppositori”. In realtà è solo un’ulteriore e ancora più drammatica ricostruzione dei fatti che in quel momento scuotevano l’Italia: l’ingordigia di potere del re Carlo Alberto, i contrasti tra coloro che sostenevano ancora il dominio austriaco e la sciocca fiducia che il popolo italiano riponeva nei traditori. Il decimo capitolo intitolato “L’esercito del Re”è riservato appunto all‟esercito o, per meglio dire, alla totale mancanza di un cospicuo numero di soldati che potesse essere definito un vero esercito. Carlo Alberto infatti aveva rifiutato qualsiasi aiuto non solo da parte di nazioni quali Francia, Polonia e Svizzera che avevano un odio comune per l’Austria, ma anche da parte di tutti quegli italiani volontari o che, nel corso delle cinque giornate, si erano distinti per particolari capacità. Le forze armate erano dunque state ridotte dai 25 mila che si poteva credere all’inizio a 5 mila unità, prese solamente dal Piemonte. Bisogna inoltre dire che alle operazioni belliche partecipò lo stesso Carlo Alberto il quale però, come i suoi generali, non aveva esperienza alcuna nel campo strategico e, di conseguenza, con le sue incapacità militari causava il progressivo indebolimento dell’Italia a favore dell’Austria che, dopo essersi ripresa dalla sconfitta del 22 marzo 1848, stava lentamente riprendendo forza e terreno. Inoltre, la mancanza di cibo, di organizzazione sanitaria e disciplinare tra i sudditi contribuivano a far precipitare lo Stato inesorabilmente ed inconsapevolmente verso la rovina a cui contribuiva l’ottuso orgoglio ostentato da un re troppo sicuro delle sue risorse e capacità. Nel capitolo undici intitolato “La Guerra” Cattaneo racconta minuziosamente tutte le fasi della guerra: dall’inizio, in cui tutti erano fiduciosi di poter sbaragliare il generale Radetzky che in quel momento volgeva in fuga, fino alla terribile e rovinosa conclusione per l’Italia che, dal nord sino agli Appennini di Toscana, era ritornata in mano al nemico austriaco. Questa disastrosa fine, come lo scrittore milanese ha più volte sottolineato, è stata causata dall’inesperienza e dalla dappocaggine non solo del re Carlo Alberto ma anche di tutti i generali del suo esercito. “……….si fa sempre più manifesto il vero di ciò che primamente dissi: non esservi stato in quella guerra pensiero militare; avervi dominato il solo pensiero politico, di tenere occupata la Lombardia, finché l’Austria fallita segnasse una nuova pace di Campoformio, e i popoli scorati e stanchi vi si rassegnassero”. (C. Cattaneo ”L’insurrezione di Milano nel 1848”, ed Feltrinelli,1973, p. 166). “….. E perciò i giuramenti o non si devono fare, o si devono fare alla patria e alla legge; non alle persone dei principi”. (C. Cattaneo, op. cit., p.191). (Valeria Del Tedesco) 5. LA REPUBBLICA ROMANA DEL 1848-1849 Stefano Tommasini, autore del libro “Storia avventurosa della Rivoluzione romana” racconta come a Roma e in tutto lo Stato della Chiesa, Pio IX, dopo l’ondata di simpatia che avevano suscitato le sue presunte convinzioni liberali e filo-unitarie, aveva cominciato a risentire di una crescente opposizione politica, dovuta all'allocuzione del 29 aprile (il pontefice aveva infatti deciso di ritirare le truppe regolari comandate dal generale Giovanni Durando ed inviate contro l'Austria nella prima guerra di indipendenza nel 1848) ed alle sue conseguenze. Già nei giorni successivi, a Roma la Guardia Civica aveva occupato Castel Sant'Angelo e le porte della città e, oltre a ciò, ci furono le dimissioni di ben sette ministri. Il 3 maggio Pio IX compiva un estremo tentativo di raddrizzare la situazione: affidando l'incarico per un nuovo governo al conte Terenzio Mamiani (uomo politico, filosofo e scrittore italiano dell'epoca il quale però darà a sua volta le dimissioni per dissenso rispetto alla linea strettamente neutralista del pontefice) e scrivendo una lettera privata a Ferdinando I nella quale lo si invitava a rinunciare al LombardoVeneto, Regno di profonda fede cattolica. Tuttavia l'imperatore non risponderà nemmeno a tale richiesta del pontefice. Pio IX tentò allora l'ultima carta affidando l'incarico del governo al conte Pellegrino Rossi, già ambasciatore di Luigi Filippo di Francia. Rossi si mostrò attento alle istanze patriottiche, decretando sussidi e pensioni ai feriti e alle vedove di guerra e chiamò a dirigere il dicastero della Guerra il generale Zucchi, già generale di Eugenio di Beauharnais e patriota risorgimentale. Il 15 novembre riaprì il Parlamento e Pellegrino Rossi venne accoltellato da un gruppo di cui faceva parte un figlio del capopopolo democratico Ciceruacchio. In serata lo stesso Ciceruacchio inscenò sotto il Quirinale, una tumultuosa manifestazione, per chiedere "un ministro democratico, la costituente italiana e la guerra all'Austria". La scena si ripeté un giorno più tardi, la sera di venerdì 17, quando la stessa folla armata si ripresentò davanti al Quirinale, chiedendo l'allontanamento degli Svizzeri. Successivamente i ministri presenti a Roma (Muzzarelli, Galletti, Sterbini, Lunati) pubblicarono un programma di governo che si diceva “ in perfetta armonia, non solo co' principi proclamati dal popolo, ma con quelli che, dopo matura deliberazione, furono accettati dalle nostre Camere Legislative”. Pio IX sarà costretto ad accettare non solo il principio della nazionalità italiana, ma anche quello per la lotta dell'indipendenza e della convocazione in Roma di una Costituente in vista della federazione. La mattina di sabato 25 novembre l'abate Rosmini venne informato che il papa, preoccupato dalla situazione insurrezionale, era partito la sera precedente in incognito, vestito come un semplice sacerdote, avendo come direzione Gaeta per riposarsi e poi riprendere il viaggio: l'obiettivo, infatti, era quello di raggiungere le Baleari. Rosmini riteneva che la scelta di lasciare le Stato Romano fosse troppo incauta e anch'egli partì per raggiungere il pontefice. Giunto alla fortezza napoletana di Gaeta, Pio IX consegnò all'abate una lettera, nella quale il pontefice nominava una Commissione Governativa a cui affidava la direzione temporanea dei pubblici affari. L'intenzione era quella di mostrare che il papa, pur essendosi allontanato da Roma, non lasciava lo Stato senza governo. C'era poca chiarezza su cosa effettivamente fosse questa Commissione e a cosa servisse. Il comportamento del papa appariva agli occhi dei contemporanei come il modo più diretto per gettare Roma e alla lunga tutto lo Stato nella più assoluta anarchia. La sera di domenica 3 dicembre il Consiglio dei deputati si riunì e il presidente dell'Assemblea, Francesco Sturbinetti, sostenne la nullità dell'atto pontificio. Aggiunse anche che esso non era valido poiché emesso fuori del territorio dello Stato e fatto forse sotto costrizione. Il dottor Pantaleoni, politico italiano appartenente al gruppo dei moderati, presentò una proposta che prevedeva il pieno mantenimento dei poteri del governo nominato dal papa il 16 novembre e l'invio di un delegazione a Gaeta per chiedere a Pio IX di rientrare nello Stato e nella capitale. La maggior parte dei colleghi deputati ritenne che Pantaleoni avesse ragione e il 6 dicembre fu inviata la delegazione che venne però respinta ai confini napoletani da un ispettore di polizia, che aveva ricevuto l'ordine di impedire a qualunque delegazione di entrare nel Regno di Napoli. Il governo protestò vivacemente e, lunedì 11 dicembre, il Consiglio dei deputati deliberò la nomina di una Giunta di Stato che facesse le veci del sovrano per il tempo in cui fosse stato assente. “É costituita una Provvisoria e Suprema Giunta di Stato. Che è composta di tre persone scelte fuori del Consiglio dei deputati, nominata a maggioranza assoluta di schede dal Consiglio dei Deputati stessi, e approvata dall'Alto Consiglio. La Giunta a nome del principe ed a maggioranza dei suffragi eserciterà tutti gli uffici pertinenti al Capo del Potere Esecutivo nei termini dello Statuto e secondo le norme e i principi del diritto costituzionale. La Giunta cesserà immediatamente le sue funzioni al ritorno del Pontefice, o qualora esso deputi con atto vestito della piena legalità, persona a tener le sue veci, ed adempire gli uffici, e questa assuma di fatto l'esercizio di dette funzioni”. Si trattava di un colpo di Stato che, di fatto, poneva termine al potere temporale del Papa. E, infatti, il 17 dicembre il Papa protestò vivacemente, lamentando l'“usurpazione dei Sovrani poteri” . Il 20 dicembre la giunta emise un proclama in cui prometteva la convocazione di una Costituente romana: Art 1. È convocata in Roma un'Assemblea Nazionale, che con pieni poteri rappresenti lo Stato Romano. Art 2. L'oggetto della medesima è di prender tutte quelle deliberazioni che giudicherà opportune per determinare i modi di dare un regolare, compiuto e stabile ordinamento alla cosa pubblica, in conformità dei voti e delle tendenze di tutta, o della maggior parte, della popolazione. Art 3. I Collegi Elettorali sono convocati il dì 21 gennaio prossimo per eleggere i rappresentanti del popolo all'Assemblea Nazionale. Art 4. L'elezione avrà per base la popolazione. Art 7. Il suffragio sarà diretto, e universale. Art 8. Sono elettori tutti i cittadini dello Stato di 21 anni compiti, che vi risiedono da un anno, e non sono privati o sospesi dai loro diritti civici per una disposizione giudiziaria. Art 11. Lo scrutinio sarà secreto. Niuno potrà essere nominato Rappresentante del popolo se non riunisce almeno cinquecento suffragi. Il pontefice, poco dopo la pubblicazione di tale decreto, scrive un documento all'interno del quale vi sono due scomuniche: quella contro chi ha convocato l'Assemblea Costituente e in qualsiasi altro modo ha attentato al potere temporale della Chiesa e quella, solo minacciata, a chi volesse dare seguito alla elezione dell'Assemblea e poi allo svolgimento della sua azione. Con la minaccia della scomunica su chi si fosse prestato all'usurpazione del potere pontificio partecipando all'elezione della Costituente, il destino di Roma non era più affidato al voto, né a una sempre più remota composizione tra le parti in conflitto, ma era già quasi tutto nelle mani dei governi europei chiamati dal Papa a restaurare il potere temporale della Chiesa. Gli Stati europei che maggiormente si mostrarono sensibili al richiamo papale furono la Francia e la Spagna. Il generale francese Cavaignac inviò tremilacinquecento soldati francesi affinché “assicurassero la persona del Santo Padre, la sua libertà, e il rispetto che gli si deve”, e per cercare di convincerlo a trasferirsi a Marsiglia o in qualsiasi altro luogo della Francia. L'iniziativa, poi abortita, di Cavaignac era dettata soprattutto da ragioni di politica interna: le elezioni presidenziali. Aveva puntato tutto sull'impresa di salvare il papa per contrastare l'ascesa di Luigi Napoleone Bonaparte. Ad avere la meglio, però, fu proprio quest'ultimo e la questione passò nelle sue mani. Il duca d' Harcourt, uomo politico e diplomatico, decise di non appoggiare la richiesta di offrire al pontefice un appoggio non solo morale, ma anche militare e pecuniario, in quanto la Francia avrebbe rischiato di impegnare troppe forze per ottenere un risultato incerto e rischioso. Ad essere più solidale con Pio IX era Madrid, che il 21 dicembre aveva inviato una lettera circolare ai propri rappresentanti a Parigi, Vienna, Lisbona, Monaco, Napoli, Torino e Firenze. Le nazioni cattoliche venivano sollecitate a occuparsi di comune accordo della questione di ”assicurare in maniera stabile e permanente la Suprema Autorità del Pontefice.” Per questo veniva proposta la convocazione di una conferenza internazionale da tenersi in Spagna. Le risposte non furono entusiastiche: il governo napoletano replicò che sarebbe stato preferibile che la conferenza si tenesse a Napoli, luogo più vicino al papa, e che fosse allargata a Inghilterra, Prussia e Russia. La Francia invece osservò che la vicenda dello Stato Pontificio poteva essere discussa nella conferenza già prevista a Bruxelles sulla situazione italiana. Era però ormai chiaro che l'intervento militare ci sarebbe stato e lunedì 5 febbraio si riuniva a Roma la nuova Assemblea Costituente. Nonostante la scomunica, il 21 e 22 gennaio andarono a votare circa duecentocinquantamila elettori. Il 5 febbraio 1849 si aprirono il lavori della Costituente: Garibaldi stesso affermò che l'Assemblea non sarebbe stata sospesa fino a quando non fosse riuscita a soddisfare le aspettative del popolo. Anche il deputato Bonaparte interviene a sostenere questa tesi: “se mi è lecito interpretare le parole del generale Garibaldi, egli propone che, previa la immediata e facile verifica dei poteri, prima di occuparci della nomina del presidente e dei segretari, ci occupiamo di quella Costituzione che incombe a noi di redigere; prima che si organizzi lo Stato, si riconosca da tutti fin da questo momento che la forma di Governo che compete a questo Stato è la forma repubblicana; che noi non usciamo da questa sala, questa sera o domani mattina, prima che la Repubblica in genere non sia da noi decretata”. Intervenne anche il deputato di Roma e ministro Sterbini. “L'Assemblea nazionale romana oggi diventerà un tribunale innanzi al quale deve formarsi un giudizio reclamato da tanti secoli; e questo giudizio non si pronunzia con una parola, non si pronunzia nell'impeto di una passione, ma dopo maturo esame, ma dopo lunghe discussioni, dopo aver udito il pro e il contra, perché l'Europa intera dica: i romani sono oggi quale era l'antico Senato in cui si discutevano i destini della Patria, non per impeto di passione, ma per maturità di senno”. Giovedì 8 febbraio i rappresentanti del popolo tornano a riunirsi per discutere della “sostanza”, le scelte sull'ordinamento. La maggior parte dei presenti era pienamente d'accordo con il deputato di Bologna Savini, nel dichiarare la decadenza di diritto della sovranità temporale dei pontefici. Non tutti credevano però che “l'Italia fosse un ideale capace di muovere le moltitudini e neppure credeva che quelle moltitudini trovassero altro interesse nella libertà che il beneficio, già acquisito, della liberazione dalla servitù”. Infatti, altri deputati come Terenzio Mamiani, erano ancora schierati “a difesa del papa” ed erano unicamente disposti ad affidare al Piemonte e al suo esercito le sorti militari e politiche di tutta la nazione. Non vi era quindi un consenso unanime circa la netta scissione tra la Chiesa e lo Stato, perché il timore di questo numero ristretto deputati frenava la svolta verso una nuova fase politica. La prima proposta di decreto fondamentale era molto dura nei confronti del Papato ed era così concepita: Art 1. Il Papato è decaduto di fatto e di diritto dal Governo temporale dello Stato Romano. Art 2. Saranno date al Sommo Pontefice, anche di concerto colle altre potenze cattoliche, tutte le più convenevoli, sicure e stabili guarentigie pel pieno, libero e indipendente esercizio della sua potestà spirituale. Art 3. La forma del Governo dello Stato Romano sarà la democrazia pura, e prenderà il glorioso nome di Romana Repubblica. Art 4. Gli sforzi della Romana Repubblica saranno in modo tutto speciale diretti al miglioramento morale e materiale della condizione di tutte le classi della società. Art 5. Le relazioni della Repubblica Romana cogli altri membri della grande famiglia Italica saranno sovranamente determinate dall'Assemblea Costituente Italiana. Gli articoli vennero discussi con particolare attenzione, specialmente riguardo alle relazioni della neo repubblica con gli altri Stati italiani. Infine si preferì enfatizzare il concetto di nazionalità non menzionando quindi la Costituente, poiché vi erano ancora molti dubbi se questa potesse davvero riunirsi, e pesava anche l'esigenza di non separare i destini della Repubblica Romana da quelli della nazione italiana. A seguito dell'intervento di Garibaldi che ricordava l'importanza degli altri Stati italiani nella realizzazione della libertà italiana e della causa italiana, il decreto nel suo complesso fu così votato: Art 1. Il Papato è decaduto di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato romano. Art 2. Il Pontefice romano avrà tutte le guarentigie necessarie per la indipendenza nell'esercizio della sua potestà spirituale. Art 3. La forma del Governo dello Stato romano sarà la democrazia pura e prenderà il glorioso nome di Repubblica Romana. Art 4. La Repubblica Romana avrà col resto d'Italia le relazioni che esige la nazionalità comune. Un punto che non fu invece dibattuto sono le due parole che compaiono nel terzo articolo, “democrazia pura” . “Democrazia è governo del popolo, è la forma di Stato che prevede la sovranità popolare, che si esercita normalmente attraverso un Parlamento che è appunto l'insieme dei rappresentanti del popolo: esattamente il caso della Repubblica Romana”. L'attributo “puro” vuole sottolineare come il popolo è il principio “nel quale deve poggiare tutto l'edificio politico”(Mazzini): senza il popolo non c'è fondamento della politica, non c'è politica. Il primato non è come nel liberalismo, dell'individuo, bensì nel popolo. La definizione “democrazia pura”, osserva Tommasini, contiene in sé qualche rischio di condotta illiberale. Non si può infatti ignorare, sostiene l'autore, che “l'intensità” di pensiero di Mazzini, con il suo carattere totalizzante conteneva qualche seme che incontrollato, era capace di generare totalitarismo. La difficoltà sta nel riuscire a gestire un così alto concetto del popolo e della sua sovranità senza che questa si mutasse in tirannide. “Con quelle due parole “democrazia pura” i costituenti romani avevano fatto, consapevoli o no, la scelta più ambiziosa, la più difficile, sotto diversi aspetti la più rischiosa”. L'Assemblea il 21 febbraio si occupò della Chiesa in modo concreto, decretando l'incameramento dei beni ecclesiastici. Per far fronte alla situazione delle finanze statali decretò un prestito forzoso, necessario a sopperire ai bisogni della guerra e tutelare l'indipendenza. La Chiesa non rimase in silenzio di fronte alla presa di posizione nei suoi confronti e scrisse all'Assemblea che dichiarava la nullità del decreto e faceva appello alle potenze amiche per il mantenimento del “sacro diritto del temporale dominio della Santa Sede”. Tale dichiarazione non turbò affatto l'Assemblea, che invece approvò un altro decreto, secondo il quale tutte le campane venivano requisite per fare cannoni e che si provvedeva all'equipaggiamento ed armamento delle truppe. L'esempio più evidente dei difficili rapporti fra il nuovo potere statale e il potere religioso sta nell'abolizione del tribunale del Sant'Uffizio, che in seguito venne anche aperto al pubblico affinché fossero chiaramente rappresentate le malefatte del governo papale. Si voleva così “condannare il Papato per tutta l'opera svolta nella storia simbolicamente ma anche molto materialmente nell'opera del Santo Uffizio, in cui lo spirituale e il temporale si erano identificati con gli esiti più nefasti”. Dall'altro lato, però, vi era la volontà da parte dei governanti romani a non rinunciare ai segni della religione che potessero “illustrare nonostante le condanne pontificie, la continuità della fede cattolica e forse anche un certo favore divino verso il nuovo regime”. Il 5 marzo Mazzini arrivò a Roma da Firenze e fu molto ben accolto dall'Assemblea. Egli tenne due discorsi e nel secondo riferì della situazione in Toscana, in cui “la parte più energica, più attiva, più importante della popolazione risultava a favore dell'unificazione con la Repubblica Romana”. Questo però non avvenne e la sconfitta di Carlo Alberto presso Novara e la vittoria dei Borboni sull'insurrezione siciliana costrinse l'Assemblea a prepararsi ad una guerra per l'indipendenza e la salvezza della Repubblica, istituendo il 29 marzo un triumvirato plenipotenziario composto da Saffi, Armellini e Mazzini. La questione di un intervento francese in Italia era tornata d'attualità non solo per la richiesta fatta dal Papa alle quattro potenze cattoliche, Francia, Austria, Spagna e Napoli, ma anche perché, a seguito della sconfitta di Carlo Alberto, Parigi temeva che l'Austria potesse diventare la “potenza assoluta della penisola”. L'intervento francese in Italia era contraddittorio anche dal punto di vista della stessa Costituzione francese, il cui articolo quarto diceva che la Francia non avrebbe mai usato le proprie armi contro la libertà dei popoli. Il 25 aprile il corpo di spedizione francese comandato dal generale Oudinot sbarcò a Civitavecchia. Egli spiegò alla delegazione del governo romano che gli eventi europei si erano accelerati così improvvisamente che la Francia aveva preferito intervenire in modo immediato; inoltre, non avendo intenzione di riconoscere il nuovo governo romano, contrario al potere temporale del Papa, qualsiasi annuncio della spedizione avrebbe implicato una qualche forma di riconoscimento della Repubblica Romana. Il generale voleva in tal modo spiegare come la Francia si andava ad immischiare negli affari di un altro Paese senza essere stata chiamata. In definitiva le offerte di Oudinot erano inaccettabili e come tali vennero respinte. Roma era difesa da circa 10000 soldati e le sue truppe erano suddivise in quattro brigate comandate da Garibaldi, la cui legione italiana era giunta a Roma il 27 aprile e dai colonnelli Luigi Masi, Savini e Galletti. Il contingente di Oudinot che attaccò il 30 aprile venne preso a cannonate e fucilate e respinto. Nei combattimenti, durati sino a sera, si distinse principalmente Garibaldi il quale, intervenuto quando i Francesi stavano già per desistere, con un attacco alla baionetta sorprese alle spalle gli assedianti che si ripararono a Civitavecchia. Al termine della giornata, la Repubblica aveva ottenuto un trionfo: aveva mostrato l'attaccamento della popolazione e dell'esercito, aveva fermato l'invasione volta al restauro del governo assolutistico del potere temporale. Informato degli eventi, Luigi Napoleone, presidente della Repubblica Francese, non mostrò alcuna esitazione e inviò il barone di Lesseps, ambasciatore plenipotenziario, con l'ordine di pattuire una tregua d'armi. Napoleone, oltre che dalle necessità elettorali, era spinto anche dal voler reprimere la concorrenza delle altre potenze desiderose di esercitare la loro influenza sulla penisola italiana. Lesseps pattuì una tregua d'armi e con Mazzini prese a negoziare un accordo duraturo, negoziando un trattato con cui la Francia si impegnava nella difesa del Lazio dalle truppe austriache, spagnole, napoletane e alla non-ingerenza negli affari interni della Repubblica Romana. Ma Luigi Napoleone, ben deciso ad ottenere il massimo risultato elettorale, ordinò ad Oudinot di procedere con l'assedio della città, e a Lesseps di dare le dimissioni. Oudinot mise insieme 30,000 uomini e il 4 giugno riprese le ostilità. Il 30 giugno sul Gianicolo si combatté l'ultima battaglia della storia della Repubblica Romana e il 1 luglio, giorno di tregua, Garibaldi confermò che era impossibile continuare a resistere. Il 3 luglio 1849, giorno in cui di fatto la Repubblica finiva, l’Assemblea promulgava dal Campidoglio la sua Costituzione. I costituenti erano consci che nessuno se ne sarebbe potuto servire ma, come disse il relatore Aurelio Saliceti, “la Costituzione repubblicana [...] sarà eterna come legge di Dio”. Quanto all’elezione dei “consoli” era stata scelta l’indiretta. “La vera democrazia non posa sul principio che tutti siano chiamati ad esercitare gli stessi diritti, il popolo non può direttamente esercitare il diritto di nominare i consoli, perché il più delle volte sarebbe incapace di fare una buona scelta”. Dalla Costituzione venne inoltre esclusa la possibilità di una dittatura per governare situazioni di emergenza. Saliceti a tal riguardo disse che “violar la costituzione per salvarla è come uccidere per salvar la vita”. La Repubblica Romana fu il concreto tentativo di dare ad una parte all’Italia di allora un governo di tipo democratico che, sostenuto dalla volontà di tutti i cittadini, riuscisse a separarsi dall’opprimente controllo della Chiesa, difendesse la propria terra dallo straniero, dando così voce al popolo. Questa breve esperienza di repubblica rappresentò comunque, per Tommasini, “la possibilità che gli italiani si governassero come popolo, l’invenzione ufficiale di una democrazia italiana, che ancora avrebbe faticato moltissimo ad affermarsi, ma pure veniva affermata in principio e codificata per legge”. (Anna Benedetto e Andrea Magliocchi) 6. IL DECENNIO DI PREPARAZIONE Nel sesto volume de “Il Risorgimento” dedicato al “decennio di preparazione” Lucio Villari, espone molte questioni riguardanti il processo dell'unificazione italiana. Villari mette in chiara luce personaggi che hanno operato in modo costante e tenace per arrivare alla tanto desiderata meta, raggiunta solamente nel 17 marzo del 1861. Nell'esordio lo scrittore fa una panoramica dell'Europa della seconda metà del'800 soffermandosi, ovviamente, sulla questione italiana. L'Italia si trova in un periodo di grande incertezza e disorientamento politico, c'è infatti una grande difficoltà da parte delle principali figure politiche di capirsi, non c'è un terreno comune che faccia da intermediario tra tutte le diverse idee e opinioni politiche. Il nostro Paese si trova dunque in un difficile momento riguardante oltre alla sfera politica quella sociale, ma soprattutto quella economica. Dal 1850 però si avviava per l'Europa un nuovo periodo, quello dell'ascesa della borghesia e dello sviluppo economico internazionale. L'ideologia del progresso, largamente diffusasi in Europa e negli Stati Uniti, stava anche per arrivare in Italia. Il culmine di questo progresso giunse con l'Esposizione Universale di Londra nel 1851, tenutasi ad Hyde Park alla presenza della regina Vittoria e del principe Alberto. Fu uno di quegli eventi destinati a cambiare la storia. In un enorme edificio di ferro e vetro avvenne la più grande esposizione di prodotti industriali provenienti da ogni parte del mondo. In quel giorno venne ufficialmente riconosciuta l'egemonia britannica , in campo economico,sulle altre nazioni, e inoltre venne celebrato il progresso borghese i risultati ottenuti attraverso lla rivoluzione industriale. Questo grande evento richiamò l'attenzione da parte delle forze economiche europee. Si trattò del vero e proprio trionfo del capitalismo e del libero scambio che faceva da contrasto al fallimento delle insurrezioni nazionali e delle rivoluzioni sociali avvenute tra il 1848 e il 1849. Le profezie di Marx di un imminente abbattimento del capitalismo si rivelarono illusorie. All'Italia non rimaneva dunque che stare ad ammirare e a prendere esempio dalla nuova potenza inglese. Il primo esponente politico italiano che si accorse del grande messaggio politico che stava dietro al grande evento economico come l’Esposizione Universale fu proprio Cavour. Egli in un articolo scrisse che l'Esposizione era stata il più bel congresso di pace, e che aveva fornito molte indicazioni sul come muoversi verso la risoluzione dei principali problemi politici del momento. Cavour inoltre spiegava che cos'erano i rapporti di produzione del capitalismo e quanto rispetto ad essi fossero fittizie e antinazionali le politiche di molti governi conservatori. Ma seguendo questo suo ragionamento era impossibile non chiedersi come questi ambiziosi traguardi ottenuti dall'Esposizione avrebbero potuto produrre il rovesciamento o la riforma dei sistemi politici o sociali esistenti richiesti dai movimenti democratici e patriottici. Anche perché la maggior parte dei sistemi di governo esistenti in Italia, essendo privi di vere e proprie forme costituzionali, poggiavano su illegalità ed ingiustizie, sulla brutale repressione di movimenti nazionali e su forme di impostura religiosa. Secondo Cavour quindi i moti rivoluzionari scoppiati ovunque in tutta Italia non potevano essere ignorati. Villari prosegue quindi analizzando il pensiero di uno dei protagonisti del Risorgimento, Carlo Cattaneo. Secondo quest'ultimo una rivoluzione politica doveva impiegare strumenti adeguati e soprattutto aprirsi alle possibilità offerte dalla modernizzazione. Questa strada verso il Risorgimento era possibile grazie ad una giusta miscela politica composta dai rigorosi e astratti percorsi mazziniani e dall'ideologia moderata di Cavour. L'Italia dunque per ottenere ciò che voleva, doveva contare, più che sulle armi, sulla crescita culturale ed economica come era avvenuto nella progredita Lombardia, in cui le trasformazioni economiche avevano preparato il cambiamento politico. Cattaneo poi però si chiede come potrà mai avvenire questo tipo di rivoluzione pacifica, attraverso l'evoluzione dell'economia e della tecnica, in un Paese come il Regno delle due Sicilie, appena toccato dal processo di modernizzazione. Qui,sotto il regno di Ferdinando II la libertà di stampa e di opinione erano considerate superflue. I Borboni disprezzavano anche tutto ciò che riguardava la scrittura, la cultura e l'ingegno,il loro interesse riguardava solamente alcune attività industriali e poche innovazioni tecniche. Il governo dei Borboni si sentiva infatti più vicino alla plebe e agli ignoranti, secondo cui in un governo non erano necessarie le persone colte e dotte. L’ unico sapere che poteva davvero essere utile era quello dei medici e degli ingegneri. Si trattava di un'incontrollabile mediocrità che si era riversata ormai in tutto il regno. Persino le forze armate erano viste in modo diffidente dal re che temeva una classe militare più colta e cosciente di sé. Preferiva ufficiali militari grossolani e bonari, purchè rimanessero sempre fedeli. Questa quindi era la situazione presente nel Regno delle Due Sicilie. Villari fa poi un quadro generale riguardante tutti coloro che avevano combattuto per l'Indipendenza dell'Italia, ai quali toccava spesso affrontare l'amara realtà dell'esilio. Tra gli scritti proposti emergono, sicuramente, quelli di Gioberti, una tra le principali figure del Risorgimento. Egli affermava che per arrivare all'unificazione degli stati italiani era necessario superare gli egoismi regionali e i municipalismi. Secondo Gioberti la personalità giusta per affrontare tutto ciò era quella di Cavour, il quale dopo aver fatto uscire il Piemonte dalle ristrettezze municipalistiche, lo avvierà verso il ruolo di guida liberale della nazione. Quattro furono dunque le iniziative che diedero slancio alla politica italiana nel 1850 per il raggiungimento dell'unità. La prima fu quella scaturita dal “ proclama di Moncalieri” testo scritto da D'Azeglio, con cui il re, Vittorio Emanuele II, invitava il popolo a scegliere rappresentanti consci della tragica ora dello Stato, dopo aver sciolto il Parlamento, per fare in modo che i nuovi eletti accettassero le sue direttive. Il nuovo Parlamento risultò composto per due terzi da moderati favorevoli al governo di Massimo D'Azeglio. La seconda iniziativa riprendeva il pensiero di Cavour, il quale sosteneva che essere liberali significava essere primi nel riformare, sia in ambito legislativo, sociale e scolastico. Questo era dunque l'unico modo per poter prevalere sui rivoluzionari. Iniziò con il riformare i rapporti tra Stato e Chiesa, ma soprattutto ridefinendo il ruolo di quest'ultima secondo una concezione laica e liberale. Cavour dunque abolì i privilegi di cui i sacerdoti e la Chiesa godevano rispetto alle leggi dello Stato. Grazie a questi valori Cavour riuscirà a costruire una solida politica anche in campo economico, dopo essere diventato ministro dell'Agricoltura. Egli dunque s'ispirava all'Inghilterra e alla sua politica economica liberalistica, e cercava di realizzare riforme analoghe nello Stato Piemontese. La terza iniziativa era legata all'esperienza della Repubblica Romana che aveva chiuso la sua vicenda emanando una Costituzione d'avanguardia insieme a quella democrazia la cui attivazione per tutta l'Italia vedrà la luce soltanto cento anni dopo. Con queste esperienze democratiche lo stesso Piemonte dovette fare i conti soprattutto per quanto riguardava il principio di separazione tra Stato e Chiesa. Il liberalismo avviatosi in Piemonte non poteva quindi ignorare il collegamento con alcuni principi affermatisi nell’ esperienza romana. La quarta iniziativa infine fu l'impronta liberistica data da Cavour sia per quanto riguardava l'economia interna, sia per le relazioni internazionali. Egli faceva ciò per legare le sorti piemontesi all'economia europea, primo passo di una strategia che mirava a porre in tutti i tavoli delle trattative internazionali la “questione italiana”. Cavour diventò dopo la sua elezione a ministro dell'Agricoltura una figura sempre più importante. Egli potè giovarsi della sua competenza di imprenditore agricolo oltre che di esperto conoscitore dei meccanismi finanziari e bancari. Fu il primo ad utilizzare in campo agricolo i fertilizzanti chimici guardando sempre ai possibili rapporti tra il mondo delle campagne, l'industria di trasformazione dei prodotti agricoli e quella chimica della produzione dei concimi. Allo sviluppo dell'industria però erano connesse delle disponibilità finanziarie alle quali Cavour provvedette creando delle società di imprenditori, finanziati dalle banche che erano in grado di anticipare i capitali richiesti. Di pari passo a questi piani di sviluppo erano necessarie però delle efficienti reti di comunicazione, che il conte di Cavour seppe realizzare costruendo canali e linee ferroviarie. Intanto però in un'altra parte d'Italia la situazione era sempre più difficile, si trattava della zona Lombardo-Veneta ancora sotto il duro governo degli Austriaci. Se la precedente rivoluzione combattutasi a suon di barricate era fallita, ora doveva essercene una silenziosa ed invisibile, questa era la nuova strategia elaborata da Mazzini in esilio a Londra. Egli dunque pensò di creare dei Comitati rivoluzionari a Milano, Venezia, Brescia e Mantova con eventuali ramificazioni al centro e al sud. La funzione principale di questi nuovi gruppi rivoluzionari era quella di far circolare le cartelle del prestito nazionale per finanziare il movimento patriottico. Tutto ciò in breve tempo però venne scoperto dal governo austriaco che,senza mezze misure iniziò la sua repressione contro i colpevoli di questa cospirazione. Mazzini però non si arrese e volle fare confluire il patriottismo nella protesta sociale di un proletariato che aveva proprie ragioni,soprattutto economiche, per partecipare ai moti per la libertà e l'indipendenza dallo straniero. Milano dunque si ritrovava nuovamente in un tentativo insurrezionale da parte questa volta di nuclei della classe operaia che, in un attacco armato il 6 febbraio del 1853 assalirono le caserme e i depositi armati austriaci. Anche questo tentativo fallì, ma tutto ciò non modificava i piani di Mazzini il quale pensava che i continui tentativi di insurrezione si sarebbero estesi a tutta la popolazione generando una volontà collettiva a parteciparvi. In Lombardia continuò dunque la politica di repressione da parte del governo austriaco verso tutte le forme di rivolte e soprattutto per prevenirle. Mazzini sperava che le altre potenze avrebbero visto nelle repressioni austriache così crudeli un motivo di contestazione, di critica verso i metodi spietati messi in atto per far tacere l'opinione pubblica. Mentre la Lombardia e il Veneto continuano le loro rivolte,in Piemonte, Cavour continuava con la sua politica di riforma. Egli mise in atto misure contro gli abusi e lo strapotere della Chiesa. Il 1853 e il 1854 furono due pessime annate sia per quanto riguardava l'agricoltura sia per la salute dei cittadini, infatti ci furono numerosi casi di colera. Molti oppositori accusarono Cavour di aver provocato con la sua politica un po' troppo antireligiosa, queste disgrazie. Addirittura una folla tumultante si presentò sotto la residenza di Cavour per protestare, ma nemmeno in questo momento il conte ebbe la minima paura o esitazione e continuò la sua politica laicista. Nel 1855,infatti, egli presentò una riforma di legge che proponeva la soppressione dei monasteri, delle comunità religiose e degli stabilimenti ecclesiastici. Questo quindi provocò l'immediata risposta di Pio IX che pubblicò un documento dove, oltre a condannare la libertà di stampa e l'istruzione pubblica affermava che il re non avrebbe mai firmato una proposta di legge simile. Vedendo che il re tentennava e non riusciva a prendere una decisione, per evitare il peggio la Chiesa offrì un'enorme somma di denaro allo Stato pur di far ritirare questa proposta di legge, Cavour offeso da questa proposta, chiese il supporto del re che glielo negò. Il governo allora si dimise e questa sarebbe stata la fine anche della scelta liberale del Piemonte e dell'evoluzione del nostro Risorgimento, se non fosse intervenuto Massimo D'Azeglio, il quale scrisse una nobile lettera al re chiedendo di ripensarci, di ritornare indietro. Il re allora rispose positivamente al richiamo di D'Azeglio e diede a Cavour l’incarico di costituire il nuovo governo. Questi realizzò il suo programma di elevare il Piemonte al rango di Stato- guida nel processo di unificazione nazionale in particolare grazie a un abile disegno di politica estera. L'occasione per fare assumere al Piemonte un ruolo nei giochi d'equilibrio che le grandi potenze compivano in Europa fu data proprio dalla guerra in Crimea. Si trattò di un episodio che rimise in moto la competizione e la conflittualità tra i grandi Stati che ambivano al predominio nell'Europa. In questa cornice si inserì la diplomazia piemontese: Cavour, che non aveva previsto la neutralità austriaca, si era adoperato per stringere accordi con Francia e Inghilterra in vista di una comune azione contro Austria e Russia; e si trovò costretto a prendere parte al conflitto con degli alleati che avevano però l'interesse di garantire all'Austria che, se fosse intervenuta al loro fianco, nulla sarebbe accaduto alle sue spalle, cioè in Italia. Tuttavia Cavour ritenne che l'intervento piemontese, pur nella mutata situazione, fosse opportuno, ed i fatti successivi gli diedero ragione. Così inviò un capo di spedizione, verso la metà del 1855, in Crimea. L'obiettivo che Cavour si prefiggeva era la partecipazione del Piemonte alle trattative di pace e la conseguente possibilità di porre le situazione dell'Italia al centro degli accordi generali tra le potenze europee. Ciò avvenne al Congresso di Parigi dove i rappresentanti delle potenze europee si riunirono per le trattative di pace nel 1856. Il gioco di Cavour era perfettamente riuscito: come rappresentante del piccolo Stato piemontese egli sedeva, accanto a Francia, Inghilterra, Austria, Russia, e poteva illustrare, in una seduta suppletiva chiesta ed ottenuta, le penose condizioni di soggezione e vassallaggio in cui le popolazioni del LombardoVeneto e dell'Italia meridionale erano tenute dagli Asburgo e dai Borboni. La questione italiana era posta come qualcosa di cui l'Europa progressista doveva in qualche modo occuparsi. Oltre a ciò, con la partecipazione al Congresso di Parigi, il Piemonte si guadagnò definitivamente, agli occhi del movimento liberale italiano, il ruolo di protagonista della lotta contro l'Austria. Dal punto di vista economico e sociale, nel decennio che precede la nascita dello Stato italiano nelle altre nazioni si assiste ad un’accelerazione dell’economia capitalistica. Gli Stati Uniti mostrano una forte fiducia nel progresso tecnico e nel benessere che ne può derivare, in particolare un notevole sviluppo delle ferrovie; dal 1852 era scoppiata la “febbre dell’oro” e c’è un’altra scoperta, quella del petrolio, destinata a generare una nuova “rivoluzione industriale”. In Inghilterra gli investimenti esteri incrementano le esportazioni di capitali che permettono un’espansione dell’economia ben al di là dei confini europei. Un esempio si può vedere nelle costruzioni ferroviarie in India. Anche in Italia, pur ancora frammentata politicamente, ci si apre al liberoscambismo, che implica una rottura di tutte le forme economiche chiuse, il superamento delle barriere doganali e,in prospettiva, delle frontiere politiche e un ampliamento delle libertà rivendicate dai cittadini. Sul piano politico, Villari sottolinea il fatto che la spinta verso l’unificazione italiana veniva anche dalle esigenze poste dallo sviluppo economico, in primo luogo dalla necessità di un “mercato nazionale”, abbastanza ampio da favorire la crescita della produzione e dello scambio. L’Austria, con l’arrivo al potere di Massimiliano d’Asburgo,viceré in Lombardia con idee quasi liberali, allenta la pressione autoritaria e repressiva, anche perché teme gli atteggiamenti provocatori da parte del Piemonte, che dal canto suo vede un accrescimento delle attività industriali, ma allo stesso tempo un aumento del debito pubblico. Nell’agosto del 1857, a Torino, La Farina, Manin e Pallavicino Trivulzio fondano la Società Nazionale, che si prefiggeva come programma l’unità dell’Italia sotto la monarchia dei Savoia. Cavour diede il suo consenso alla Società. Mazzini rimase estraneo alla Società con i suoi più convinti seguaci. LA SPEDIZIONE DI SAPRI Nel dicembre del 1856, Carlo Pisacane cominciò a pensare all’opportunità di un’azione insurrezionale al Sud, teorizzando la rivoluzione come il risultato di un’azione dal basso, capace di coinvolgere le masse popolari. Si era, quindi, allontanato dalle idee mazziniane e aveva anche qualche dubbio sulla tecnica della guerriglia garibaldina. Pisacane, pur essendo venuto a sapere che Mazzini si stava impegnando per raccogliere nuovi mezzi e forze per un colpo in Toscana, non evitò di proporgli un’azione nel Mezzogiorno. Mazzini accettò la proposta con la convinzione che la rivolta avrebbe avuto maggiori probabilità di successo se, contemporaneamente, fossero insorte anche le città di Genova e Livorno. Mazzini, quindi, cominciò a lavorare sul progetto collegandosi con esponenti clandestini del suo movimento presenti nel Salernitano e nel Cilento. Pisacane, però, era assalito da nuove perplessità. Per questo, sotto pressione della propria compagna, Enrichetta Di Lorenzo, scrisse e consegnò alla giornalista Jessie White il suo “Testamento politico”, un testo di dignità ideologica, umanità e intelligente pessimismo. Nel testo, Pisacane dichiara una fedeltà ai valori del socialismo, l’ineluttabilità della rivoluzione italiana e afferma che è possibile una rivoluzione morale, un impulso che spinga ad un movimento deciso e che lui stesso è disposto a sacrificare la propria vita per il raggiungimento di tale scopo. Il 25 giugno,quindi, Pisacane si imbarca da Genova sul piroscafo “Cagliari” con ventiquattro patrioti, con i quali si impossessa della nave e di un carico di armi. La rotta era diretta a Ponza, dove liberarono trecento detenuti, per lo più politici. Il 28 sera, il “Cagliari” raggiunge Sapri. Essendosi sparsa la voce che briganti,ergastolani erano sbarcati per rubare e nuocere alla popolazione locale, tutti gli abitanti di Sapri si chiusero in casa sbarrando porte e finestre. Pisacane decise,quindi, di puntare su Padula. Il primo giorno, in uno scontro con guardie e soldati di stanza nel luogo, furono massacrati quasi tutti i patrioti. Visto il fallimento dei suoi progetti, Pisacane si suicidò con un colpo di pistola. Si ricordano a questo punto i versi della Spigolatrice di Sapri,scritti da Luigi Mercantini, “ eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti..”,una ballata politica messa a sigillo di un patriottismo profondamente permeato di senso morale. Fallivano, intanto, anche i moti di Genova e Livorno. Per Pisacane e i suoi compagni, animati solamente da un puro ideale, ci fu da parte di tutti i patrioti un sentimento di pena e una solidale partecipazione. ACCORDI DI PLOMBIÉRES- LES BAINS E VENTI DI GUERRA Cavour, attraverso degli accordi diplomatici, cercava di allacciare un’alleanza con l’imperatore francese Napoleone III, necessaria per muovere guerra all’Austria. Napoleone III, per accettare quest’alleanza, pone però alcune condizioni. Chiede prima di tutto al governo piemontese di censurare la stampa democratica e di promuovere leggi contro le organizzazioni che facevano parte di movimenti democratici. Il 14 gennaio del 1858, alcuni esuli mazziniani a Parigi guidati da Felice Orsini, lanciarono bombe contro Napoleone III e sua moglie che rimasero miracolosamente illesi. Orsini e i suoi compagni furono ghigliottinati in piazza a Parigi il 13 marzo, ma prima di salire al patibolo Felice aveva inviato un’accorata e nobile lettera a Napoleone III chiedendo il suo intervento a favore dell’indipendenza italiana. La lettera suscitò una grande impressione, tanto che ebbe luogo un incontro tra Cavour e Napoleone III. La nipote diciannovenne di Cavour, Virginia Oldoini, fu gettata tra le braccia dell’imperatore per piegarlo dolcemente alla causa italiana. Furono molti i fili con cui lo statista piemontese tesseva la sua tela. Napoleone III decide, quindi, di appoggiare lo Stato Sabaudo in una guerra contro l’Austria, purché questa non perseguisse scopi rivoluzionari. L’accordo siglato a Plombières prevedeva altre clausole: Napoleone III voleva una ricomposizione dell’Italia in una Confederazione di tre Stati, sotto la presidenza del Papa e il controllo francese; la cessione di Nizza e della Savoia. Il matrimonio tra Napoleone Girolamo Bonaparte, cugino dell’imperatore, e Maria Clotilde di Savoia, figlia primogenita del re, doveva suggellare il fatto raggiunto. SECONDA GUERRA DI INDIPENDENZA Nel gennaio del 1859 Cavour si stava adoperando per provocare l‟Austria alla guerra e stava quindi cercando un “casus belli”: accordi con Garibaldi, esodo in Piemonte dei giovani lombardi, richiesta di prestiti straordinari al Parlamento, preparativi insurrezionali nell’Italia centrale. Napoleone III, di fronte a tanto attivismo, si mostrò esitante. Tanto che l’Inghilterra offrì un congresso per la pacificazione degli Stati che Napoleone III accettò. L’Austria, al contrario pose la condizione che non vi partecipassero gli Stati Italiani. Inoltre il 23 aprile 1859 il governo di Vienna inviò un ultimatum al Piemonte chiedendo il disarmo dei volontari. L’Austria era caduta nella trappola di Cavour. Il 29 aprile l’armata austriaca penetrò in territorio piemontese. Il 12 maggio i francesi riuscirono a raggiungere i soldati italiani grazie anche ad un impantanamento delle truppe austriache nelle risaie della Sesia provocate dai contadini. La controffensiva prevedeva l’esercito franco-piemontese diviso in due ali. Gli scontri tra l’esercito franco-piemontese e quello austriaco avvennero tra il 20 e il 31 maggio a Buffalora, Palestro, Montebello. Gli austriaci furono battuti in tutte e tre le occasioni e così gli alleati ebbero l’opportunità di una facile avanzata verso Milano. Il 4 giugno il generale francese Patrice de Mac-Mahon ebbe la meglio sugli avversari e quattro giorni dopo Vittorio Emanuele II entrava a Milano. Ancora una volta i Cacciatori delle Alpi di Garibaldi avevano contribuito alla vittoria assestando duri colpi all’esercito austriaco negli scontri di Sesto Calende, San Fermo, e Varese. Il nome di Garibaldi comincia a suscitare ammirazione in tutta la popolazione dagli uomini,alle donne, anche ai ragazzi. Fu questo un momento di forte sentimento patriottico che si rinnoverà con la spedizione dei Mille e con la liberazione del Mezzogiorno nel 1860. LA GUERRA E LA RIVOLUZIONE Per merito della propaganda e dell’organizzazione della Società Nazionale, l’Italia centrale stava per entrare in ebollizione. Tra aprile e la metà di giugno fuggì da Firenze il granduca sostituito dal conte Boncompagni in rappresentanza del re di Sardegna, fu poi la volta di Parma e del ducato di Modena dove furono nominati commissari regi in nome di Vittorio Emanuele II. La rivoluzione coinvolse, poi, lo Stato Pontificio e gli austriaci furono cacciati da Bologna e Ferrara. Insorsero anche le Marche e l’Umbria: il 20 giugno la repressione voluta dal Papa provocò una strage di civili a Perugia. Il 24 giugno, in due battaglie, si giunse alla resa dei conti. Si scontrarono, da una parte, 80 mila francesi e 90 mila austriaci a Solferino, dall’altra, a San Martino 31mila piemontesi e 29 mila austriaci. In entrambe le battaglie furono sconfitti gli austriaci, che cominciarono la loro ritirata, ma fu grandissimo da entrambe le parti il prezzo di vite umane, tanto che un testimone, lo svizzero Henri Dunant promosse la Conferenza di Ginevra e la fondazione della Croce Rossa. VILLAFRANCA: CAMBIA LA SCENA L’armistizio firmato a Villafranca da Napoleone III e Francesco Giuseppe sanciva che la Lombardia,ad eccezione di Mantova e Peschiera, era ceduta alla Francia che a sua volta l’avrebbe consegnata al Piemonte. La Toscana, Parma, Modena e le Legazioni dovevano tornare ai legittimi sovrani, tutti gli stati italiani avrebbero formato una Confederazione sotto la presidenza del pontefice. La popolazione italiana avvertì l’armistizio come un tradimento, ma per i francesi non era possibile una soluzione diversa del conflitto. Inoltre Napoleone III temeva la formazione di un grande Stato unitario ai confini con la Francia e aveva capito che l’esercito austriaco non era da sottovalutare. Vittorio Emanuele II si vide costretto ad accettare l’armistizio, mentre a Cavour,vedendo fallire il suo progetto, non restò che dare le dimissioni. Il nuovo governo La Marmora-Rattazzi fu costretto a richiamare i commissari regi, ma i rappresentanti delle popolazioni dell’Italia centrale elessero dei “dittatori” nominati per volontà popolare. Il 20 settembre 1859 Mazzini invitò Vittorio Emanuele II ad assumere la guida di un movimento unitario e a promuovere un accordo tra le forze politiche nazionali. A questo punto l’Inghilterra decise di prendere una posizione nel caso italiano richiamandosi al principio della sovranità popolare. Napoleone III si accostò, quindi, nuovamente al Piemonte e iniziò la ricerca di una mediazione. Il 20 gennaio 1860 Cavour fu richiamato al governo, essendo nota la sua capacità di volgere le contraddizioni della politica verso obiettivi più costruttivi. Si trattava di utilizzare diplomaticamente la rivoluzione popolare del centro nord. Furono indetti dei plebisciti per lasciare alle popolazioni il diritto di decidere. Il voto diede un netto consenso all’annessione, confermata subito dopo dalle elezioni politiche. I candidati liberali ispirati a Cavour ebbero un grande successo, la Sinistra di Rattazzi conquistò qualche decina di seggi mentre scomparve la Destra reazionaria. Intanto,secondo i trattati di Plombiéres, Nizza e la Savoia venivano cedute alla Francia. Era l’aprile del 1860. LUCE A MEZZOGIORNO: LA SPEDIZIONE DEI MILLE La rete cospirativa della Sicilia, decisa a riprendere l’ iniziativa insurrezionale, si infittì grazie ai collegamenti con Mazzini e con i comitati segreti di Messina,Catania e Palermo. Francesco Crispi, un esule democratico, si incontrò a Firenze con Mazzini per definire il piano di insurrezione. Anche Vittorio Emanuele II, informato del clima, si mostrò favorevole, anche perché il movimento unitario otteneva sempre più consensi in tutti gli strati dell’opinione pubblica siciliana. Nella notte tra il 3 e 4 aprile a Palermo scoppiò l’insurrezione. Subito Crispi e Nino Bixio invitarono Garibaldi,appena eletto deputato,a guidare una spedizione in Sicilia. La sera del 5 maggio circa quaranta volontari,comandati da Nino Bixio, si impadronirono di due piroscafi nel porto di Genova con i quali si diressero alla scogliera di Quarto,dove si imbarcò Garibaldi con il grosso dei volontari. La mattina del 6 maggio la spedizione salpò per la Sicilia. (Maria Agnese Arban Alice Dalpiaz) 7.CRONISTORIA DELL'IMPRESA DEI MILLE In un capitolo centrale del suo saggio "Bella e perduta, l'Italia del Risorgimento", Lucio Villari fa una ricostruzione minuziosa della principale impresa garibaldina, che qui riassumiamo. Le ore tra il 5 e il 6 maggio 1860 sono state descritte da Garibaldi come "una notte stellata, bella, solenne", durante la quale si conclusero pian piano i preparativi della partenza da Genova. I giorni precedenti erano stati carichi di tensioni, messaggi, ordinazioni di armi che sarebbero servite per la spedizione. Ci sono Nino Bixio, Crispi, La Masa, Carini, e i famigliari, gli amici, salutano coloro che stanno per imbarcarsi. Garibaldi sale sul piroscafo chiamato Piemonte, Bixio sul Lombardo, e tutti partono alla volta della Sicilia. Tra coloro che erano a bordo, c'erano quarantacinque siciliani, novecento lombardi, veneti, liguri, toscani; professionisti e intellettuali, ma anche operai ed artigiani. La mattina del sette maggio le navi approdano a Talamone, dove esiste un presidio militare; Garibaldi fa scorta di armi, polvere, piombo, viveri. Tra i "Mille" c'è Callimaco Zambianchi, il quale avrebbe poi suscitato rivolte nello Stato pontificio, per distogliere l'attenzione dalle navi garibaldine. Degli informatori avevano però già reso nota la notizia; uno di questi era Alessandro Amero d'Aste, il quale teneva Cavour al corrente riguardo a tutto ciò che accadeva nell'isola siciliana. Lì erano frequenti cortei spontanei con acclamazioni a Vittorio Emanuele II. Persino durante la Messa, i Palermitani gridavano frasi in onore dell'Italia e di Vittorio Emanuele II. Il 7 maggio, Cavour telegrafa al capitano Amero d'Aste la notizia che Garibaldi e i suoi "proseliti" sono partiti, ma che non doveva fare nulla per ostacolarlo. Questa era la tattica di Cavour per sorvegliare i suoi movimenti. La presenza delle navi di Garibaldi nei vari porti d'Italia creano timore nelle autorità e, ad esempio, l'ambasciatore del Regno delle Due Sicilie, scrive a Cavour preoccupato riguardo a ciò che sta accadendo, e per chiedergli quali provvedimenti avrebbe preso. L'11 maggio le coste siciliane sono in vista per la "flotta" garibaldina; Garibaldi decide di sbarcare a Marsala, e a mezzogiorno le due navi entrano in porto. Le truppe borboniche hanno intanto lasciato la città, però tornano indietro, mentre i garibaldini sbarcano sul molo. Aprono il fuoco; in quell'istante però ci sono anche due piroscafi inglesi nel porto, e sono apparse delle bandiere inglesi alle finestre. La presenza nelle acque siciliane di navi inglesi proteggerà tutto il corso degli avvenimenti legati alla spedizione. Durante i venti giorni tra lo sbarco a Marsala e la liberazione di Palermo, Garibaldi crea un esercito di 25.000 uomini(tra contadini, aristocratici, preti liberali, monaci e monache), utilizzando la propria intelligenza tattica e abilità diplomatica. Garibaldi viene paragonato a Cristo perchè anch'egli porta giustizia e amore tra le persone. Dopo lo sbarco in Sicilia, cerca di far nascere negli abitanti l'impulso alla lotta e di avere la loro legittimazione politica dell'impresa dei Mille. La mattina del 12 riprende la marcia, con l'ordine di inoltrarsi all'interno dell'isola puntando verso Palermo, rispettando sempre e comunque i civili ed i loro beni. Garibaldi giunge con i "picciotti" a Salemi il 13 maggio, accolto dalla popolazione in festa: proclama di assumere la dittatura(intesa come magistratura degli stati eccezionali) della Sicilia in nome dell'Italia e di Vittorio Emanuele II, avendo così il permesso di esercitare i pieni poteri civili e militari per oltre quattro mesi. Il 15 maggio all'alba si riprende il cammino verso Calatafimi, dove sono concentrati i borbonici guidati dal generale Francesco Landi, schierati sulla collina detta Pianto dei Romani, opposta a quella che occupano i garibaldini. Questi vengono immediatamente attaccati dai nemici; Garibaldi ordina il contrattacco e riesce a farli allontanare, e a conquistare le terrazze mentre le armi sparano in continuazione, e quando sono finite le munizioni, vengono lanciate delle pietre. I garibaldini vincono dopo sei ore di combattimento, il primo combattimento, riportando trenta caduti e centocinquanta feriti. Centinaia di insorti siciliani continuano ad unirsi alle "camicie rosse", man mano che queste attraversano Alcamo, Partinico, Borsetto. Il 21 maggio, a poca distanza da Monreale, le truppe borboniche scatenano un attacco, avendo ottenuto 3.000 uomini guidati dal colonnello svizzero Luca von Mechel. Dello stesso numero di combattenti è aumentato anche l'esercito garibaldino. Garibaldi a quel punto finge di ritirarsi all'interno dell'isola portando con se' l'esercito nemico: giunto alle vicinanze di Corleone, ordina ai carriaggi e una squadra di volontari di continuare per quella via, mentre egli torna sui propri passi, si unisce ai siciliani di La Masa e piomba di sorpresa su Palermo a Porta Termini il 27 maggio. La battaglia per la conquista dura tre giorni. Il generale Ferdinando Lanza, comandante della piazza, invita Garibaldi, il 30 maggio, ad un incontro sulla nave inglese Hannibal, mediatore l'ammiraglio Mundy, e si concorda la fine delle ostilità. Il 2 giugno Garibaldi forma un governo con sei ministeri; il 6, Lanza accetta la capitolazione, con l'impegno che entro il 19 l'intera guarnigione avrebbe lasciato Palermo. Da quel momento la stampa internazionale inizia a pubblicare corrispondenze e cronache dalla Sicilia. Il dittatore e i suoi collaboratori si sono insediati nel palazzo reale, e giungono persone a chiedergli aiuto, portando anche dei doni per il loro eroe. Garibaldi è visto come un uomo politico di originale statura, e le monache dei conventi palermitani di clausura sono "santamente invaghite" di quest'uomo. In Inghilterra ed in Francia l'opinione pubblica è ben disposta verso Garibaldi, e questi Paesi vogliono inviargli soccorsi e denaro. Cavour è abbastanza confuso riguardo questa evoluzione politica in Sicilia, e si chiede che soluzione ci sarebbe potuta essere per questa vicenda che non aveva precedenti. Ad un certo punto invia in Sicilia Giuseppe La Farina perchè acceleri l'annessione dell'isola al Piemonte, e convinca il dittatore a modificare il proprio governo escludendo Crispi e le sue idee "socialiste". Il 17 luglio La Farina viene prelevato da agenti della nuova polizia palermitana ed espulso dalla Sicilia. Numerosi aiuti continuano a giungere dall'Europa e da altre parti d'Italia. Poichè giungono ingenti somme di denaro, viene organizzata l'Intendenza garibaldina, una specie di ministero delle Finanze, la cui responsabilità è affidata ad Ippolito Nievo. Mazzini durante questo periodo cerca di fronteggiare e neutralizzare le pressioni moderate del governo di Torino, e di raccogliere aiuti per Garibaldi. A Napoli il re Francesco II ha accolto l'invito del Piemonte di concedere la Costituzione, visto che la caduta di Palermo si è ripercossa anche lì. Negli ambienti della corte tuttavia si parla di tradimento dei generali in Sicilia, e di complotti interni. Alla fine di giugno il re crea un governo costituzionale presieduto da Antonio Spinelli con Liborio Romano come ministro dell'Interno. Resta intanto da conquistare il resto della Sicilia, da Palermo a Messina, dove si è concentrata la maggior parte dell'esercito borbonico, forte di 22.000 uomini. Lo scontro avviene nei pressi di Milazzo il 20 luglio. Ci sono numerosi morti e feriti, circa ottocento, tra i garibaldini, e meno tra i nemici, circa centocinquanta; i borbonici decidono di ripiegare su Messina e rinchiudersi nella Cittadella. Garibaldi ritiene ormai libera la strada per lo sbarco in Calabria, l'avanzata su Napoli e su Roma. I contadini poveri che abitano nella Sicilia orientale si sono rivoltati ferocemente contro i "baroni", perchè vedono in Garibaldi la figura tanto attesa del Salvatore che può liberarli dalla "servitù" a cui sono sottoposti; bisogna accelerare i tempi della liberazione politica del Mezzogiorno. Su questa situazione agiscono due iniziative parallele ma divergenti l'una dall'altra: la prima di Vittorio Emanuele II che il 27 luglio invita Garibaldi a fermarsi. Questo "declina l'invito"(anni dopo si scoprì che il re aveva allegato alla lettera un bigliettino col quale lo pregava di rispondere negativamente alla sua offerta). L'altra iniziativa è di Cavour, il quale vuole creare trambusto suscitando a Napoli un movimento costituzionale e popolare per rovesciare il governo di Francesco II, cosicché sarebbe stato possibile stabilire un governo liberale napoletano che avrebbe potuto neutralizzare il programma unitario e rivoluzionario di Garibaldi. Obbiettivo di Cavour è impedire manovre democratiche e repubblicane e un inevitabile attacco allo Stato pontificio. Varcare lo Stretto di Messina ed occupare la piazzaforte di Reggio è per Garibaldi la seconda tappa della marcia verso Napoli; non è possibile attaccare Reggio direttamente, poichè ben difesa. Così Garibaldi e 3.000 camicie rosse scelgono il percorso più lungo: si imbarcano sui vapori Torino e Franklin nella notte tra il 19 e 20 agosto dalla rada di Giardini, sotto Taormina. Puntano su Melito Porto Salvo, a sud di Reggio, dove sono attesi da comitati e insorti liberali pronti all'azione. Le navi borboniche si accorgono troppo tardi di ciò che è accaduto: incendiano il Torino, ma lo sbarco in Calabria si rivela un autentico successo. Gran parte della popolazione si mobilita per aiutare i garibaldini. In Calabria stazionano più di 20.000 soldati borbonici, che pattugliano ogni zona. Nella notte tra il 20 e 21 agosto i volontari si mettono in cammino. Quando "attaccano" Reggio, i cittadini collaborano con le camicie rosse, ed appena questi penetrano nelle stradine, dal castello si comincia a fare fuoco. Dopo quasi otto ore di scontri, il castello issa la bandiera bianca. Il 24 agosto il dittatore nomina Antonino Plautino governatore di Reggio; egli per prima cosa destituisce tutte le autorità e magistrati della città. I generali borbonici iniziano la ritirata dopo aver firmato la resa in una casa di campagna sopra Villa San Giovanni. Lasciate indietro le sue truppe, divenute ora "Esercito meridionale", Garibaldi raggiunge Salerno, poi Cava dei Tirreni, e da qui, con quattordici suoi aiutanti, ufficiali e collaboratori, il 7 settembre, sale su un treno che lo porta a Napoli. Francesco II e la regina Maria Sofia hanno lasciato il 6 settembre la capitale via mare per Gaeta, sotto la protezione francese. A Gaeta il re vuole preparare la controffensiva. Il 7 settembre Cavour ottiene il benestare di Napoleone III, ma non quello di Pio IX, per intervenire in difesa preventiva di un eventuale sconfinamento dei garibaldini. L'arrivo di Garibaldi viene intanto festeggiato dai napoletani. L'esercito piemontese varca i confini dello Stato pontificio il 18 settembre, ed occupa le Marche, l'Umbria, e costringe Ancona alla resa. Viene promosso un plebiscito che sanziona l'annessione di queste regioni al regno di Vittorio Emanuele II, il 29 settembre 1860. L'1 e il 2 ottobre sanciscono la fine del regno napoletano. L'esercito borbonico, con 50.000 uomini, si batte strenuamente e nella località di Caiazzo costringe i garibaldini a ritirarsi, ma i 30.000 soldati dell'Esercito meridionale hanno la meglio e la vittoria è completa e decisiva. Garibaldi instaura a Napoli un nuovo governo e continua ad esercitare il potere dittatoriale fino ad ottobre. In Sicilia ha lasciato come prodittatore Agostino Depretis, il quale però è favorevole all'annessione dell'isola al Piemonte, e poiché le sue idee sono d'accordo con quelle di Cavour, ma non con quelle di Garibaldi, si dimette. Il clima continua a surriscaldarsi. Garibaldi non è contro l'annessione, però vuole prima portare a compimento la liberazione di Roma dal potere temporale. La Russia, l'Austria e la Prussia rompono le relazioni diplomatiche col Piemonte, preoccupate per la piega troppo democratica degli avvenimenti. Il 29 settembre Vittorio Emanuele II prende il comando delle truppe sarde ed entra in Abruzzo puntando su Napoli. Garibaldi chiede al re di mandare soldati a Napoli, così da far sembrare agli occhi stranieri il suo governo meno pericoloso, visto che rappresenta una rivoluzione in atto. Cavour ha il timore che si ribalti tutto il delicato quadro europeo a favore della "questione italiana" e che si creino le condizioni per un intervento straniero in Italia. Di qui l'urgenza di convocare comizi elettorali e procedere con i plebisciti. Mazzini, Cattaneo, e Crispi, fanno un ultimo tentativo di abbinare i plebisciti alla convocazione dell'Assemblea Costituente, ma falliscono. Cavour vuole ormai costituzionalizzare la rivoluzione di Garibaldi e legittimarne il successo con i plebisciti. Essi alla fine si svolgono il 21 ottobre. I sì sono 432.000, i no 667, in Sicilia; mentre nella parte continentale i sì sono 302.000 ed i no 10.312. Il 26 ottobre Garibaldi e il re si incontrano nei pressi di Teano e Garibaldi lo saluta "re d'Italia"; il 7 novembre il re ed il dittatore sfilano insieme a Napoli tra la folla festante. L'avventura è finita; si imbarca col figlio e alcuni collaboratori dal molo di Santa Lucia verso Caprera. Il 7 gennaio 1861 il principe Eugenio di Savoia viene nominato luogotenente del re per le province napoletane e sceglie come ministri Liborio Romano e figure prestigiose del liberalismo meridionale. Il 27 gennaio si svolgono le elezioni per il nuovo Parlamento italiano, la cui sede resta a Torino. Salgono i candidati liberali e moderati. Cavour sta dando a questo Stato maggiore autorità culturale e dignità istituzionale sottraendolo alle interferenze della Chiesa. Rispetto a Cavour, Garibaldi ha un senso della nazione. L'Italia è abitata da 26 milioni di persone e i suoi rappresentanti sono stati eletti da 500.000 votanti. Ottanta seggi sono andati ai candidati del Parito d'Azione, sostenuto da Mazzini, tra cui Garibaldi, Bixio, De Sanctis, Bertani, Crispi. Cavour invia a Giuseppe Verdi una lettera per invitarlo a far parte del Parlamento italiano, e questo accetta l'invito. L'inaugurazione del nuovo Parlamento viene fissata per il 18 febbraio e il giorno dopo vi è la prma seduta della Camera dei deputati. Il 17 marzo Vittorio Emanuele II viene proclamato re d'Italia. Il nuovo Stato comprende gran parte del territorio nazionale; rimangono ancora fuori il Veneto e lo Stato pontificio. Cavour cerca in tutti i modi di far capire a quest'ultimo che la difesa del potere temporale rappresenta la negazione di un'effettiva indipendenza e libertà della Chiesa di fronte allo Stato. Bisogna che Roma diventi la capitale d'Italia; solo così finirebbe il potere della Chiesa. Egli vuole un'Italia laica ed unita. Muore il 6 giugno. Si apre un decennio carico di enormi problemi da risolvere, di questioni che esplodono, come l'unificazione da realizzare nelle istituzioni, negli apparati ammanistrativi dello Stato, nelle strutture economiche, nel senso di appartenenza degli italiani ad una patria comune. (Veronica Maggi) 8. LA REPRESSIONE DEL BRIGANTAGGIO Nel suo recente saggio storico dedicato all’unità d’Italia e intitolato “La forza del destino”lo storico Christopher Duggon dedica un capitolo ai problemi del nuovo Stato, soprattutto legati alle differenze marcate in campo economico, ma anche sociale e politico, tra le diverse aree del Paese. Pontelandolfo, 14 agosto 1861 Come sosteneva Massimo d’Azeglio la cosa più difficile in Italia nel periodo immediatamente successivo alla tanto desiderata unità era riunire “volontà e cuori divisi”. Per spiegare il senso di queste parole prendo ad esempio quello che accadde nel piccolo borgo di Pontelandolfo, non facile da raggiungere, nelle vicinanze di Napoli: una sorta di enclave pontificia posta sotto il governo dell’arcivescovo locale. La popolazione era costituita da contadini a parte una ristretta cerchia di ricchi proprietari terrieri che ovviamente dominavano la vita politica ed economica della comunità, facilmente distinguibili dal resto della popolazione. La situazione non era facile per i normali braccianti ed era ulteriormente peggiorata nel 1806 quando le terre comuni vennero recintate, la pressione demografica gravava sulle risorse locali, mantenendo bassi i salari. Dal momento che buona parte dei lavoratori della terra aveva un lavoro solo per un ristretto periodo dell’anno o proprio non ne aveva uno e non possedeva nemmeno un proprio podere e animali da cui ricavare cibo, era molto diffusa la pratica del furto. Inoltre la mortalità aveva un tasso particolarmente alto e le condizioni igieniche erano pessime, perciò ogni minimo onere finanziario costituiva un grosso guaio. Tuttavia queste privazioni materiali erano controbilanciate da un vigoroso patriottismo locale, che avrebbe reso difficile per gli abitanti di Pontelandolfo sviluppare un attaccamento parallelo a una più ampia entità geografica quale l’Italia. Tale paesino aveva infatti una articolata percezione del suo passato, per lo più raccontato oralmente in poemi epici e canzoni. Poiché la sua storia constava di continue invasioni e distruzioni, quando nel 1860 arrivò l’esercito garibaldino con a seguito i piemontesi, era naturale che prevalesse un senso di scetticismo verso questi liberatori, e per il loro presentarsi come portatori di prosperità, giustizia e libertà. Infatti nel rapporto con i nuovi venuti oltre le differenze culturali, anche la lingua rappresentava un grosso ostacolo: il dialetto locale era per i soldati spediti a presidiare la provincia di Benevento e per i forestieri in generale incomprensibile. Per altro l’analfabetismo era molto diffuso tra i poveri, sotto l’influenza esclusiva di preti e galantuomini del posto o delle voci raccolte nei paesi limitrofi. La violenza e l’assassinio erano parte integrante del tessuto di vita quotidiana e così i legami tra briganti e abitanti del posto, il più delle volte voluti dai ricchi che se ne servivano per tenere a bada la popolazione in cambio di cibo e protezione: tutto ciò era qualcosa di incomprensibile per i piemontesi. Nemmeno la religione era fonte di un punto di unità: nel meridione vigevano ancora culti pagani superstiziosi e pratiche stregonesche, percepiti come sciocchi dagli uomini del nord Italia e dallo stesso prete di Pontelandolfo, don De Gregorio, il quale tuttavia chiudeva un occhio su tale questione. In una sera di agosto del 1861, durante la festa cittadina di San Donato, patrono del luogo, giunsero una quarantina di banditi, guidati da Cosimo Giordano, un ex soldato borbonico, e furono accolti a braccia aperte, visto che i rapporti con le autorità erano tesi a partire dalla fine del 1860, perché “Italia” significava oltre alla coscrizione obbligatoria, anche tasse più elevate e l’ira della Chiesa cattolica, per l’usurpazione infinita da parte dello Stato italiano. A peggiorare le cose c'era stata inoltre la definitiva privatizzazione delle terre un tempo comuni, visto che ormai i galantuomini locali erano divenuti rappresentanti del governo di Torino, nonostante il fatto alcuni di loro fossero stati in precedenza sostenitori dei Borbone. Ad ogni modo quella sera gli abitanti di Pontelandolfo devastarono la sede della Guardia Nazionale e tutto ciò che c’era di piemontese o del nuovo Regno Italiano. distrussero anche i registri delle nascite, in modo da non rendere possibile la coscrizione al nuovo Stato. Dei bersaglieri che furono inviati per sedare la rivolta, caddero in un’imboscata e ne furono uccisi quarantuno, forse proprio ad opera di fittavoli di Iacobelli, impegnato con molta probabilità in un subdolo doppio gioco. Fu proprio costui infatti ad avvertire il comandante militare e responsabile per l’Italia meridionale della rivolta, pregandolo affinché giungesse a infliggere ai suoi barbarici compaesani un trattamento esemplare; e così accadde. Vennero uccisi uomini, donne, anziani e bambini indiscriminatamente. Le case furono prima saccheggiate da parte dei soldati e poi bruciate. Nei mesi successivi coloro che erano riusciti a sfuggire al massacro vennero catturati e in buona parte processati, ma non Giordano che emigrò a Marsiglia. Questo è solo un esempio della “guerra al brigantaggio”, fenomeno molto diffuso nel Mezzogiorno: solo Giuseppe Ferrari ebbe il coraggio di riferire alle Camere la crudeltà con cui i soldati massacravano le popolazioni accusate di favorire i briganti, ma ciò veniva considerato antipatriottico e dannoso per il fragile status della nuova Italia, in quanto appariva come l’ammissione di una guerra civile. Ferrari fu zittito. I disordini dei primi anni post unitari erano classificati sotto “criminalità in atto comune”: così fu estremamente difficile distinguere atti di brigantaggio da vere e proprie rivolte di massa. Questa situazione convinse molti settentrionali che ciò che avevano di fronte fosse non tanto una popolazione politicamente arretrata, quanto un popolo a un diverso stadio della civiltà: si ingigantirono in questo modo i preconcetti, l’intolleranza, allargando l’abisso di incomprensione tra nord e sud. Dietro a queste considerazioni stava una miscela di tornaconto e paura: tornaconto perché così l’imposizione della Costituzione piemontese, delle loro leggi e del loro sistema amministrativo appariva pienamente giustificata, in quanto bisognava riportare al passo coi tempi le regioni arretrate del Meridione; paura perché l’arretratezza e il brigantaggio, se non arginati con durezza, rischiavano di diffondersi in tutta l’Italia, mettendone a rischio l’unità. Dunque il sud veniva considerato come una malattia, una piaga, per la quale era difficile trovare una cura: secondo i democratici e Cavour era necessario dare a questa terra, sottomessa a secoli di governo oppressivo e straniero, un governo libero e liberale; tuttavia si imposero scelte autoritarie nel governo del Paese soprattutto a causa del senso di profonda insicurezza “che a partire dal 1860 s’impadronì dei leader del paese e che fece sì che queste idee apparissero utopistiche, tanto che c’erano elementi per ritenere che l’agitazione nel Mezzogiorno fosse sobillata da agenti dei Borboni deposti e dal clero”. Inoltre si temeva per una seconda “spedizione dei mille” verso Roma. Per tali motivi a prevalere erano l’uso della forza e la repressione. L’aspirazione all’unità e a un’unica patria da amare che prima aveva mobilitato molti patrioti italiani ora era sopraffatta da un sentimento di rabbia e delusione a causa appunto di questa difficile situazione, fonte di imbarazzo per i governi dell’epoca. Nel 1862 fu varata un’inchiesta parlamentare per studiare le ragioni del brigantaggio: ci si concentrò soprattutto sulle condizioni socioeconomiche del Meridione, tralasciando in gran parte la questione del diffuso rifiuto del nuovo assetto politico come motivo dei disordini. Ma la cosa più grave fu che si fece di tutto affinché le risultanze dell’inchiesta rimanessero segrete. Un altro problema era l’ostilità dell’esercito a qualunque intrusione dell’autorità civile nella sua sfera, senza contare che non rendeva conto del suo operato al Parlamento, col risultato che non si indagò mai sulle dimensioni e sulla crudeltà di operazioni come quella di Pontelandolfo, accadute perché i soldati si sentivano frustrati per essere considerati ostili e guardavano alle popolazioni meridionali solo come una “razza di briganti”. IL PIEMONTE CONTRO L’ITALIA Una volta unificato il territorio italiano sotto quello che un tempo era lo Stato piemontese, si doveva provvedere a realizzare una unità “morale”, ma ciò non era facile, dal momento che i governanti del nuovo paese erano soprattutto piemontesi. Di questo problema si faceva portatore Francesco De Sanctis, di origine napoletana, figura dominatrice nella vita culturale italiana degli anni Sessanta e Settanta. Circondato da rispetto e ammirazione, venne nominato ministro dell’istruzione nel 1861. Il suo sogno era insegnare agli italiani ad essere liberi: la libertà era una condizione morale acquistabile solo tramite educazione paziente dell’intelletto e delle emozioni; implicava l’apprendere il rispetto della legge, lo sviluppo di un senso dei doveri verso lo Stato, il nutrire sentimenti di simpatia e considerazione verso tutti i compatrioti, la partecipazione attiva alla vita politica della nazione. La vera libertà era la spontanea identificazione con una collettività più ampia, quella italiana, scrollata delle vecchie fedeltà municipali e regionali. Ma ciò non era facile da realizzarsi, poiché questa convinzione presupponeva che la nazione fosse una sintesi di tutte le parti che la componevano, mentre ciò che si stava realizzando era l’imposizione delle leggi e dell’amministrazione di un singolo Stato al resto del paese. Infatti a causa dei continui disordini quali il fenomeno del brigantaggio o le rivolte dei contadini si dovette rinunciare all’originario progetto della decentralizzazione, ossia la devoluzione dei poteri dal centro alla periferia, e adottare il progetto inverso, cioè la centralizzazione e il trapianto in tutta l’Italia delle leggi e delle istituzioni piemontesi, senza considerare le potenzialità e le specificità delle altre regioni italiane. Tale processo incominciò nel 1860 per poi velocizzarsi nel 1861, causando problemi enormi, in quanto per esempio la Sicilia non era abituata alla coscrizione militare obbligatoria e ciò creava senza dubbio malcontento; inoltre molte botteghe, officine, fabbriche del sud sopravvivevano grazie a dazi doganali, e ora che erano stati abbassati queste piccole imprese locali si trovavano a dover affrontare un periodo di crisi, che il più delle volte portò alla loro chiusura, aumentando così in divario già evidente tra nord e sud. Un’ ulteriore ragione di scontento era l’atteggiamento dello stesso re, il quale si era rifiutato di cambiare il suo nome da Vittorio Emanuele II a Vittorio Emanuele I, perché primo re del Regno italiano e non più re di un Regno di Sardegna che aveva inglobato gran parte dei territori italiani. Ad irritare era anche la formula con cui si dovevano firmare i documenti ufficiali: “ per grazia di Dio e volontà della Nazione, re d’Italia”. Come si può notare la prima parte contraddice seccamente la seconda, e mette in questione lo status giuridico delle votazioni plebiscitarie. Il re per i primi decenni post unitari si rifiutò anche di cambiare le sue abitudini di vita allo scopo di dedicarsi ai suoi doveri politici e a viaggiare per il paese al fine di conoscere i nuovi sudditi e di farsi conoscere da loro. Figura molto apprezzata invece era Garibaldi con il suo esercito di volontari, a cui il governo di Torino però guardava come una minaccia, forse per la sua popolarità, particolarmente elevata nei territori meridionali, in cui gente lo considerava quasi una divinità, ma non trascurabile neanche all’estero, come in Gran Bretagna, dove molti pamphlet celebravano le sue imprese. Ma Vittorio Emanuele e Cavour non vollero riconoscere a Garibaldi il contributo che aveva dato alla creazione dello stato italiano con la sua spedizione in meridione: egli infatti aveva poi consegnato al Piemonte i territori che era riuscito a conquistare. Questa intolleranza nei confronti di tutti ciò che rappresentava una sorta di opposizione al sistema governativo e amministrativo piemontese o una minaccia alla nuova unità sotto le ali dello Stato dei Savoia si prolungò anche in campo militare: una volta che il servizio di leva obbligatorio fu esteso a tutte le regioni italiane, gli uomini che avevano servito sotto i comandanti borbonici o pontifici furono trattati con profonda diffidenza e furono oggetti di “discriminazione”. Fatti prigionieri a migliaia, vennero spediti in penitenziari dove molti di essi morirono. Gli ufficiali invece venivano inglobati nel neonato esercito italiano, tuttavia al solo scopo di togliere al popolo dei potenziali capi rivoluzionari; anche essi erano però trattati in maniera molto severa. Una diffidenza ancora maggiore colpì i volontari che avevano combattuto con Garibaldi. Il PARLAMENTO Il nuovo Regno d’Italia era una monarchia parlamentare e nel 1860 Cavour indisse le elezioni e, come da lui atteso, ottenne una solida maggioranza, questo anche perché il diritto di voto era esteso solo a chi pagava almeno quaranta lire di imposte all’anno, aveva una laurea o una qualificazione professionale e aveva più di 25 anni. Quindi circa 1 maschio su 10. Questi provvedimenti erano stati presi affinché il paese fosse governato da uomini in grado di farsi un giudizio informato e indipendente sulle questioni politiche. Ma per la verità molti degli elettori tendevano ad appoggiare il governo di quella che diventerà poi la Destra storica in attesa di vantaggi materiali. Ad ogni modo Cavour era una figura politica molto abile e carismatica, ma nonostante questo non mancavano le opposizioni ideologiche, dimostrate dal fatto che nel 1861, di coloro aventi il diritto di voto, aveva votato solo il 57%. Un altro problema per il Parlamento era che esso non occupava un posto di spicco nel contesto della “nazione”: di fatto la lotta per l’unificazione e l’indipendenza era stata concepita come liberazione del paese dall’oppressione straniera, ma la libertà non doveva essere conquistata dal Parlamento o per il Parlamento, bensì con sacrificio personale, cospirazione, insurrezione. Inoltre questa istituzione tendeva a richiamare alla mente la discordia, la debolezza e la divisione. Infatti i Comuni medioevali, governati appunto da una sorta di forma parlamentare, sì avevano consentito un grado eccezionale di democrazia, ma avevano favorito le lotte di fazione, le guerre intestine. Ciò che i patrioti del Risorgimento invece desideravano era la concordia e non confidavano nel fatto che ci fosse una leadership nel parlamento in grado di garantirla. Paradossalmente anche la tradizione letteraria e retorica italiana costituiva un grosso ostacolo per il Parlamento: la predilezione per la retorica era sfociata in una scissione del pensiero dall’azione, quindi spesso si preferiva fare uno di quei discorsi pomposi e persuasivi anziché esporre la mera verità. L’ultimo intralcio era il fatto che essendo il Parlamento un’istituzione di natura rappresentativa, esso non poteva che rispecchiare un popolo, che però non mostrava di essere coeso. Così la tendenza dei deputati parlamentari era piuttosto quella di raggrupparsi secondo linee regionali e guardare al Parlamento solo come uno strumento per salvaguardare gli interessi locali, familiari, degli amici e dei parenti. Per lo stesso motivo quella che, in esso, doveva essere l’opposizione, in realtà non si fece sentire più di tanto. Tutti questi fattori portarono alla delusione anche in quei patrioti che avevano riposto fiducia nel Parlamento come elemento decisivo nel processo di educazione della nazione. (Marta Mazzocut) 2. I PROTAGONISTI 1.GARIBALDI. L’INVENZIONE DI UN EROE Secondo Lucy Riall, Garibaldi rappresenta il trionfo della concezione “mazziniana” dell’unità di pensiero e di azione: la sua fama è il prodotto congiunto di un’elaborazione culturale e di imprese militari. Egli, infatti, realizza una connessione fra la nazione intesa come identità culturale e il nazionalismo come movimento politico rivoluzionario, come un eroe letterario, Garibaldi è virile e attraente, affascinante con i suoi capelli lunghi e gli abiti al vento. Ma, soprattutto, egli è un soldato, un eroe militare che apre la strada al “giorno glorioso” in cui l’Italia risorgerà a nuova vita. Come gli eroi immaginari o storici dei romanzi e dei dipinti risorgimentali, Garibaldi incarna l’idea romantica di nazione, e fa parte di una comunità fraterna, di liberi e uguali. Garibaldi rende sempre onore ai caduti e ai feriti della legione, ridimensionando il proprio contributo ed esaltando le virtù religiose e romantiche dei martiri. La sua legione simboleggia un nuovo ideale politico, quello della fraternità e del sacrificio, derivante dal “giacobinismo” e dalla Rivoluzione francese. In quasi tutte le descrizioni compare il contrasto fra gli squallidi insulti, scagliati contro Garibaldi e la sua unità militare dagli stranieri e dai nemici dell’Italia, e la diversa realtà rivelata dai patrioti italiani e dai giornalisti onesti. Queste accuse servono a mettere in ulteriore rilievo la magnifica e vera storia di quella schiera di soldati. Fra i primi del 1846 e la fine del 1847, Garibaldi divenne un simbolo della “nuova” Italia, un’Italia risorgente. In altre parole, divenne un “segno”, oltre che un’ “esistenza vissuta”; la sua vita diventò importante per ciò che poteva simboleggiare e per l’immaginazione che era in grado di suscitare. Particolarmente rilevante è forse l’assai riuscita combinazione fra rettitudine morale e coraggio, qualità personali che erano a loro volta identificate con un concetto generale di italianità idealizzata. Bisogna inoltre considerare quanto le sue idee e la sua immagine furono forgiate dalle esperienze vissute lontano dall’Italia; la conoscenza che egli aveva del socialismo francese e della politica sud-americana, furono altrettanto importanti, per la sua formazione, come gli incontri con i “mazziniani”. RIVOLUZIONE In Italia, Garibaldi giocò un ruolo decisivo in virtù dei suoi successi militari, e in modo particolare della sua vittoria contro i francesi del 30 aprile 1849. In questo modo veniva messa in risalto l’importanza dell’apporto dei volontari per la riuscita delle rivoluzioni italiane; sebbene nel 1848-49 i volontari venissero guardati con sospetto dall’esercito piemontese, il loro giovanile entusiasmo rappresentò un importante contributo alla lotta nazionale. Nel 1849, inoltre, in occasione sia della battaglia per la Repubblica Romana sia nella difesa delle altre città, i volontari ebbero una seconda opportunità, dalla quale seppero trarre grande vantaggio. Da questo punto di vista, la sconfitta finale della Repubblica Romana potè sembrare meno importante dell’esempio che un esercito di giovani volontari aveva dato della resistenza valorosa e della sconfitta onorevole. Così la formazione di milizie volontarie è sembrata poter offrire una soluzione al duplice problema della debolezza militare e dell’apatia del popolo che aveva afflitto il partito “mazziniano” fin dalla nascita del movimento nei primi anni ‘30. Il messaggio di redenzione nazionale si è rivelato quindi del tutto convincente proprio per il fatto di essere vero, di scaturire dalle azioni di uomini in carne ed ossa piuttosto che dall’immaginazione degli scrittori. Nel corso degli eventi di quel biennio, Garibaldi rappresentò un punto di raccordo visibile e concreto fra l’immagine dell’Italia proposta dai romantici e l’ideale di impegno politico sostenuto da Mazzini. Nel 1848/49 si rivelò estremamente utile il fatto che così tanti mazziniani, compreso Garibaldi, avessero una notevole esperienza nell’azione di propaganda. In effetti, agli occhi dello storico del ventunesimo secolo, ciò che appare più rilevante, non sono tanto gli atti di valore militare quanto il moto di crescente interesse che essi suscitarono nei mezzi di informazione. L’“esplosione del giornalismo” in Europa, fra il 1847 e il 1848, fu un chiaro sintomo dei cambiamenti politici in corso e di una crescente partecipazione popolare. Nel 1849, poi, fu grande l’attenzione dedicato a Garibaldi dalla stampa straniera tanto da conferirgli una reputazione a livello internazionale, nella doppia veste di idolo dal potere seduttivo e di pericoloso “filibustiere”. In quel periodo appare chiaramente che, come simbolo politico, Garibaldi si colloca decisamente al di fuori di ogni consuetudine comunemente accettata. In veste di soldato, ad esempio, appare e si comporta più come un bandito che come un ufficiale. Come icona nazionale, non è né giacobino né napoleonico; nella sua figura si rileva solo un accenno alla bellezza e alla dignità dei modelli classici. In altre parole, Garibaldi è una figura intensamente romantica, ribelle, indipendente ed emotiva piuttosto che austera, conformista e autoritaria. In termini politici, egli rappresenta un ideale decisamente democratico e aperto alla partecipazione, cerca di proporsi come l‟incarnazione delle aspirazioni popolari e appare più come un membro della comunità e della nazione che come un grande uomo, isolato e capace di grandi gesta. L’eccezionale talento che i democratici avevano mostrato nel fare propaganda a se stessi non fu affiancato da un’analoga capacità di organizzare e di coordinare la loro azione politica. Nel 1948/49 il fronte rivoluzionario vide delinearsi delle divisioni e furono proprio queste tensioni e questa mancanza di coordinamento a determinare la sconfitta poiché ciò portò a una carenza di iniziative pratiche in grado di consolidare la rivoluzione. Tuttavia queste tensioni avrebbero potuto risultare meno gravi se non si fossero prolungate e irrigidite, influenzando a loro volta il pensiero e l’azione dei democratici nel decennio che fece seguito alla conclusione della rivoluzione. A Garibaldi la rivoluzione lasciò un ricordo amaro, un senso di frustrazione e, dopo la morte di sua moglie, un profondo dolore personale. Per gli stessi protagonisti della vicenda e soprattutto per i “mazziniani”, la memoria della rivoluzione fu un’importante fonte di divisione e quindi essi sembrarono meno capaci di mantenere alto quel messaggio di fraternità che con tanto successo avevano promosso. Il più duro e persistente contraccolpo di questo insuccesso fu il riemergere, al centro della storia nazionale italiana, dei più tradizionali temi della morte, della decadenza e del tradimento. IN ESILIO A Bologna, il 5 agosto, le Autorità Austriache emanarono un proclama secondo il quale si sarebbe proceduto in base al “giudizio statuario militare” contro “chiunque scientemente avesse aiutato, ricoverato o favorito il profugo Garibaldi, o altro individuo della banda da lui condotta o comandata”. Garibaldi arrivò dunque a Chiavari dove provocò un notevole subbuglio; il suo arresto venne ordinato quasi immediatamente dal Gen. Alfonso La Marmora, Commissario Reale a Genova, sulla base dell’accusa pretestuosa, secondo la quale avrebbe fatto ingresso nel paese illegalmente. Mentre era agli arresti, Garibaldi rifiutò il denaro offertogli dal governo Piemontese limitandosi a chiedere aiuto per sua madre e i bambini guadagnandosi così la simpatia dei funzionari governativi che rimasero colpiti anche dal suo buon senso e dalla sua franchezza. Le lettere di Garibaldi durante gli arresti rivelano che la sua principale preoccupazione, più che la politica, erano le ristrettezze finanziarie, soprattutto per mantenere la famiglia; per risolvere queste sue esigenze, tornato in libertà, emigrò a New York per procurarsi un’imbarcazione e guadagnarsi da vivere come marinaio mercantile. L’arrivo di Garibaldi a New York venne annunciato già prima che avvenisse; si può quindi dire che l’accoglienza preparata per lui si inseriva in una particolare tradizione politica americana. Più specificamente, i politici statunitensi furono ben contenti di poter sfruttare le rivoluzioni europee del 1848/49 per scopi politici interni. Nell’Aprile del 1851 Garibaldi lasciò New York per l’America centrale e per due anni non si ebbero sue notizie. Nel Novembre 1953 tornò in Europa: forse il fatto che il Governo Piemontese avesse dato da intendere che egli sarebbe stato benvenuto in Patria, a patto di rinunciare a svolgere qualsiasi attività politica, lo convinse ad imbarcarsi ancora una volta come marinaio mercantile, stavolta in veste di Capitano di una nave che doveva portare un carico a Londra e a Genova. Nonostante che la sconfitta delle rivoluzioni avesse dimostrato la capacità di reazione del conservatorismo a livello internazionale, a metà degli anni Cinquanta la coalizione di forze che aveva sostenuto i conservatori nel biennio rivoluzionario era entrata in crisi. L’Austria subì un duro colpo al proprio prestigio internazionale in conseguenza alla guerra di Crimea (185456). La sua debolezza avrebbe potuto rivelarsi meno grave se i regimi conservatori italiani fossero riusciti a trovare una propria stabilità e ad acquistare consensi, ma all’indomani della rivoluzione i governanti italiani commisero l’errore di spostarsi ulteriormente a destra. Nel corso degli anni Cinquanta, Ferdinando II di Napoli ignorò l’evidente esigenza di riforme, anche nei settori cruciali delle finanze e dell’amministrazione, reintrodusse la censura sulla stampa e respinse ogni compromesso. A Roma Pio IX si schierò contro il liberalismo e si dedicò prevalentemente alla definizione dei dogmi del cattolicesimo, lasciando le questioni politiche nelle mani del cardinale Giacomo Antonelli, le cui tendenze nepotistiche e il gusto per la ricchezza e i lusso alimentarono una serie di accuse contro la corruzione della Curia. Dopo la guerra di Crimea e il mutamento delle relazioni internazionali a svantaggio dell’Austria cresce la condanna internazionale dei loro regimi italiani. Notevole rilievo assunse poi nel febbraio del 1856 la decisione del ministro britannico Lord Clarendon di sollevare la questione italiana al Congresso di Parigi, criticando sia il papa che i Borboni ed esprimendo simpatia per le aspirazioni nazionali italiane. Nel decennio seguente si delineò una straordinaria trasformazione del Regno piemontese; dopo il 1852, con Camillo Benso di Cavour, il governo costituzionale venne rafforzato, il potere della Chiesa ridimensionato e l’economia piemontese rivoluzionata con una serie di misure che introdussero la libertà di commercio e migliorarono le infrastrutture finanziarie e il sistema dei trasporti. Per la prima volta nella penisola italiana esisteva una vera alternativa vincente sia al conservatorismo che alla rivoluzione. In questo periodo Cavour e il suo partito sottrassero l’iniziativa politica e ideologica sia ai democratici che ai reazionari piemontesi. Egli gettò il movimento democratico piemontese in una crisi dalla quale esso non si sarebbe mai del tutto ripreso. Gran parte dei moderati, compreso Cavour, non condividevano inizialmente la causa nazionale italiana, essi erano anti-austriaci e, in generale, puntavano all’espansione del potere e dell’influenza del Piemonte. A metà degli anni Cinquanta si verificarono importanti cambiamenti: vi fu una straordinaria impennata dell’immigrazione politica, soprattutto in città come Torino e Genova, che contribuì a fare del Piemonte il nucleo di un reinventato nazionalismo italiano; ne trasse vantaggio Cavour che estese il suo controllo sulla politica piemontese, soprattutto dopo la fine della guerra di Crimea nel 1856. Nello stesso periodo diventarono più consistenti le critiche nei confronti di Mazzini, anche fra i suoi stessi sostenitori. Rimasero a lui fedeli i vari Aurelio Saffi, Filippo De Boni e Francesco Crispi mentre, tra i tanti, si dissociarono Jacopo Ruffini, Felice Orsini, Antonio Mordini ed il poeta satirico Giuseppe Giusti. Anche Garibaldi, all’atto di lasciare gli Stati Uniti per la seconda volta nel 1954, aveva lasciato intendere di essere scettico sull’effettiva utilità dei metodi e delle tattiche messe in atto da Mazzini e, rientrato in Italia, rifiutò di continuare a collaborare con lui. Tra il 1856 e il 1859 si delineò il fallimento del mazzinianesimo e Garibaldi si alleò ufficialmente con Cavour che successivamente promosse un incontro con Vittorio Emanuele II: ne nacque quindi una fiducia e simpatia reciproca. Nonostante tale amicizia con il governo piemontese, Garibaldi non rinunciò mai all’idea di compiere spedizioni rivoluzionarie rimanendo convinto che una rivoluzione potesse consentire un riscatto a livello nazionale secondo la visione religiosa che Mazzini aveva di “nazione”. Tuttavia, alleandosi con la monarchia piemontese, a una tradizione politica essenzialmente pragmatica e per molti aspetti conservatrice, e a Cavour che era il più opportunista tra i politici, la Società Nazionale non solo confinò la rivoluzione a un ruolo secondario, ma la spogliò anche della sua <vitalità> morale. Lo scopo supremo dell’unità finì per oscurare ogni altra divisione politica e le altre questioni ancora irrisolte. Inoltre il coinvolgimento di Garibaldi provocò tutta una serie di equivoci, malintesi e tradimenti. Anche in termini pratici, il suo atteggiamento poteva essere causa di difficoltà. Infatti, nonostante la sua precedente reputazione di uomo d’azione, in gran parte della sua azione politica degli anni Cinquanta si può rilevare una strana passività e una mancanza di reale iniziativa. Per diversi anni Garibaldi intervenne in modo sporadico e irregolare. In effetti, dopo l’acquisto di Caprera, egli prese l’abitudine di comparire all’improvviso sulla scena politica per poi ritirarsi nuovamente sull’isola. Si può quindi dire che continuò a vivere in una strana sorta di “auto-esilio” anche dopo essere tornato in patria. IL CANONE GARIBALDINO I mutamenti che investirono la penisola italiana nel corso degli anni Cinquanta e nel periodo successivo non furono semplicemente il risultato di eventi di “alta politica”. L’esito della guerra di Crimea, l’isolamento internazionale dell’Austria e i conflitti fra e all’interno dei gruppi politici in Italia possono contribuire a spiegare il rilievo sempre maggiore assunto dalla questione italiana agli occhi della diplomazia europea. Uno dei più importanti sviluppi politici di questo decennio fu l’affermarsi, sia in Italia che a livello internazionale, di un’opinione pubblica liberale che non solo guardava con favore al nazionalismo italiano, ma era appassionatamente coinvolta dalla questione del futuro dell’Italia. Il nazionalismo dipendeva dalla cultura stampata; senza l‟espansione della parola e dell’immagine scritta, sarebbe stato impossibile per le complesse società moderne “dare forma” a un concetto di comunità e di appartenenza nazionale. Garibaldi rappresentò e sostenne un movimento politicamente radicale, ma la diffusione della sua fama fu un sintomo della democratizzazione della cultura politica, un segno dell’ingresso di una società “non rispettabile” nella sfera pubblica, che si portava dietro nuove regole e nuove risposte. Il suo fascino fu confezionato per venire incontro a quelli che apparivano i gusti e le esigenze di questa nascente cultura politica, ed egli stesso operò per crearla. Coloro che si impegnarono a diffonderne l’immagine provenivano in parte da ambiti esterni all’èlites tradizionali. La popolarità di Garibaldi rifletteva anche una lotta per il controllo della sfera pubblica; essa contribuì al rafforzamento delle tematiche nazionali, ma né Garibaldi, né il nazionalismo italiano furono amati da tutti e la fama dell’eroe riuscì a mascherare solo in parte le profonde divergenze tra prospettive politiche rivali rispetto alla questione nazionale. UNA GUERRA MEDIATICA Il conflitto italiano del 1859 fu l'evento più rilevante dell'anno che coinvolse il pubblico tramite i nuovi mezzi di comunicazione come la fotografia e soprattutto il telegrafo, grazie ai quali era possibile rispondere all'enorme domanda di informazioni rivolta ai giornali. Per quanto riguarda il telegrafo, esso assumeva un ruolo cruciale, un esempio fu la compagnia Reuter che trasmise le notizie delle battaglie e i dispacci di Napoleone, fornendo infatti regolarmente copie dei documenti ai direttori dei giornali. Ai tempi non esisteva il diritto d'autore: ciò rendeva possibile la scrittura di più articoli basati sugli stessi materiali. L'occhio pubblico era fisso sull'Italia, in particolare sulla battaglia di Solferino, della quale scrisse anche il Times riportando in prima pagina pure la cartina del campo di battaglia. Ai primi del 1860 si cominciò ad utilizzare anche la stampa a colori per le foto e i supplementi relativi alle battaglie. Il pubblico europeo e americano era interessato alla guerra, tanto che c'erano pure alcuni turisti stranieri nei pressi dei campi di battaglia. Il livello di coinvolgimento della gente comune era talmente alto da alimentare il mercato di souvenir sulla guerra, volto a commemorare le battaglie. Lucy Riall, mette in evidenza il fatto che fu assai notevole la reazione dell'opinione pubblica all'attività di Garibaldi e alle guerre d'indipendenza italiane. Quest'entusiasmo per il famoso generale si diffuse in tutta Europa e anche negli Stati Uniti, fatto confermato dall'enorme consenso che ottennero poi le innumerevoli pubblicazioni su di lui. In queste ultime , il radicalismo garibaldino tendeva ad essere sfumato o svuotato del suo significato politico. Ma non c’era solo entusiasmo, è necessario mostrare anche l’altro lato della medaglia, in quanto molti giornali non erano a favore della guerra e dei suoi effetti disastrosi. Anche nella Francia di Napoleone III si andavano creando dissensi, nonostante il controllo imposto del governo sulla stampa. Nacque in queste condizioni una guerra di opuscoli pubblicati da destra e sinistra, in conflitto riguardo alla linea che avrebbe dovuto essere seguita in Italia. Inoltre le questione italiana creò in Francia un distacco vero e proprio tra Chiesa e Regime. Per esigenze di politica interna, la guerra agli occhi dei francesi veniva presentata come un'esperienza positiva e patriottica, che rappresentò per i giornali e le riviste un'occasione di guadagno, ma anche di rinnovamento di quest'ultimi tramite supplementi, illustrazioni e altri materiali visivi. Per rimarcare il favore che il pubblico dava alla guerra furono pubblicati una serie di canti di guerra, alcuni corredati anche da spartiti per pianoforte. L'accompagnamento dei resoconti della guerra formato da illustrazioni, foto, cartine, litografie, scene di battaglia, fu alla base della nascita di album molto costosi e illustrati, che incontrarono il favore del pubblico. IL GENERALE Garibaldi, nonostante la sua abilità nel presentare di se un'immagine pittoresca e nel catturare l'attenzione di tutti, non fu il dominatore incontrastato dei resoconti della guerra del 1859, in fondo per la stampa non clericale era un rivoluzionario e nemico della Francia, quindi si andava creando la tendenza a depoliticizzarlo, presentandolo semplicemente come eroe buono, fedele, disciplinato e pieno di coraggio. Si tendeva per lo più a lasciare nell'ombra il suo passato da repubblicano, mettendo in evidenzia le sue qualità di gentiluomo e l'aspetto d'ufficiale, ma nonostante tutto, gli echi del suo passato non convenzionale sopravvivevano. Si fece notevole sforzo per collocarlo in un Pantheon ideale di generali e rispettabili capi nazionali, ad esempio gli veniva riservato un posto vicino Cavour e Napoleone III. Gli unici accenni a Garibaldi “il bandito” servirono a ricordare ai lettori che gli austriaci lo trattavano come tale, prova di quanto essi fossero prevenuti e malintenzionati. Molta attenzione c'era anche nel presentare i volontari come gruppo di uomini rispettabili, il meglio che l'Italia poteva offrire. Secondo l'opinione comune Garibaldi era in grado d'attirare i giovani nel servizio militare, anche quelli delle classi più elevate. Questa fu una prova dell'eccezionale carisma di Garibaldi. Egli era di certo una persona affabile e piacevole, calma, forte, intelligente, di bell'aspetto, ma mai prepotente, dai modi schietti, ma allo stesso tempo signorili, passionale e determinato, ma controllato, calcolatore. UNA VITA IMMAGINARIA Durante la guerra del 1859, giornalisti e scrittori fecero a gara nel produrre biografie e di fatto ognuna di esse doveva contenere un racconto diverso della vita di Garibaldi. Molti giornali famosi , come il New York times o il Journal pour tous, dedicarono a Garibaldi una biografia. In generale queste biografie erano composte da opuscoli a basso prezzo ed erano stati pubblicati in tutta fretta. Ogni biografia presentava la propria versione della vita di Garibaldi, ma comunque tutte prendevano spunto da una base comune di conoscenze. La maggior parte di esse conteneva il ritratto dell'eroe (sempre in uniforme militare), quasi sempre affiancato da un richiamo all'Italia (ad esempio il tricolore) e spesso concedeva ampio spazio allo stretto rapporto tra vita marinara e la sua natura passionale. Nonostante ciò, tutte le biografie tendevano all'iperbole e alla miticizzazione del personaggio guerriero e invincibile. Gran parte del materiale da cui traevano spunti questi scritti era pura invenzione, che dava al tutto un taglio fortemente romanzato. La prima gioventù a Nizza e le avventure in Sud America poi, offrivano l'opportunità di inserire nel racconto elementi fantastici. Gli episodi inventati venivano ripresi a loro volta da altri scrittori, creando una rete intricata di eventi mai accaduti realmente. L'elemento realmente nuovo delle biografie di quegli anni non era la finzione, ma l'estrema libertà inventiva ed espressiva degli autori e il ridimensionamento del vero contenuto politico. In Gran Bretagna l'entusiasmo per Garibaldi si manifestò anche con altri mezzi: le rappresentazioni teatrali (“Garibaldi's Englishman”, ad esempio, era una satira sul personaggio politico divenuto poi celebre). La caratteristica principale del processo di mitizzazione di Garibaldi fu la libertà con cui vennero mescolati insieme fatti reali ed episodi inventati, soprattutto riguardo alla vicende sentimentali, con Anita ad esempio. Tutte queste memorie sono un esempio di come venne ricreata la vita di Garibaldi da storia in storia e di come l'atmosfera fosse di stile scandalistico: si narra spesso di omicidi, seduzione e soprattutto mistero. Particolarmente interessante è la continua promessa di dire la verità su Garibaldi, anche se essa non verrà mai del tutto rispettata. Il rifiuto delle consuete distinzioni fra realtà e finzione era del resto un tratto caratteristico della cultura romantica dell'Ottocento. Un effetto comune prodotto dalle biografia era che il fascino personale di Garibaldi diventò subito più importante delle tematiche politiche. L'aspetto politico, proprio per questo motivo, sembra ridursi all'impegno per liberare l'Italia dall'oppressione austriaca. Quindi tali biografie tendevano a depoliticizzare Garibaldi, rimuovendo il suo passato repubblicano. Molti vedevano in lui un rivoluzionario ma in alcune iconografie, Garibaldi era associato ad un'estetica banditesca e ad un passato medievale. Tuttavia è da ricordare che esisteva allora una censura, per cui appare quindi assai improbabile che gli scrittori avessero deciso deliberatamente di dare una tale immagine a Garibaldi. La guerra del 1859 ebbe fondamentale importanza secondo Lucy Riall per dar vita al cosi detto “culto di Garibaldi” e fu una componente essenziale per la costruzione del mito del “risorgimento” italiano. Garibaldi era il simbolo di tutto ciò che c'era da ammirare nella lotta per l'indipendenza italiana e avvicinava un po' tutti all'idea di nazione che andava creandosi. Sulla popolarità di Garibaldi non c'è il minimo dubbio, essa è confermata dalla quantità inverosimile di scritti sulla sua persona, segno di come si stava creando una comunità di lettori liberale e cosmopolita di carattere internazionale. Questo culto non coinvolse solo gli uomini; molte biografie erano scritte da donne e alcune di esse erano esplicitamente dedicate ad un pubblico femminile. Grazie a queste opere si può verificare l'esistenza di tale pubblico, ovviamente interessato più agli aspetti patetici che ai fatti storici. Di Garibaldi insomma c'erano due versioni: quella reale e quella immaginaria. Il suo grande successo non fu privo di problemi. Dal punto di vista politico, la sua posizione non era affatto chiara, molti volevano oscurarne addirittura il mito che diventava via via sempre più eclettico e ambiguo. Nel Garibaldi immaginario è possibile osservare come egli si muovesse in modo autonomo e con rispetto attorno ai politici. Tutta la sua fama e il suo successo diventavano infatti un problema per le autorità piemontesi che non riuscirono ad ostacolarle. Nel 1859, Garibaldi cadde in errore fidandosi troppo di Cavour, ma non per questo si può dire che egli fosse politicamente incapace: egli aveva infatti una naturale abilità politica, come dimostrano i discorsi in pubblico, a volta troppo enfatici, ma politicamente efficaci. Egli comprese immediatamente i vantaggi legati a questa sua vita immaginaria e si preoccupò subito a proteggerla. I MILLE MIRACOLO A MARSALA La spedizione che salpò da Quarto verso la Sicilia era male equipaggiata e aveva pochi uomini, dal momento che il governo piemontese aveva confiscato I fucili e Garibaldi era dovuto partire in fretta. Partirono il 5 maggio e fecero tappa a Talamone (Toscana) per entrare in possesso in alcuni fucili Enfield e di munizioni assortite. I volontari riuscirono ad ottenere anche due cannoni e altri pezzi d'artiglieria di scarso valore. Il motto della spedizione era “l'Italia e Vittorio Emanuele” e i volontari vennero divisi subito in sette compagnie; fu nominato uno stato maggiore comprendente Bixio, Crispi e il colonnello ungherese Türr. In quei giorni fallì il tentativo di invasione dello Stato Pontificio. Dopo Talomone, i volontari s'imbarcarono per la Sicilia. Qui, grazie alla mancanza delle truppe borboniche, che avevano precedentemente lasciato la città, i Mille riuscirono senza troppi problemi a sbarcare a Marsala, immediatamente bloccarono il collegamento telegrafico con Trapani e convinsero i consiglieri comunali a riconoscere Garibaldi, in qualità di rappresentante di Vittorio Emanuele, dittatore della città. Molti dei Mille venivano dal Nord e in generale non vennero accolti cordialmente in città, solo quelli siciliani poterono comunicare con la gente dell'isola. In questa spedizione si mischiarono audacia politica, buona sorte e impreparazione militare. Dopo Marsala, fu la volta delle colline di Salemi il 13 maggio; qui i Mille provocarono un gran subbuglio, mentre Garibaldi si proclamò ancora dittatore della città. Il dittatore istituì la leva militare dai 17 ai 50 anni; egli stava cercando di creare un esercito eterogeneo per attaccare i Borboni e liberare la Sicilia. Il 15 maggio i garibaldini si mossero verso le truppe borboniche che aspettavano a Calatafimi. Qui i volontari riuscirono ad attraversare la collina nonostante l'inferiorità militare e la disorganizzazione, e riuscirono anche a disperdere i Borboni tra le campagne. Questa vittoria dette alla spedizione una spinta enorme e un'aura di successo, pure molti siciliani decisero a questo punto di schierarsi con i volontari. Garibaldi puntò allora a Palermo, allestendo l'accampamento sull'altopiano di Renda. Con uno stratagemma, quello di inviare feriti e bagagli a sud, fece credere ai Borboni che stava organizzando la ritirata. Poi con le stesse scarpe logore e distrutti dalla fatica e dalla pioggia, i volontari assieme a Garibaldi entrarono a Misilmeri, qui si unirono nuove forze arruolate da un generale di Garibaldi, Giuseppe La Masa. Il 26 da Gibilrossa progettarono d'attaccare Palermo. Il 27 notte, sorpresero le truppe borboniche attaccando la città. Seguirono tre giorni di combattimenti per strada, finché il 30 maggio il governo borbonico chiese una tregua. Si firmò un armistizio che durò fino al 6 giugno. I Borboni ritirarono le truppe, Garibaldi e i volontari vinsero. La buona sorte fu d'aiuto a Garibaldi, in quanto l'esercito nemico era anche attaccato da una crisi finanziaria. Nel 1859, morì Ferdinando II, al quale successe il giovane Francesco; il governo era debole, l'esercito per far fronte a Garibaldi lasciò le province dove scoppiarono poi rivolte, il numero dei criminali aumentò e i funzionari pubblici e la polizia abbandonarono i loro posti, interrompendo le comunicazioni furono interrotte e le banche assaltate. Nella primavera del 1860 nel regno Borbone ci fu un collasso dei poteri statali e Garibaldi ne approfittò. Audace per natura poi Garibaldi sfruttò al massimo l'alleanze dei siciliani, come La Masa, Pilo e Corrao. La conquista di Palermo fu un trionfo dovuto alla strategia militare e alla conoscenza dei luoghi. Garibaldi si dimostrò coraggioso, determinato e sprezzante del pericolo, intimorendo e demoralizzando i nemici. I PROBLEMI DEL GOVERNO Alla base dell'organizzazione del nuovo governo occorreva una strategia e una pianificazione. Crispi fu fondamentale. Egli era segretario di stato: stabilì la necessità di governatori in ognuno dei ventiquattro distretti della Sicilia, abolì la tassa sul macinato, istituì tribunali militari e decretò la pena di morte per reati di furto, saccheggio e omicidio. Fece riforme di stampo popolare, istituì un governo civile, fece un programma dei lavori pubblici ed ordinò l'espulsione dei Gesuiti, reprimendo le loro ricchezze e terre. Il decreto della riforma agraria rimase inattuato e ciò scatenò rivolte e malcontenti, e ciò andava di pari passo con l'aumento dei reati penali. La leva divenì un metodo per combattere il banditismo. Per mantenere il controllo sulle campagne, l'esercito era sempre più costretto alla repressione. Non erano chiare, a questo punto, le intenzioni di Cavour che sembrava preoccuparsi del mazziniano Crispi e del tentativo di unificare l'Italia partendo dal Meridione. Cavour voleva avere il controllo sulla Sicilia e usò La Farina per ottenere i suoi scopi. Crispi sia per le sue idee separiste e sia per la rudezza del comportamento, fu costretto a dimettersi. Successivamente anche La Farina fu espulso dall'isola. Questi conflitti -Crispi contro La Farina- erano lo specchio dei conflitti interni all'isola. Nel 1860 gli esponenti siciliani non si misero d'accordo sull'annessione al Piemonte o sull'autonomia, ad esempio. C'erano gruppi molto divisi anche al loro interno e che spesso entravano in contrasto. DA PALERMO A NAPOLI Ciò che non fu mai messo in dubbio era lo spirito antiborbonico di Garibaldi e di Crispi. Alcune organizzazioni fin dall'inizio cominciarono a reclutare volontari per la Sicilia, anche Cavour contribuì molto. Fu inviata una nave guidata da Giacomo Medici con molti più uomini e armi. Più tardi partì un'altra spedizione con il comandante Enrico Cosenza. Furono mandati altri aiuti e altri uomini. Dopo Palermo l'attenzione si spostò a Messina e sulle campagne. Le truppe furono divise in tre gruppi, comandati da Medici, Bigio e Türr. Medici si scontrò a Milazzo con i borbonici, era il 20 luglio 1860. La battaglia fu vinta dai garibaldini. Importanza particolare spetta all'aiutante di Garibaldi, Missori. Messina si arrese senza neanche combattere, così Garibaldi continuò il suo viaggio verso la Calabria senza problemi. La Calabria era assediata a quel tempo dai Borboni. Il 22 agosto, Garibaldi e Cosenz, presero Reggio Calabria e il 26 raggiunsero la truppa di Medici, fermatasi a Nicotera. Catanzaro si schierò con i volontari. Garibaldi cominciò l'esplorazione spostandosi molto velocemente. Il 29 raggiunge gli uomini del generale Ghio e requisì i ciuchi e i carri dell'area. Dopo un periodo abbastanza notevole d'esplorazione (andò infatti a Cosenza, Sapri, Monti Cilento e Casalnuovo), il 6 settembre giunse a Salerno dove fu accolto da folle entusiaste. Garibaldi giunse due giorni prima delle sue truppe. I Borboni, scoraggiati, temevano Garibaldi. Il 7 settembre egli entrò a Napoli senza incontrare opposizioni, arrivando in treno da Salerno, anzi fu accolto da una grande folla entusiasta, che festeggiò per i due giorni successivi. L’UNITA’ Dopo Napoli, Garibaldi spostò l'attenzione su Roma. Seppe che l'esercito piemontese era entrato nello Stato pontificio, secondo il piano di Cavour. Garibaldi entrò pubblicamente in contrasto con Cavour, che s'allarmò sempre più dalla presenza dei mazziniani e dello stesso Mazzini a Napoli. I Borboni si prepararono in linea di difesa lungo il fiume Volturno (erano circa 50000) con l'intento di riconquistare Napoli. Il loro generale, Ritucci, decise d'attaccare l'esercito garibaldino a Caiazzo. Vinse l'esercito di Garibaldi, grazie alla sua presenza di spirito. Garibaldi si convinse che l'unica via per l'unificazione era venire a patti con Torino. Acconsentì a indire un plebiscito sulla questione: con questa decisione Garibaldi era consapevole di dare i propri poteri a Vittorio Emanuele. Il 21 ottobre 1860 fu la data dei plebisciti. Oltre il 99% votò per il sì all'annessione della Sicilia al Piemonte e quindi sì all'unificazione dell'Italia, anche se non fu un voto del tutto libero. Dopo il voto Garibaldi restò a Napoli tre settimane, fino a che il 25 ottobre non incontrò il re a Teano. Garibaldi chiese di diventare viceré, ma la richiesta fu negata dal re. Successivamente il re propose a Garibaldi di diventare generale dell'esercito piemontese, ma l'offerta fu rifiutata. Non erano più in buoni rapporti come prima della spedizione. A Palermo in piazza Marina era stato eretto un enorme monumento a Garibaldi. L'Italia ufficialmente unita nel febbraio seguente, con Vittorio Emanuele II come Re e Torino come capitale; Venezia e Roma erano ancora sotto gli oppressori stranieri. Il 1860 fu l'anno mirabilis del Risorgimento. Le imprese di Garibaldi portarono al collasso il regno delle due Sicilie e all'unificazione politica dell'Italia. Garibaldi seppe sfruttare la crisi che c'era nel Meridione e l'atteggiamento benevolo del governo britannico. Comunque dette prova di un grande talento militare, per la capacità d'improvvisare e di agire di sorpresa. Si rivelò abile nel presentare la rivoluzione in maniera positiva. Ottenne meno successi nei negoziati politici, era infatti insofferente alle discussioni sull'annessione. Egli si ritirò a Caprera, in una specie d'esilio in patria. Così la spedizione per l'unificazione di fatto si concluse con un compromesso politico che non soddisfaceva nessuno. NASCITA DEGLI EROI ITALIANI I provvedimenti economici e sociali vennero affrontati da un forte appello alle emozioni della gente e da una credibilità alimentata da feste e cerimonie pubbliche. Garibaldi e il suo governo fecero continui sforzi per non offendere la Chiesa, dato che senza il sostegno di essa si sarebbe potuto realizzare ben poco. Garibaldi durante tutto il corso della campagna, fece riferimenti ai Vespri e all'orgoglio dei siciliani, egli esortava le donne a mandare i figli in guerra. I discorsi di Garibaldi seguivano una formula canonica e avevano come scopo sia convincere gli uomini ad arruolarsi sia convincere le donne a fornire aiuto materiale e morale alla campagna garibaldina. Insolita è l'attenzione che rivolgeva Garibaldi ai preti. Chi non si univa alle truppe era ritenuto codardo. Nel 1860 Garibaldi, ormai eroe, veniva accolto spesso nelle città da cerimonie pubbliche. Spesso nei suoi discorsi in pubblico, Garibaldi era in grado di ricorrere a espressioni tratte dal gergo religioso per avvicinarsi maggiormente alla popolazione. Quest'ultima lo innalzava fin a divinità. L'assimilazione del culto di Garibaldi ai culti religiosi era stata creata dall'alto. Egli riceveva benedizioni e aveva posto d'onore in alcune celebrazioni. Nel corso della sua campagna, Garibaldi ebbe la massima cura d'osservare i culti del luogo, accettando quindi anche il potere della Chiesa. Aveva una personalità amichevole e disponibile nei confronti dei suoi sostenitori. La sua figura era un miscuglio tra l'autorità rituale e la rilassata intimità del capo democratico e proprio grazie a questo mix ebbe un tale successo. Il giorno del suo compleanno, il 19 luglio a Palermo, anche se in periodo di crisi, divenne una celebrazione pubblica. Tutti erano in festa fin dal primo mattino e in città avevano appeso delle tele con raffigurate alcune scene della campagna di Garibaldi. Successivamente si svolsero in tutta la città parate e processioni. Lo stesso giorno fu festa anche a Marsala. Queste celebrazioni sembravano un esempio di come si costituisse una nazione dal basso e avevano comunque scopo di far sorgere un senso di appartenenza nazionale. Questo tipo di celebrazioni non erano nuove, in quanto erano già state utilizzate dai Borboni, ma erano piene di simbolismo tradizionale e religioso e quindi molto apprezzate dal popolo. Anche durante l'estate del 1860 ci furono cerimonie pubbliche di questo tipo per cercare di fissare una narrazione ufficiale degli eventi di quell'anno. Il simbolo del regno borbonico era il castello di Castellamare che fu demolito durante una cerimonia pubblica. Si organizzarono funerali pubblici per coloro che avevano combattuto per la patria (il più grandioso fu quello di Rosalino Pilo, amico di Crispi). I sostenitori di Garibaldi controllavano anche la stampa che aveva il dovere di mettere in risalto la figura di Garibaldi. Tutte queste celebrazioni rappresentano un significativo tentativo di rendere sacra la nazione e di trasformare l'agire politico in oggetto di culto religioso. Qui si può capire come il concetto di “religione politica” di Mazzini trovò realizzazione sul piano pratico ancor prima dell'Unità; in queste cerimonie si prestò grande attenzione a non offendere la Chiesa. IL MITO DEI MILLE La “dittatura” di Garibaldi dedicò grande cura all'opera di autopromozione, non solo mirata al Meridione, ma anche al Settentrione e all'ambito internazionale. Una buona opinione pubblica facilitava la riuscita della campagna, che era stata vista fin dall'inizio come un punto di partenza per un attacco allo Stato pontificio. Garibaldi scrisse alcune lettere che oltre che incitare gli italiani alla collaborazione, avevano lo scopo di giustificare l'insurrezione e quindi la spedizione diventava un eroico tentativo messo in atto per l'Italia in nome del Re. Facendo pubblicare queste lettere sui giornali, Garibaldi sperava di convincere i giovani che leggevano notizie sui Mille, ad unirsi a lui. Oltre che nella pubblicità dei giornali, Garibaldi faceva affidamento sull'intento propagandistico nato nel Settentrione tramite poesie, discorsi e iniziative celebrative. Tra i Mille poi c'erano molti poeti, scrittori e pittori, e quindi ci si affidava alla loro esperienza personale per darne senso di immediatezza e intimità agli eventi politici, tramite l'intensità politica delle opere. Nella stampa democratica la spedizione di Garibaldi veniva rappresentata come un'ideale famiglia italiana e un modello di coinvolgimento democratico. Tutte le fonti epistolari sembrano testimoniare l'esistenza di un generale consenso riguardo all'opera di costruzione e promozione di una “storia dei Mille” come narrazione esemplare del Risorgimento. Il vero centro dell'attenzione restava Garibaldi, che dava notorietà. GIORNALISTI E PUBBLICO DI LETTORI La benevolenza della stampa fu fondamentale per contrastare qualsiasi critica venisse rivolta al suo operato. Si deve sempre tener conto che all'inizio l'esercito garibaldino aveva rubato due navi e aveva attaccato uno stato riconosciuto internazionalmente. Il governo borbonico potè denunciarlo, seguito da gran parte dell'Europa legittimista. Per questi motivi, il generale non ebbe un'ottima fama fin da subito. Poi quando cominciò a vincere le battaglie ottenne pian piano il favore della stampa, anche di quella estera. Per la stampa internazionale non c'erano dubbi: il 1860 era l'anno di Garibaldi. Garibaldi era soggetto ad una vera e propria mania, sostenuto dalla stampa e caratterizzato da un massiccio interesse. I nazionalisti di ogni tendenza politica fecero a gara nel celebrare ciò che era stato realizzato. Più in generale la stampa moderata seguì i democratici nell'elevarne il rivoluzionario al rango di un nuovo santo nazionale. In questo coinvolgimento massiccio della stampa non c'era nulla di casuale. Garibaldi cercò sempre di ingraziarsi I giornalisti, in particolare, egli li invitava ad unirsi alla campagna per poi raccontarla dall'interno. Era molto amico di Dumas, romanziere e giornalista e di Eber, ufficiale inglese, che voleva scrivere di lui. Tutti I giornalisti rimanevano colpiti dalla sua ospitalità e gentilezza. Ed è soprattutto dalla stampa straniera che si nota la tendenza a dipingere la campagna di Garibaldi come un'avventura. Mentre la guerra del 1859 era stata raccontata come una normale vicenda bellica, gli eventi del 1860 vennero descritti come una rivoluzione. Attraverso la pubblicazione di ritratti, I giornali illustrati stranieri contribuirono anche a fare dei protagonisti della rivoluzione delle celebrità politiche. Nel complesso, si può dire che I tentativi di convincere I giornalisti che la rivoluzione nell'Italia meridionale rappresentava un eroico atto di giustizia ebbero successo. La stampa, soprattutto quella illustrata, preferì evitare I temi politici, preferendo alleggerire le questioni. LE VITE DI GARIBALDI Tutta la pubblicità assicurata dalla stampa a Garibaldi fu accompagnata da nuove storie e biografie sull'eroe. Dopo il 1860 uscì una quantità enorme di storie sui Mille e la loro campagna tutte diverse per quantità e qualità. Oltre alla storia dei Mille gli scrittori ora avevano a disposizione le memorie di Garibaldi. Dumas scrisse una versione già a giugno che ebbe grande successo per la velocità in cui venne stampata e tradotta delle altre lingue. Alcune biografie erano pure stampate a colori con un largo uso della bandiera italiana. Anche all'estero esisteva un mercato pronto per le biografie e le storie sulla campagna garibaldina. Le biografie e I racconti delle spedizioni miravano a vendere la figura di Garibaldi a un pubblico il più ampio possibile. In genere il materiale era piuttosto economico e di facile accesso per la maggior parte delle persone. Tutta questa produzione differente permetteva alla gente di scegliere cosa leggere e a quale livello informarsi, se da lettere dei volontari o biografie, poesie o canti, ecc. La storia di Garibaldi nel 1860 è interessante di per sè e anche per l'ampiezza e per le diverse forme di diffusione. Esistono diverse memorie dei Mille e delle vicende che ne scaturirono. I volontari miravano a rovesciare un intero regno difeso da un potente esercito, per far prevalere nell'Italia del futuro la propria prospettiva democratica. Il governo di Garibaldi dedicò molto tempo ed energia a farsi conoscere e a rendere popolare l'idea di “Italia”. Nel Sud fu promosso un vero e proprio culto alla sua persona. Garibaldi aveva l'ostilità di Cavour, e ciò non sorprende. Cavour era infatti ostile alla rivoluzione perché avrebbe significato mettere in discussione il potere dei moderati sulla politica italiana. Ma Cavour riuscì solo temporaneamente a controllare Garibaldi e a neutralizzare la minaccia rappresentata dalla spinta nazionale italiana, quando si rese conto che quella spinta non poteva essere arrestata, agì nelle vesti di difensore dell'Italia. Per controllare l'unificazione nazionale ormai inevitabile, ne diventò l'architetto. Garibaldi, pur essendo uscito vittorioso sul piano militare, venne sconfitto su quello politico. L'impresa tramite tutti I racconti che si fecero sembrò un'avventura popolare e moralmente giustificata, destinata ad un esito glorioso se solo gli italiani si fossero uniti ad essa. Nel 1860 l'impresa di Garibaldi aveva assunto un sapore romanzesco, alimentato dai vari racconti. Garibaldi aveva come scopo quello di promuovere, sostenere e giustificarne un processo di violento e rapido mutamento di regime. Il momento di Garibaldi. Il 1860 fu il momento di Garibaldi. Nonostante l'anno fosse cominciato male, egli riuscì a rovesciare il regno borbonico e contribuì a costruirne un altro, ottenendo una grande notorietà. Garibaldi incontrò e promosse un ideale politico, tentarono di costruire un senso di identità nazionale. La visione di Garibaldi non era la stessa per i siciliani, i volontari e i simpatizzanti stranieri. Verso le fine della Campagna del Meridione, un comitato napoletano organizzò una sottoscrizione pubblica in onore di Garibaldi. L'idea era di offrirgli armi e denaro; egli accettò, ma ebbe scarso successo. C'era indifferenza tra I siciliani per la rivoluzione. La gente non pagava le tasse e la leva militare fallì. C'era molta ostilità e si cercò di modificare il decreto per suscitare meno malumori. L'entusiasmo dei siciliani per Garibaldi era in realtà del tutto superficiale, ci fu sempre una distanza tra I garibaldini e I siciliani. Il governo garibaldino aveva scarsa idea di come era in realtà la maggior parte dei siciliani. La mancanza di un consenso di massa contribuì a sancire la vittoria di Cavour su Garibaldi. Innanzitutto bisogna ricordare che la guerra non era tipica della Sicilia e l'esenzione del servizio era considerata un privilegio. E' vero che molti siciliani non esitarono ad entrare tra I volontari. Il problema era che questi volontari siciliani erano guardati con sospetto dai garibaldini. La politica culturale del governo garibaldino ricercava una base democratica e quindi si differenziava dalle altre forme di nazionalismo. L'idea di appartenenza nazionale legava tra loro anche quelli che spesso venivano esclusi da tutto. Ci fu un aumento della produzione dei giornali. La stampa palermitana fu solerte nel raccogliere e perseguire la proposta di fare di Garibaldi il capo di una nuova religione e di alimentare gli atti di patriottismo, esaltando la guerra e il servizio volontario, di promuovere anche le virtù del martirio e di incoraggiare il culto dei martiri locali. Tutto questo sostegno della stampa è accompagnato dalla mancanza di sostegno materiale al governo da parte dei siciliani. Nei teatri e negli spettacoli venivano messe in scena tematiche nazionalistiche, vi fu una vera e propria proliferazione poetica patriottica, miscuglio di lessici religiosi, mitologici e patriottici. E' estremamente significativo che in Sicilia la Chiesa tollerasse l'uso blasfemo del proprio lessico per promuovere una religione dell'umanità alternativa, il clero era patriottico, poiché conosceva le condizioni precarie della gente sfruttata e percepiva il bisogno di riforme sociali. Alcuni di loro condannarono pubblicamente la politica del pontefice che voleva difendere il suo potere temporale. Vi sono anche testimonianze sull'entusiasmo della monache per la rivoluzione. Fra le siciliane in generale c'erano ammiratrici di Garibaldi, c'erano comitati femminili che raccoglievano fondi per morti e feriti. Tutto questo sostegno religioso può essere difatti considerato uno dei grandi successi di Garibaldi. E' possibile che Garibaldi fosse già famoso ancor prima del suo ingresso nell'isola, poiché Pilo e Corrao gli avevano già fatto pubblicità. Il suo arrivo produsse un notevole impatto sulla cultura e sulla memoria popolare. Furono composte innumerevoli canzoni accomunate dal gusto per la guerra e per la violenza. LA NAZIONE ARMATA Uno degli aspetti più rilevanti fu la corsa dei giovani della Lombardia e dell'Italia centrale per combattere nel 1859 contro l'Austria. Ciò avvenne in un clima nazionalista. Nel 1860 la guerra di Garibaldi contro I Borboni suscitò reazioni simili tanto che ai primi del 1860 tutti I progetti erano combinati nella “nazione armata”. Il fenomeno del volontariato e dei sostegni dal Piemonte furono molto importanti, poiché per esempio I soldi provenivano da gruppi rivali diversi. La spedizione che partì da Quarto ebbe un che di romantico in quanto molti fecero di tutto per parteciparvi. L'appello ai volontari da parte di Garibaldi provocò una grande corsa per unirsi a lui, in quanto egli non si riferiva a qualcuno in particolare, ma a tutti e di tutti I mestieri. Un gran numero delle offerte arrivava da ufficiali, ufficiali a riposo, soldati e uomini che avevano già combattuto come volontari in altre guerre. Ci fu insomma un enorme successo di Garibaldi nell'Italia Settentrionale e Centrale. Nel complesso gli uomini che combatterono con Garibaldi furono ventunmila. Ci furono anche spedizioni “amiche” come quella dei Medici ( 2500 uomini). Ovunque c'erano richieste di centinaia di uomini per aiutare Garibaldi, ma molti non venivano accettati, sarebbero stati decisamente troppi. Molti si sentivano in dovere di partire per dimostrare il loro credo patriottico, il loro eroismo disinteressato, in parte vedevano la Sicilia come un'avventura violenta e in parte come una possibilità economica vantaggiosa. I volontari restavano comunque incapaci di cogliere I particolari del messaggio democratico, in quanto questi non vennero mai distinti dagli ideali simboleggiati dal Piemonte. L’ENTUSIASMO DEGLI STRANIERI L'entusiasmo degli stranieri per Garibaldi non si limitò ai drammi e alle pubblicazioni, molti espressero il loro sostegno in termini pratici con l'invio di uomini e armi . Le somme inviate dai britannici furono consistenti,furono organizzati raduni, si raccolsero fondi; si composero indirizzi a sostegno di Garibaldi. Analoghe iniziative furono organizzate pure New York da dove nel giro di due anni (1858-1860)arrivarono circa 100000 dollari. Furono fondati anche qui comitati locali, sottoscrizioni raccolte di soldi per il fondo per un milione di fucili. Note personalità americane unite in un comitato si impegnarono per fare pubblicità. Ci furono concerti e spettacoli in onore di Garibaldi. Da Gran Bretagna e Stati Uniti arrivarono anche volontari e altri aiuti materiali, navi ad esempio. In Francia c'erano delle restrizioni governative che impedivano così aperte manifestazioni di sostegno , ma i giornali più importanti riuscirono comunque a ricevere e a distribuire fondi per Garibaldi. Altri fondi furono bloccati dalla polizia. Furono dai 300 ai 500 francesi che arrivarono in Sicilia passando per Genova nonostante tutto. In molti scrissero lettere a Garibaldi, fornendo aiuti o semplicemente dimostrando ammirazione ed interesse. Molte di queste lettere avevano un tono interessante, quasi a voler proporre un clima di intimità tra che scriveva e Garibaldi. Il fatto che molte lettere conservate provenissero da Gran Bretagna e da Stati Uniti indica quanto era forte in quegli stati il consenso per Garibaldi. L'aspetto più sorprendente del consenso a Garibaldi è il suo carattere cosmopolita, infatti I volontari provenivano oltre che dall'Italia del Nord e Centrale anche da Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Ungheria, Polonia, Germania. Tutto ciò conferma il successo della campagna di Mazzini di circa 22 anni prima a favore dell'Italia e fa vedere quanto potere di influenzare le masse avessero i giornali. Resta comunque importante ricordare come egli non fosse amato dal mondo intero. Non era amato per esempio dalla destra francese. Anche in Gran Bretagna si era formato un gruppo antigaribaldino. I cattolici erano in generale contro il nazionalismo. Nell'Irlanda cattolica la campagna a favore di Garibaldi non era di certo vista in luce positiva. Nel 1860 Garibaldi non godeva in unanimi consensi ma di certo era difficile ignorarlo. In Sicilia s'era ingraziato la Chiesa e il suo governo era celebrato in vari modi , in breve tempo riuscì a comporre un esercito di volontari. Durante l'estate fu sommerso di offerte d'aiuto e espressioni d'ammirazione provenienti dall'estero. La risposta dei volontari al suo appello può essere considerata un trionfo delle idee e dei metodi di Mazzini, che si basava sulla trasformazione della guerra e della rivoluzione in eventi simbolici o comunque in mezzi che la mettevano in luce positiva. Il garibaldismo diventò un vero e proprio culto, quasi una religione per i suoi seguaci. Garibaldi riconosceva l'importanza dei legami affettivi per il funzionamento del proprio esercito, faceva appello all'emotività come base della proprio popolarità. Nel suo esercito c'era un senso di grande famiglia e di affetto per la comunità internazionale. La “dittatura” garibaldina mostra una notevole capacità di creare un appassionato sentimento di identità politica. Le reazioni a Garibaldi erano basate su una miscela di simboli autoritari e democratici. Egli aveva capacità d'essere allo stesso tempo magnifico e umile; fu questa semplicità ad ammaliare la gente. Garibaldi fu l'artefice del proprio personaggio ma il suo culto fu alimentato da spettacoli, giornali, lettere. Alcune di queste erano intrinse di emotività anche se gli scrittori non avevano mai incontrato Garibaldi e ne avevano solo sentito parlare. DOPO L’UNITA’ A CAPRERA Quando nel novembre del 1860 Garibaldi decise di ritirarsi a Caprera dalla scena politica, gettò al vento tutti I suoi sforzi. Inizialmente non se ne rese nemmeno conto del tutto. Ci tenne a ringraziare coloro che lo avevano aiutato, forse pensava di ricorrere ancora al loro aiuto. Con I suoi generali Garibaldi prospettò la creazione di cinque divisioni armate pronte per una prossima guerra contro l'Austria. Tutto lasciava intendere che Garibaldi sarebbe tornato in scena l'estate dopo con un'altra campagna per Venezia o Roma. Aveva tutte le buone ragioni per essere fiducioso di farcela; all'inizio del 1861 il suo prestigio era immenso. Nelle elezioni politiche fu eletto a Napoli, ma molte organizzazioni e città si preoccuparono di informarlo del loro sostegno. Caprera fu il centro di intensa attività: egli era circondato dalla famiglia e da vari ospiti fissi (Specchi, Carponeto, Basso che erano I suoi segretari). La sua solitudine era infranta dai visitatori. La casa a Caprera divenne parte integrante della sua fama; la sua esistenza lì divenne un elemento da mostrare al pubblico. I giornalisti approfittarono di misurare la sua vita privata e pubblica a Caprera in nuovi articoli. Il fascino iconografico della cittadina rimase intatto anche dopo. A sua volta Caprera assunse una valenza politica. Il suo stile di vita sull'isola dimostrava che eroe genuino e modesto fosse, fatto che ispirò molti scrittori. Garibaldi passò parte dell'inverno a scrivere e a rispondere alle lettere, la maggior parte delle quali proveniva dall'estero. Forse esaltati dalla prospettiva di una guerra per conquistare Roma, I protestanti britannici furono tra I corrispondenti più assidui. IN PARLAMENTO L'elevata statura del personaggio Garibaldi mascherava in realtà sviluppi politici meno positivi. Nel 1861 all'interno del movimento democratico cominciarono a prodursi divisioni. Infatti si doveva tener conto dell'estensione parlamentare all'intera penisola italiana o quasi. C'erano tre correnti: quella guidata da Antonio Mordini, che si concentrava sull'attività parlamentare; quella guidata da Francesco Crispi, che voleva restare nella legalità, pur sostenendo movimenti ed agitazioni extraparlamentari; quella più estrema, guidata da Agostino Bertoni, che mirava a promuovere la rivoluzione. Garibaldi s'avvicinava a quest'ultimo gruppo e si avvicinò pure a Mazzini. Di fatto quindi non esisteva una chiara linea politica dei democratici. Questa confusione dette a Cavour un vantaggio enorme, che mirò ad eliminare insieme a Fonti, un generale, l'esercito di Garibaldi. Pian piano di andavano sostituendo la guardie nazionali con I soldati piemontesi. Nuovi regolamenti imposero limiti alle ammissioni. L'azione contro I democratici del sud si rivelò però un errore, perchè cancellò il consenso politico. Il Re stesso notò l'entusiasmo dei volontari e temette il loro malcontento una volta sciolti. Garibaldi volle protestare tramite lettere e apparizioni in pubblico, la prima fu quella in Parlamento che suscitò l'interesse della stampa, anche perchè in quell'occasione indossò la divisa rossa garibaldina. Da quest'episodio crebbero I malcontenti e la disputa continuò poi sulla stampa e risolta in un incontro con Cavour e il Re. Il fatto che la disputa Cavour- Garibaldi avvenne in pubblico ci fa capire quanto entrambi volessero influenzare l'opinione pubblica. Questa prima incursione di Garibaldi in politica dopo l'Unità, non può essere considerata un successo. ASPROMONTE Dopo lo scontro Garibaldi tornò a Caprera. Giravano parecchie dicerie sulle sue prossime mosse, lui agì contro ogni previsione. Fece di tutto per far unire a Genova tutta la sinistra italiana in un congresso, esortandoli a concentrarsi sul problema Roma e Venezia. Allo stesso tempo Vittorio Emanuele approfittando della scomparsa di Cavour, decise di agire in modo più diretto. In questo periodo la popolarità di Garibaldi si mantenne inalterata. Fu in questa atmosfera caratterizzata da un'aspettativa popolare carica di significati politici che Garibaldi fece un viaggio in Lombardia con il patrocinio del governo, con lo scopo di promuovere nuove affiliazioni. Sfruttò come al solito la propaganda per avere uomini I soldi per la campagna per Venezia; scriveva lettere a contadini, associazioni femminili, preti, organizzazioni. Fece anche altri viaggi, ma questa ritrovata unità patriottica si interruppe all'inizio di maggio, quando gruppi sospettati furono arrestati. Garibaldi si ritirò a Caprera. Gli aventi si modificarono ulteriormente e l'uomo partì per Palermo, organizzando una spedizione per Roma, appellandosi al popolo per reclutare volontari. Partirono il 19 agosto e nonostante avessero contro lo Stato italiano riuscirono a passare lo stretto e ad arrivare a Messina. Il governo decise di intervenire con durezza; Garibaldi e le sue truppe furono bloccati infatti sui rilievi dell'Aspromonte. Il governo sospese la libertà di stampa e sciolse le società emancipatrici a Genova. Fu un disastro. Nel sud ci fu una violenta repressione militare; la vicenda gettò discredito sul governo e sul presidente del Consiglio. Garibaldi stesso ne uscì ferito ad un piede e dopo lo scontro venne arrestato e portato con la famiglia a Varignano vicino La Spezia. Qui con un operazione gli tolsero la pallottola al piede, restò in inverno in carrozzella o stampelle a Caprera. L'episodio venne ripreso dalla stampa internazionale, c'era chi lo elogiava e chi lo criticava. Nonostante la disavventura, Aspromonte assicurò una fonte di successo riguardo la propaganda per la sinistra democratica, grazie alla quale lo scontro cessò di essere considerato sconfitta per Garibaldi e assunse il carattere di un evento doloroso per la storia nazionale italiana. Garibaldi era considerato un eroe, quasi un martire e Aspromonte era la prova finale di una vita esemplare, per la sua coerenza. Rimase a Caprera per le precarie condizioni di salute, ma continuò ad avere una fitta corrispondenza. LONDRA Nella primavera del 1864 Garibaldi lasciò Caprera e si diresse in Inghilterra. Vittorio Emanuele d'Azeglio, ministro londinese, sostenne che quella visita poteva essere utilizzata per indirizzare l'opinione pubblica inglese a favore dell'Italia. I motivi del viaggio non sono tutti chiari. Può essere che puntasse a spingere il governo a intervenire nella guerra tra Prussia e Danimarca, può anche darsi che fosse una visita del tutto privata. Sembra che l'idea del viaggio non fosse nemmeno sua, ma dei mazziniani Saffi e Bertoni, con lo scopo di influenzare l'opinione pubblica. Il soggiorno di Garibaldi però divenne un evento politico, era circondato da ammiratori, scrittori, eccetera, partecipò a ricevimenti privati in suo onore. Questa visita era esempio di politica spettacolare: tutta la stampa era concentrata su di lui. Anche se aristocratici e borghesi conservatori non erano entusiasti dell'arrivo di Garibaldi. Sia in Italia che all'estero Garibaldi provocava problemi per la sua vicinanza ai radicali. Proprio per l'avversione incontrata, decise improvvisamente di partire, inventandosi dei problemi di salute, cancellando gli altri impegni. La folla che lo accolse era fatta di poveri e operai. Di certo non era gente come la regina che esultò quando egli partì. Garibaldi tuttavia colpì parecchi cuori di donne, sia per il fisico attraente, ma anche per la sua abilità a sfruttare l'attrazione sessuale. Questo speciale rapporto con le donne faceva parte di una strategia a lungo termine. Egli aveva successo anche perchè aveva pochi concorrenti, solo Mazzini aveva fatto simile uso delle donne inglesi facendole interessare alla politica oltre che alla sua sfera privata. Garibaldi nella versione finale delle sue memorie dedica otto pagine all'Aspromonte e dopo quell'evento ritiene la sua vita inutile. Anche se dal 1860 al 1865 egli ebbe un ruolo centrale nella politica italiana, cercando di far restare le questioni Roma e Venezia attuali, incoraggiò un po' tutti a partecipare alla vita politica, elaborò uno stile di politica di massa, utilizzando gli spazi pubblici per i suoi discorsi. I democratici dovettero scegliere se continuare la via parlamentare o affidarsi alla sola rivoluzione. La fedeltà alla Corona di Garibaldi e la sua fede nella Rivoluzione risultavano sempre più incompatibili. Il suo comportamento di quel tempo creò non pochi malcontenti. Il suo ritiro a Caprera erano il segno dell'insoddisfazione di Garibaldi nei confronti dell'Unità. La sua immagine veniva usata ovunque e in diversi modi, anche opposti. Dopo la sconfitta dell'Aspromonte, Garibaldi più di venti anni e partecipò ad altre campagne militari. La prima, nell'estate del 1866, a fianco del Re con la Prussia verso l'Austria. Anche in questa occasione i suoi volontari furono armati all'ultimo e combatterono nel Tirolo( due battaglie Suello e Bezzecca e Garibaldi fu ferito ad una coscia) . Guerra che fu un drammatico fallimento. L'umiliazione italiana fu completata dalla Prussia , che firmò un armistizio separato con l'Austria. L'Austria cedette il Veneto alla Francia che lo consegnò all'Italia e mantenne per sé il Tirolo. La guerra venne vissuta come un disastro nazionale per la pessima prestazione militare . Ci fu una rivolta a Palermo. Con questa guerra emerge nella sfera pubblica un malcontento morale rispetto alla nazione italiana. Garibaldi accettò la pace( telegramma al re “ obbedisco”) e si ritirò a Caprera .Il governo cadde nel 1867; poi venne formato un esecutivo giudato da Rattazzi. L'attenzione di Garibaldi e del governo si rivolse ora a Roma. Nel 1864 con la Francia fu stipulata la “convenzione di settembre” L'Italia si impegnava a spostare la capitale da Torino a Firenze e di mantenere l'indipendenza dello stato pontificio. La Francia di Napoleone III acconsentiva a ritirare entro un certo termine le truppe poste a difesa di Roma. L'accordo fu impopolare e ci furono proteste di piazza. Il governo Rattazzi insieme al Re elaborò un piano in cui Garibaldi avrebbe dovuto invadere i territori pontifici. Garibaldi riprese l'attività politica. Da Firenze fece un giro trionfale per Bologna, Rovigo e poi Venezia. In questa occasione fece una serie di discorsi anticlericali. Suo figlio Ricciotti raccolse soldi in Gran Bretagna per finanziare la campagna per Roma. Ricevette parecchi sostegni. Era praticamente pronto per attaccare quando il Re o Rattazzi , per la pressione di Napoleone III, lo fermarono ed egli venne riportato a Caprera. Ora si puntava a provocare un'insurrezione popolare nei territori pontifici, per non violare gli accordi e per avere come scusa per l'intervento armato. Il 3 novembre in un primo scontro a Mentana , Garibaldi ottenne una vittoria. L'arrivo dei rinforzi francesi cancellò i vantaggi, poiché avevano nuovi fucili “chassepot”, capaci di fuoco a ripetizione e a lunga distanza. Garibaldi uscì sconfitto e fu rinchiuso nella fortezza di Vanigrado. Mentana mise in evidenza il fallimento della nuova Italia. Da allora Garibaldi non si fidò più del Re e di Rattazzi e divenne apertamente critico della monarchia e del sistema politico dell'Italia liberale. Si ritirò a Caprera per tre anni Il triennio 1870 -1871 fu un importante punto di svolta del diciannovesimo secolo. La Germania stava emergendo come potenza dominante dell'Europa continentale . La conquista di Roma nel 1870 annullò le tensioni tra l'opposizione parlamentare legale e la sinistra estrema. La Comune parigina nel 1871 spinse esponenti politici della sinistra a due diverse fazioni: socialista e antisocialista. Garibaldi ruppe con Mazzini che era per una sinistra antisocialista e si avvicinò ai giovani radicali per entrare di nuovo nella vita politica. Si incontrarono tutti i democratici al teatro Argentina dove si discusse sul suffragio universale, obbligatorietà e laicità dell'istruzione,imposte, riforma amministrativa, abolizione della pena di morte. Venne firmato il “patto di Roma “ .Garibaldi scrisse un documento di taglio anticlericale e anti mazziniano. Continuò la sua attività politica e sociale e nel 1880 si espresse pubblicamente per il suffragio universale. All'inizio di Giugno morì nel suo letto per un'infezione ai bronchi . Voleva essere cremato e aveva detto ai suoi familiari di comunicare la notizia a cerimonia avvenuta . Nelle istruzione che lasciò per il funerale si riflette la sua sensibilità di stampo romantico. Vale ricordare che fino la 1888 la cremazione non era consentita. Ci fu il funerale e molte processioni funebri per tutta Italia . Le prime pagine sui giornali listate a lutto e nei Municipi le bandiere esposte a mezz'asta , discorsi su discorsi. La morte di Garibaldi venne considerata l'apoteosi della sua vita : ci fu lotta per il controllo della sua immagine. LA POLITICA DELLA MEMORIA È ormai luogo comune affermare che all'indomani dell'unità d'Italia i governanti italiani dovettero “fare gli italiani.” Fu Crispi ad utilizzare Garibaldi per promuovere il proprio programma nazionalista e tentò di trasformarla in simbolo sacro dell'unità nazionale. Tuttavia la cultura italiana restò piuttosto locale e regionale. Garibaldi ebbe molta fama durante gli anni 1860-1870. Fu in questo clima di radicalismo politico e religiosità popolare che Garibaldi si spense. Il suo funerale a Caprera rappresentò una vittoria dell'ufficialità laica. Il principale obiettivo delle polemiche garibaldine in questi anni fu però la Chiesa. Al tentativo di Garibaldi di fare gli italiani e di creare una religione civile il cui codice etico potesse prendere il posto di quello del cattolicesimo, i nazionalisti italiani non parlarono però in modo concorde. I romanzi di Garibaldi non ebbero particolare successo (Clelia, I Mille, Manlio). Anche la sua morte fu vista in maniera diversa: ovviamente non per tutti era un eroe. LE <ROME> RIVALI Oltre ai radicali, anche la Chiesa era contro lo Stato italiano, molti addirittura continuarono a seguire l'indirizzo del “non expedit.” In quel periodo il Papa assunse un atteggiamento più aggressivo verso il mondo liberale. Pio IX rappresentò un nuovo modo di intendere la figura del Pontefice, più personale e meno regale. Pio IX fu il primo pontefice ad essere fotografato. La Roma papale era sempre stata ostile a Garibaldi, e dopo Mentana, attaccò la sua reputazione. Per la stampa Cattolica tutti i nazionalisti erano pericolosi e così veniva alimentata sulla contrapposizione tra civiltà cattolica e barbarie rivoluzionarie. La stampa cattolica lo attaccavaimputandogli mancanza di capacità militare e pochezza delle sue realizzazioni. Quanto alla reputazione criminale di Garibaldi non vi era dubbio che corrispondesse in parte al vero(brigante che cospirava e guerreggiava). Dopo la morte di Pio IX sembrò aprirsi la possibilità di nuovi rapporti tra Stato e Chiesa. La vita di Garibaldi ha avuto un grande valore politico e simbolico. Garibaldi e i suoi compagni radicali affermano di rappresentare la vera anima del Risorgimento e si appropriano del suo sistema simbolico. Identificavano la Chiesa come nemico della nazione e attribuivano colpe pure al governo. Anche la Chiesa combatté per entrare nel cuore degli italiani. La battaglia per inventare i simboli ufficiali dell'identità nazionale fu un testa a testa tra Vittorio Emanuele e Garibaldi, e poi tra loro stessi ed il Papa. Garibaldi utilizzava una miscela di elementi laici e religiosi per far presa sull'emotività popolare. L'Italia è sempre stata considerata uno stato debole. Ciò è dovuto al fatto che chi perdeva cercava di denigrare i successi dei vincitori. Un simile atteggiamento provocava un contrasto insormontabile tra la visione poetica dell'identità nazionale e la prosaica e deludente realtà dei governi italiani. L'Italia non fu una Nazione riuscita e fu politicamente divisa. Il successo di Garibaldi rimane circoscritto, secondo Lucy Riall, alle sue capacità di introdurre il linguaggio patriottico nel dibattito politico e alla grande attitudine a suscitare entusiasmo e coinvolgimento politico. (Caterina Alzetta Jessica Campanerut) 2.CAVOUR Attraverso una documentata e ampia biografia,lo storico Adriano Viarengo illustra la figura di Camillo Benso, conte di Cavour, uno dei padri della patria, protagonista del Risorgimento come sostenitore delle idee liberali, del progresso civile ed economico, dell’anticlericalismo, dei movimenti nazionali e dell’espansionismo del Regno di Sardegna ai danni dell’Austria e dello Stato Pontificio. L’autore raccoglie notizie su Cavour attingendo dai giornali dell’epoca e dai diari di Cavour al fine di realizzare un quadro completo del nobile piemontese, nato in realtà francese poiché il Piemonte nel 1810 era un département dell'impero napoleonico. Vengono sottolineati l'atteggiamento autoritario, le aspirazioni verso il cambiamento ma anche le incertezze del personaggio, che comunque si mostrò un modello di intelligenza dal punto di vista politico, di saggezza e di intuito, dotato di passione politica ma anche freddo e distaccato quando le circostanze lo richiedevano. Ebbe un ruolo di primissimo piano nella formazione e nella proclamazione del regno d' Italia nel 1861, anno in cui divenne il primo Presidente del Consiglio del nuovo Stato. Iniziò la sua carriera politica come ministro dell'Agricoltura (1850), in un primo momento, per poi ricoprire l' incarico di ministro delle Finanze, durante il governo di Massimo d'Azeglio, allora capo del governo sabaudo. Cavour, in questo ruolo, favorirà lo sviluppo economico del Piemonte, consolidando la politica del libero scambio. Tra le sue prime decisioni ridusse le tariffe doganali, ampliò e migliorò il funzionamento delle linee ferroviarie, annullò alcuni antichi privilegi signorili e si occupò della creazione di istituti e scuole. In seguito alla caduta del governo d' Azeglio (1852), Cavour abbandonò l'alleanza con la destra e, nello stesso anno, strinse un' alleanza (“connubio”) con il leader della sinistra riformista Urbano Rattazzi, al fine di accelerare il progresso economico e civile. Trasformò il regime politico piemontese da costituzionale a parlamentare, potenziò le infrastrutture e l' attività agricola. Per quanto riguarda la sua politica in campo religioso scelse una linea di laicità e di separazione tra Stato e Chiesa (libera Chiesa in libero Stato). Dopo la guerra di Crimea e i moti del 1848 Cavour acquistò la stima di molti mazziniani, i quali cominciavano a condividere le posizioni moderate da lui sostenute, sperando così di raggiungere più facilmente l' unità nazionale. Cavour, tuttavia, inizialmente, progettava la sola liberazione della Lombardia e l' espansione del Regno di Sardegna verso le regioni padane. AL POTERE 1-nella crisi del dopoguerra: Cavour non sedette alla Camera dei deputati nella seconda legislatura; tuttavia fu eletto consigliere comunale della capitale, Torino. Si occupò, quindi, della vita amministrativa, più che politica. Venne poi invitato a entrare nella delegazione del governo nato dopo la sconfitta di Novara (1848), ma egli, non avendo ottenuto il permesso di condurre i negoziati a suo modo, decise di rinunciarvi. Una volta tornato alla Camera dovette affrontare due problemi; uno riguardante l' approvazione del trattato di pace con l' Austria, e l'altro riguardante il risanamento delle finanze. L' unica soluzione possibile da attuare sembrava essere il ricorso alla diplomazia e con essa la creazione di una rete di alleanze internazionali. La situazione del Regno era agli occhi di Cavour “ grave e piena di pericoli”. Nelle sue previsioni, infatti, ci sarebbe stato un “ temporaneo trionfo del dispotismo e una battuta d' arresto nella marcia della civiltà”. In seguito Cavour dovette affrontare alla Camera la discussione riguardante la fusione tra la Banca di Torino e quella di Genova, che tuttavia non ebbe luogo a causa dell'opposizione liberaldemocratica di Lorenzo Valerio. Quest' ultimo, infatti, affermava che si sarebbe creato un monopolio se tutti i capitali si fossero concentrati unicamente nelle mani di poche persone. Un semi-colpo di stato? Il proclama di Moncalieri: nel 1849 venne firmato,da Vittorio Emanuele secondo il proclama di Moncalieri, con il quale egli fece appello agli elettori del Regno di Sardegna, affinché portassero in parlamento una maggioranza favorevole alla ratifica del trattato di pace con l'impero austriaco, alla quale la Camera si opponeva. D'Azeglio voleva, infatti , cogliendo l' occasione, sbarazzarsi di una Camera riottosa. Cavour era preoccupato per la situazione, e credeva che si sarebbe arrivati all'anarchia, ma soprattutto aveva il timore di un colpo di Stato. Non nutriva, infatti, alcuna fiducia nel nuovo sovrano. In realtà non avvenne un colpo di Stato; il re, tuttavia, riuscì nel suo intento e venne raggiunta la nuova maggioranza, da lui agognata. Una volta al governo il conte cambiò la sua posizione, inizialmente conservatrice in una posizione più aperta. Pensò che fosse necessario conquistare la fiducia della Camera per godere di un più vasto sostegno politico, sostegno che avrebbe ottenuto solo allontanandosi dai conservatori. Riuscì, quindi, a separarsi definitivamente dalla Destra, adottando una politica riformatrice, accettata dal Centro e condivisa dalla Sinistra. Diventò il leader indiscusso del “Centro-sinistro”. Lo statista piemontese più volte pose l'accento sulle condizione finanziarie dello Stato e si fece notare per le sue capacità di analisi, per la sua fede nel progresso, per le sue conoscenze e per le sue idee liberali, che lo portarono ad ottenere, seppure con grandi esitazioni, il Ministero di Agricoltura, Commercio, e quello della Marina. Il suo principale obiettivo rimasero, comunque, le Finanze. Il ruolo di Cavour era rilevante all'interno del governo e poteva contare su un buon livello di favore nell'opinione pubblica. Nei suoi piani c' era l' esigenza di dare una spinta all'economia del Paese attraverso i prodotti locali più appetibili, quali il riso e la seta e ottenendo facilitazioni all'importazione di macchinari e manufatti dall'estero. Era, pertanto necessario, secondo la visione di Cavour, agevolare il libero scambio e attivare politiche liberiste. Bisognava anche consolidare le infrastrutture, ferrovie, strade, canali al fine di favorire il commercio. Lo scopo era quello di restituire slancio alla vita economica, per potere avere un flusso di risorse nelle casse dello stato, che consentisse altri investimenti. Con maggiori possibilità economiche si sarebbe potuto anche potenziare l' esercito, facendo in modo che il regno sabaudo potesse conservare il suo prestigio. Cavour, allora, pensò di reintrodurre alcune imposte dalle quali ricavare i fondi necessari. L'imposta fondiaria doveva essere posta al centro del sistema. Rinnovò, quindi, il sistema fiscale basandolo non solo sulle imposte indirette ma anche su quelle dirette, che colpivano sopratutto i grandi redditi. Inoltre egli si occupò di stipulare trattati commerciali con numerosi Stati europei. Con la Francia, però, non ottenne risultati vantaggiosi, in quanto questa nazione era poco favorevole alla collaborazione con il Piemonte. Mentre con il Belgio, l' Olanda e altri stati esteri ( Portogallo, Inghilterra, Svezia, Norvegia, Austria) vennero stipulati numerosi trattati e accordi. Contemporaneamente avvenne una riduzione delle tariffe doganali del regno. Per far fronte ai problemi di carattere finanziario, Cavour pensò di servirsi di “alcune operazioni di credito interno” e ad “una operazione da farsi all'estero, preferibilmente in Inghilterra”. La mossa vincente: il “connubio”. Nel 1852 si decise di stipulare un accordo politico segreto, anche se ostacolato dal Presidente del Consiglio del Centrodestra allora in carica, D’Azeglio, tra Cavour, leader della destra moderata, e Urbano Rattazzi, leader del centrosinistra. Allo scopo di attuare una politica liberal- riformista e di formare insieme una nuova maggioranza. L’ ambizione di Cavour era quella di prendere le redini del governo, ma gli occorreva la maggioranza che trovò proprio nell’alleanza con il suo avversario. L’ accordo con Rattazzi avvenne tramite gli uomini di fiducia dei due protagonisti, l’ avvocato Castelli per Cavour e il deputato Buffa per Rattizzi. Per entrambe le forze politiche questa unione avrebbe portato dei vantaggi; infatti, mentre Cavour puntava all’incarico di capo del governo, Rattazzi mirava alla vicepresidenza della Camera. In seguito al “connubio”, che durò cinque anni, D’Azeglio si dimise e Cavour poté prendere il suo posto. Una volta al potere costituì il suo primo Ministero, con Rattazzi vicepresidente. Presidente del Consiglio. Quando d’Azeglio, il 22 ottobre 1852, diede le dimissioni, Vittorio Emanuele secondo propose a Cavour di formare un nuovo governo, a condizione che il conte negoziasse con lo Stato Pontificio alcune questioni rimaste aperte, come quella dell’introduzione in Piemonte del matrimonio civile. Cavour, dopo alcune esitazioni, e dopo aver indicato Cesare Balbo come valida alternativa, accettò di formare il nuovo governo, dato che Balbo non prese il posto di D’Azeglio. Si impegnò a favore del matrimonio civile, che però fu respinto al Senato, costringendo il conte a rinunciarvi. Una volta capo del governo valorizza e modernizza l’agricoltura grazie all’uso dei concimi chimici e ad una vasta opera di canalizzazione, destinata ad eliminare le frequenti carestie, dovute a mancanza d’acqua per l’ irrigazione , e a facilitare il trasporto dei prodotti agricoli; l’industria viene irrobustita attraverso la creazione di nuove fabbriche e il potenziamento nel settore tessile; il commercio è basato sul libero scambio interno ed estero; rinnova il sistema fiscale, provvede inoltre al potenziamento delle banche con una istituzione della “Banca Nazionale” per la concessione di prestiti a bassi interessi. In seguito Cavour si preoccuperà di fare uscire il Piemonte dall'isolamento, impegnandosi in una politica estera più aperta e dinamica. Con l’inizio del nuovo governo di Cavour, quattro ministri su sei rimasero quelli del precedente governo dell’Azeglio; tutti, comunque, di orientamento liberale moderato. Le principali questioni a cui Cavour doveva far fronte riguardavano, oltre al matrimonio civile, il bilancio dello Stato. La politica, già intrapresa, di riduzione dei dazi e la costruzione delle infrastrutture ( allargò la rete ferroviaria ) rendevano la situazione tutt’ altro che rosea: le uscite riprendevano a crescere, mentre le entrate si incrementavano di poco. Cavour decise di chiedere un consistente prestito, nuovamente al barone di Rotschild. Vennero rialzate le imposte e vennero toccati anche i ceti meno abbienti, per quanto riguarda i beni alimentari di prima necessità. Nonostante le molte questione sulle quali doveva lavorare il conte, almeno inizialmente non trovò forti opposizioni, anzi affermò di notare “presso tutti i partiti una condiscendenza che rende il mio compito meno difficile”. 1853. Un anno complicato. Nel 1853 Cavour si trovò ad affrontare la sua prima crisi nel campo della politica estera. Infatti, il movimento repubblicano che faceva capo a Giuseppe Mazzini non smetteva di preoccupare Cavour: il 6 febbraio del 1853 scoppiò una sommossa contro gli austriaci a Milano e il conte, temendo l’allargarsi del fenomeno al Piemonte,fece arrestare diversi mazziniani. Tale decisione gli attirò l’ostilità della sinistra. Nel frattempo si era sviluppata una vera e propria crisi europea scaturita da una disputa religiosa fra l’ Impero Ottomano, in declino, e la Russia, con a capo lo zar Nicola, che aspirava alla protezione dei cristiani fra le popolazioni turche dei Balcani. Queste aspirazioni provocarono l’ostilità del governo inglese che sospettava che la Russia volesse conquistare Costantinopoli e la Francia si schierò con la Gran Bretagna. Allora la Russia dichiarò guerra all’ impero ottomano e la Gran Bretagna e la Francia dichiararono guerra alla Russia. Cavour affermò che il Regno di Sardegna sarebbe intervenuto nella guerra se anche l’ Austria avesse attaccato la Russia. Nel 1855 il conte firmò l’adesione finale del Regno di Sardegna al trattato anglo-francese. Il Piemonte avrebbe fornito supporto militare e le potenze alleate avrebbero garantito la protezione del Regno di Sardegna nel caso di un eventuale attacco austriaco. Una speranza da Oriente. In seguito ai contrasti tra Impero ottomano e Impero russo, la regina Vittoria dichiarava ufficialmente guerra alla Russia, dopo pochi giorni anche Napoleone terzo e il regno di Sardegna si unirono all’impresa, lasciando la Russia priva di alleati, durante la guerra di Crimea. Il 4 marzo 1855 Cavour dichiarò guerra alla Russia e il 25 aprile il contingente piemontese salpò da La Spezia per la Crimea. La partecipazione alla guerra di Crimea, vittoriosa per gli alleati e che ebbe fine nel 1856 con il Congresso di Parigi, permise a Cavour di partecipare l’anno successivo alla conferenza di pace di Parigi, ponendo tra gli argomenti in discussione la situazione italiana. Gli accordi segreti siglati successivamente a Plombierès, stipulati tra l’imperatore Napoleone terzo e Cavour, nel 1858 garantirono al Piemonte l’appoggio della Francia nella lotta contro l’Austria. L’ultimatum inviato nel 1859 dal governo austriaco al Piemonte fu l’occasione per far scoppiare il conflitto che si concluse con l’armistizio di Villafranca che prevedeva l’annessione della Lombardia al Regno di Sardegna, in cambio della rinuncia ad ulteriori espansioni territoriali. Cavour sollecitò il re a continuare la guerra anche senza l’appoggio dei francesi, ormai ritiratisi dal conflitto, ma, nel 1859, di fronte al rifiuto di Vittorio Emanuele secondo, il primo ministro si dimise. Fu rimpiazzato per breve tempo dal ministero La Marmora - Rattazzi e poi venne richiamato al potere. Pochi giorni dopo i plebisciti dichiararono l’annessione dell’Emilia e della Toscana al Piemonte. Tra Roma e Sebastopoli. La guerra di Crimea si concluse con un anno di assedio a Sebastopoli. La Russia venne sconfitta e Sebastopoli, importante città russa, venne presa dagli alleati. Il governo Cavour, nel 1854 presentò alla Camera una legge anticlericale sui conventi. Si opponevano, però, il Senato Subalpino e il re Vittorio Emanuele secondo. Scoppiò in quel periodo, nel Regno di Sardegna, la crisi Calabiana, così chiamata dal nome del vescovo Luigi di Calabiana, oppositore della legge, il quale provocò le dimissioni di Cavour nell’aprile del 1855. Il conte però, dopo un breve periodo, riprese la carica di presidente del Consiglio. E riuscì ad accordarsi con il Senato e a far passare la norma che fu firmata dal re con un emendamento che lasciava i religiosi nei conventi fino all’estinzione naturale delle loro comunità. In risposta Papa Pio nono scomunicò tutti coloro che avevano permesso l’approvazione della legge, compresi Cavour e il re Vittorio Emanuele. In conclusione possiamo affermare che senza la forte personalità di Cavour non saremmo giunti alla proclamazione del Regno d'Italia. Nel 1861, anno in cui il presidente del Consiglio morì, l'Italia era stata “fatta” ed egli era riuscito nei suoi obiettivi sia sul piano del progresso economico e politico della nascente nazione, sia sul piano della politica religiosa. Se infatti in economia si era fatto promotore, con buoni esiti, del libero-scambio, nella politica aveva portato avanti riforme liberali. Fu in grado di sostenere, nel suo sviluppo, il Regno di Sardegna, dal punto di vista delle istituzioni, dell'agricoltura, dei commerci e dell'industria. Si occupò inoltre del rapporto tra lo Stato e la Chiesa, in quanto fece una distinzione tra le due istituzioni, secondo la formula "libera Chiesa in libero Stato". (Delia Piazza) 3.GIUSEPPE MAZZINI Giuseppe Mazzini nacque a Genova nel 1805 da Giacomo e da Maria Drago, donna austera e religiosissima. Si laureò in Giurisprudenza nel 1827 ma, mentre era ancora studente, cominciò a sentire con viva sensibilità il problema dell’Italia divisa ed assoggettata allo Straniero. Iniziò allora la sua collaborazione con l’ “Indicatore Livornese” e con l’ “Indicatore Genovese”, presto soppressi perché di ispirazione chiaramente patriottica. In quegli anni aderì anche alla Carboneria, ma si rese presto conto che la Carboneria con i suoi strani riti, il carattere misterioso limitato e settario non avrebbe in alcun modo potuto risolvere le questioni italiane. Arrestato nel 1830 come cospiratore, fu rinchiuso nel carcere Priamar di Savona e, in seguito, condannato all’esilio. Arrivato a Marsiglia dopo un breve soggiorno a Ginevra, Mazzini fondò la “Giovine Italia”, un’associazione che si proponeva la liberazione dell’Italia dallo straniero e la sua unità in una repubblica democratica. A questo movimento aderirono moltissimi patrioti italiani, appartenenti soprattutto alle classi medio alte, come professionisti, intellettuali e studenti, che portarono il fresco entusiasmo della loro giovinezza. Primo atto politico dell’esule genovese fu il messaggio al nuovo re di Sardegna, Carlo Alberto, con cui il giovane sovrano veniva invitato a porsi a capo del movimento nazionale di riscossa, facendo così ammenda al suo comportamento ambiguo del 1821. Carlo Alberto ignorò la lettera e Mazzini proseguì decisamente la sua propaganda rivoluzionaria promovendo la congiura di Genova nel 1833 e la spedizione della Savoia nel 1834, concluse entrambe con un fallimento. Mazzini, infatti, si andava sempre più convincendo che l’unico modo per liberare l’Italia dallo Straniero era quello di organizzare delle insurrezioni isolate, a macchia di leopardo che potessero sorprendere le guarnigioni militari nemiche, obbligandole a spostarsi e a dividersi per poterle fronteggiare. Questo, naturalmente, fidando sull’ardimento e sulla fede patriottica degli insorti, in grado di sconfiggere truppe meglio armate ma scarsamente motivate. Condannato a morte in contumacia in seguito a questi primi moti, fu costretto a riparare in Svizzera dove, rinchiuso nella sua piccola camera di Berna, fondò la “Giovine Europa”. L’idea di un’Europa unita in una Confederazione, sul modello degli Stati Uniti d’America, cominciò ad essere il principale dei suoi pensieri e avrebbe dovuto nascere dall’unione delle varie Congreghe nazionali, con un solo motto ed un solo simbolo comune: l’edera. Trovò rifugio in seguito in Inghilterra, dove cercò di propiziarsi i favori del governo inglese e di alcuni banchieri per finanziare tutti i moti insurrezionali che aveva intenzione di promuovere in Italia e che, purtroppo, tristemente naufragarono. Se ne possono ricordare alcuni che passarono alla storia perché, pur finiti miseramente nell’insuccesso, misero in luce il coraggio e l’eroismo dei partecipanti. 1) Il 13 giugno 1844 i fratelli Attilio ed Emilio Bandiera nati a Venezia ed ex ufficiali della flotta austriaca, con uno sparuto gruppo di compagni, tra cui Nicola Ricciotti e Domenico Moro, sbarcarono sulle coste calabre alle foci del Neto. Non sapevano di essere stati preceduti dalla delazione di Domenico De Nobili ed, in seguito, dal tradimento del corso Pietro Boccheciampe. Furono perciò subito catturati dalle forze borboniche a cui si era aggiunto un gruppo di contadini locali che li avevano scambiati per briganti: ne seguì la condanna a morte e la successiva fucilazione. 2) Nel 1850 un movimento insurrezionale, sorto in Mantova, si accentrò intorno alla figura del prete Enrico Tazzoli. Ne fecero parte Carlo Poma, Attilio Mori, Giovanni Acerbi ed moltissimi altri. Il movimento si avvaleva finanziariamente del prestito mazziniano gestito da Banche inglesi. Furono arrestati nel 1852 gli affiliati, il prete Giovanni Grioli e Luigi Pesci, nelle cui case vennero ritrovati documenti che portavano all’illustre esule genovese. Furono fatti prigionieri molti cospiratori tra cui lo stesso Tazzoli, Carlo Poma e Tito Speri. Vennero processate 110 persone di cui molte condannate a morte. Furono impiccati nel forte di Belfiore una trentina di cospiratori tra cui Tazzoli, Poma, Speri e da ultimo Calvi, che la Storia ricorda col nome “Martiri di Belfiore”. 3) Il 6 marzo 1853 alle cinque del pomeriggio, ultima domenica di carnevale, un gruppo di uomini armati penetrò nel palazzo reale di Milano dal portone di via Rastrelli e, senza incontrare alcuna resistenza, si gettò sulle rastrelliere delle armi e disarmò le poche sentinelle presenti. Era giorno di libera uscita, di baccanali, di feste e Mazzini che aveva tessuto da Lugano le fila dell’insurrezione, pensava che la popolazione milanese si sarebbe unita agli insorti nel ricordo delle eroiche “Cinque Giornate” del 1848. Ma la popolazione quasi non si accorse di quanto stava avvenendo perché dei quattrocento insorti preventivati per l’attacco alla guardia del palazzo reale solo 20 si presentarono al raduno. Benché troppo pochi rispetto alle aspettative del Mazzini, riuscirono a disarmare e a rinchiudere gli sbigottiti Austriaci e a impadronirsi di due cannoni abbandonati. Ma i cannoni mancavano di munizioni e, comunque, nessuno degli insorti era in grado di farli funzionare. Le sentinelle rinchiuse in uno stanzone sfondarono la porta con il calcio di un fucile trovato in un angolo e riuscirono a liberarsi. Intervennero anche alcuni ufficiali austriaci che stavano seduti nel bar di fronte insospettiti dallo strano trambusto; sguainata la spada uccisero alcuni dei rivoltosi e misero in fuga gli altri. Neppure l’attacco al castello sforzesco ebbe esito migliore. Dei 500 previsti solo 30 uomini risposero all’appello. Fallirono ugualmente gli assalti organizzati al comando generale austriaco di Via Brera e ai corpi di guardia di Porta Vigentina e di Porta Ticinese. Tutto si risolse in una serie di piccoli scontri, in sporadiche scaramucce, in atti di valore, spesso di disperazione, slegati l’uno dall’altro. Invano Mazzini aspettava da Lugano la notizia del successo. Le sue illusioni si sarebbero frantumate in poche ore. Aveva creduto di disporre di 10.000 uomini, ma solo poche centinaia erano scese per le strade. Aveva creduto che gli insorti disponessero di fucili ed esplosivi, che avrebbero dovuto arrivare da Londra in casse che portavano la scritta “strumenti musicali” ma, al momento dello scontro si vide solo qualche pugnale ed alcuni coltelli da cucina. Aveva pensato alle barricate come nelle gloriosissime “Cinque Giornate di Milano” del 1848 e il tutto si era risolto in due tavoli da osteria posti sulla strada ed una carrozza rovesciata. Mazzini recitò il mea culpa, si dichiarò completamente responsabile dell’insuccesso, ma questo non impedì al maresciallo Radetzky una reazione durissima e spietata. Dopo questo evento molti seguaci abbandonarono Mazzini per passare nelle file dei liberali moderati. Eppure quella insurrezione così tragica e sfortunata, che innescò misure di eccezionale rigore da parte del governo austro-ungarico (coprifuoco, contribuzioni forzate, sequestri arbitrari, sfratti indiscriminati) finì per favorire i piani di Cavour. Lo statista infatti non avrebbe potuto arrivare all’alleanza con Napoleone III senza potersi avvalere, sia del contributo dato dalle truppe piemontesi nella guerra di Crimea, sia di fare leva anche sulle condizioni disperate in cui si trovava ormai il Lombardo - Veneto. 4) Carlo Pisacane ex ufficiale borbonico trasferitosi in Francia per motivi familiari ed in seguito arruolatosi anche nella legione straniera, concordò col Mazzini uno sbarco in Italia meridionale. Imbarcatosi nel 1857 sulla nave Cagliari con un seguito di circa 30 uomini avrebbe dovuto ricevere in mare le armi da Rosolino Pilo; ma quest’ultimo mancò una prima volta All’appuntamento perché, a causa della bonaccia non era riuscito a navigare e una seconda volta perché, a causa della tempesta, aveva dovuto disfarsi delle armi e rientrare in porto. Pisacane non si scoraggiò e ritentò l’impresa: liberò a Ponza 300 prigionieri politici, rinchiusi in quel carcere, e con questi unitisi a lui sbarcò a Sapri. Di qui marciarono verso l’interno ma le truppe borboniche, che nel frattempo erano state avvertite, li massacrarono. Lo stesso Pisacane ed il suo luogotenente Falcone per non cadere nelle mani del nemico si uccisero. Questa è l’ultima impresa di stampo insurrezionale che si ricordi e come le altre fu stroncata duramente dai giornali inglesi e francesi che invece avrebbero esaltato tre anni dopo l’impresa di Garibaldi e delle sue 1000 camice rosse in Sicilia. Ora viene spontaneo chiedersi: ma chi era veramente Giuseppe Mazzini? Ci viene in aiuto Giovanni Spadolini, storico e politico dell’Italia del dopo guerra, convinto repubblicano militante dal 1972 nel PRI di Ugo La Malfa. Spadolini nel suo libro “Gli uomini che fecero l’Italia” ci ricorda le lezioni che Francesco De Sanctis, famoso critico della Letteratura Italiana, tenne all’università di Napoli nel 1974. Mazzini fu giudicato da De Sanctis “Il Mosè dell’unità”. Nel caso concreto non fu Mazzini, ma la monarchia sabauda a realizzare l’unità d’Italia perché aveva saputo meglio calarsi nella realtà del momento storico. Mazzini fu un profeta o meglio un precursore, uno dei tanti uomini di valore i quali, seppero individuare linee dell’avvenire. Mazzini fu un apostolo, un sognatore, un illuso che si pose il problema dell’unità d’Italia come una missione. Due schieramenti politici prevalevano allora in Italia: la scuola democratica che faceva capo a Giuseppe Mazzini, Carlo Cattaneo e ad Aurelio Saffi e la scuola liberal–moderata che aveva fra i suoi rappresentanti Massimo d’Azeglio, Cesare Balbo e Vincenzo Gioberti. Anche i sistemi per raggiungere l’obiettivo: i democratici privilegiavano le azioni insurrezionali con l’unico scopo di raggiungere l’indipendenza, l’unità e la repubblica, rimandando ad un periodo successivo le riforme sociali necessarie per andare incontro ai bisogni delle classi più indigenti; i liberal– moderati pensavano invece di procedere per gradi partendo dal presupposto che non vi potesse essere libertà senza che fosse raggiunta l’uguaglianza tra tutti i cittadini. La repubblica che si proponeva di realizzare Mazzini si fondava anche su una profonda rinnovazione religiosa, che tenesse unite le coscienze in una unione politico-religiosa. Dopo l’impresa dei mille e l’atto di sottomissione di Garibaldi a Vittorio Emanuele II a Teano, con cui il sovrano sabaudo venne praticamente incoronato re d’Italia, a Mazzini non rimase che cercare di avvicinarsi a quelle classi diseredate che aveva inizialmente trascurato: erano questi gli artigiani, gli operai e i contadini che avrebbero dovuto legarsi in un movimento per sfociare col tempo in una forma di laburismo di tipo inglese. Questa sua ultima presa di posizione gli valse la critica e gli insulti di Marx e di Engels, che nei loro scritti lo avevano diffamato per anni, non limitandosi ad attaccare la sua dottrina ma proponendosi di colpire l’uomo. “Lanciare mine contro Mazzini” era il loro motto e, nel loro linguaggio, il grande genovese diventò l’”Arrogante Teopompo” e lo “Scaltrito Fanatico”. Ma si avvicinava per Mazzini l’epoca del tramonto: ospite degli amici Nathan a Lugano rielaborò le sue teorie messe a punto nella creazione della “Giovine Europa”, come un’unione federale degli stati europei, destinata a rinascere circa un secolo più tardi dopo le rovine prodotte dalla II guerra mondiale. La nuova Europa di cui Mazzini è stato definito e non solo in Italia, “Il profeta”. Ma erano prossimi gli anni della fine, consolati, da quanto è dato leggere su “I Radicali dell’ottocento” di Spadolini dal ricco carteggio di 46 lettere scambiate con Daniel Stern. In queste lettere dominavano inizialmente gli argomenti filosofici e letterari ma, in seguito, riemerge l’ansia dell’uomo politico che vorrebbe rovesciare con una grande partecipazione di popolo la monarchia sabauda per passare ad una repubblica democratica e liberare Roma con un decreto dell’Assemblea Costituente. Arrestato sulla nave, che con un travestimento lo stava portando in Sicilia, dove sperava di mettersi a capo di un movimento insurrezionale, passò gli ultimi due anni della sua vita a Pisa ospite sempre dei Nathan, tollerato dal governo italiano sotto il falso nome di dottor Brown. Qui ebbe la sua ultima delusione, la liberazione di Roma attraverso la braccia di Porta Pia che egli considerò come una profanazione delle città eterna. Mazzini morì a Pisa nel 1872 e, cosa che stupì molto gli italiani, le autorità permisero che il suo feretro percorresse in treno il tratto da Pisa a Genova fermandosi in ogni stazione. Al suo arrivo nella città della lanterna il cadavere venne esposto per alcuni giorni, perché tutti potessero rendergli omaggio. Tutta la città osservò un lutto stretto e le sirene delle navi ormeggiate nel porto suonarono per un estremo saluto prima che la bara venisse tumulata nel cimitero di Stalieno. Profeta e precursore, creatore di formule, animatore di passioni, seminatore di ideali, ma assolutamente incapace di calarsi nella realtà contingente del momento storico, Mazzini è stato rivalutato e riconosciuto come colui che accarezzò per primo l’idea di un’Europa unita. (Enrico Bocchieri) 4. LE DONNE NEL RISORGIMENTO Nel terzo volume de “Il Risorgimento” (a cura di L. Villari) Marta Barsanti traccia un breve profilo sulla condizione della donna nel XIX in Italia e non solo. “Il regno della donna è in casa; ivi se son belle, paion più belle; ivi se son buone, più buone”. Così Cesare Baldo scrisse nel 1854, quasi a sottolineare che le uniche qualità femminili potessero essere quelle relative alla bontà e alla bellezza. Infatti la donna durante tutta la prima parte dell'Ottocento fu tracciata come una figura che non deteneva una propria autonomia; essa infatti ci viene descritta come una sorta di oggetto vivente, posta in una condizione di totale dipendenza dall'uomo. Fin da giovanissime le fanciulle venivano educate ad obbedire ad padri non solo in quanto tali, ma anche presupponendo che dovessero sempre essere rispettose nei confronti del sesso maschile. Costrette alla totale sopportazione al momento dei maltrattamenti fisici e psicologici, della donna venne esaltata la caratteristica di “angelo del focolare”: i ruoli di moglie e di madre erano le ambizioni più grandi a cui una donna potesse aspirare durante la sua esistenza. La morale borghese ottocentesca imponeva che la donna si realizzasse pienamente rimanendo fedele al proprio uomo, servendolo e onorandolo; mantenendo sempre una bontà paragonabile a quella divina. Eppure la figura femminile, dal punto di vista sociale, era tutt'altro che vicina ad una divinità. Furono infatti virtù, sensibilità, castità, fedeltà e predisposizione al sacrificio le uniche caratteristiche che poterono stabilire quale fosse una donna degna di vita e quale no. C'è da dire che fu proprio la Chiesa cattolica a promuovere questo ideale per il quale esse avrebbero dovuto reincarnare tutti i valori morali e accettare caritatevolmente le trasgressioni affettive e sessuali dei mariti. Abbiamo oltretutto un'esaltazione del ruolo materno ed un accostamento della donna procreatrice alla “madre patriottica” che è pronta a sacrificare la propria prole per la patria. La subordinazione del gentil sesso venne ulteriormente enfatizzata nel 1865, anno nel quale venne sancito il Codice Pisanelli, il quale prevedeva innanzitutto la superiorità della volontà paterna nell'educazione dei figli, approvava la cosiddetta autorizzazione maritale (che vincolava l'autonomia femminile) e, infine, sanzionava gravemente l'infedeltà delle mogli. Quindi ritroviamo le donne in uno status alquanto svantaggiato: non solo furono penalizzate dal punto di vista pubblico- quindi emarginate nei diritti civili- ma anche da quello privato. Si ricordi infatti che, nella marcata distinzione borghese tra sfera pubblica e sfera privata, il posto della donna era solo ed esclusivamente relegato all'interno della “domus”. Un altro punto fondamentale a loro svantaggio fu il regime dotale; infatti se una famiglia non possedeva un'adeguata dote da “regalare” allo sposo assieme alla figlia, questo era motivo di grosso disagio per l'ammogliamento della fanciulla, vista, come era solito, come qualcosa da consegnare ad altri entro una certa data. Un'ulteriore discriminazione nei confronti delle donne fu quella dell'accesso all'istruzione. Come si può immaginare, infatti, sebbene in Italia i tassi di analfabetismo fossero altissimi anche per gli uomini, il genere femminile era ancora più svantaggiato in questo campo. Sotto quest'aspetto c'è da dire che una donna con un libro in mano non era vista di buon occhio, soprattutto dall'istituzione clericale, che bandì i romanzi perchè considerati potenzialmente “pericolosi”. Con questi luoghi comuni ci sembra di tornare all'Antica Grecia. Con una differenza, infatti nell'Antica Grecia le donne, pur essendo sessualmente e politicamente svantaggiate, detenevano una certa libertà nella manipolazione degli uomini e spesso venivano venerate come dee. Anche nella sfera dell'intimità la condizione delle giovani donne era caratterizzata da una forte passività, ad esse infatti spettava il compito di soddisfare gli istinti del marito senza opporsi in alcun modo; non godevano quindi di alcuna libertà nell'atto sessuale. Tuttavia la condizione femminile variava a seconda della classe sociale ed economica a cui si apparteneva e a seconda dell'occupazione che veniva svolta. In seguito, più o meno alla fine dell'Ottocento, avvennero dei forti mutamenti legati all'evoluzione del mondo del lavoro. Infatti abbiamo un inserimento del gentil sesso nel mondo lavorativo, che prima di allora era riservato solo agli uomini. Naturalmente le donne ricevevano una paga bassissima e a causa di ciò emerse una sorta di “femminilizzazione” del lavoro, in quanto la donna, avendo un salario più basso assunse un ruolo più competitivo rispetto a quello dell'uomo. Ovviamente furono molto ristretti i campi in cui la donna poteva esercitare la propria attività lavorativa: si limitavano infatti all'insegnamento, al durissimo lavoro nei campi e al settore delle manifatture tessili. Con lo sviluppo delle occupazioni femminili (di necessità solo per i ceti più poveri) abbiamo anche un miglioramento della condizione culturale della donne appartenenti ai ceti più agiati. Queste infatti, sempre verso la fine dell'Ottocento, ebbero la fortuna di poter avere un'educazione perlomeno elementare che prevedeva anche lo studio della musica, del pianoforte e delle regole di comportamento. D'altra parte, a sottolineare la durezza del lavoro nei campi, è il fatto che le donne fossero costrette a lavorare anche durante le numerose gravidanze, con una paga che non bastava per sopravvivere (e che, comunque, andava sempre a finire nelle mani dei mariti o dei padri). Pochi giorni dopo il parto, inoltre, era imposto l'obbligo del ritorno alle mansioni. In ogni caso le donne contadine vivevano per lo più racchiuse in un contesto familiare, al di fuori del quale la loro identità personale era pressocchè inesistente. In seguito all'incremento del lavoro femminile abbiamo una modernizzazione del pensiero e della condizione sociale delle donne, che iniziano a vivere una graduale emancipazione rispetto alle precedenti continue limitazioni della loro dignità e della loro persona. Così, verso la fine dell'Ottocento, nonostante i lavori più diffusi non fossero per nulla appaganti né ben retribuiti (da ricordare anche l'altissimo tasso di donne che lavoravano come prostitute, la maggior parte delle quali immigrate ed analfabete), il panorama generale per esse cominciò a colorarsi di una sfumatura più rosea. Pur essendo condannate alla subordinazione sociale, molte donne, soprattutto nei ceti sociali più agiati, si distinsero per la loro indipendenza, forza psicologica e vivacità intellettuale: caratteristiche per le quali talvolta fu possibile abbattere il muro tra sfera pubblica e sfera privata, e che consentirono a queste eroine del nuovo secolo di intraprendere una lotta per i loro diritti politici e sociali. Abbiamo grandi donne “rivoluzionarie”, ad esempio, in Anna Maria Mozzoni e Jessie White, donne che rappresentarono due dei tanti esempi di cambiamento radicale in una società che non attribuiva alle donne altri scopi se non quelli di misericordia e procreazione. Anna Maria Mozzoni si battè per tutta la vita per il diritto femminile al voto, presentando mozioni al Parlamento italiano nel 1877 e nel 1906, rappresentò l'Italia al Congresso per i diritti delle donne a Parigi e l'anno seguente fondò a Milano la “Lega promotrice degli interessi femminili”. Jessie White si occupò a sua volta non solo dei maltrattamenti femminili, ma difese anche i diritti di tutti i lavoratori. È a figure come queste, a mio parere, che l'antica morale borghese e la Chiesa vollero limitare il potere. Come sempre, nella storia, le istituzioni più potenti cercarono di ostacolare coloro che avrebbero potuto minacciare seriamente la loro supremazia e forza: le donne. (Marta Giannelli) 3. INTERPRETAZIONI 1. ANTONIO GRAMSCI Antonio Gramsci, nei Quaderni del carcere, effettua una riflessione accurata sulla storia d'Italia, incentrata sul Risorgimento ma rivolta anche a rintracciare i caratteri della precedente storia che ha avuto luogo nella penisola italiana. Ciò gli permette di cogliere gli elementi culturali che hanno avuto una ripercussione sia positiva che negativa nell'Età del Risorgimento. Per esempio si sofferma su: 1)Medio Evo o Età dei Comuni in cui si costituiscono i nuovi gruppi sociali cittadini; 2) l'età del mercantilismo e delle monarchie assolute che in Italia presentano manifestazioni di scarsa portata nazionale dal momento che la penisola è sotto l'influsso straniero. Gramsci attua una lunga meditazione sul processo storico che, nel secolo XIX, ha prodotto la travagliata costruzione dello stato italiano unitario. A dirigere questo processo sarebbero state, a suo parere, le forze moderate mentre il cosiddetto Partito d' azione (cioè il complesso di gruppi e di correnti che si richiamavano in parte a Mazzini e a Garibaldi) si sarebbe rivelato incapace di agire in maniera incisiva e trasformatrice nel contesto politico del tempo. Una “rivoluzione mancata”, ecco come viene definita dallo stesso autore quella risorgimentale. Le cause di tale fatto storico sono da individuare essenzialmente in ambito sociale. Il Partito d'azione è rimasto da sempre un partito borghese di èlite, privo dell'appoggio dei ceti non borghesi, più schiettamente popolari e contadini. Nell' Italia dell'Ottocento non c'era un proletariato industriale e dunque era impensabile una classe operaia organizzata, vista come il solo soggetto sociale in grado di promuovere una trasformazione radicale della società. Gramsci tuttavia fa trasparire quanto il Risorgimento avrebbe potuto e soprattutto dovuto allo stesso modo assumere un carattere più rivoluzionario, garantendosi l'appoggio della classe contadina. Proprio i contadini costituivano, infatti, quella massa popolare, di fatto la stragrande maggioranza della popolazione, la cui partecipazione all' azione risorgimentale le avrebbe dato un sostanziale contenuto sociale e un adeguato impulso rinnovatore. Gramsci precisa che il movimento democratico avrebbe realizzato tale disegno e tale strategia se fosse stato capace di farsi partito "giacobino", ovvero se avesse saputo far propri gli interessi e le esigenze della classe contadina attraverso una riforma agraria, indirizzata verso la creazione di un ceto di contadini piccoli proprietari ponendo fine al latifondo. Provvedimenti di tale misura infatti, erano già stati presi dai giacobini francesi, i quali avevano in tal modo evitato l' isolamento delle città e convertito le campagne alla rivoluzione. Solo così essi erano riusciti a superare la situazione di minoranza elitaria in cui si erano trovati inizialmente, e a sconfiggere le forze della reazione aristocratica. Ciò non vuol dire che l'autore veda il Risorgimento esclusivamente come un processo storico negativo. In effetti esso ha favorito non solo l' unificazione della penisola ma anche la crescita della borghesia, gettando con ciò alcune premesse per lo sviluppo di una fase capitalistica in Italia, poi rivelatasi, anche essa, insoddisfacente perchè debole e poco incisiva. Inoltre il nuovo stato si è costituito su una base sia economico sociale sia politica, assai ristretta. Da una parte il capitalismo (concentrato nelle sole regioni settentrionali), non ha potuto usufruire di un adeguato mercato per i suoi prodotti, a causa dell' arretratezza economica della società italiana, soprattutto meridionale. Dall' altro verso le masse indigenti (in primo luogo i ceti contadini) essendo state abbandonate sostanzialmente a loro stesse, non sono riuscite a divenire parte attiva della nuova compagine statuale. I raggruppamenti politici anche più aperti e democratici, si sono rivelati incapaci di approfondire i loro legami con le forze sociali potenzialmente disponibili a un' azione di reale emancipazione. Gramsci che scrive la sua opera nel carcere a cui è stato condannato dal regime fascista e che considera questo stesso regime come la dimostrazione più evidente dei limiti dello stato italiano costituito nel corso del Risorgimento, ritiene necessaria una profonda trasformazione della realtà italiana che, secondo lui, deve avere come obbiettivo finale quella rivoluzione sociale (o meglio socialista) che il Risorgimento non ha saputo compiere. A suo avviso tale rivoluzione potrà essere fatta solo attraverso un' alleanza tra proletariato settentrionale e contadini meridionali: essi, infatti, rappresentano gli unici soggetti sociali interessati in concreto alla realizzazione di un progetto politico così impegnativo e radicale. (Enrico Verardo) 2. ROSARIO ROMEO “Risorgimento e capitalismo” è il frutto dell‟unione di due saggi, “La storiografia politica marxista” e “Problemi dello sviluppo capitalistico in Italia dal 1861”. La storiografia politica del secondo dopoguerra, secondo Rosario Romeo, è uno dei settori della cultura italiana che più vivamente ha avvertito la svolta del 1945. Essa fu largamente influenzata da una nuova prospettiva da cui guardare alla genesi dello Stato italiano, al processo della formazione unitaria e ai sui suoi legami con il secolare sviluppo della società italiana. Spesso questo nuovo lavoro interpretativo avvenne in modo assai torbido e incompleto, facendo derivare la soluzione di problemi specificatamente culturali da eventi di ordine pratico e politico. Esempi di tali incertezze ci furono offerti dalle vicende della storiografia politica di tendenza marxista. A questa ultima l’autore rimprovera lo scarsissimo interesse per periodi più antichi, precedenti dunque alla Rivoluzione francese e al Risorgimento. In realtà, la storiografia marxista si prefigura essenzialmente come storia del Risorgimento e dello Stato unitario. Essa si accentra per lo più intorno alla tesi del Risorgimento come rivoluzione agraria mancata che va generalmente sotto il nome di Gramsci. Questa contiene la formulazione della critica alla borghesia risorgimentale per non aver saputo ampliare il moto nazionale, mobilitando anche le masse contadine per il rovesciamento e l‟eliminazione dei residui feudali nelle campagne. Gramsci scorge proprio nella supremazia dei moderati la causa dell’incapacità del Partito d’azione a svolgere in modo coerentemente giacobino l’inclusione delle finalità sociali, tuttavia Romeo sottolinea i gravi problemi storici e metodologici che la tesi comporta. Egli afferma che questo criterio di giudizio pecca di un fondamentale anacronismo, non nasce dalla concreta storia del tempo, ma dai più tardi problemi che allo storico si pongono. Il presupposto di tutta la tesi è l’esistenza di una struttura contadina mobilitabile per realizzare una rivoluzione democratica. Nonostante i dati relativi alle insurrezioni e ai moti contadini che la storiografia ci fornisce, la indubbia esistenza di condizioni di grandi miseria in gran parte delle campagne, i larghi residui feudali soprattutto nel Mezzogiorno, la presenza di una popolazione contadina di oltre quindici milioni nel 1860, l’ alternativa gramsciana rimane fuori della realtà storica e politica. Infatti pare certo che una rivoluzione agraria e giacobina in Italia avrebbe provocato uno schieramento antitaliano di tutte le maggiori potenze europee, interessate alla conservazione sociale e legate a una visione dei rapporti internazionali profondamente ostile a quel genere di sovvertimenti. Già Gramsci si era chiesto se in Italia fosse possibile una rivoluzione di tipo giacobino in mancanza di una “autonomia internazionale”, quando invece la Francia era da secoli potenza egemonica in Europa. Tuttavia, a questo proposito, il suo pensiero rimase particolarmente intricato. Egli affermò che la borghesia italiana, pur non potendo estendere la sua egemonia sui vasti strati popolari, avrebbe comunque potuto creare un’atmosfera di azione sui contadini. In questo modo mise il luce un ambiguità: è singolare che si affermi la possibilità di azione sui contadini dopo aver negato che si potesse estendere l’egemonia borghese sugli strati popolari. Sarebbe stata possibile, inoltre, la creazione di una democrazia rurale conoscendo le estreme difficoltà di trasformare l’Italia meridionale in un paese provvisto di risorse tecnico-agrarie adeguate? Una siffatta politica, sottolinea Romeo, o si sarebbe sviluppata in una generale sollevazione per la conquista della terra o avrebbe dovuto soccombere, specie nelle zone più arretrate, alla sopravvivenza della vecchie strutture feudali. La realizzazione sociale ed economica affermatasi con il Risorgimento rappresenta dunque una fase storica più arretrata rispetto a quella che si sarebbe raggiunta attraverso la rivoluzione agraria? In realtà il problema dello sviluppo capitalistico italiano non può essere identificato né con quello francese, che si distingue per un andamento delle città e del capitalismo urbano decisamente più rapido e più vigoroso, né con la situazione presente nei paesi arretrati dell’Oriente europeo, caratterizzati da un’estrema debolezza dello sviluppo cittadino e borghese. Il quadro globale italiano è ben diverso: qui l’industria fino al XIX secolo aveva un peso quasi trascurabile nello svolgimento complessivo dell’attività economica, e anche il commercio, nonostante avesse un rilievo assai maggiore, era tuttavia subordinato all’agricoltura. Esistevano anche nelle città italiane grosse fortune immobiliari, ma l’importanza di quelle fortune nel complesso dell’economia nazionale era assai meno considerevole che in Francia. Accedeva perciò che da noi, ancora verso il 1860, i soli fenomeni capitalistici capaci di dar luogo a forme moderne di organizzazione produttiva si riscontrassero nell’agricoltura, con lo sviluppo nella Valle Padana, fra Sette e Ottocento, di grandi gestioni agricole caratterizzate da largo impiego di capitali e di manodopera salariata, miglioramento di metodi di coltura, aumento notevole dei mezzi tecnici e della produzione. Romeo afferma che è su tale sfondo di debole sviluppo del capitalismo cittadino e di incipiente capitalismo agrario che va studiato il significato della mancata rivoluzione contadina auspicata da parte marxista. In un paese come l’Italia del diciannovesimo secolo la borghesia aveva già posto le mani su buona parte della proprietà ecclesiastica e l’introduzione del codice di Napoleone aveva cancellato ogni differenza giuridica tra proprietà feudale e proprietà borghese. Di conseguenza, una rivoluzione agraria avrebbe colpito anche il Nord e il Centro della penisola, aree in cui vi si erano già consolidate forme più avanzate di economia agraria, liquidando in tal modo gli elementi capitalistici dell’agricoltura italiana per sostituirvi un regime di piccola proprietà indipendente e imprimendo all’Italia agricola una fisionomia di democrazia rurale. A tutto ciò si sarebbe certo accompagnata l’eliminazione dei residui feudali ma nel processo generale questa rivoluzione avrebbe assunto un valore diverso; è sufficiente rifarsi alle conseguenze della Rivoluzione nelle campagne francesi; essa, pur migliorando le condizioni dei contadini non segnò tuttavia un progresso tecnico e produttivo dell’agricoltura francese. Tanto è che nella prima metà del secolo XIX essa comportò una stagnazione profonda contrassegnata da scarsissimi miglioramenti. Solo nella seconda metà del secolo lo sviluppo del capitalismo urbano aprì la via anche alle campagne, assoggettandosi i rapporti agrari e insinuandosi fortemente tra il produttore e il consumatore, realizzando così dei profitti a scapito dell’uno e dell’altro. L’arresto del capitalismo agrario francese, tuttavia, venne in buona parte fronteggiato dall’ascesa del capitalismo finanziario, industriale e commerciale, condizione fondamentale che mancava in Italia. Nella realtà italiana, infatti, una volta eliminato dalla rivoluzione contadina il capitalismo agrario, uno dei settori più progrediti, nella generale debolezza di quello industriale, il paese avrebbe subito un calo nella sua evoluzione a paese moderno. E’ indubbio che una fonte importante dell’accumulazione capitalistica fu la politica connessa alla fondazione e allo sviluppo dello Stato unitario, che fin dall’inizio indirizzò grosse quantità di denaro verso l’esecuzione di grandi opere urbanistiche, favorì le speculazioni finanziarie, stimolò industrie con la politica degli armamenti anche se una parte cospicua di questi investimenti venne attribuita al capitale straniero, soprattutto francese. La parte principale, nel complesso, rimase comunque al capitale nazionale, il quale era in larga misura capitale derivante da antichi negozianti o banchieri che solo più tardi si volsero all’industria. Nonostante ciò alcune attività agricole erano già penetrate da elementi capitalistici. Il capitalismo agrario, infatti, rappresentò una delle fonti principali di accumulazione del capitale che più tardi sarebbe affluito alle industrie. Rendite e profitti agrari diedero vita a una corrente che stimolò l’economia urbana e fecondò nuove iniziative e intraprese. Perciò, mentre la formazione del capitale necessario allo sviluppo e alla produzione industriale in Inghilterra e in Francia aveva già avuto luogo nel Cinquecento e nel Seicento, con le “enclosures”, il commercio coloniale, la politica mercantilistica, in Italia essa si realizzò solo nel corso del XIX secolo, dal momento che, fino al Settecento, aveva raggiunto proporzioni modestissime. Questo capitale si formò essenzialmente nelle campagne, a spese dei ceti contadini più poveri. Ma questo suo ritardato sviluppo e le particolari condizioni storiche della penisola impressero un carattere composito al processo di accumulazione italiano. L’impulso fu caratterizzato per l’appunto dal profitto agrario, dal momento che ad accelerarlo intervenne la pressione del mercato mondiale capitalistico. Questo rese possibili i larghissimi guadagni di alcune esportazioni agrarie, e il compito dei moderati sarebbe stato quello di garantire le condizioni politiche necessarie al compimento di tale processo. In questa direzione operò il liberismo di Cavour e della Destra che si trasformò in consapevole politica di sviluppo industriale qualche decennio dopo il 1860. Sarebbero state molto gravi secondo Romeo le conseguenze di una rivoluzione agraria che, difendendo i contadini dallo sfruttamento, avrebbe travolto l’unica forma di capitalismo esistente, destinato a funzionare come meccanismo essenziale per attuare il trasferimento dei redditi agricoli al servizio dello sviluppo urbano e industriale. Tutto ciò sarebbe accaduto nelle regioni dell’Italia centro-settentrionale, ma non sarebbe stato pensabile che il Partito d’azione scatenasse la rivoluzione dei contadini del Meridione senza che si estendesse al Nord. Romeo si sofferma, oltretutto, sull’analisi di alcune tesi a sostegno di quella gramsciana. Il Sereni, ad esempio, afferma che la rivoluzione agraria, innalzando il livello di vita dei contadini ovunque avessero consolidato il loro possedimento di terra, avrebbe assicurato un più ampio mercato all’industria cittadina. Ciò è tuttavia opinabile poiché, pur ammettendo un miglioramento nel tenore di vita di questo strato sociale, è anche vero che, specie in questa fase in cui ancora largamente sopravvive l’industria domestica, è cosa assai diversa la creazione di una piccola proprietà contadina dalla formazione di un grande mercato per l’industria capitalistica. Lo stesso Marx ha esposto le condizioni affinché esistesse questa forma economico-sociale: “Questa forma della proprietà terriera presuppone che, come nelle più antiche forme di essa, la popolazione della campagna possieda una grande prevalenza numerica su quella cittadina (…),che una parte prevalente del prodotto agricolo debba qui esser consumata dai suoi stessi produttori, i contadini, e solo parte eccedente debba entrare come merce negli scambi con le città”. Certo i rapporti capitalistici di produzione avrebbero comunque assoggettato al loro dominio il nuovo regime terriero, ma la rivoluzione agraria si sarebbe figurata più come un elemento d’arresto che come un elemento d’impulso. Il maggior pericolo della tesi del Gramsci era quello infatti di adottare una prospettiva falsata del problema dello sviluppo capitalistico in Italia. Infatti, la condizione arretrata delle città italiane non consentiva più nel XIX secolo alle classi dirigenti cittadine di condurre una rivoluzione antifeudale, e quindi basata sull’alleanza con le masse contadine, se non pagando per questa alleanza un prezzo storicamente troppo grave in termini di ritardo dello sviluppo in senso moderno e occidentale. Nelle condizioni storiche dell’Italia di allora, la rivoluzione agraria avrebbe rappresentato uno sforzo in senso contrario alla tendenza che da oltre un secolo si era determinata in buona parte delle campagne del Nord e del Centro avrebbe cioè rappresentato non un potenziamento dello sviluppo storico reale, ma una deviazione violenta verso una direzione diversa e contraria. Avrebbe comportato, dunque, una fase di accentuato antagonismo fra borghesia e contadini. Essa, già oltrepassata dalla Francia nell’età della Rivoluzione, sopravvivrà al Risorgimento e sarà questo ritardato sviluppo antifeudale a dar vita a una grave passività nella storia d’Italia. In realtà solo una considerazione diretta degli specifici problemi della storia d’Italia può mostrare come una rivoluzione agraria a direzione democratica non potesse essere un fattore di progresso. Un altro elemento discutibile è dato dall’illegittimità dell’assunzione dello sviluppo storico francese a modello esemplare dello svolgimento di un moderno paese borghese e capitalistico. Secondo Romeo non è corretto, come avviene nella tesi del Gramsci, stabilire dei continui raffronti con esso. Incoerente è inoltre l’assunzione di Parigi a capitale-modello, e il continuo confronto tra la funzione di autentico centro economico, politico, morale che essa ha esercitato nelle storia della Francia, e quella assai minore di Roma nella storia d’Italia, dove la capitale politica non è mai stata un grande centro produttivo. Non è corretto, del resto, vedere Parigi come la capitale ideale, quando sono note tutte le passività che alla Francia sono derivate da questa sua città-monstre, assorbente tutto il meglio per sé, con danno e impoverimento politico, culturale e spirituale per il resto della nazione. Per Gramsci tuttavia, la tesi aveva una portata che andava ben oltre i dati economici e strutturali. La rivoluzione agraria si presentava infatti come la grande istanza risolutiva dei contrasti profondi della storia del paese, come un potente strumento unificatore di tutta la società italiana, che avrebbe creato un rapporto più profondo tra lo Stato e le forze nazional-popolari. Ma si chiede Romeo, un simile rivolgimento, che avrebbe fatto dell’Italia un paese conforme agli ideali della democrazia piccolo-borghese del primo Ottocento, avrebbe concretamente realizzato l’unità profonda tra città e campagna, alla luce delle stesse conseguenze della Rivoluzione francese, che pur aveva gettato le basi di una grande tradizione democratica? In fondo, nel Gramsci, la rivoluzione agraria assunse un valore assai simile a quello risolutivo che il marxismo attribuì alla rivoluzione proletaria, e nel suo significato più intimo, finì quasi per identificarsi con essa. Dalla interpretazione gramsciana del Risorgimento la storiografia marxista riprese soprattutto la tematica politico-sociale, sforzandosi di documentare in modo sempre più sostenuto la realtà di un’alternativa giacobina al Risorgimento. Se pur è lecito parlare di una corrente di studi marxisti riguardo a questo evento, va tenuto presente che all’interno di essa vi sono differenze notevoli. Molti studiosi infatti, formatisi alla scuola dello storicismo liberale, soltanto in una seconda fase si “convertirono” al marxismo. E talvolta questa conversione, a parere di Romeo, andò assai meno nel profondo di quanto non sospettassero gli stessi convertiti. L’autore non vuole scatenare una polemica distruttiva nei confronti della storiografia marxista ma si propone di meditarne gli apporti dopo aver ripreso in esame le tesi gramsciane sul Risorgimento, in particolare sul tema dello sviluppo del capitalismo nel nostro paese. Il concetto di “accumulazione primitiva” venne formulato da Marx come fase antecedente all’inizio del processo di riproduzione del capitale. In tale fase non esiste ancora il capitale industriale, perciò ha fondamentale importanza la formazione di quelle concentrazioni di ricchezza e di quelle posizioni di predominio nella vita economica, che si traducono in più elevata capacità di risparmio da parte dei ceti più fortunati. Tale capacità di risparmio, rimasta sterile finché la società è dominata da modi di produzione arretrati, prende poi la via dei finanziamenti industriali quando si è entrati nella nuova fase del progresso tecnico e del predominio delle attività mobiliari, ed esercita una funzione importante specialmente all’inizio del processo di industrializzazione. La fase dell’accumulazione non va, per altro, necessariamente concepita come cronologicamente antecedente a quella dello sviluppo industriale. Ma va osservato che, in un paese in fase di economia preindustriale, i vari processi di tale sviluppo si riportano tuttavia a una base comune, ove avviene un drastico spostamento del rapporto tra consumi e investimenti, diretto a intensificare l’afflusso di risparmio prodotto in altri settori economici verso il settore degli investimenti industriali. Qui si scorge l’equivoco fondamentale al quale si riduce la tesi del Gramsci secondo Romeo. La rivoluzione agraria infatti, e la relativa conquista della terra da parte dei contadini, si traduce essenzialmente in un innalzamento dei consumi delle masse rurali e quindi in un ampliamento del mercato. Gramsci sostiene che proprio nella ristrettezza del mercato derivante dalla mancata rivoluzione agraria si individua la limitazione fondamentale dello sviluppo capitalistico italiano. In realtà secondo Romeo il problema principale non è l’ampliamento del mercato ma l’accumulazione del capitale come strumento diretto a conseguire un aumento della produttività. Tanto è vero che anche un paese enormemente popolato rimane un mercato povero se è bassa la produttività media per abitante. L’avviamento di una larga parte del reddito nazionale agli investimenti industriali è possibile solo nel quadro di tutta una serie di premesse: libertà personale, libera mobilità della manodopera rurale, la formazione di un moderno ordinamento giuridico, l’abbattimento degli ostacoli al commercio interno e degli impedimenti legali alla libera associazione dei capitali. Queste premesse erano già state create in Italia al tempo della Rivoluzione e dell’Impero napoleonico, e gli ultimi residui del mondo pre-borghese furono abbattuti con l’Unità. La difficoltà che si presentava alla società italiana a metà del XIX secolo era quella di una modernizzazione della vita economica, di un suo ingresso in un libero mercato e nella concorrenza industriale con le nazioni più progredite. Tale problema poteva essere risolto solo con un contenimento dei consumi di massa, in particolar modo quelli rurali. L’aumento della produttività agricola sarebbe stata una premessa necessaria all’industrializzazione, in vista dell’aumentato fabbisogno di materie prime per i nuovi centri industriali, e della necessità di liberare una parte della manodopera prima impiegata nell’agricoltura per i nuovi compiti dell’industria. Ma va sottolineato che i frutti dell’aumentata produttività agricola non si sarebbero dovuti tradurre in un aumento dei consumi rurali. Perciò, se si fosse voluto che agissero come acceleratore del processo di industrializzazione, avrebbero dovuto essere sottratti, in una forma o nell’altra, ai contadini. Negli anni Ottanta dell’Ottocento, tuttavia, dopo una lunga fase di liberismo intransigente, il livello dello sviluppo economico appariva ancora insoddisfacente. Allo scopo di incentivare la crescita si adottò la tariffa generale del 1887, che decideva di affrontare le difficoltà dell’industria e della cerealicoltura ( il mercato dei cereali era occupato dai grandi paesi produttori e l’Italia, non essendo autosufficiente, era tra i maggiori importatori) tramite una protezione doganale, da cui erano esentate la maggior parte delle materie prime utili all’industria e quasi l’intera produzione industriale. Imponendo questa tassa, si andò a creare un protezionismo industriale a Nord e un protezionismo granario a Sud, visto spesso come lo sbocco del compromesso politico tra forze rivoluzionarie e borghesi del Nord ed elementi semifeudali del Sud, sul quale si era fondata la soluzione unitaria del 1860. Ma il dazio sul grano ebbe solo uno scarso effetto compensatorio rispetto alla prevalente copertura concessa alle industrie. Dalla tariffa del 1887 venne colpita in particolar modo l’agricoltura, dunque specialmente il Mezzogiorno, danneggiato nelle sue esportazioni e costretto ad acquistare a un prezzo più alto i manufatti dell’industria nazionale, ormai esclusiva padrona di tutto il mercato interno. Peggiorò dunque la ragione di scambio tra prodotti agricoli e prodotti industriali, mentre nello stesso tempo si accelerò potentemente il processo di accumulazione capitalistica nell’industria, dove si determinò un afflusso di risparmio a danno dell’agricoltura. Con tale protezione doganale dunque, non solo venne ripreso sotto nuova forma quel processo di sfruttamento dell’agricoltura a vantaggio dell’industria, che nei primi decenni dell’Unità era avvenuto con il suddetto contenimento dei consumi rurali per l’accumulazione del capitale, ma vennero aggravati i caratteri antagonistici del processo attraverso il quale si era compiuta l’unità nazionale, fra città e campagna, Nord e Mezzogiorno. Tutto ciò volle dire accentuazione non solo dell’inferiorità economica del Sud, ma anche del suo deterioramento sociale e civile, e della miseria e sofferenza delle genti meridionali che trovò la sua espressione più vistosa nell’emigrazione. In conclusione l’autore vuole porre l’accento sul fatto che, proprio in virtù del sacrificio imposto per tanti decenni alla campagna e al Mezzogiorno, un paese povero di territorio e di risorse naturali e sottoposto ad una fortissima pressione demografica come l’Italia, sia riuscito a creare un grande apparato industriale e una civiltà urbana altamente sviluppata, che in gran parte del paese ha diffuso più civili e indipendenti rapporti tra gli uomini e una più larga partecipazione degli italiani ai beni materiali e morali del mondo moderno. Lo sviluppo del capitalismo in Italia viene preso in considerazione non solo come un aspetto della nostra storia, ma soprattutto come lo sforzo fondamentale tra tutti quelli che gli italiani hanno compiuto per edificare la civiltà moderna nel proprio paese. Un processo certo meno limpido e lineare che in altre nazioni, nate assai prima della nostra alla vita moderna. Anche perché, secondo Romeo, diversamente che in altri paesi, è mancata in Italia una specifica ideologia dell’industrializzazione. Difatti, il movimento protezionista non acquistò mai un’egemonia intellettuale, che rimase invece possesso della scienza e della polemica liberista, nonostante la sua inadeguatezza nell’affrontare i problemi della nuova era. Non meno insufficiente si rivelò, in tal senso, il pensiero marxista italiano. Il riconoscimento di tutto questo non deve essere pretesto per velare la gravità dei problemi derivarono dal modo in cui si realizzò lo sviluppo capitalistico. La compressione delle campagne fu una condizione fondamentale per l’accumulazione primitiva del capitale italiano dopo l’Unità e si configurò come la risultante di un processo storico-politico che aveva accentrato nelle mani del ceto dirigente un potere tale da imporla ai ceti rurali, che non l’avrebbero accettata qualora ad essi fosse stata concessa una più larga partecipazione al potere politico, qualora cioè il Risorgimento fosse stato un moto non solo di forze cittadine, ma anche di plebi rurali. Proprio in questo nesso si scorge la fondamentale unità di tutto il processo e come non si possa prospettare una visione del Risorgimento come rivoluzione agraria mancata senza accettare tutte le implicazioni che sarebbero derivate sul piano delle strutture economiche. La compressione dei consumi agrari, mentre nella fase iniziale della industrializzazione ebbe un contenuto storicamente positivo,in un secondo tempo si rivelò un ostacolo all’ulteriore sviluppo capitalistico. La miseria delle campagne del Sud, dipendente dal processo storico sopra ricordato, si tradusse infatti in un limite assai grave per la stessa espansione industriale, rimasta concentrata in un’area del paese e incapace di diffondersi in modo omogeneo in tutto il territorio nazionale. (Elena Manfrin) 3.INTERPRETI DEL RISORGIMENTO F.De Sanctis e A.Omodeo Nel suo ampio saggio di storia della storiografia ,intitolato “Interpretazioni del Risorgimento”, Walter Maturi ci offre una panoramica sugli studi e sugli approfondimenti dedicati al Risorgimento italiano . Quest’opera è suddivisa in più capitoli ,e ogni capitolo corrisponde ad uno storico che ci spiega il suo punto di vista sul Risorgimento ,cercando di esporci cause scatenanti ,conseguenze e ogni minimo dettaglio mirato ad una più accurata comprensione di quel periodo che ha portato all’Unità d’Italia . Dal saggio di Maturi emerge la complessità della vicenda risorgimentale che certo non si riduce alla spedizione dei Mille portata avanti da Garibaldi .Il Risorgimento italiano è molto di più e in molti hanno contribuito a questo grande miracolo italiano. Mazzini ,ad esempio , costituendo “La giovine Italia”,cominciò a diffondere le sue idee sul patriottismo e iniziò a risvegliare una popolazione che sembrava in letargo da anni ,dato che agli occhi dell’Europa,gli italiani erano una popolazione oppressa e rassegnata ad un destino di eterna sottomissione . Sulla figura di Mazzini ,Walter Maturi ci offre l’autorevole punto di vista di Francesco De Sanctis ,il quale scrisse “La Letteratura italiana del secolo XIX”. Quest’opera riveste notevole importanza ,ed è il frutto di due corsi,tenuti dal De Sanctis ,negli anni accademici 1872-73 e 1873-74 all’Università di Napoli. Essa in seguito venne raccolta in un volume dal filosofo Benedetto Croce . Ciò che contraddistingue questo volume dal punto di vista della forma,è il modo di esprimersi molto diretto e talora colorito , ben lontano dallo stile aulico dell’Accademia . Considerata ,poi ,dal punto di vista contenutistico,l’opera di De Sanctis ruota attorno ad un preconcetto fondamentale legato al Romanticismo ,ovvero che la letteratura sia espressione d’una società senza però concepire la letteratura stessa come un prodotto meccanico della società . Entrando invece in quelli che sono gli argomenti politici ,il De Sanctis vede il Risorgimento come una continua lotta fra due scuole di pensiero , quella liberale e quella democratica .Egli sostiene che queste due scuole non si siano sfidate soltanto nell’ambito politico ma anche nella scienza ,nella metafisica e nella letteratura .In ambito politico-militare ,in sintesi l’Unità d’Italia è stata il risultato del genio di Cavour ,il liberale , e del patriottismo di Garibaldi ,il democratico .E secondo De Sanctis per una rivoluzione popolare era necessario che le due fazioni collaborassero assieme per lo stesso scopo,tanto che i due eroi del Risorgimento vengono definiti complementari l’uno con l’altro :Cavour era un grandissimo statista e rappresentava a pieno l’ideale di grande politico mentre Garibaldi era un uomo d'azione,passionale ,un patriota , disposto a dare la vita in campo di battaglia .Su questa questione avrà poi qualcosa da obiettare Benedetto Croce ,il quale sostiene che ci siano altre correnti di pensiero che a loro modo hanno contribuito all’Unità d’Italia :i democratici di Cattaneo e Ferrari e le posizioni del Muscetta e La Farina . Un altro argomento trattato dal De Sanctis è il Cattolicesimo liberale e neoguelfismo,che secondo la sua opinione trova le sue più antiche radici nella concezione politica di Dante Alighieri ,ovvero un governo fondato sulla base del Vangelo . Questo movimento ebbe diversi fautori :è giusto citare Rosmini , Gioberti, Manzoni , D’Azeglio e Cantù ,tutti esponenti di questa corrente di pensiero che,però ,fallì miseramente per l’inconsistenza delle sue teorie e delle sue proposte dal punto di vista politico . Dopo questa breve spiegazione sul Cattolicesimo liberale ,Maturi ci offre la analisi del De Sanctis sulla figura di Mazzini;su questa figura ci sono dei passaggi poco chiari poiché il De Sanctis non riesce a definire Mazzini dal punto di vista politico e dal punto di vista sociale e si pone una domanda :chi fu Mazzini? De Sanctis ci offre questa riflessione su Mazzini: a) Mazzini, ebbe, senza dubbio, un certo fervore di aspirazioni religiose, ma non fu un riformatore religioso, perché gli mancavano idee concrete in questo campo. Il suo Dio è un Dio politco, che, invece di essere aderente alla Santa Alleanza, è aderente all’Internazionale democratica e nazionalitaria. Il Concilio, che ne pensiero mazziniano avrebbe dovuto fissare le norme della nuova religione, non era altro che la traduzione in termini ecclesiastici dell’idea della Costituente; b) Mazzini non fu un filosofo: l’unica sua idea valida è quella del progresso, che non è un concetto filosofico molto peregrino; c) Mazzini non fu un uomo politico perché profetizzò dei fatti che furono compiuti da altri e per vie diverse da quelle che egli additava. Che cosa fu dunque? a) fu un grande agitatore, che seppe tener desta l’idea dell’Unità italiana con incrollabile tenacia; b) fu un grande educatore etico-politico, che seppe insegnare il valore morale dell’azione, dell’insurrezione ai fini dell’educazione concreta del genere umano; c) fu un grande precursore; Walter Maturi ,infine ,sviluppa una riflessione sulla posizione del De Sanctis:è necessaria una visione della politica che vada oltre il partito affinché lo stato goda di riforme (laiche ovviamente) mirate al bene comune di tutti gli italiani . Questo punto di vista appare molto attuale e ciò sta a significare che anche a quel tempo ci si era posto il problema del ruolo dei partiti e della necessaria dialettica tra la visione politica del partito, inevitabilmente parziale e la tutela del bene comune. Walter Maturi ,ci propone anche una sintesi del pensiero di un altro storico del Risorgimento :Adolfo Omodeo .Questi ha scritto un manuale scolastico chiamato “L’età moderna e contemporanea” ,che non venne adottato nel “25 ,dato che al suo interno non vi erano cenni riconducibili al culto del Duce e al regime fascista ;così decise di trasformarlo in un libro per lettori colti (possibilmente poco vicini agli ambienti fascisti) ,chiamato “L’età del Risorgimento italiano” .In questo libro ,però ,vi sono però molti cenni all’Illuminismo e alle vicende politiche europee ,il che lo rende poco specializzato e con molti eventi raccontati in modo abbastanza vago . Omodeo diede moltissima importanza all’opera di Mazzini nel Risorgimento,riconoscendo nei suoi ideali ,l’espressione religiosa che sta alla base della terza Italia .Omodeo attribuisce proprio a quest’ultimo un concetto di “nazionalità” ,e attacca ,quindi ,gli storici europei che attribuiscono ai movimenti liberatori in Italia ,le colpe di aver causato tumulti e scossoni in tutta l’Europa . Omodeo ,poi ,tratta dell’influenza delle idee dell’illuminismo ,e nonostante le sue posizioni apertamente pro-cattolicesimo ,non è affatto ostile a queste correnti nonostante il conflitto tra cattolicesimo e filosofia dei lumi .Egli sostiene che nonostante la predominanza del pensiero romantico ,nel Risorgimento italiano ebbero notevole importanza anche le idee deIl’ illuminismo . In polemica con le tesi del filosofo Gentile ,che aveva esaltato il ruolo di Gioberti ,considerandolo accanto a Mazzini per importanza e carisma;Omodeo definì Gioberti un’opportunista che adottò ,come cavallo di battaglia delle sue campagne politiche ,il mito del Neoguelfismo ,per attirare a se i cattolici che al tempo costituivano la maggior parte della popolazione italiana. Le sue critiche colpirono anche re Carlo Alberto ,definito un re contraddittorio e un sovrano molle ,inconcludente sul piano politico e militare. Inizialmente Omodeo sembra prendere di mira anche l‟operato di Cavour definito un indeciso con la colpa di aver dato un impronta troppo piemontese allo stato italiano .Poi però Omodeo apprezza la sua attività diplomatica e ,soprattutto ,è sedotto dal fatto che Cavour non volle mai essere servitore di Carlo Alberto. Nel paragone con Mazzini , Cavour esce vincitore data la concretezza delle sue idee a differenza di Mazzini ,grande sognatore ,grande agitatore ,ma mai in grado di portare avanti idee realizzabili e credibili . Ciò che emerge da questo libro sono le numerose opinioni sul Risorgimento italiano e il fatto che tra queste opinioni vi sono numerose divergenze. Gli storici appaiono in disaccordo ,ma su un punto sono tutti assolutamente sulla stessa lunghezza d’onda :l’importanza della collaborazione e della fusione fra più correnti di pensiero per ottenere miglioramenti sociali e politici .Se per il De Sanctis fu necessaria una cooperazione politica fra liberali e democratici ,per Omodeo fu necessaria la fusione del pensiero romantico con quello illuministico . Quello che emerge da questa prospettiva è che se vogliamo cambiamenti politici e sociali ,è necessaria la collaborazione fra più parti ,non solo politiche ma anche culturali ;e se per il Risorgimento furono fondamentali le collaborazioni fra gruppi diversi a maggior ragione oggi ,nelle condizioni in cui versa il nostro stato , sarebbe opportuno un maggiore dialogo fra le forze politiche perché se gli obiettivi sono comuni ,si arriva sempre ad un punto d’incontro. Alla base di tutto ,però ,deve esserci la buona volontà delle parti . Quindi Risorgimento come punto di partenza e non come punto d’arrivo… (Cattaruzza Alberto) 4. GAETANO SALVEMINI E LUIGI SALVATORELLI Maturi si sofferma sul giudizio che due importanti storici, hanno espresso nei confronti della figura di Giuseppe Mazzini. Come è ben noto, a partire dai primi anni trenta dell'Ottocento, Mazzini si impose come personalità politica di primo piano e divenne membro della Carboneria nel 1830. La sua attività di ideologo e organizzatore lo costrinse a lasciare l'Italia nel 1831 per fuggire a Marsiglia, dove fondò la Giovine Italia, un movimento che raccoglieva le spinte patriottiche per la costituzione di uno Stato unitario e repubblicano, da inserire in una più ampia prospettiva federale europea. Mazzini continuò a perseguire il suo obiettivo dall'esilio con inflessibile costanza. Tuttavia, l'importanza delle sue azioni fu più ideologica che pratica. Dopo il fallimento dei moti del 1848, durante i quali Mazzini era stato a capo della breve esperienza della Repubblica Romana, i patrioti italiani cominciarono a vedere nel re del Regno di Sardegna e nel suo Primo Ministro Camillo Benso conte di Cavour le guide del movimento di riunificazione. Ciò volle dire separare l'unificazione dell'Italia dalla riforma sociale e politica invocata da Mazzini. Cavour fu abile nello stringere un'alleanza con la Francia e nel condurre una serie di guerre che portarono alla nascita dello stato italiano tra il 1859 e il 1861, ma la natura politica del nuovo Stato era ben lontana dalla Repubblica democratica vagheggiata da Mazzini. Il primo dei due storici è Gaetano Salvemini, il quale approfondisce in una monografia classica il pensiero mazziniano, alla quale dà il titolo di Mazzini. Salvemini, procede scindendo da subito il pensiero e l'azione del personaggio in questione, considerandole due realtà distinte e ben separate. Sorvolando sul fatto che essa, come osserva Maturi possa essere interpretata come una distinzione ben poco mazziniana (in quanto il personaggio stesso, riteneva il pensiero tale soltanto se compiuto dall'azione) a Salvemini va riconosciuto senza dubbio il merito di aver realizzato una sistemazione organica di tale pensiero a partire da uno studio accurato delle fonti stesse del pensiero di Mazzini da collocare nel contesto storico nel quale è inserito. In secondo luogo, Salvemini riconosce la sincerità dell'ispirazione religiosa di Mazzini ma constata che essa andò incontro ad un completo insuccesso. Secondo lo storiografo il fallimento va infatti ricercato nelle tendenze laiche della prima democrazia liberale italiana, che impedì alle idee mazziniane di trovare un terreno favorevole. La sua instancabile predicazione è, tuttavia, difesa e valorizzata dal Salvemini che, anzi, la interpreta in una curiosa chiave di lettura; secondo l'autore infatti, essa può essere avvicinata alle istanze proprie del Movimento Socialista. Questa particolare interpretazione (a cui possiamo assegnare l'appellativo di “mazzinianesimo sociale”) può essere interpretata in base al fatto che Salvemini riconosce come centrale nel pensiero di Mazzini il cosiddetto “principio dell'associazione”, in base al quale egli predicava il valore dell'azione collettiva tra i suoi seguaci. Ideale decisamente rintracciabile tra i cardini del Pensiero Socialista. In definitiva secondo il Salvemini, il mazzianesimo sociale una volta spogliato dalla sua rigida corteccia teocratica e subordinato al principio della lotta sociale, non sarebbe stato molto distante dall'idea socialista. Dulcis in fundo, è giusto ricordare chi venisse effettivamente riconosciuto dal Salvemini come vera e propria guida spirituale nel Risorgimento Italiano: vale a dire, Carlo Cattaneo. Tra le sue opere, figura anche infatti un piccolo compendio intitolato Le più belle pagine di Carlo Cattaneo. Con la redazione di questo testo egli si propone, perciò, di descrivere la vera genesi del sistema accentratore e a chiarire la sconfitta di Cattaneo nel Risorgimento. Maturi prende in esame anche l'interpretazione di un altro storico: Luigi Salvatorelli, la cui visione del Risorgimento è decisamente incentrata sul ruolo che la personalità e il pensiero di Giuseppe Mazzini nel Risorgimento. Innanzitutto Salvatorelli svolge un'indagine sull'illuminismo italiano, e ai suoi effetti nella civiltà del 1800. Ad essa diede il titolo di Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870. E con questa opera, il vero obbiettivo dell'autore non fu tanto di ricercare i fondamenti del pensiero illuminista quanto quello di introdurre una tesi effettivamente originale: quella concernente il collegamento tra Settecento illuminista e Ottocento romantico. Novità assoluta, tenendo conto del fatto che in precedenza i due periodi venivano considerati assolutamente distanti e incompatibili. Contro ogni aspettativa, secondo Salvatorelli, le salde radici del credo risorgimentale dell'Ottocento sono da ricercare proprio nella ragione illuministica. E il carattere composito sul piano culturale del Risorgimento, il Salvatorelli lo vede indiscutibilmente rappresentato dal contrastante binomio Mazzini-Cavour, l'uno, già presentato, come rappresentante l'iniziativa democratica dal basso, l'altro di quella liberalemonarchica dall'alto. Salvatorelli, presenta i due, assegnando immediatamente la parte di vincitore (per ciò che concerneva la diffusione del proprio messaggio politico) a Cavour, e del vinto a Mazzini, discostandosi dalla visione di un altro autore a lui contemporaneo, l'Omodeo, che considerava invece il rapporto tra i due come una vera e propria integrazione dialettica di compiti. Tuttavia questa specifica interpretazione dello storico, viene in ogni caso a “risolversi”, quasi in accordo con quella dell'Omodeo; infatti tutti e due gli autori espongono la propria visione dei fatti, tenendo conto che, dalla disputa scaturita dall'integrarsi del pensiero mazziniano con quello cavouriano, sorsero, comunque, delle correnti di pensiero politico che ebbero il loro sbocco nel secolo successivo. Perciò, assistiamo ad un dibattito senza fine tra due pensieri immortali, laicità razionalistica da un lato e il misticismo politico-religioso dall'altro, entrambi egualmente necessari nel corso del processo storico. Salvatorelli, interessato a rapportare il pensiero mazziniano ad altre correnti politiche dell'Ottocento, trova il modo di compararlo ad un'altra importante figura politica di questo movimentato secolo. E, così, nel volume Rapporti contrastanti tra Napoleone III e Mazzini nella politica europea fra il 1850 e il 1860, viene svolto un serrato confronto tra le concezioni politiche di queste due personalità. Esattamente come per Cavour sul piano italiano così per Napoleone III su quello internazionale, Mazzini rappresentò l'alternativa rivoluzionaria democratica all'imperatore francese che, nonostante i suoi connotati autoritari, rientra nella corrente del Umanitarismo Liberale del Sette-Ottocento.. Viene inoltre ricordato il fatto, che sia Mazzini che Napoleone III derivarono i propri ideali dal Sansimonismo, un movimento progressista francese, di cui svilupparono i principi in modo profondamente diverso. Maturi esprime un certo dissenso rispetto alle valutazioni di Salvatorelli riguardo alla politica di Napoleone III. Questi sarebbe piuttosto da paragonare ai despoti Illuminati del Settecento con, in peggio, tratti inquietanti di nazionalismo totalitario. Forse, conclude Maturi, il giudizio troppo generoso di Salvatorelli si può far risalire alla gratitudine, molto presente nei liberali moderati italiani, verso colui che nel 1859 aveva cooperato alla costruzione dell'unità italiana. (Leonardo Feletto) 5. PIERO GOBETTI Nel suo saggio storico, intitolato "Risorgimento senza eroi" pubblicato nel 1926, Piero Gobetti si sofferma sulla situazione del Piemonte, che ad Unità compiuta, dovette affrontare una grave crisi, dovuta principalmente al fatto che per conquistare l'Italia aveva dovuto rinunciare alle proprie caratteristiche e tradizioni proprio mentre nel resto del Paese si assisteva ad un affievolirsi del regionalismo e delle tradizioni antiunitarie delle province e delle città italiane. Senza tenere in considerazione queste problematiche, non è possibile fare una corretta analisi dello spirito di questa regione di fronte ai principali fatti del tempo. Durante il regno di Carlo Felice, ultimo re piemontese, i valori del Piemonte erano principalmente la burocrazia e la diplomazia, mentre gli ideali erano ancora incarnati in una vita aulica e cavalleresca. Infatti, dopo l'onta subita nel periodo napoleonico, si era affievolita in Carlo Felice l'audacia battagliera che aveva caratterizzato i re del Settecento. Lo spirito che, però, ha sempre distinto il Piemonte, è il culto della pratica e il disdegno per le complicazioni psicologiche e romantiche. La soluzione di questa regione ai problemi spirituali era quella di confinare le eresie all'estero per accettare la religione più semplice e conveniente: il cattolicesimo, inteso soprattutto come rispetto per l'autorità. Un esempio di questo spirito si ha nella tolleranza del Piemonte nei confronti dei valdesi. Essi furono infatti tutelati solo a patto che restassero confinati nelle valli più solitarie. Ciò indica anche il carattere di questa regione: scontroso e aspro, diffidente e inaccessibile. Si può anche comprendere che la popolazione non era incline agli ardori religiosi, tant'è che Gioberti non ebbe qui lo stesso successo suscitato nel Mezzogiorno. Perciò il Piemonte, in cerca di una via per risollevarsi dalla crisi, concentrò le sue forze nell'economia e in una vita sociale autonoma. Dopo pochi decenni di duro lavoro, Torino si trasformò in un centro animato dal fervore industriale, abitato non più dalla plebe ma dal proletariato, fedele alla dignità del lavoro e del sacrificio. Da questa trasformazione è possibile capire che il pragmatismo delle classi dirigenti piemontesi, poco interessate alla cultura letteraria, era destinato ad incontrarsi con il desiderio di affermazione del proletariato stesso e con il comune interesse ad intraprendere il cammino verso la democrazia moderna. Ma volendo analizzare il Risorgimento italiano nella sua totalità, secondo Gobetti, bisogna porsi alcune domande: esso è nato come imitazione della rivoluzione francese o perchè veramente voluto dalla popolazione? E' solo il frutto delle strategie diplomatiche dell'Ottocento o pone le sue basi nel tormento teorico del secolo precedente? A queste domande non è possibile dare una risposta certa: tuttavia si può affermare che durante il Settecento in quasi tutta l'Europa la classe aristocratica ed ecclesiastica era in declino, solo che mentre in Francia e in Inghilterra il cosiddetto Terzo Stato era pronto a farsi avanti, in Italia la borghesia non poteva ancora contare sull'abbondanza e la rapidità di circolazione del capitale mobile. In questo quadro di incertezze c'era ancora bisogno dell'iniziativa del principe: questo spiega il fenomeno centrale del Settecento italiano, ovvero l'assolutismo illuminato. Questo modello non promuove cambiamenti radicali in nome di idee nuove o di uno stile liberale, ma si indirizza, secondo una mentalità conservatrice, verso una moderata applicazione dell'illuminismo europeo. Volendo riassumere, il quadro politico settecentesco è sintetizzabile nel modo seguente: una monarchia che domina tutte le forze: lungimirante e audace nel Piemonte, in decadenza nel Sud; nobili e grandi ecclesiastici reazionari, feudali e teocratici: perciò alleati; plebi assenti: escluse dalle poche industrie, condannate al pauperismo e all'elemosina, clienti delle parrocchie; la classe politica: in scarsa parte proveniente dalla borghesia dei nuovi ricchi o dei professionisti, nella sostanza formata da nobili, più fedeli al principe che al feudalismo, perchè educati secondo tradizioni burocratiche o militari. Quindi se nel Settecento l'iniziativa del principe era ancora necessaria, nell'Ottocento prevale quella di una nuova classe politica. E' perciò solo in questi anni che si può parlare di "uomini nuovi" e di Risorgimento. Mentre in questo secolo le altre nazioni europee si sono affermate, liberandosi dalle ideologie dogmatiche, gli italiani non possono pensare ad una riforma religiosa perchè sono troppo impegnati a sconfiggere il dominio territoriale dei pontefici, attaccando la Chiesa in ambito politico anzichè in quello dogmatico. Le plebi continuano a vivere intorno ai conventi, mantenendosi cattoliche più per tradizione che per interesse; l'iniziativa spetta ad una borghesia troppo impegnata ad attuare con Cavour una politica nuova di liberalismo economico al fine di formare il primo capitale circolante in Italia. Se la rivoluzione francese ha assunto le dimensioni di un dramma europeo, caratterizzato dalla rivendicazione di masse popolari nuove condotte dalla classe borghese contro un'aristocrazia destinata a tramontare, il Risorgimento italiano è la lotta del singolo, o di pochi isolati, contro la cattiva letteratura di un popolo dominato dalla misera. Vittorio Alfieri fu l'unico italiano in grado di sentire, già in pieno Settecento, la necessità di una rivoluzione dal basso, condotta da minoranze repubblicane in senso unitario. Per certi versi le sue idee anticiparono la rivoluzione francese. Egli è il primo uomo nuovo, dominato dalla passione di un'affermazione romantica ed individualista. La sua inquietudine avventurosa lo porta a sentire il bisogno di rifiutare le autorità costituite, i dogmi fatti ed imposti e le tirannie politiche e religiose. Alfieri costituisce uno dei più grandiosi esempi di resistenza intellettuale attiva dell'individuo contro le oppressioni politiche, come un uomo libero in tempo di schiavitù. Egli si è formato nel fervore spirituale europeo che ha preparato il terreno al culto dell'individualismo e della libertà. Nella concezione di Alfieri, il papa è complice del tiranno: i dogmi della religione sono gli stratagemmi con cui si impedisce il libero pensiero. Se i popoli credono a tali concetti è solo per ignoranza, la quale è l'antitesi della libertà. Ogni popolo che ammette e rispetta l'autorità del pontefice è destinato a essere schiavo per sempre. Infatti se si affida unicamente al papa come guida religiosa, lo stesso farà con l'imperatore in quanto guida temporale. Secondo Alfieri la libertà è l'unica e vera esistenza del popolo, in quanto è fonte di tutte le grandi cose create dall'uomo. Secondo questa teoria, l'unica religione a cui bisogna fare affidamento è quella in cui Dio spinge l'uomo ad essere libero. In virtù di ciò, il popolo -che non è più plebe- deve essere mosso dallo spirito di sacrificio, in quanto solo questo, insieme all'impulso naturale e all'ira del popolo illuminato, aprirà la strada alla libertà. (Shabnam Najaf Zadeh) 6. IL RISORGIMENTO RILETTO OGGI. GIORGIO RUFFOLO L‟unità nazionale dell‟Italia viene considerata da Giorgio Ruffolo, autore del libro “Un paese troppo lungo”, edito da Einaudi, malsicura e minacciata: essa infatti, a suo parere, non è mai stata veramente attuata e la stessa formazione dello stato italiano sembra costituire il risultato di una concatenazione di eventi casuali. Ma accanto a quel Risorgimento, definito dallo stesso Ruffolo, freddo, in quanto frutto di circostanze impreviste e di opportunistiche adesioni, sussiste anche un Risorgimento caldo, che invece nasce da slanci e sentimenti autentici e costituisce la vera forza ideale risorgimentale. Il Risorgimento caldo viene identificato dall’autore con la parte iniziale dei moti risorgimentali: a suo parere infatti le “gloriose sconfitte” di inizio Ottocento furono più propulsive delle battaglie vinte in seguito. E’ nell’Italia napoleonica che deve essere individuata la nascita del sentimento nazionale nella popolazione e, pertanto, l’inizio della fase “calda”. Napoleone Bonaparte, probabilmente consapevole di ciò, volle che l’Italia restasse divisa tra repubbliche satelliti (Cisalpina, romana, partenopea) e ducati, da spartire fra i parenti prossimi. In questo periodo tuttavia porzioni minoritarie di popolazione iniziarono a sostenere una battaglia letterarioculturale, che non rimase finalizzata a vuote perorazioni retoriche, ma che si concretizzò in quelle battaglie militari, che, sebbene si fossero rivelate un fallimento sul piano politico-territoriale, alimentarono l’ideale nazionale. A Napoli, nel 1799, esplose la prima grande fiammata del Risorgimento italiano. Essa recentemente è stata oggetto di una dettagliata ricostruzione ad opera di Enzo Striano, autore del romanzo il resto di niente. Napoli era caratterizzata tanto dallo sfarzo vistoso quanto da una innegabile corruzione. La regina Maria Carolina, temendo gli effetti della rivoluzione francese, perseguitò, durante tutto il suo regno, “li Giacobbe”, ovvero i Giacobini, e screditò l’élite intellettuale napoletana, tra le più brillanti in Europa. Sebbene la stragrande maggioranza della popolazione fosse povera e ignorante, oppure “si facesse gli affari propri” (B. Croce), lo strato colto della popolazione, pur minoritario, ritenendo inaccettabili i soprusi della regina, combatté per ottenere la libertà e la felicità, che raggiunse solo per poco più di un semestre con la costituzione della Repubblica partenopea. Ma sarebbe riduttivo considerare questi uomini coraggiosi solo come i fondatori dell’effimera repubblica partenopea: essi infatti ridestarono l’Italia da un profondo torpore e, secondo Ruffolo, costituirono la spinta originaria dei moti risorgimentali. Anche a Roma iniziarono a svilupparsi sentimenti liberali alla fine del Settecento. Le due Repubbliche che vennero realizzate in Roma in quel periodo, ne sono la prova evidente, sebbene la prima possa risultare una vittoria alquanto indecorosa1. La seconda Repubblica, invece, sviluppatasi nel 1849, quasi mezzo secolo dopo, fu il risultato di un improvviso cambiamento del clima politico: il nuovo papa Pio IX infatti non solo decise di concedere un’amnistia ai condannati di reati politici, suscitando una ondata irrefrenabile di entusiasmo, ma istituì anche una sorta di governo e una consulta con un parlamento. E furono proprio queste concessioni papali, nonché il forte patriottismo del popolo romano che portarono un gruppo di uomini, guidati da P. Rossi e da Garibaldi, ad esautorare completamente il potere temporale del papa nel 1849. Ma anche in questo caso, sebbene il popolo romano combattesse senza tregua e “senza speranza” (G. Ruffolo) venne sconfitto rapidamente dall’esercito francese. Tuttavia quel popolo che ballava e cantava davanti al Quirinale, dopo la vittoria, costituiva ormai l’emblema di quel sentimento liberale che iniziava ad aleggiare nella popolazione. 1 La prima Repubblica romana potrebbe apparire il frutto di un equivoco: alcuni giovani insorti contro la tirannia pontificia, chiesero l’appoggio dell’ambasciatore francese, che li cacciò malamente, infuriato per una simile compromissione. Ma un drappello di soldati pontifici che seguivano gli insorti, dopo aver varcato la soglia dell’ambasciata, uccise accidentalmente un generale francese. Ciò determinò la nascita di un conflitto fra i Francesi, a cui si allearono ovviamente i Giacobini romani, e il papa Pio VI, che sfociò in una vittoria poco dignitosa, di fronte alla quale il popolo appariva indifferente e diffidente. Nel frattempo, grazie a personaggi come Menotti a Modena, attraverso ammutinamenti, complotti, insorgenze e impiccagioni crebbe lo spirito collettivo nazionale nonché l’odio profondo nei confronti degli “Austriaci colonizzatori” e la ferma convinzione espressa dall’esortazione di Menotti: “Italiani, […] non dovete fidarvi che di voi stessi”. Un altro evento emblematico del Risorgimento Caldo è sicuramente quello delle “Cinque giornate di Milano”. Milano era una città operosa, con un’aristocrazia colta (a differenza di quella napoletana), una borghesia industriosa, una vasta classe mercantile e un ceto intellettuale che appoggiava le correnti illuministe francesi (Cesare Beccaria, i fratelli Verri). Una città tanto progredita non poteva rimanere soggiogata al potere austriaco, e pertanto nacque un’insurrezione, che Radetzky, generale austriaco, ricorda come una terribile rivolta che si estendeva a persone di “ogni età e rango”. A capo della insurrezione vi era la figura di Carlo Cattaneo, uomo di cultura vastissima ma, soprattutto, convinto federalista, che affermava la necessità di realizzare uno stato unitario, quando tutte le regioni avessero raggiunto il livello economico della Lombardia. Egli interpretò perfettamente la volontà popolare, opponendosi fermamente alle proposte di un armistizio, che avrebbe indebolito lo slancio della lotta. E contrariamente a ciò che molti pensano egli si rivelò anche un nazionalista convinto, come risulta dalle pagine che dedicò a Roma e al tricolore. Chiaramente anche le “Cinque giornate” si conclusero in un fallimento dal punto di vista politico-militare, ma certamente rafforzarono la coesione e la solidarietà popolare. Sorte analoga ebbe Venezia, con la figura di Daniele Manin, che guidò un’insurrezione contro gli Austriaci, a guisa di Garibaldi a Roma e di Cattaneo a Milano. Anche in questo caso la libertà sopraggiunta durò molto poco ma gli Austriaci lasciarono partire indenni, per l’esilio, tutti i capi della resistenza. Con il 1849, pertanto, si chiudeva quell‟epoca di rivolte e insurrezioni che coinvolsero non solo le classi intellettuali ma anche quelle classi popolari che fino a quel momento erano risultate succubi dello strapotere dei ceti nobiliari. Ma il popolo fu in grado di riscattarsi solo grazie alla guida di uomini risoluti, come Garibaldi, Cattaneo e Manin, che, interpretando la volontà popolare, portarono a termine azioni vittoriose contro eserciti di militari professionisti. L’unità d’Italia, tuttavia, non fu realizzata attraverso queste entusiasmanti rivolte bensì attraverso una serie di azioni studiate e premeditate: esse costituiscono il Risorgimento freddo, di cui Cavour, economista e conoscitore attento delle realtà europee, fu il regista spassionato governando prudentemente (nel senso latino del termine) il Piemonte. Egli innanzitutto integrò i fuoriusciti italiani e li sostenne finanziariamente, portò a compimento una quanto mai ardita riforma laica dello stato, modernizzò tecnicamente le aziende e le liberalizzò. Fu in grado di sostenere queste grandiose riforme grazie al forte sostegno del parlamento, con cui Cavour seppe collaborare magistralmente. Per quanto concerne la politica estera, Cavour dovette trovare delle alleanze in Europa, in cui alla diminuzione del potere austriaco corrispose l’aumento di quello dell’Italia. Egli decise di conquistare ancora più prestigio sulla scena europea con la partecipazione alla guerra in Crimea, alla quale non lo legava alcun interesse territoriale. Il Piemonte, pertanto, si alleò con la Francia di Napoleone III. Cavour e Luigi Napoleone si accordarono che in caso di vittoria sarebbero stati costituiti un regno dell’alta Italia, comprendente Piemonte Lombardia e Veneto, un regno dell’Italia centrale, comprendente Toscana ed Emilia, lasciando il Meridione ai Borbone. All’ultimo momento sembrò svanire il sogno di Cavour: Inghilterra e Russia vollero risolvere pacificamente il conflitto. L’Austria, tuttavia, offesa da una provocazione orchestrata da Cavour, attaccò comunque il Piemonte, che resistette anche grazie alle auxilia francesi. Infine tuttavia le numerose perdite di soldati nelle battaglie sul Mincio e presso Solferino costrinsero i Francesi a chiedere l’armistizio di Villafranca, che prevedeva anche il reinsediamento dei sovrani nei regni e ducati dell’Italia centrale. Cavour fu costretto alle dimissioni. Tuttavia la restaurazione non avvenne in quanto nessuna potenza europea volle contrastare l’Italia. Sorse proprio in questo periodo l’idea di Mazzini di unificare il paese attraverso l’invasione piemontese dell’Abruzzo e delle Marche e quindi del Mezzogiorno. Il disegno mazziniano si compì realmente in seguito ma senza Mazzini. Sebbene tutta questa concatenazione di eventi possa apparire al lettore assai casuale, essa in realtà costituisce il risultato di un movimento “di fondo” (G. Ruffolo), di un’azione popolare ben determinata. L’impresa più nota che permette di caratterizzare con maggiore precisione questo Risorgimento freddo è sicuramente l’impresa dei Mille, a lungo vagheggiata da Mazzini, ma portata a termine lungo due distinte direttrici da Cavour e Garibaldi: il primo attraverso l’invasione da Settentrione delle Marche e dell‟Umbria, il secondo attraverso l‟invasione del regno borbonico dalla Sicilia. Garibaldi poté portare a termine la sua operazione grazie alle condizioni di insorgenza che si erano ormai definite in Sicilia contro i Napoletani. Tuttavia è una serie di fortunati eventi che porterà Garibaldi alla conquista del regno borbonico: infatti raggiunta la Sicilia, sebbene una nave borbonica avesse visto arrivare l’imbarcazione piemontese, non sparò, attendendo il permesso degli Inglesi, permettendo ai Mille di sbarcare con tranquillità; Successivamente, presso Calatafimi, i Garibaldini, sebbene avessero perso numerosi uomini, riescono a conseguire una vittoria grazie all’intervento di alcuni uomini che erano casualmente rimasti indietro lungo il tragitto.; a Palermo “per il volere della provvidenza” (Garibaldi) il comandante napoletano Lanza, sebbene stesse vincendo la battaglia, decise di patteggiare e di permettere ai Garibaldini di attraversare la città (ciò fu possibile anche grazie alla eccezionale indole diplomatica e strategica di Garibaldi). L’unico momento in cui la fortuna sembra abbandonare Garibaldi è quello dell’attraversamento dello Stretto: l’imbarcazione infatti aveva una falla; il grande senso pratico di Garibaldi gli permette tuttavia di turarla e di ripartire. Fu invece solo la genialità del generale a permettere la vittoria della battaglia del Volturno, in cui con una serie di manovre strategiche riesce a sconfiggere l’esercito napoletano, che non solo era più numeroso, ma possedeva anche armi nettamente migliori ed era sostenuto dalla popolazione. Garibaldi a questo punto sarebbe potuto diventare il dittatore delle due Sicilie, ma fu prevenuto da Cavour e dal re. Dopo la consegna del regno borbonico al re Vittorio Emanuele II da parte di Garibaldi presso Teano, l’Italia tuttavia risulta solo apparentemente unita: in realtà proprio in quel momento si profilarono due Italie. Normalmente le opinioni degli storici riguardo al Risorgimento risultano seguire due interpretazioni opposte: quella di Benedetto Croce, e quella di Gramsci. Benedetto Croce ritiene che tutto il Risorgimento sia il frutto dell’azione di una minoranza acculturata della popolazione, che trionfò su una maggioranza inerte: nel suo complesso, esso risulterebbe l’affermazione del sentimento liberale italiano, successivamente tradito dall’ascesa del fascismo, di cui è l’antitesi. Secondo Gramsci invece il Risorgimento si rivelò una costruzione fragile poiché il sentimento rivoluzionario non si tradusse nella mobilitazione delle masse contadine ma in una politica moderata, che prevalse sul sentimento democratico. Ciò, secondo la tesi gramsciana, ebbe risvolti negativi anche dal punto di vista economico a causa di una mancata distribuzione delle terre, da cui è conseguito l’immobilismo sociale nelle campagne, e quindi una limitazione all’espansione dell’industria, che non era sorretta dalla domanda, né alimentata da un’abbondante offerta di lavoro. La mancanza di un’alleanza dello Stato con il mondo contadino meridionale provocò una permanente spaccatura fra lo Stato e la società civile e l‟esasperazione del dualismo fra Nord e Sud. Dopo il Risorgimento peraltro la società meridionale risultava composta da quattro classi: la grande massa contadina amorfa, la borghesia, i grandi proprietari terrieri e lo strato degli intellettuali. Questi ultimi non sono in grado di interpretare la volontà popolare e di tradurla in riforme condivise e avvertono il mondo contadino come una minaccia. Il vuoto creatosi fra lo stato e la società permise secondo Gramsci la successiva nascita del fascismo, le cui radici sarebbero da rintracciare proprio nel Risorgimento. Dal punto di vista economico-sociale le tesi gramsciane vengono spesso osteggiate: Rosario Romeo per esempio in “Risorgimento e Capitalismo” sembra escludere il fatto che i contadini avessero quel forte potenziale rivoluzionario che Gramsci attribuiva loro. I contadini assistevano in modo passivo (talvolta addirittura ostile) agli avvenimenti risorgimentali e, peraltro, difficilmente la borghesia settentrionale avrebbe intrapreso rapporti commerciali con il sud Italia, essendo maggiormente interessata a intrattenere rapporti con i mercati esteri ricchi. In ogni caso va criticata, secondo Ruffolo, la demolizione fine a se stessa dei moti risorgimentali in quanto essa rischierebbe di corrompere la ricerca della verità. Il Risorgimento deve essere considerato nella sua vera portata, come un evento importante, o addirittura fondante del nostro paese. Negli anni “60 dell’Ottocento mentre il Nord sembrava uscire da un lungo torpore economico, il Sud appariva invece molto più arretrato: infatti in Piemonte, Lombardia e Toscana progredì notevolmente la filatura del cotone e della seta soprattutto a livello artigianale quando nel Mezzogiorno sopravvivevano ancora estesi latifondi posseduti da nobiltà e clero. Dal punto di vista politico inoltre sorsero altri problemi: infatti il conflitto con la Chiesa cattolica allontanò molti cittadini della partecipazione attiva della vita politica e gli uomini di destra che governarono in principio l’Italia cercarono invano di porre rimedio alla eterogeneità attraverso una costituzione fortemente accentratrice, soluzione definita dallo stesso Ruffolo “stupida e ingenua”. Una delle cause dell’arretratezza del Mezzogiorno va ricondotta all’utilizzo di sistemi di coltivazione antiquati, nonché alla presenza di vaste distese paludose e malariche. A livello industriale, invece, la scarsa capacità di ricorso al credito e quindi lo scarso investimento di capitali, causarono una bassa resa produttiva. Al contrario, al Nord, reti di scambio ricche e articolate permisero un notevole sviluppo che si contrappose all’arretratezza meridionale. Secondo Ruffolo, questa “questione agraria” sta alla base della “questione meridionale”, costituendo peraltro un fattore scatenante della “guerra di repressione” contro il brigantaggio. Questo fenomeno si differenziò dalla criminalità “privata”, in quanto contrastò soltanto le istituzioni statali: esso fu generato dalla diffidenza della popolazione nei confronti dello stato, che, come affermato precedentemente, non riuscì ad apportare una reale redistribuzione delle terre; inoltre, un calo della fiducia nelle istituzioni fu causato dall‟obbligo di coscrizione militare, che determinò l’allontanamento degli uomini dalle famiglie per lunghi periodi e il conseguente impoverimento della società contadina. Le bande dei briganti pertanto non erano formate soltanto da delinquenti comuni, ma soprattutto da quegli uomini appartenenti al mondo contadino che non si sentivano tutelati dalle istituzioni statali: essi in molti casi avevano sperato nella vittoria dei Garibaldini, ma erano rimasti successivamente delusi dal governo piemontese. La collera portò questi uomini a uccidere i propri nemici in modo violento e spesso truce, incrementando i pregiudizi del popolo settentrionale nei confronti dei Meridionali e pertanto esasperando quel dualismo Nord-Sud che caratterizza tuttora la società italiana. Nino Bixio, per esempio, definiva le regioni meridionali dei “veri porcili” in cui gli uomini non hanno “il senso del giusto e dell’onesto e “straziano” il nemico. Anche Massimo d’Azeglio, L. Carlo Farini e Ippolito Nievo disprezzarono amaramente il comportamento dei Meridionali, mentre Napoleone Colajanni confermò in una lettera la diffusione dei pregiudizi nei confronti del Mezzogiorno anche all’interno delle classi colte. Il Nord pertanto attaccò altrettanto brutalmente il brigantaggio meridionale senza prestare ascolto a Cavour, che prima di morire aveva sconsigliato una dura repressione, ritenendo la libertà l’unico strumento che avrebbe permesso lo sviluppo economico-sociale di quel popolo. La guerra costituì infatti un fallimento sul piano sociale, poiché i nobili mantennero un ruolo predominante sulla massa di contadini, che risultarono i veri sconfitti della guerra. Pertanto, a differenza della Guerra di Secessione americana in cui il Nord si era battuto per la liberazione degli schiavi del Sud, nella Guerra di Repressione italiana, secondo Ruffolo, il Nord si era battuto per reprimere gli schiavi del Sud, ovvero i contadini. Dopo la guerra contro il brigantaggio, il dualismo italiano assunse un carattere sempre più evidente e rilevante: nel primo dopoguerra, con l’adozione di un modello libero-scambista, sia il Nord che il Sud sembrarono progredire a livello agricolo; ma le industrie italiane, necessitando di investimenti, non riuscirono a svilupparsi senza il sostegno dello Stato che, pertanto, convertì il modello liberista in un modello protezionista già condiviso da tutti i paesi europei, ad eccezione dell’Inghilterra; in tal modo lo Stato diveniva protagonista dell’economia, governando l’aumento dei dazi a favore dei vari settori industriali. Ciò permise un notevole progresso delle industrie settentrionali che non solo venivano finanziate dallo Stato (furono definite ironicamente “Trivellatori” delle casse statali da L. Einaudi), ma spesso rappresentavano vere e proprie aziende parastatali. Il Mezzogiorno, al contrario, non riuscì ad uscire dal torpore che caratterizzava la sua economia industriale. Il protezionismo permise pertanto l’industrializzazione dell’Italia settentrionale, da cui derivò la nascita della figura dell’industriale professionale (Agnelli, Pirelli, Olivetti), che interessato a promuovere lo sviluppo tecnologico, più che il proprio inserimento nella politica. Il modello protezionista venne presto sostituito con quello liberista-capitalista; accanto allo sviluppo industriale e tecnologico, tuttavia si inserì un risvolto speculativo, originato dall’intreccio, patologico, della politica con il mondo affaristico. A Roma, nel periodo giolittiano, la speculazione edilizia assunse proporzioni colossali: essa determinò, allo stesso tempo, la nascita e il fallimento delle prime grandi banche italiane. Lo stesso Giolitti rimase implicato in un grave scandalo e dovette fuggire in Germania. Le industrie settentrionali riuscirono tuttavia a resistere alla crisi bancaria che ne conseguì. Il maggiore sviluppo industriale del Paese si concentrava nel cosiddetto triangolo industriale ai cui vertici erano situate le città di Torino, Genova e Milano. Esso assunse caratteristiche simili a quelle di Francia e Germania. Nacquero in questo periodo le tesi di coloro che ritenevano le fortune del Nord, frutto dello sfruttamento del Mezzogiorno. E’ tuttavia ormai opinione condivisa dalla maggior parte degli storici che lo sviluppo del Nord avvenne in modo del tutto autonomo e che la causa dell’arretratezza del Mezzogiorno sia da ricondurre alla mancanza di un rapporto diretto con le economie degli altri paesi europei e a quella “Guerra di repressione” che accentuò il potere dei latifondisti sui contadini. La Sicilia peraltro rimase la regione più arretrata del Meridione anche dal punto di vista agricolo: i metodi con cui si coltivava la terra (che di per sé era ed è molto più fertile di quella toscana) erano assai arretrati e l’usura rimase assai diffusa anche agli inizi del XX secolo; lo stesso Franchetti affermò in un suo saggio che “la sola ricchezza del contadino è la festa religiosa della domenica”: per questo motivo, sebbene i contadini siciliani fossero ferocemente sfruttati anche dal mondo ecclesiastico, rimasero sempre legati alla religione cattolica, da cui non erano aiutati ma perlomeno compianti. L’arretratezza economico-sociale del Sud diede origine a tre conseguenze: l’emigrazione verso altri paesi economicamente più avanzati, l’”invasione burocratica” del Mezzogiorno e la nascita della realtà mafiosa. Per quanto concerne l’emigrazione, essa risultò un mezzo per fuggire dalle oppressioni dello stato (elevata tassazione, coscrizione militare obbligatoria) e per cercare “nuova fortuna”, sebbene comportasse tremendi disagi, materiali e morali. La diminuzione della forza lavoro e l’aumento dei salari che ne conseguirono furono estremamente sfavorevoli ai proprietari: il governo cercò quindi invano di impedire sia l’emigrazione clandestina sia quella legale, senza risultati soddisfacenti. Essa calerà solo durante la seconda guerra mondiale e dopo gli anni Settanta del Novecento. La seconda “risposta del Sud” (Ruffolo) fu, come detto in precedenza, la “burocratizzazione del Meridione” o “meridionalizzazione della burocrazia”: lo Stato cercò di ottenere una maggiore fiducia nel Mezzogiorno, restio alle istituzioni statali, inserendo i cittadini meridionali all’interno dell’ambiente burocratico: ciò determinò un distacco dello Stato dal Nord, in cui erano situate le maggiori imprese del paese. Peraltro nel Meridione si ottenne l’effetto opposto rispetto a quello desiderato, indebolendo, anziché rafforzare, il rapporto fra Stato e società e creando le condizioni favorevoli alla formazione di organizzazioni intermedie criminose: le mafie. Queste organizzazioni, approfittarono della sfiducia dei cittadini nei confronti dello Stato per farne le veci. Esse non costituiscono pertanto, secondo Ruffolo, un residuo feudale, bensì organizzazioni nate contemporaneamente allo sviluppo del capitalismo, alla cui logica dell’accumulazione legarono quella della violenza. Lo Stato centrale perse quindi progressivamente la sua prerogativa essenziale: il monopolio della forza, come dimostra il caso Notarbartolo, sindaco di Palermo, contro il quale si scagliarono, nel 1893, le organizzazioni mafiose, assassinandolo. Queste “risposte del Sud” ovviamente non ridussero la dicotomia Nord-Sud, bensì l’accentuarono considerevolmente: il Nord, florido e in costante crescita economica, si contrapponeva alla ristagnante economia del Mezzogiorno, in cui, come afferma lo stesso Ettore Ciccotti, “l’assenza di stimoli alla conoscenza e all’intrapresa inclina al parassitismo”. Il Risorgimento aveva dato pertanto origine ad un’Italia non solo eterogenea sul piano culturale, ma anche su quello economico-sociale; Ruffolo nutre tuttavia la speranza che la porzione di popolazione acculturata, riesca, a guisa dei letterati durante i moti risorgimentali, a mantenere nel Paese quella coesione necessaria per fronteggiare le sfide dell’economia globale: come egli stesso afferma concludendo l’Introduzione al suo libro “una speranza, per quanto controversa, c’è. (Andrea Poli) 7. IL RISORGIMENTO RILETTO OGGI. A.M.BANTI Alberto M. Banti , nel suo saggio “La nazione del Risorgimento, sottolinea il fatto che per molto tempo la storiografia, sia ottocentesca sia contemporanea, non si è occupata di come sia nato il concetto di identità nazionale nell'Italia del Risorgimento, concetto che è stato considerato un dato di fatto. Solo negli ultimi anni gli eventi internazionali e interni hanno costretto tutti, collettività e specialisti, a esaminare la questione dell’identità nazionale da una nuova prospettiva. Ciò nonostante, gli studi si sono concentrati soprattutto sulla fase postunitaria, sul bisogno del neo-Stato italiano di diffondere una vera e propria pedagogia della nazione, mentre continua a mancare un esame dei significati che, già durante il Risorgimento, si attribuivano all'idea di nazione. Ma che cos’erano la nazione e la patria per gli uomini e le donne del Risorgimento? Che cosa designavano queste parole in nome delle quali, nella prima metà dell’Ottocento, molte persone decisero di agire, e di farlo pericolosamente, rischiando l’esilio, la prigione, la vita? Patria e nazione all’epoca volevano dire qualcosa di notevolmente diverso rispetto al significato che avevano avuto fino alla fine del Settecento. Esse, infatti, avevano subito un mutamento importante, di quelli che segnano in profondità il panorama concettuale di un intero periodo. Ma prima è opportuna una veloce analisi su quali fossero i principali significati che ne l corso del XVIII secolo erano stati attribuiti a quelle due parole. Il termine patria possedeva due accezioni preminenti. Da un lato stava ad indicare “luogo dove si nasce o dove si trae origine”, e poteva riferirsi al singolo paese natio, o alla città natale, o a un più ampio ambito territoriale; capitava, così, che patria designasse tanto singole città, quanto regioni come la Sardegna o la Sicilia, oppure stati come la Repubblica di Venezia, il regno di Napoli, oppure aree culturali come l’Italia e la Germania. Dall’altro lato patria aveva anche il significato di sistema politico- istituzionale al quale i sudditi o i cittadini dovevano lealtà, quando fosse stato regolato dalla virtù di un buon principe o di un buon corpo di magistrati. Il termine nazione possedeva, invece, tre significati principali. In un’accezione arcaica, ma registrata dai vocabolari, poteva significare “nascita”, ovvero “estrazione familiare, o sociale”; in forma derivata da questo etimo, voleva dire “generazioni di uomini nati da una medesima provincia, o città”, una variante che proiettava su un soggetto collettivo il primo significato censito per il termine patria. A partire da questo ambito semantico, nazione aveva acquisito anche il senso di collettività dotata di “habitus” comune, fatto di usi e costumi specifici e differenziati rispetto a quelli di altre collettività appartenenti ad ambiti territoriali diversi. A partire dall’inizio del Settecento, infine, il termine si arricchiva anche di un terzo campo semantico, specificamente votato a designare l’esistenza di una comunità culturale italiana, dotata di lingua e letteratura comune. L’origine della nazione italiana si ebbe, storicamente, con l’espansione di Roma, quando la città estese a tutti i municipi della penisola i privilegi della città originaria. Se la patria italiana era una koinè storica e culturale, tuttavia il patriottismo che ne deriva non si traduceva in negazione dei fondamenti della sfera pubblica degli antichi stati, della legittimità delle loro istituzioni, della sovranità dei loro principi. Anzi, qui trovano conciliazione due modi diversi di essere patriota: se sul piano culturale era necessario cercare di contribuire al progresso delle arti e della scienza che facevano dell’Italia una nazione, sul piano politico la fedeltà alla propria “piccola patria” era assolutamente fuori discussione. Così il vocabolario politico risorgimentale, oltre a riutilizzare termini già ampliamenti utilizzati nel discorso politico, è anche caratterizzato da almeno due fondamentali novità: uno riguarda la presenza di nuovi lemmi in precedenza esclusi, com’era certamente il caso del termine nazione: nel triennio giacobino questo termine, pur non perdendo gli antichi significati, fu sottoposto ad un arricchimento del proprio campo semantico, che lo condusse trionfalmente all’interno del nuovo lessico politico rivoluzionario, perché andava a descrivere proprio la comunità fondamentale, il soggetto originario, da cui discendeva la legittimità delle istituzioni che in uno spazio e in un tempo dato avrebbero dovuto disciplinare la vita collettiva. La seconda novità riguardava, in un certo senso, la morfologia complessiva del nuovo paradigma lessicale utilizzato per parlare del politico e della sfera pubblica, e derivava direttamente dall’arricchimento semantico cui era sottoposto il termine nazione; proprio questa parola, infatti, tese ad assumere una posizione centrale nella logica della nuova costellazione concettuale, tanto da subordinare a se tutti, o quasi, gli altri lemmi che vi appartenevano. Diversamente da ciò che accadeva nei decenni precedenti, ora patria non indicava indifferentemente qualunque sistema istituzionale fosse governato con giuste leggi, ma un singolo assetto costituzionale. Ovvero quello di una repubblica dotata di istituti rappresentativi: pertanto, come scrive Erasmo Leso, patriottismo non indicava più il generico “amor per la patria”, ma specificamente, “ l’amore della patria democratica e repubblicana” la somma cioè degli atteggiamenti e degli orientamenti etico- politici dei patrioti. Proprio negli ambienti patriottici si parlava sempre più frequentemente di nazione o patria italiana e, ciò che è ancora più importante, proprio sulla base dei diritti alla sovranità della nazione si cominciarono a formulare progetti di formazione di uno stato unitario italiano. A far decollare il discorso su un possibile stato unitario italiano dette un contributo decisivo Filippo Buonarroti, principale mediatore tra Direttorio e gli esuli italiani a Nizza. L‘evoluzione del pensiero di Buonarroti è documentata da diverse lettere; le ultime testimoniano un fondamentale cambiamento di registro rispetto a lettere scritte precedentemente : mentre in queste si parlava, genericamente, di unità d’azione tra i patrioti italiani, nelle ultime, più esplicitamente, si tracciavano le linee per la convocazione di una convenzione nazionale in grado di elaborare la costituzione per uno stato italiano. Questi progetti che lo stesso Buonarroti abbandonò in quanto arrestato, non vennero, comunque, lasciati cadere. Chi si espresse a favore del progetto di una repubblica italiana, sostenne questa opinione facendo ricorso soprattutto a d argomenti di carattere militare e politico- costituzionale. Uno stato con un territorio così ampio e una popolazione così numerosa, come la possibile repubblica italiana, avrebbe meglio resistito alle pressioni delle potenze vicine, cancellando così la debolezza che da secoli aveva minato le varie e numerose formazioni statali che avevano convissuto nella penisola. Il presupposto logico che sostiene tutte queste proposte era l „esistenza di una nazione italiana che, in quanto unica depositaria della sovranità, aveva diritto di trovare riconoscimento in una repubblica di cui potesse scegliere gli assetti istituzionali. Sapere quali erano i caratteri di questa nazione, sapere perché ad essa si riconoscesse una priorità sulle nazioni piemontese, o lombarda, o veneziana, di cui pure, in questi anni, si continuava a parlare, avrebbe dovuto essere un passaggio ineliminabile, tanto più impellente, quanto più centrale era il ruolo che, teoricamente, si attribuiva alla nazione come soggetto fondativo del politico. Alla fine del Settecento, sull’esistenza di una coesa comunità nazionale, legata a profondi vincoli di italianità, si potevano sollevare molti e seri dubbi; gli stati esistenti erano dodici, spesso molto diversi tra loro per storia, modalità di formazione, e istituzioni. Le numerose città che costellavano la penisola erano amministrate in modi differenti, in ragione delle leggi generali dei diversi stati in cui erano incluse, così come degli innumerevoli statuti o regolamenti cittadini ancora attivi, che ciascuna di esse poteva vantare. All’ inizio dell’Ottocento una notevole omogeneizzazione normativa ed istituzionale era stata introdotta dalle riforme cui era stata sottoposta l’Italia durante l’epoca napoleonica. Mentre da un lato l’esperienza era stata breve, dall’altro la riorganizzazione istituzionale dei nove stati della Restaurazione aveva reintrodotto varianti normative e istituzionali che di nuovo differenziavano, talora profondamente, l’uno stato dall’altro. Effetti più coesivi avevano le attività produttive e commerciali. Prendiamo il Sud della penisola: montuoso, povero di strade, privo di fiumi agevolmente navigabili. Parti apprezzabili del volume delle produzioni agricole o tessili si fermavano intatti nell' ambito delle famiglie contadine sotto forma di retribuzioni in natura, o di quote,di beni prodotti, o come risultato delle attività lavorative marginali svolte dalle donne della famiglia. Un altro gruppo di prodotti prendeva invece la strada dei mercati settimanali o delle grandi fiere periodiche. In effetti lo spazio mercantile che davvero contava era un altro : era quello del commercio a lunga percorrenza di prodotti agricoli come l'olio o il grano, che erano destinati a mercati urbani lontani dalle aree di produzione, o che, soprattutto venivano indirizzati verso l’esportazione. Ma quali erano le destinazioni? Nel corso del Settecento le rotte commerciali che partivano dal sud cominciarono a prendere altre direzioni: verso ovest le nuove mete erano la Francia (Marsiglia), l Olanda, l’Inghilterra; verso est era Trieste che lentamente andava a soppiantare lo sbocco veneziano e ad assicurare un ponte commerciale con i mercati della Mitteleuropa. L „economia che più si rese partecipe del processo di industrializzazione fu quella meridionale: essa riuscì a trascinare con se anche un’altra trasformazione significativa, questa volta nella composizione merceologica dei prodotti destinati all’esportazione. Tra fine Settecento e inizio Ottocento cominciò infatti a declinare il peso fin allora prioritario dell’esportazione granaria, mentre sempre più importanti si fece il ruolo dell’olio. Le destinazioni di questo prodotto erano, certamente, tavole delle famiglie più ricche di Inghilterra, Germania, Olanda, sebbene in realtà non fosse necessariamente questa la corrente primaria di vendita. Una parte cospicua era infatti destinata alle industrie tessili inglesi, avide del cosiddetto cloth oil impiegato nel processo di filatura dei panni; e un’altra parte ancora, costituita dagli oli di scarto, quelli di qualità più scadente, si indirizzava verso Marsiglia, dove erano le industrie produttrici di saponi e farne un uso intensivo. L’olio rappresentava allora il collegamento stretto dell’economia meridionale con le aree della grande trasformazione economica. Altri prodotti strettamente collegati ad esse erano lo zolfo, gli agrumi, che si indirizzarono inizialmente verso l’ Inghilterra, ma che ben presto trovarono la strada di mercati assai più lontani, e, successivamente, il vino, destinato ad essere usato sul mercato francese soprattutto come vino da taglio. I mercati che ricorrono ai prodotti dell’agricoltura meridionale sono soprattutto esterni alla penisola. I rapporti commerciali con gli stati dell’ Italia preunitaria erano infatti assai ridotti sia che si osservino i flussi e le quantità delle esportazioni, o che invece ci si concentri sul traffico di importazione. Appare, quindi, chiaro che l’economia meridionale apparteneva ad un circuito commerciale che la ricollegava saldamente ai paesi del Nord e del centro Europa, mentre i flussi di scambio con gli altri stati della penisola erano piuttosto modesti. Ma il punto cruciale è che le varie economie d’Italia erano costituite intorno ad una rete di interdipendenze interne ed esterne che rendevano non conveniente o non necessaria l’attivazione di circuiti e transazioni reciproche. I mercati meridionali, mal strutturati al loro interno, e modesti quanto ad intensità di domanda, non potevano costituire un esito attraente per i beni industriali prodotti nelle aree settentrionali; e viceversa i prodotti agricoli meridionali più pregiati, come gli agrumi, l’olio o il vino, erano troppo costosi per i mercati ancora comparativamente poveri dell’Italia centrosettentrionale. E così, nonostante ci fossero forme di parziale integrazione fra stati diversi, ci si trovava di fronte ad un’ impotente disarticolazione commerciale. Il patrimonio linguistico e letterario che diversi indicavano come uno dei principali legami tra popoli della penisola era una questione che riguardava solo fasce ristrettissime di elite colte. Al momento dell’ Unita d’Italia coloro che parlavano correttamente l’italiano come prima lingua, erano un’infima minoranza sul totale della popolazione del neonato Regno d’Italia. Tutti gli altri facevano uso del dialetto, o di una lingua straniera, come per esempio il francese in Piemonte. All’inizio del XIX secolo, alcuni dei personaggi più in vista della scena letteraria della penisola misero al centro delle loro fatiche il tema della nazione italiana dei suoi diritti. Un ruolo di primo piano, in questa dinamica, lo svolse senza dubbio Ugo Foscolo. La fortuna di letterati come Foscolo dipese dalla capacità che ebbero di muoversi con efficacia sul mercato pubblicistico o su quello degli impieghi pubblici o semipubblici. Che ad elaborare il tema della nazione fossero proprio delle stelle del firmamento letterario dell’epoca come Foscolo, fu proprio ciò che contribuì a renderlo particolarmente interessante per il pubblico colto. Il tema della nazione si sganciò del tutto dall’ambito dell’ingegneria costituzionale, che aveva dominato il dibattito politico nei sei anni precedenti il 1802, e si proiettò nello spazio della produzione poetica, narrativa, melodrammatica, pittorica. Insomma, una tragedia, una poesia, un romanzo, o un’opera lirica potevano facilmente toccare corde profonde nell’animo di un numero incomparabilmente maggiore di fruitori, di quanto non fosse mai stato possibile per un freddo e distaccato saggio analitico. Il Risorgimento è, secondo Banti, un fenomeno generazionale, eversivo. È quando si è giovani che si “scopre” la nazione, che si abbraccia l’idea di battersi per essa. Dunque il Risorgimento si può anche definire un fenomeno di ribellione giovanile. Ma non di ribellione contro l’autorità della famiglia. Da essa vengono, invece, i primi insegnamenti etico- politici che predispongono ad atteggiamenti politicamente eversivi. Il ruolo della famiglia, e del vincolo che lega una generazione all’altra, risulta infatti fondamentale nel discorso nazionale del Risorgimento. Né la famiglia, né gli istitutori, né la scuola sono i vettori attraverso i quali passa, per la prima generazione di patrioti, l’iniziazione al credo nazionale, alimentata piuttosto dalla lettura di testi appartenenti alla produzione letteraria nazional- patriottica. Qualcosa cambia per la generazione successiva, quella composta da individui nati dopo il1815. Ecco che ora i familiari cominciano a diventare le fonti dei primi messaggi di carattere nazional- patriottico. La lettura di testi poetici o narrativi non era l’unico modo per “scoprire” la nazione italiana. È perfettamente nota l’importanza della costituzione o della partecipazione a gruppi settari, o ad iniziative politiche clandestine, di un tipo o di un altro: attività ampiamente descritte anche nella stessa memorialistica risorgimentale. Occorre, così, ricordare il rilievo speciale che alcuni di questi testi attribuiscono al pensiero di Mazzini, e alla propaganda della Giovine Italia. L’azione propagandistica svolta da quest’ultima nei primi anni “30 e “40 è fatto molto noto, ma queste testimonianze pongono però bene in evidenza la forza comunicativa del pensiero mazziniano, evidentemente ricco di risonanze e di fascino soprattutto per i giovani, e in particolare per gli studenti di diverse università italiane. La storiografia che si è occupata della letteratura e della saggistica risorgimentale ha, di norma, posto in evidenza le profonde diversità delle convinzioni ideologiche, delle sensibilità filosofiche, delle aspirazioni politiche, che animarono intellettuali, letterati e leader politici risorgimentali. Ma se lasciamo sullo sfondo le loro preferenze politiche, e li ascoltiamo solo ed esclusivamente mentre parlano della nazione italiana,ebbene, ecco che le differenze cadono: una lettura riavvicinata dei lavori del “canone risorgimentale” mostra la ricorrenza piuttosto sistematica di una serie di temi e di figure, tra loro connessi, che delineano una sorta di narrazione coerente della nazione italiana, qualcosa che potremmo chiamare la morfologia elementare del discorso nazionale. Banti, a questo proposito, esamina con grande attenzione molti testi letterari che hanno come seguito giuramenti, patti, (immaginati da Manzoni, da Berchet, da Cammarano , auspicati da Mazzini…) e afferma che sono essi a dare origine alla nazione. Quegli atti di volontà non riguardano la costituzione della comunità nazionale. Siamo, invece, di fronte a qualcosa che va assunto in forma molto più letterale. Siamo nel momento del risveglio eroico della nazione, non nella fase della sua fondazione. I giovani ora “giurano” di spezzare l’oppressione straniera, di restituire alla madrepatria le terre che le appartengono, di dare uno stato alla nazione. Non hanno bisogno di partecipare a un «contratto sociale” fondativo della nazione, perché la nazione esiste già; essi ne fanno già parte: non sono che una delle tante generazioni di una immemorabile comunità di destino, la generazione più fortunata forse, da tanto tempo la più virile, la più coraggiosa, ma non certo la prima. La nazione esiste già, e le sue connotazioni sembrano relativamente precise. Dai testi manzoniani si enuncia come ci siano due forme di aggregazione che si pongono su piani diversi:'l'appartenenza alla nazione ha il carattere di un' ontologia naturale che non può essere nascosta; i patti, al contrario, appartengono alla sfera dell' arbitrario, del transeunte, e possono dolorosamente contraddire, tanto quanto gloriosamente esaltare, l'ontologia nazionale. Dunque una pratica che appartiene all' arbitrario, al politico, quella dei patti, si giustappone a una realtà più profonda, esclusa dall' ambito della scelta, quella del sembiante, della discendenza, del linguaggio. Cosi la nazione non deve essere costituita attraverso un' azione politica, attraverso un esercizio di volontà. Essa, infatti, appartiene a un' altra dimensione, quella dei legami stabiliti, una volta per tutte, dalla natura, secondo alcuni, oppure da una volontà metafisica, da Dio stesso, secondo altri. Ascoltando, invece, Vittorio Alfieri si nota come egli enunci il principio che deve funzionare da soffio animatore per la rinascita della nazione italiana, ovvero l'odio contro i francesi; dopodiché passa a descrivere i caratteri fondamentali della nazione, che sono, immancabilmente, un luogo proprio, una lingua propria e dei costumi propri, tutti elementi che conferiscono all’Italia una “Unità”. La natura, quindi, per questo autore, è all' origine della costituzione della comunità nazionale. Mazzini, invece, ricorre a una sorta di ipotesi poligenica dell’origine delle nazioni, dovuta al diretto intervento di Dio. Le nazioni, argomenta Mazzini, sono un mezzo per cercare una vera fratellanza di tutta l’Umanità. Per Mazzini le nazioni esistono ab aeterno, dunque . l popoli che le animano hanno tratti comuni, hanno “innate spontanee tendenze” e nel caso dell’Italia addirittura una cornice geografica fatta apposta per scandire meglio la separatezza dalle nazioni circonvicine. La nazione sembra assumere dunque i tratti di una comunità etnica, i cui principali elementi sono, al tempo stesso, naturali e culturali. Sebbene il riferimento alle componenti culturali (la storia, la lingua, le tradizioni) abbia una notevole importanza, conviene per ora seguire la pista aperta del costante richiamo ai tratti naturali, che connoterebbero la comunità nazionale. Dal punto di vista letterario questo aspetto viene sottoposto ad un elaborato e pervasivo trattamento simbolico, che mira a presentare la comunità nazionale nelle vesti di una comunità parentale allargata, insediata in un luogo fisicogeografico che le appartiene. L’allegoria originaria immagina la patria come una donna e una madre; se è così allora i suoi figli, proprio per questa comune discendenza, sono tutti legati tra loro da un vincolo di fratellanza. La sequenza simbolica non si ferma qui poiché viene sviluppata nell'immagine della nazione come un fitto reticolo di nessi familiari, che lega una lunga catena di generazioni tra loro in senso longitudinale, in senso orizzontale, e fisicamente a un luogo, a una terra. L'aspetto interessante di queste elaborazioni e che in tutti gli esempi in cui ha corso l’immagine della parentela, essa si accompagna ad una sua precisa contestualizzazione spaziale: la rete parentale ha un suo spazio,un suo luogo, una sua terra che la ospita da tempo immemorabile, La terra, però, non è solo un inerte spazio fisico. La terra è molto di più : è un ambiente che ha ricchezze di cui si va orgogliosi, risorse di cui si è gelosi, ma è anche profumi, panorami, colori, cose che strutturano la memoria e accompagnano la vita di chi vi ha abitato. La nazione come comunità naturale, fatta di legami parentali e di patrimonio territoriale, è un retaggio che proviene da tempi immemorabili: questa è, dunque, l’immagine trasmessa dai testi del “canone”. Ma la storia, in che modo incide nella strutturazione di questa comunità? Certo, lo si è già visto, le generazioni della comunità nazionale non sono legate solo ed esclusivamente da un vincolo di sangue e di terra: non meno importante è il vincolo della memoria storica. Questo è il compito che le storie hanno: fare in modo che chi compie nobili azioni sappia che potranno essere descritte e tramandate come esempi alle future generazioni. Per questo ç' è necessità di storie delle gesta nazionali, delle opere nazionali, della letteratura nazionale. Per questo c’è bisogno del culto delle ceneri dei grandi. Un popolo decaduto, come quello italiano, ha particolarmente bisogno di riflettere sulle glorie e sugli esempi dei padri; da quelle e da questi deve trarre insegnamenti e auspici per rigenerarsi e riconquistare la propria libertà. La nazione, dunque, ha una storia la cui memoria va tenuta viva perché non vada persa la coscienza del proprio essere presente. Nelle opere di Mazzini e Mameli, come, più in generale, nelle opere del “canone”, colpiscono due aspetti fondamentali: la disinvolta assimilazione di eventi storici molto diversi tra loro; il trattamento segmentario ed autonomo rispetto ad una narrazione complessiva della storia nazionale. Il punto è che, nei testi del canone almeno, i fatti storici di cui si parla acquistano un senso in quanto figure, ovvero anticipazioni di un evento che deve ancora compiersi. Il trattamento della storia, nei testi del canone, sembra procedere in modo analogo: particolari avvenimenti della storia della penisola acquistano rilievo solo quando possono essere considerati come prefigurazioni del risveglio della nazione. E’cosi che eventi talora apparentemente del tutto privi di ogni esplicita finalità nazionale acquistano significato come momenti specifici di un'ininterrotta storia della comunità nazionale italiana, che ancora aspetta il suo compimento. Un aspetto chiave di questa particolare concezione della storia è il carattere ripetitivo degli eventi narrati, che rinnovano l’esperienza di sofferenza della comunità nazionale. Tale carattere ripetitivo deriva dal criterio base con cui gli autori del canone scelgono gli episodi da trattare. la scelta cade su eventi che consentano di esplorare tre configurazioni sincrone, incessantemente, quanto dolorosamente, ricorrenti: a) l'oppressione della nazione italiana da parte di popoli o di tiranni stranieri b) la divisione interna degli italiani, che favorisce tate oppressione c) gli eroici, quanto sfortunati, tentativi di riscatto. Le divisioni interne producono scompiglio nell’ordinato corso delle cose, nell’armonia dei rapporti tra mariti e mogli, tra fratello e fratello, tra amico e amico, insomma nei nessi più intimi che rendono coesa una comunità. Esse aprono le porte alla debolezza di fronte a quegli stessi stranieri che non hanno che da sfruttare e alimentare gli odi fratricidi. La minaccia straniera vuol dire perdita della libertà, della terra, degli averi. Ma ciò non basta. Essa getta un’ombra ancora più inquietante sulla vita della nazione, poiché ne minaccia la stessa essenza, attraverso il possibile intreccio di rapporti eroticosessuali impropri. Nella sua forma più diretta e immediata, la minaccia prende la forma dell’oltraggio violento a uno dei più segreti valori della comunità nazionale aggredita: la purezza delle donne. Tuttavia questo tema, pur così presente, ha talvolta un ruolo solo marginale nella costruzione degli intrecci. La relazione impura è affrontata allora da una prospettiva diversa, apparentemente meno traumatica. Tra le opere del canone questo movente narrativo viene sviluppato in quattro diverse varianti. A) Nella prima, la donna, attraversata dal pensiero di una relazione con uno straniero, ma lontanissimo dal volerla, inorridisce fin quasi al delirio. B) In una seconda variante, la donna finge di assecondare l’amore dello straniero, per meglio colpirlo. C) Talora l’innamoramento per lo straniero non è finzione, ma affetto vero e sincero; solo che poi, il rapporto non è consumato, e l’innamorata si ferma davanti alla riacquistata consapevolezza di esser sul punto di tradire i più profondi valori del proprio popolo. D) Non sempre chi fa sedurre è in grado di resistere alla passione d’amore. Con tutte le possibili varianti narrative che compaiono in diverse storie di violenza, di amori contrastati, di ostilità fratricide, vi sono alcuni elementi strutturali che vale la pena mettere in evidenza. Secondo la maggior parte dei testi del canone, i soggetti più esposti alle “mesalliances” nazionali sono le donne. Ciò che è in ballo, qui, è uno dei tesori fondativi dell’onore nazionale, ovvero la loro purezza e la loro castità. Quelle che tra loro si perdono, con un rapporto impuro, sono accompagnate dalla prova della loro impurità, ovvero dai figli avuti da stranieri. Ed è da sottolineare quanto sia grave il fatto che le donne abbiano ceduto ad “empi amplessi” , ed hanno avuto figli. Per questo devono essere punite senza pietà, dal momento che ciò che si deve evitare non è soltanto la contaminazione delle donne,quanto, soprattutto, l’empia mescolanza di sangue diverso: per questo la colpa della procreazione di meticci è così grave. La libertà, l’indipendenza, uno stato nazionale, sono tutti obiettivi fondamentali per qualunque patriota del Risorgimento, Mazzini in testa. Ma accanto a questi valori ne compare uno più torbido e profondo: l’onore da difendere, l’onore offeso dalla violenza alla terra, l’onore offeso dalla violazione della dignità delle persone, l’onore offeso nella violazione della purezza delle donne. Questi elementi sono ricomposti in forma diversa nei più complessi meccanismi narrativi che sono propri dei romanzi storici. Questi romanzi vivono di un impianto di intrecci multipli, che rende la struttura estremamente complicata. Tuttavia , all’interno di intrecci apparentemente difficili da ricondurre gli uni agli altri, ricorrono costantemente tre figure, che strutturano la narrazione e che sono dotate, tutte, di tratti singolarmente simili. La prima figura è quella dell’eroe, il protagonista, la guida dell’azione. L’eroe è un uomo che ha sempre delle qualità militari; è un condottiero o lo è stato in gioventù, ed ha un riconosciuto ruolo di guida politica o morale all’interno della sua comunità. È animato da un intenso amor di patria, si batte con coraggio, ma è destinato inevitabilmente alla morte. Le sue azioni, e in alcuni casi la sua morte, hanno un valore di testimonianza offerta ai contemporanei e ai posteri. Gloria e dolore, eroismo e morte tragica sembrano i marchi distintivi di alcune figure. E l'ombra del tradimento, anche. Perché il destino dell' eroe è sempre segnato dal un incontro con un traditore. ln questi romanzi i traditori hanno un ruolo narrativo cruciale: sono gli attori che muovono il dramma, che introducono elementi di suspense, che fanno precipitare la storia verso il suo finale tragico. La loro e un' azione subdola, destinata a muovere le sue trame nell'ombra. Disprezzati da tutti, com'essi sono, quando son costretti ad uscire allo scoperto, diventa chiaro a tutti, che essi agiscano per ambizione, sete di potere, per denaro, o per desiderio di vendetta. Più pericolosi degli stessi stranieri, i traditori sono la causa della disfatta della comunità nazionale nella lotta, ed insieme sono la causa della morte dell’eroe. Diversi tra loro vogliono anche disonorare le donne degli antagonisti, ad ulteriore ed estrema ingiuria. L’orrore etico suscitato dalle loro turpi macchinazioni è moltiplicato dalla perfezione morale delle donne che sono vittime delle loro trame. Le eroine nazionali sono accumunate agli eroi per la loro fedeltà ai valori patrii. Sono poi descritte come donne di incontaminata purezza. La minaccia che devono subire da parte dei traditori è proprio una minaccia alla loro castità, alla loro purezza sessuale. Quando il loro onore è stato violato esse hanno davanti a sè un destino di morte; quando il disonore sia nato da un loro colpevole cedimento, la loro punizione è l’esclusione dalla comunità. In questi romanzi, dunque, gli intrecci sono strutturati dall’interazione fra le tre figure degli eroi, dei traditori e delle vergini. Se la morte dell’eroe ha funzione testimoniale, essa è provocata dalle mene di qualche bieco traditore; quanto alle donne, esse, sono la posta intorno al quale si gioca la difesa dell’onore della patria. Per difendere l’onore della patria è necessario agire. E, nei testi del canone, capita talvolta che siano proprio le donne le prime ad incitare gli uomini all’azione. Consapevoli della posta in gioco, queste donne, sono spettatrici e trepidanti nell’azione patriottica. Le vie dell’azione possono essere la congiura, o la ribellione, ma anche il duello, ed infine la guerra. Tra questi, il più rilevante, è il ruolo dei duelli. Ve ne sono di due tipi: contro i traditori, e contro gli stranieri. Quando gli scontri hanno un carattere rituale, e non l’aspetto di una zuffa, essi non hanno mai soltanto il carattere per la difesa dell’onore individuale; sono, infatti, anche uno scontro per la difesa dei valori e della dignità della comunità. Quando poi i duelli contrappongono combattenti di due nazioni diverse essi acquistano il carattere di stilizzazioni spirituali dello scontro bellico. Il parallelo tra duello e guerra palesa uno dei caratteri fondanti dello scontro per la nazione: essa deve difendere valori etici, riscattare la nazione dalla sua caduta, oltre a liberare il territorio nazionale dai nemici Tuttavia, il fatto che la guerra persegua l’obbiettivo della liberazione effettiva ne fa un momento di livello superiore al duello. Ed è proprio questa sua superiorità che fa della guerra un evento con caratteri di sacralità e di santità che al duello non sono attribuiti. “Il risorgimento non è solo il risveglio alla coscienza di un soggetto collettivo dimentico di sé,ma è vera e propria“risurrezione”,cancellazione della colpa originale,riscatto dalla caduta politica ed etica”. Alberto Mario Banti Banti prosegue la sua indagine nei caratteri del “canone risorgimentale” attraverso lo studio di alcuni autori che contribuirono a definire”l’idea di nazione” durante il risorgimento. Il primo ad essere citato è Berchet che, con la lettera “Agli amici d’Italia” vuole risvegliare gli italiani “alla consapevolezza della propria italianità” tramite la costruzione di immagini che potessero evocare valori ed ideali. Non era importante che queste fossero vere o false, ma che fossero efficaci e che riuscissero a produrre”quel sentimento,quell’affetto”.Nella descrizione contenuta nei testi,la nazione appare con i tratti di una comunità etnica dotata di aspetti biologici e culturali condivisi da tutti i suoi membri. Il secondo autore citato è Cuoco che,nel “Platone in Italia”,tematizza l’idea di un’origine preromana della nazione italiana. Anche per lui le immagini simboliche assumono un’estrema importanza e,in questo caso,vengono tratte dalla storia della penisola compresa tra tarda antichità ed epoca moderna. Tali immagini non dovevano essere caratterizzate da alcuna elaborazione ma dovevano “essere sentite” dalla popolazione e,quindi,condivise da tutti. Secondo Cuoco la nazione è l’insieme dei soggetti dotati di un proprio spirito e di un proprio carattere fondamentale,fissato “ab origine” e condizionato dall’azione della storia. L’unità fondamentale è garantita,secondo lui, dal possesso di una serie di caratteri originari e condivisi da tutti i suoi membri. E’ quindi necessario evitare di imporre alla nazione apparati istituzionali e normativi ad essa del tutto estranei. Secondo Cuoco la parte di società più vicina ai caratteri originari era quella popolare. Inoltre nel “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana”,formula della ipotesi che tracciavano i contorni di un progetto politico-costituzionale che conciliava nazione,elitismo e autonomie territoriali. Possiamo concludere dicendo che per Cuoco, la nazione è come la famiglia,ovvero come non si sceglie la famiglia,a cui si appartiene per vincoli di carattere naturale,allo stesso modo non si sceglie la nazione. Successivamente troviamo citato Mazzini che collega i testi patriottici alla tradizione religiosa,ovvero sostiene che gli uomini siano una sola famiglia “d’eguali in Dio”, e che il simbolo di questa fratellanza sia la comunione. Era necessario,dunque,secondo Mazzini,ampliare e sviluppare la verità nascosta in questo simbolo. Secondo l’autore dunque la santità dell’associazione originaria si trasmette alle associazioni di natura non strettamente religiosa,in questo caso la “Nazione”:forma associativa che unisce tutti i membri. La Nazione si propone come una comunità di fratelli dotata di un respiro etico che la trasforma in una cosa sacra. Così se da una parte abbiamo la natura biologica che accomuna tutti i membri,d’altra parte si pone l’accento sulla natura sacra e spirituale dei legami. Questa concezione sacra della Nazione risulta ancor più sottolineata dalla metafora che vede paragona la triade figurale della narrazione nazionale(eroi, traditori, vergini) alla storia della redenzione(Gesù,Giuda,la Vergine).Infatti si riteneva necessario seguire l’esempio di Cristo e dei suoi santi:come essi sacrificarono la loro vita per gli altri cristiani,anche gli eroi,con la loro morte tragica,in onore della loro nazione,svolgono un ruolo testimoniale,poiché morendo possono liberare l’intera comunità dallo stato di disunione e di disonore nel quale essa è caduta. La figura dell’eroe-martire assume notevole rilievo in un articolo del 1832 di Mazzini,dove egli scrive:”Que” martiri equilibrano a poco a poco la bilancia tra le creature e il creatore“.Infatti la loro azione comporta che venga ricomposta la frattura che ha separato i fratelli dai fratelli e inoltre comporta che sia cancellata la traccia degli innumerevoli tradimenti che hanno macchiato la storia della nazione. Le altre due figure della triade sopra citata sono i traditori, visti come gli antagonisti degli eroi, e le eroine,per le quali la morte è espressione di una fede e di una purezza che non è mai veramente vinta dall’aggressione sessuale. Dunque in questo periodo si cerca di ottenere ciò che la nazione aveva perso,ovvero la sua identità,il suo onore;ed ecco che in questo punto eroi ed eroine assumono un’importanza fondamentale:hanno la missione di testimoniare,attraverso le loro gesta e le loro morti,il valore e la qualità della comunità nazionale. I valori fondamentali che questi eroi vogliono difendere sono:la ”valentia militare”,la concordia,la purezza della donne. Per questo motivo,come già detto,è importante,in questo periodo,il duello,pratica strettamente legata al codice dell’onore. Le categorie che risultano impegnate nei duelli sono i militari ma anche borghesi,giornalisti,avvocati...In questi casi il duello non è più un appannaggio esclusivo di uno specifico status sociale,ma ha un carattere rigorosamente individuale. Le qualità fondamentali divengono il coraggio,accompagnato da fermezza e sangue freddo. I duelli narrati sono combattuti per reagire ad insulti rivolti alla purezza della italiane o al valore militare degli italiani. Del comportamento degli eroi italiani si sottolinea sia il carattere reattivo-difensivo,sia la leale generosità;ancora una volta la nazione è rappresentata come comunità che tenta di riscattare l’onore perduto. Il tema del sacrificio in onore della nazione,viene trattato da Banti in modo da far emergere il fatto che la nazione viene narrata attraverso un calcolo operato sulla storia di Cristo,in modo tale che gli eroi venivano trasformati in soggetti consapevolmente destinati ad un sacrificio espiatorio e testimoniale. Questo nesso tra martiri della patria e martiri cristiani viene presentato da Vannucci nell’introduzione de “I martiri della libertà italiana”,infatti così scrive:”I frutti della libertà che ora da noi si cominciano a cogliere furono seminati e coltivati con lunghi dolori dai nostri padri e dai nostri fratelli…In Italia non vi è palmo di terra che non fosse bagnato dal sangue dei martiri della libertà…come i martiri della religione,erano dappertutto e combattevano strenuamente per lo stesso principio e confermavano l’ardente fede col sangue”.Perciò era disprezzato colui che,tradendo la sua patria, ne infangava l’onore e la dignità nazionale. E,se dunque la nazione era vista come una comunità compatta per i suoi caratteri naturali,etnici,culturali,storici-politici,niente poteva esserci di peggio delle divisioni e niente poteva essere più abominevole del tradimento. Ovunque la nazione avesse subito un insuccesso la causa non poteva essere che un tradimento;persino la morte naturale di un patriota era,senza dubbio,considerata il frutto di un avvelenamento. La figura del martire era al centro del discorso nazionale tanto che,alla morte di un combattente per la patria,si pubblicavano elogi funebri,odi,canzoni e poesie tendenti a celebrare il martire ed esaltarne il sacrificio. I patrioti e i martiri della libertà erano coloro che garantivano la compattezza nazionale,contro gli stranieri che potevano arrecare oltraggi alla dignità della nazione. Il soggetto che più minacciava la popolazione italiana era il soldato austriaco,responsabile di battiture pubbliche di donne nude,di mutilazioni,di violenze gratuite e di molte altre umiliazioni .Di questo parla Correnti nell’opuscolo pubblicato a Torino nel 1849,esaltando l’eroismo sacrificale e l’etica cavalleresca dei nobili patrioti bresciani contro i gesti umilianti che i selvaggi austriaci avevano cercato di mettere in atto per insultare l’onore della città e dell’Italia.Assumevano estrema importanza anche le donne,di cui si esaltava la purezza e la castità,poiché la minaccia alla purezza della donne era una minaccia all’onore della nazione. La guerra dunque doveva apparire come una dimostrazione di coraggio,di valore,di vigore,di unità,una smentita a tutti coloro che,fuori dalla penisola,da secoli si erano ostinati a presentare gli italiani come codardi. Se la guerra e la lotta assumevano un carattere religioso,le stesse vicende militari nei primi mesi del “48 nel caso della guerra per l’indipendenza della nazione,vennero vista attraverso tutti quei riferimenti simbolici che ne enfatizzavano il carattere sacro,un aspetto che sembrava suggellato dall’esplicita benedizione di Pio IX al movimento nazionale. Ma ben presto la fitta serie di rimandi alla santità della guerra cominciarono a sbiadire;all’immagine della crociata cominciò a sovrapporsi quella della falange eroica in lotta per il riscatto. Infine,Banti prende in considerazione alcune figure femminili che presero parte alle varie guerre,diventando così eroine per la salvezza della nazione. Si citano la contessa Martini Salasco che partecipò all’impresa garibaldina in Sicilia;la principessa Cristina di Belgiojoso la quale,allo scoppio delle cinque giornate a Napoli,noleggiò a sue spese un vapore per raccogliere il maggior numero di volontari disposti a combattere. Possiamo concludere dicendo che,in questo periodo,forte era lo spirito nazionale,ogni singolo individuo si sentiva parte di un tutto fino al punto di sacrificare la vita per la sua nazione,difendendone così anche tutti i valori che,ovviamente venivano condivisi dall’intera comunità. (Roberta Cattaruzza Giada Martini) 4. L’ANTI RISORGIMENTO 1. UN ESEMPIO DI REVISIONISMO STORICO SUL RISORGIMENTO Nel suo saggio, Angela Pellicciari offre un’ interpretazione del Risorgimento in chiave molto critica e negativa e fornisce una nuova prospettiva per un’analisi degli avvenimenti da un punto di vista meno filo liberale, più vicino alle ragioni della Chiesa di allora. LE RAGIONI DI PRINCIPIO DI UNO STATO LIBERALE Regno di Sardegna: una monarchia costituzionale Il Regno di Sardegna, che si dichiara legittimamente libero, visto il mantenimento da parte di questo Stato (unico esempio in Italia) della Costituzione, si trova ad affrontare una situazione di aperto conflitto contro gli ordini religiosi, per difendere i princìpi liberali in opposizione al clima di oscurantismo che vige in tutti gli altri Stati della penisola. Fine del privilegio: uguaglianza davanti alla legge Il Parlamento del Regno di Sardegna si oppone categoricamente al principio della disuguaglianza fra i cittadini che vige invece, per definizione, all’interno di una monarchia assoluta. Tutti i cittadini devono, quindi, essere perfettamente uguali di fronte alla legge ed occorre sancire la fine dei privilegi e delle discriminazioni. Lo Stato applica tali principi nel proclamare pari opportunità per gli ebrei e piena libertà di culto per i protestanti. Tuttavia, si mette ora in discussione la legittimità dell’abolizione delle pari libertà e dignità per gli ordini religiosi, che sono inoltre investiti dal consenso della quasi totalità della popolazione. Il deputato Palluel fa proprio leva sulla concezione delle libertà viste come una catena, della quale non si può rompere nemmeno un anello senza che essa risulti spezzata nella sua interezza. Jacquemond e Benso dichiarano, ancora, incostituzionali tali restrizioni contro gli ordini religiosi. I deputati contrari al mantenimento di questi ultimi devono dunque ribattere alle obiezioni, e lo fanno affidandosi alla stessa definizione di Stato, “poiché il Regno di Sardegna, prima di essere liberale, è uno Stato”. SiottoPintor, a partire da questa definizione, parla di una condizione essenziale per la sopravvivenza degli ordini religiosi nei termini di uno Stato, ovvero il benestare del Governo. Lo Stato liberale dimostra ora, in realtà, di conservare un ampissimo margine di controllo sulla popolazione e sulle istituzioni. Secondo il deputato Bottone, non si può parlare di dispotismo, ma di uno Stato che istruisce la popolazione ai princìpi liberali; contemplando, però, anche la possibile approvazione di provvedimenti, giustificati da “solidi motivi”, che appaiono “leggi d’eccezione, contrarie alla libertà generale”. Risulta necessario, continua Bottone, proteggere le “neonate” istituzioni del Regno di Sardegna dai loro nemici; anche Cheval e Sulis proseguono sulla strada della legittimità del provvedimento “in nome della libertà”. Oltre a ciò, i deputati liberali sono convinti che i loro princìpi siano validi solamente per coloro che fanno parte del partito liberale, mentre tutti gli altri, per definizione non liberali, devono essere lasciati in un clima di oscurantismo (al quale, secondo i liberali, essi sono certamente favorevoli). Benedetto Croce, nella Storia d’Europa nel secolo XIX del 1932, affermerà che, in merito “all’assunto principio di libertà, la violenza è esclusa dalla vita politica, ma che non è escluso, in certi casi particolari, il procedere rigoroso e radicale”. Diritti acquisiti I liberali quarantottini sostengono la necessità di una trasformazione profonda della società, oscurantista e reazionaria. In questo contesto perdono di valore anche i trattati internazionali stipulati durante il governo di sovrani assoluti, poiché lo stesso ruolo di questi ultimi contribuisce a compromettere la validità di tali trattati. Nel periodo storico in esame, pregno di velocissimi cambiamenti, il solo tempo che si considera è il futuro, che rappresenta l’occasione di un grande e generalizzato rinnovamento. Il Concordato stipulato fra la Santa Sede e il Regno di Sardegna nel 1817 sancisce l’illegittimità di ogni intromissione da parte del potere temporale nei confronti di questioni riguardanti il potere spirituale. La sopravvivenza degli ordini religiosi è dunque garantita da questo trattato internazionale, nel quale si fa riferimento al divieto ai i governi di modificare qualsiasi aspetto nelle istituzioni ecclesiastiche senza che vi sia un accordo bilaterale con la Santa Sede. Stando a tale trattato, quindi, l’abolizione di alcuni ordini religiosi che si è verificata risulta una vera e propria violazione del Concordato. I liberali ribattono alle difficoltà sottolineate dai deputati contrari al provvedimento sostenendo che l’unico problema che ancora sussiste è quello dei beni degli istituti soppressi. In realtà questi beni risultano intoccabili in quanto “ecclesiastici”, e dunque per risolvere la questione viene proposta una soluzione da parte del deputato Pescatore: se la Camera decretasse che non si tratta di beni ecclesiastici, il problema potrebbe considerarsi già risolto. Proprietà privata: un diritto. Per tutti? In base all’articolo 29 dello Statuto, che assicura il diritto di proprietà, la confisca dei beni degli ordini religiosi viola una norma essenziale della Costituzione. I deputati che appoggiano la conservazione degli ordini parlano dunque di una ferita che si sta aprendo nel corpo sociale, la quale lascia intravedere conseguenze soltanto negative. Il pericolo che ne deriva consiste nella possibilità che, in futuro, avvalendosi delle stesse motivazioni che vengono utilizzate in questa circostanza, il Governo estenda l’esproprio “a tutti i tipi di proprietà”. Emendamento Pescatore: respinto Nonostante il progetto di legge elaborato in quest’occasione chiarisca, all’interno dell’articolo 3, che debbano essere espropriati tutti i beni degli ordini religiosi, “a qualsivoglia titolo posseduti”, secondo il deputato Pescatore è necessario specificare che essi dovranno venire devoluti allo Stato “non ostante la clausola di reversibilità od altra qualunque in contrario che si fosse apposta negli atti di donazione e di testamento”. Tutti i beni della Chiesa derivano dal considerevole numero di donazioni da parte dei fedeli. Il bisogno di chiarimento deriva, per Pescatore, dal fatto che, benché le donazioni dovessero essere fortemente tutelate e riservate allo scopo per cui esse erano destinate, in passato lo Stato e numerosi componenti delle classi al potere le hanno usurpate. Al termine di questa fase, allorché viene di nuovo riconosciuta personalità giuridica agli ordini religiosi, i fedeli che si apprestano a compiere donazioni specificano nei loro testamenti la volontà che, qualora si verifichi una nuova ondata di oppressioni e violenze, i beni devoluti debbano ritornare nelle mani degli originari proprietari. In realtà sono effettivamente questi i possedimenti che i liberali intendono confiscare alla Chiesa. Tuttavia, in seguito ad una lunga discussione in Parlamento, l’emendamento viene rigettato, ma ciò non altera la posizione dei deputati, che non mettono in discussione il principio che tali beni debbano essere incamerati, “a qualsivoglia titolo posseduti”. Emendamento Demarchi: respinto Il deputato Martinet solleva ora una significativa questione: cosa fare delle ricchezze possedute solo “a titolo precario, di usufrutto, di locazione, di semplice uso, di amministrazione e simili”? Egli pensa che essi non debbano essere equiparati a quelli legittimamente detenuti e, a tal proposito, il deputato Demarchi suggerisce di adottare l’espressione “salvi i diritti dei terzi”. Ma l’emendamento viene respinto dal Parlamento e nel progetto di legge si leggerà: “Tutti i beni e ragioni di qualsivoglia sorta per le dette corporazioni a qualsivoglia titolo posseduti, s’intenderanno e si dichiarano irrevocabilmente devoluti in piena disponibilità dello Stato”. Cosa decidere a riguardo delle donazioni future? In merito ai provvedimenti da prendere nei riguardi delle donazioni future, viene approvata dalla Camera una parte dell’articolo 7, che sancisce che “Le donazioni, le istituzioni di eredi, od i legati che verranno fatti alle corporazioni religiose, secolari o regolari, non avranno effetto se non saranno approvati dal Governo”. Esproprio di tutti i beni degli ordini religiosi. Perché? Il deputato Pescatore pensa che sottrarre i beni agli ordini religiosi sia assolutamente necessario in quanto si augura che in tal modo non potrà essere ripetuto una seconda volta l’errore commesso nel 1778, quando ci “si servì dei beni della corporazione gesuitica… per arricchire altri stabilimenti ecclesiastici”. I deputati liberali ritengono preferibile, a questo proposito, penalizzare l’istruzione a patto di eludere il pericolo del ritorno di insegnanti di ispirazione “gesuitica”. 1848: i nemici I Gesuiti ed i Gesuitanti di cui parla Bixio sono ordini religiosi appartenenti alla Chiesa cattolica, che però non viene mai attaccata né da Bixio né dagli altri deputati, e anzi viene difesa. Ma, in realtà, la religione e la morale che stanno a cuore ai liberali sono opposte, secondo Pellicciari, rispetto a quelle dei Gesuiti e degli ordini religiosi in generale, poiché nettamente contrapposte alla morale e alla religione cattoliche. Come è possibile che i deputati dello Stato di Sardegna (il cui articolo 1 dello Statuto recita che “la religione cattolica, apostolica e romana” è la “sola religione dello Stato”) si oppongano ad essa, adottando un atteggiamento chiaramente incostituzionale? Carlo Alberto e Massimo D’Azeglio Massimo D’Azeglio rappresenta, nelle vicende del Risorgimento, l‟uomo che i massoni utilizzano per indurre i Savoia ad intraprendere e condurre la battaglia per la libertà e l’indipendenza italiane. La Massoneria sceglie D’Azeglio poiché egli rappresenta una personalità dotata di imparzialità, e diplomazia. Bisogna che egli lavori su due fronti: deve, infatti, convincere il Re Carlo Alberto a farsi portavoce della causa italiana e, allo stesso tempo, persuadere i “fratelli” di tutta la penisola a fidarsi del Sovrano. Carlo Alberto si presenta come una figura controversa, poiché nei moti del 1821 aveva aderito, ma poi aveva ritirato il suo consenso. Tuttavia D’Azeglio riscuote un completo successo, convincendo il Re con la prospettiva che otterrà, almeno, risultati materiali, cioè un regno più esteso. La Chiesa e l’uso della forza Dopo che Lutero aveva definito la città di Roma come “rossa puttana di Babilonia”, si diffonde la “leggenda della Roma cattolica, capitale della superstizione, della barbarie e del potere tenuto con la forza”. I liberali, per poter portare a termine il loro progetto di unificazione dell’Italia, devono prima convincere i fedeli che lo Stato della Chiesa non tutela più la loro fede, in modo da provocarne la fine. Per fare ciò essi si avvalgono della motivazione che la Chiesa diverrà sicuramente più pura senza le ricchezze che detiene. Bisogna, dunque, riuscire ad annientare questo Stato, “sanguinario, retrogrado e mal amministrato” tramite un’azione propagandistica che parte proprio dai governanti sardi. D’Azeglio si rivolge ai cattolici da cattolico, in modo da non provocare in loro diffidenza, per realizzare uno dei postulati fondamentali nell’ambito della massoneria: occorre privare la Chiesa tutte le sue proprietà e sottrarre al Papa il potere temporale. Regno di Sardegna Lo Stato di Sardegna mira a realizzare il progetto di indipendenza dell‟ Italia sia dall’Austria che contro la Chiesa cattolica. Il primo Parlamento elettivo del Regno di Sardegna si occupa, infatti, inizialmente, della lotta agli ordini religiosi, visti come reali nemici, contro i quali è necessario costruire una morale ed una religione nuove e differenti da quelle cattoliche. Pur non essendo lo stato più rappresentativo della penisola, è proprio il Regno di Sardegna che diviene promotore della battaglia per il Risorgimento italiano. I Savoia, fautori di uno Stato costituzionale, renderanno il Piemonte lo “Stato guida” e considereranno Torino capitale “morale” dell’Italia. Essi offriranno accoglienza ai liberal-massoni, di cui appoggiano l’ideologia, e ai “fratelli”. La caratteristica vantaggiosa della loro politica sta nella diversità culturale e religiosa rispetto agli altri Stati della penisola, che permette loro di contrastare l’idea di una compagine unita solamente dalla massiccia adesione alla Chiesa cattolica, di promuovere la diffusione della fede e della cultura protestanti. COME REAGISCE LA CHIESA? Pio IX Nell‟1848 Papa Pio IX riceve la conferma di essere stato “utilizzato dai liberali che lo hanno mitizzato per sfruttarne la nota simpatia per la causa nazionale”, poiché i liberali lo abbandonano per occuparsi del trionfo repubblicano. Il 20 aprile 1849 il Papa, in esilio presso Gaeta, parla ai fedeli in modo che essi conoscano il vero scopo dei rivoluzionari. Questi ultimi non intendono, togliendole il potere temporale, rendere migliore la situazione della Chiesa cattolica, ma invero mirano ad annientarla. 1852: RELAZIONE MELEGARI Arturo Carlo Jemolo Arturo Carlo Jemolo, storico di fama, analizza in molti lavori le vicende del Parlamento subalpino. Egli trae dal Risorgimento, nonché dai suoi protagonisti, un giudizio positivo, poiché considera innovativi i valori per cui si battono i liberali e contesta, quindi, le ragioni opposte della Chiesa. Il giudizio di Jemolo riguarda anche la relazione Meleagri, che viene caratterizzata come “ottima relazione, ricca di buone considerazioni giuridiche, e di accurati dati statistici”. Tali valutazioni sembrano soprattutto dovute alle “simpatie” dello storico per il pensiero liberale, dato che non contengono nemmeno una sintesi dell’influenza che la massoneria ha avuto “sul pensiero liberale e socialista dell’Ottocento, mancanza che rende la posizione della Chiesa completamente ingiustificata. 1854: UN PROGETTO DI LEGGE CONTRO GLI ORDINI RELIGIOSI 1853: anno di crisi Il governo Cavour, nato nel 1852, cerca subito di realizzare una “liberale” riforma dell’economia. I provvedimenti adottati dal Governo causano, però, un repentino peggioramento delle condizioni di vita dello strato povero della popolazione che, il 18 ottobre, avvia una ribellione. Ma Cavour tenta di perseverare nella radicalizzazione della sua linea politica, pur sapendo che incrementerà lo scontento del popolo. Egli opta, inoltre, per la riapertura delle ostilità anticattoliche. 928.412 lire Durante la seduta alla Camera del 6 marzo 1854 si solleva la questione della spesa per la congrue per il mantenimento dei parroci poveri. Per i deputati questa risulta eccessiva e viene proposta, di conseguenza, la cancellazione di questa voce di bilancio. Tuttavia si pone ora il problema di come assicurare in ogni caso la sopravvivenza dei parroci. A questo punto, comunque, appare chiaro che quello in merito alle congrue per i parroci poveri è solamente uno dei numerosi attacchi che il Governo intende sferrare nei confronti della Chiesa. “È evidente l’esistenza di un piano premeditato per combattere la Chiesa e incamerarne i beni; è evidente l’esistenza di una strategia complessiva messa in opera per tappe secondo le opportunità dei tempi”. “Dato questo contesto, il termine «anticlericalismo», comunemente utilizzato per descrivere l’atteggiamento dei liberali nei confronti della Chiesa in questo periodo, è decisamente inappropriato”. Secondo Pellicciari “qui non si osteggia né il clero, né una parte del clero: si combatte la Chiesa cattolica in quanto tale”. 21.130 lire: la Sardegna come la Savoia Il deputato Gustavo Cavour mette in luce un ulteriore problema: quello delle 21.130 lire che lo Stato assegna ai “parroci poverissimi” della Sardegna per il loro sostentamento. Cavour si oppone alla richiesta di Rattazzi, ministro di Grazia e Giustizia, di eliminare questi pagamenti, ma al termine del dibattito in Parlamento viene effettuata la votazione. Il risultato di quest’ultima sarà la soppressione dell’assegnazione delle 21.130 lire ai parroci, primo passo delle innumerevoli misure che verranno prese per affondare gradualmente la Chiesa. 28 novembre 1854: una proposta di legge Il presidente del Consiglio Cavour e il Guardasigilli Rattazzi presentano un progetto di legge volto alla Soppressione di comunità e stabilimenti religiosi ed altri provvedimenti intesi a migliorare la condizione dei parroci più bisognosi, nel quale figurano i due obiettivi fondamentali della loro azione: rendere giustizia alla parte più povera del clero (considerata anche la più utile) e aprire la strada ai valori della modernità, andando incontro ai reali interessi della popolazione. La prima mossa da considerare è quella di “togliere la personalità giuridica alla maggioranza degli ordini religiosi, i quali… ormai non possono che essere guardati con sospetto… in considerazione dello spreco di risorse umane ed economiche che comportano”. Lo scopo di fondo di Cavour è continuare l’opera di inasprimento delle ostilità contro la Chiesa iniziata da D’Azeglio. La politica anticattolica accomuna svariati gruppi politici, quali monarchici, repubblicani, socialisti, liberali di destra e di sinistra, massoni nazionali ed internazionali e, sebbene nel contesto italiano essa non sia assolutamente agevole, i liberali avranno successo. Rosario Romeo Lo storico Rosario Romeo, analizzando la politica ecclesiastica di Cavour, riscontra l’estrema contrarietà del popolo nei confronti della legge contro i conventi presentata dal conte e da Rattazzi. Tuttavia, essendosi evidenziata la “stretta parentela fra queste idee liberali e il programma comunista”, egli scrive: “I conflitti del Novecento hanno indotto a chiedersi se nel nazionalismo ottocentesco non fosse già presente una nascosta carica illiberale, quale sarebbe poi esplosa nel secolo successivo. Ma la questione è priva di fondamento”, poiché nel Regno di Sardegna “già in forza della mera emanazione dello Statuto, garanzie personali e diritti di libertà erano diventati una realtà per una parte considerevole della società piemontese […]. Lo Stato subalpino del decennio fu dunque uno Stato certamente liberale”. Ma, a giudicare da queste parole, secondo Pellicciari “come Jemolo, anche Romeo dà eccessivo credito alla propaganda liberale”. Niccolò Machiavelli Niccolò Machiavelli aveva espresso la convinzione che l’Italia risentiva negativamente dell’influenza del papato e tale idea viene ripresa da La Farina nella seconda metà dell’Ottocento. Egli afferma infatti che l’unità nazionale non è stata raggiunta proprio a causa della Santa Sede, mentre per l’Italia sarebbe fondamentale essere una nazione potente e competitiva sul piano europeo. Questo è ciò che vogliono i liberali, poiché, sostiene Pellicciari, “il pensiero liberale è fin dall’inizio indirizzato all’espansionismo e il primo frutto è proprio l’unificazione della penisola sotto il Piemonte”. Paternità del progetto di legge L’opinione di molti storici è quella che il progetto di legge Cavour-Rattazzi sia da attribuire solo al Guardasigilli e alla sua politica antiecclesiastica. Tuttavia è assurdo pensare che il conte abbia adottato una linea politica tanto impopolare senza essere completamente convinto della sua importanza e appare dunque chiaro che Cavour abbia agito seguendo le proprie personali convinzioni nei confronti della Chiesa. 27 DICEMBRE 1854: UNA LEZIONE DI DIRITTO Relazione Cadorna La Camera, trascorso un mese dalla presentazione della legge CavourRattazzi, deve ascoltare la relazione elaborata da una Commissione, che ha l’incarico di verificare i “fondamenti giuridici” della legge, che viene infine giudicata perfettamente costituzionale. La discussione si focalizza sul significato di “comunità religiosa”, definita come “un ente che non esiste in natura e che non può pertanto arrogarsi la pretesa di possedere dei diritti naturali”. Il padre delle comunità religiose è lo Stato, che dunque ha facoltà di revocare i diritti che ha loro conferito. Un altro punto da chiarire riguarda il concetto di “vita spirituale”. Con tale espressione i deputati intendono l’esperienza che ognuno vive nel privato o con altri individui, i quali però non sono mai concepiti come una collettività, da sé legittimata ad esistere. Il progetto di legge, allora, esprime idee opposte a quelle del diritto romano, e rappresenta un punto di rottura con la tradizione cattolica. L’uomo è diviso tra la sfera spirituale e quella corporea, terrena, che ha il sopravvento sull’altra. Egli, secondo Pellicciari, appare “tutt’altro che spirituale, tutt’altro che libero… un uomo schiavo dello Stato”. Libera Chiesa in libero Stato Con la separazione tra campo spirituale e campo temporale Chiesa e Stato non devono interferire l’una nelle questioni dell’altro (“Libera Chiesa in libero Stato”). Tuttavia i deputati, non riferendosi in alcuna circostanza alla Chiesa come “corpo”, ma prettamente all’individuo, stabiliscono in realtà la scomparsa di uno dei poli del binomio Chiesa-Stato. Di conseguenza, “lo Stato perde l’unico interlocutore che poteva limitarne le pretese e cede inevitabilmente alla tentazione di credere nella propria onnipotenza”. «Lungi dallo spingere sino alle ultime conseguenze...» Stabilendo che i beni della Chiesa sono quelli che “appartengono ai singoli benefizi ad altri stabilimenti ecclesiastici”, la Commissione, dando per scontato che la diffusione dei provvedimenti riguardi anche vescovadi e parrocchie, delibera che “tutti i beni dei corpi morali appartengono legittimamente allo Stato”. Per coloro che vivono grazie a tali beni viene creata una pensione il cui ammontare cambia al variare dell’età. I membri della commissione concludono quindi il loro intervento affermando di aver lavorato in modo giusto e rigoroso: “ Lungi dallo spingere sino alle ultime loro conseguenze giuridiche i principii sopra stabiliti”. Liberali e libertà Il concetto di libertà di cui parlano i deputati liberali risente profondamente dell’influenza della Rivoluzione Francese: “Per libertà si intende ora la possibilità di scelta fra diverse opzioni tutte equivalenti e che stanno, da un punto di vista oggettivo, tutte sullo stesso piano”. Questa equivalenza delle scelte rischia, in realtà, di far risultare indifferenti l‟uomo e le sue decisioni. Egli rimane infatti “solo con la propria irrilevanza esistenziale”. La concezione di libertà presa ora in considerazione si adatta ottimamente allo Stato liberale, nel quale “l’unico soggetto veramente “libero” è lo Stato medesimo”. 1855: DIBATTITO IN PARLAMENTO 9 gennaio-28 maggio La discussione della legge Cavour-Rattazzi coinvolge il Parlamento per un intero anno parlamentare, segno dell‟estrema importanza che ha la questione religiosa per i deputati. Il Senato ne riscrive successivamente quasi l’intero testo, per modificarlo in chiave più garantista, e Cavour deve presto accettare necessariamente i cambiamenti apportati. Il 9 gennaio 1855 il presidente della Camera Boncompagni apre la discussione sul “progetto di legge per la soppressione di comunità religiose”, che segue alla diffusione di due petizioni da parte dei vescovi del Piemonte e della Savoia, che definiscono il provvedimento “ingiusto, illegale, anticattolico e antisociale”. Il dibattito che si tiene in Parlamento è durissimo ed i toni sono molto aspri. Si stabilisce, così, l’effettiva esistenza di una condizione di “rottura con il passato della classe dirigente piemontese”. Libertà di stampa Durante l‟estate del 1852, Carlo Boncompagni è ministro di Grazia e Giustizia, dunque detiene l’incarico di vigilare sulla libertà di stampa. Ma non appena il conte Ignazio della Costa fa pubblicare il testo Della giurisdizione della Chiesa cattolica sul contratto di matrimonio negli Stati cattolici, nel quale egli si opponeva al progetto di legge per il matrimonio civile proposto dai liberali, il Guardasigilli ne ordina il sequestro e della Costa viene condannato a un anno di carcere e tremila franchi di multa. È dunque evidente che la libertà di stampa vale solo per la stampa liberale e che è in atto, secondo Pellicciari, una vera e propria “pratica sistematicamente discriminatoria nei confronti della stampa cattolica”. «Rancida imitazione della Rivoluzione Francese» Mentre la sinistra guarda con grande ammirazione ai Paesi che durante e dopo la Rivoluzione Francese sono stati protagonisti di un rinnovamento ideologico, la destra non vuole prenderli a modello per l’assetto dello Stato italiano. Assieme agli esponenti della destra, però, vi sono alcuni membri del centro-sinistra, come Domenico Buffa, che disapprovano i risultati ottenuti dal movimento rivoluzionario. Lo stesso Buffa affermerà che i provvedimenti per la soppressione degli ordini religiosi sono una “rancida imitazione della Rivoluzione Francese”. Che cos’è il bene morale? Quando si parla del concetto di “bene morale” non si può non fare riferimento alla ricerca degli affiliati alla massoneria. Nelle “Istruzioni” si afferma che “La massoneria è una scienza perfetta e positiva, fondata su una dottrina emanata dalla ragione umana perfezionata” e i massoni si considerano “i depositari della “vera” morale… riassunto della saggezza divina e umana, vale a dire di tutte le perfezioni che avvicinano quanto più possibile l‟uomo alla divinità”. Osserva Pellicciari che sul rifiuto della Rivelazione si sviluppano anche le dottrine morali comunista, fascista e nazista, che si basano sull’indiscutibile fondatezza della fede “scientifica” della propria ragione”. «Questo progetto di legge subì una varietà di fasi» Nonostante il lungo dibattito sorto dalla questione della soppressione degli ordini religiosi, dalla discussione in Parlamento si evidenzia “una notevole dose di approssimazione e di pressapochismo, una grande faciloneria nell’accordare con i fini previsti i mezzi per conseguirli, un perenne ondeggiamento nella valutazione dei princìpi considerati come irrinunciabili, un’estrema approssimazione nella valutazione dell’asse ecclesiastico”. Elementi, questi, del tutto inaspettati, che fanno emergere “tutto l’opportunismo del governo Cavour, unito a una non comune mancanza di scrupoli”. OBIETTIVI ECONOMICO-FINANZIARI Obiettivi dichiarati A: legge di dilapidazione del patrimonio nazionale Le conseguenze dell’attuazione del progetto di legge vengono considerate, dal punto di vista economico, assolutamente catastrofiche da tutti i deputati della destra, che sostengono che lo Stato è destinato soltanto a perdere risorse. Quest’ultimo dovrà pagare un grandissimo numero di pensioni in favore di coloro che risiedono nei conventi, finanziare tutte quelle attività socialmente utili di cui prima si facevano carico le comunità religiose, rinunciare alle tasse che provenivano dalla manomorta e, da ultimo, occuparsi dell’edificazione di nuove parrocchie. Ma non è solo lo Stato a trovarsi in una posizione svantaggiata, bensì anche i cittadini stessi, che vedono i propri beni immobili deprezzati e difficilmente commerciabili. A perderci, inoltre, sono i ceti umili: aspetto che porterà i vescovi a definire il provvedimento come antisociale, in quanto “ha portato solo alla povertà generalizzata”. Le provincie faranno un buonissimo affare Il provvedimento ministeriale, dunque, sembra essere svantaggioso per lo Stato, per i privati e per i poveri. Al contrario, chi ci guadagna, secondo i deputati cattolici, sono gli speculatori, che non avranno nessun problema ad acquistare beni finora appartenuti alla Chiesa, e i comuni e le province a cui verranno assegnati le proprietà espropriate. Tra le intenzioni di Cavour c’era anche quella di abolire gli ordini religiosi per permettere alle amministrazioni locali di soppiantare la Chiesa nella gestione delle attività socialmente utili, creando dunque concorrenza tra le due istituzioni, mettendole su un “piano di parità”. Revel, deputato dell’Opposizione, schernisce il progetto del Governo Cavour, dichiarando che le provincie ne trarranno un indubbio vantaggio, mentre lo Stato ci perderà soltanto. Istruzione laica e religiosa Lo scopo più importante di Cavour è quello di subentrare alla Chiesa nell’esercizio dell’istruzione. L’esigenza di formare nuove generazioni di idee liberali va assecondata basando la scelta degli insegnanti sulla decisione dei sindaci, di nomina del potere centrale. I deputati (in particolare quelli dell’ala di sinistra) sono convinti che sia necessario mettere l’istruzione laica in una situazione di parità rispetto a quella religiosa, poiché, come sostiene Valerio, questa “non può lottare con queste corporazioni, che hanno nella loro mani ricchezze accumulate nei secoli, ed hanno degli appoggi potenti dappertutto”. Bisogna “liberalizzare” la concorrenza fra comuni e enti religiosi e la battaglia per una scuola gratuita e obbligatoria in mano allo Stato viene estesa anche fuori dal Parlamento. “Ma quella della scuola costituisce la più vistosa eccezione al credo liberale: libertà di stampa, libertà di culto, libertà di coscienza, divieto di libertà di insegnamento. I liberali favoriscono solo quelle libertà che possono danneggiare la Chiesa”. Anche la massoneria si interessa dell’argomento, prendendo le difese del pensiero liberale più volte sul Bollettino dell’ordine e sulla Rivista della Massoneria Italiana. Ottavio Thaon di Revel I discorsi più critici contro il progetto di legge provengono dal deputato dell’Opposizione conte di Revel, che contesterà Cavour sui dati e le analisi forniti dal Ministero e, soprattutto, sulle finalità dichiarate dal presidente del Consiglio. Durante la tornata del 22 febbraio alla Camera si assiste ad un accesissimo botta e risposta tra Cavour e Revel, durante il quale Cavour è costretto ad ammettere che i liberali cominceranno “dal sopprimere gli ordini più ricchi” e che tale soppressione “sortirà un effetto economico-morale immediato, di cui è impossibile calcolare in cifra il benefizio, ma che sarà grandissimo se la soppressione degli ordini religiosi in questo Stato produrrà conseguenze non dissimili da quelle che arrecò negli altri Stati civili d’Europa”. Revel ribatte che le dichiarazioni di Cavour lasciano ben intendere le discutibili intenzioni del Governo, offrendo, nel complesso, “il più lucido contributo contrario alla legge che sia dato di ascoltare alla Camera”. B: tassazione di tutti i beni della Chiesa L’articolo 15 del progetto ministeriale dichiara che si devono tassare in modo progressivo quasi tutti i possedimenti ecclesiastici. Tuttavia Cavour ha sempre affermato di essere contrario alla tassazione progressiva. È egli stesso, però, che spiegherà al Senato le ragioni per cui essa avrà effetti positivi se applicata ai beni della Chiesa. Il conte asserisce che, “se quest’imposta deve avere sulla proprietà delle manimorte delle conseguenze identiche a quelle che si avrebbe certamente sulle proprietà private, cioè d’impedire l’aumento di queste proprietà, io credo che tutti se ne consoleranno”. Emendamento Michelini: accolto L’emendamento presentato alla Camera dal deputato Michelini prevede di attuare una tassazione un po’ superiore sui beni di arcivescovadi e vescovadi che, secondo Michelini, non ne risentiranno assolutamente nell’esercizio delle loro funzioni spirituali. Il Governo si manifesta contrario alla proposta del deputato, ma l’emendamento viene ugualmente accolto dalla Camera, poiché i membri del Parlamento sono convinti che la beneficenza, di cui si occupavano vescovi e arcivescovi, debba diventare prerogativa dello Stato. «Vorremmo noi avere due pesi e due misure?» In seguito all’emendamento Michelini, ne viene approvato un altro alla Camera, questa volta presentato dal marchese Gustavo Cavour. Egli chiede che i religiosi stranieri, ai quali venivano finora assegnate solo 300 lire per rimandarli nei Paesi d’origine, possano ricevere lo stesso trattamento adottato per i religiosi italiani dopo dieci anni di residenza nel Regno di Sardegna. Il deputato, inoltre propone di non respingere le religiose lombarde giunte in Piemonte per farsi monache. Inizialmente, l’emendamento viene accolto senza incontrare opposizioni. Il giorno seguente, tuttavia, il deputato Mellana sottolinea che la Camera l’ha approvato per “un sentimento di generosità”, visto che l’emigrazione delle suore lombarde (“chi per dividere le nostre italiane speranze e i nostri dolori fu astretto a esulare dalla sua terra nativa”) e quella dei religiosi stranieri (“generosa emigrazione italiana, che ci gloriamo di vedere assisa ai nostri focolari”) non stanno sullo stesso piano. Appare chiaro, quindi, che la Camera adotta sistematicamente “due pesi e due misure”. C: creazione di un’apposita cassa ecclesiastica L’articolo 6 del provvedimento ministeriale sancisce l’istituzione di una cassa ecclesiastica separata dall’ordinario bilancio dello Stato. Il conte di Revel critica aspramente questa proposta unitamente alla scioltezza con cui il Governo tratta le questioni finanziarie. Egli sostiene, inoltre, la necessità di una discussione pubblica prima dell’approvazione dei progetti di legge, perché il Parlamento è atto principalmente proprio al controllo sulle tasse e sul loro utilizzo. Cavour e Rattazzi, contrariamente a ciò che sostiene Ravel, considerano positivamente il fatto che a deputati e sanatori venga risparmiata “la perdita di tempo in inutili e defatiganti discussioni”. «Lo scioglimento... aggraverebbe di nuovi pesi...» Una delle componenti dell‟ufficio centrale del Senato, che ha ricevuto l’incarico di analizzare il progetto di legge, suggerisce una modifica del testo elaborato dal governo Cavour, per cui i religiosi che hanno già pronunciato i voti sono legittimati a rimanere negli edifici nei quali vivono. È il senatore Di Collegno che presenta il provvedimento alla Camera, che lo accoglierà. Ma, con l’approvazione dell’emendamento, il Governo non potrà disporre in tempi brevi dei fondi che aveva destinato alla guerra di Crimea. 26 aprile 1855: crisi Calabiana Il 26 aprile del 1855 i vescovi subalpini, supportati dal Papa, dichiarano all’ Assemblea dei senatori, tramite il discorso del vescovo di Calabiana, di essere disposti a provvedere autonomamente al pagamento delle 928.000 lire (ovvero la somma che occorre al pagamento delle congrue a sostegno dei parroci poveri). La proposta dei vescovi determina, però, una profonda crisi, che porta Cavour a rassegnare le dimissioni lo stesso 26 aprile. Il Re dà successivamente l’incarico di formare un nuovo Governo a Durando, di noto orientamento liberale. Egli, però, il 3 di maggio si presenta in Senato per presentare la rinuncia all’incarico, che viene dunque affidato nuovamente a Cavour. La crisi, iniziata il 26 di aprile e conclusasi il 2 di maggio (nello spazio di una settimana), determina la definitiva sconfitta della destra parlamentare, nonché il distacco del Re dagli ambienti cattolici del Regno di Sardegna. Cavour, invece, si avvia ad entrare nel “periodo della sua egemonia parlamentare, che più tardi farà parlare di dittatura”. Se le rendite della Cassa non bastano? Il deputato Di Vesme, dopo il rifiuto di Cavour alla proposta di Calabiana, chiede al Governo “se, nel caso che le rendite della Cassa ecclesiastica non bastino a coprire i pesi […] i parroci non avranno l’intiera loro congrua, o se alla deficienza sarà supplito dalle finanze”. Il conte assicura che, qualora dovesse verificarsi un evento così inatteso, “in questo caso certamente il Governo proporrebbe al Parlamento l’adozione di quelle misure atta a non lasciare in condizioni peggiori quella parte del sacerdozio”. Risulta quindi evidente che dietro misure di natura finanziaria si cela “una questione di principio politico, religioso, economico”. I PRINCÌPI DA SANCIRE «Il Papa non dovrebbe essere principe temporale» La conclusione della discussione parlamentare sulla soppressione dei conventi (o separatismo) risulta essere che “ Il Papa non dovrebbe essere principe temporale, ché, se non lo fosse, sarebbe meglio per la religione e per l’Italia”. In realtà, da tale principio, secondo Pellicciari, scaturisce un grande disordine, poiché esso non assicura l’esistenza di due autorità separate, ognuna con il proprio ambito di competenza, ma le confonde, facendo convergere il potere spirituale in quello temporale. Una questione contingente è quella della “funzione profetica” che viene attribuita dalla maggioranza alla sinistra, che deve assolvere un incarico molto importante: è necessario che continui a guidare il Parlamento nella “direzione di marcia in cui si sta faticosamente avanzando”. In questo contesto si può dire che destra e sinistra concordino sul fatto che la strada da percorrere debba rappresentare necessariamente il proseguimento di quella già intrapresa. Tuttavia, mentre per la sinistra la via scelta è un punto di orgoglio, la destra la pensa all’opposto. CONCLUSIONI 1856: i frutti della legge Il trionfo di Cavour nella lotta ai conventi “allinea” il Regno di Sardegna alle altre nazioni “civili” ed è dovuta alle mirate azioni propagandistiche condotte dal conte sia sul fronte internazionale che su quello interno. Per Cavour è necessario persuadere l’opinione pubblica che nello Stato della Chiesa regna il malgoverno, e che, al contrario, il Regno di Sardegna è uno Stato modello, “democratico, liberale, rispettoso dei diritti individuali”. Alla Conferenza di pace di Parigi egli segnala inoltre al mondo “il disastroso e tirannico operato della Santa Sede”. In Italia, invece, affiancato da La Farina, il conte darà vita alla Società Nazionale, allestendo poi sul piano diplomatico, economico e militare la Spedizione dei Mille. Pio IX Il 18 marzo 1861, dopo altri interventi salienti, Papa Pio IX decide di mettere al corrente i fedeli della vera e propria guerra che è in atto fra Chiesa e Stato: “Da una parte ci sono alcuni che difendono i princìpi di quella che chiamano moderna civiltà, dall’altra ci sono altri che sostengono i diritti della giustizia e della nostra santissima religione. I primi chiedono che il Romano Pontefice si riconcili col Progresso e col Liberalismo, come li chiamano, e con la moderna civiltà”. Pio IX intende asserire che la battaglia intrapresa dai Savoia (appoggiata naturalmente anche dalla massoneria e dalle potenze nemiche del cattolicesimo) non è volta soltanto a “sconfiggere l’oscurantismo cattolico”, ma anche ad “impossessarsi…delle proprietà che la carità dei fedeli ha nel corso dei secoli regalato alla Chiesa di Roma”, e a determinare la definitiva fine della fede cattolica. (Elena Rossi) 2. UN ITALIANO CONTRO L’UNITA’ D’ITALIA Giacinto De’ Sivo è uno dei più noti scrittori dell‟Antirisorgimento. Il suo scritto, I napolitani al cospetto delle nazioni civili, pubblicato nel 1861, svolge un resoconto approssimato e polemico della disfatta del Regno di Napoli. Dopo il 1860, crollato il Regno delle Due Sicilie, la corte di Francesco II (composta da militari, burocrati, nobili ed ecclesiastici) emigrò alla volta di Roma, ancora per poco capitale dello Stato della Chiesa. Ciò che accomuna costoro è la speranza di recuperare il regno. In tale fase si distinguono opinioni politiche diverse: innanzitutto è possibile individuare un gruppo moderato (sostenitore di un regime costituzionale) contrapposto ai cosiddetti “ puri” (sostenitori dell’assolutismo monarchico). I moderati speravano, inoltre, di recuperare il regno attraverso un intervento di riassestamento degli equilibri europei. Altri, invece, confidavano nella ribellione che dilagava nel sud ( brigantaggio). Ma quale forma politica avrebbe dovuto avere l’Italia? Sul punto si sono delineate opinioni diverse: c’è chi propone posizioni separatiste (il semplice distacco del Regno di Napoli da quello d’Italia), chi, invece, sostiene soluzioni federaliste. In tale scenario, Giacinto De’Sivo, pur essendo un controrivoluzionario, legittimista ed intransigente fu inviso sia ai moderati che ai più radicali. La sua posizione è presente in numerosi scritti, fra cui emerge la “ Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861”. In quest’opera domina l’idea che gli eventi storici non siano il frutto di un preciso piano razionale necessario, ma l’esito delle passioni umane. Nell’opera intitilata “ i Napolitani al cospetto delle nazioni civili” la difesa dell’Indipendenza Napoletana non si traduce in un semplice municipalismo. L’autore, considerandolo la “Diversità” una ricchezza per l’Italia indica come via maestra da seguire la “ libera unione” che rispetti le tradizioni di ciascuno. I temi fulcro dell’opera riguardano la questione della “ setta”, la polemica sulle condizioni del Regno, gli orientamenti politici. All’origine di ogni rivoluzione, secondo De’ Sivo vi è sempre la “setta” (massoni, filosofi, illuminati, giacobini, carbonari, mazziniani, unitari) e non condizioni specifiche dei singoli stati come il malgoverno, l’oppressione: si tratta piuttosto “ di trame generali premeditate da un concetto”. La setta, secondo De’ Sivo, strumentalizza il popolo fabbricando le opinioni. Inoltre l’autore ribadisce la convinzione secondo la quale per i Napolitani la monarchia è religione. Oltre a ciò confuta l’idea emersa nella storiografia savoiarda che ritrae il sud come un territorio depresso, caratterizzato da un’agricoltura arretrata destinato ad ostacolare lo sviluppo del nord. La tesi Desivana è che il Napoletano fosse una nazione civile dotata di un autonomo sviluppo, ritenendo pertanto inattendibile il programma piemontese del riscatto del mezzogiorno da pretese condizioni di arretratezza attraverso l’unificazione della penisola. Dal punto di vista dell’orientamento politico De’Sivo ritiene che l’affermazione di una nazionalità ideale, non solo comprime le realtà locali ma sfocia nel nazionalismo e nello sciovinismo. Ben diversa è la sua concezione della comunità internazionale, dell’Europa e dell’Italia. Per quanto riguarda la comunità internazionale, egli pensa che tutti gli stai dovrebbero essere uguali e uniti in un congresso permanente, capace di dirimere le; l’Europa dovrebbe unirsi in federazione e l’Italia configurarsi come una lega finalizzata a garantire l’unità nella diversità. Napoli non avversa l’Italia, con la lega resterebbero sacri e rispettati tutti i diritti preesistenti, le autonomie , le leggi, le tradizioni, le consuetudini e i desideri di ciascun popolo. De’Sivo dunque rifiuta ogni forma di accentramento verticistico, di uniformità normativa. Sul piano giuridico si potrebbe dire che De’Sivo propugni una confederazione piuttosto che una federazione; sul piano politico si può collocare invece fra i grandi pensatori tradizionalisti, difensori della libertà e dei privilegi locali. In questo primo paragrafo di apertura del breve saggio viene affrontata la tematica dei cruenti moti indipendentisti che scuotevano l’Italia, specialmente nel reame delle Due Sicilie in cui si verificarono atrocissime lotte. Ma “ quella fazion che vuol parer d’essere di italica nazione […] versa torrenti di sangue dal seno stesso della patria, per farla povera e serva”. Tali conflitti scaturiti dal sogno di libertà non avrebbero portato altro che sofferenze agli Italiani, minando ogni speranza d’unione, provocavano odi civili inestinguibili e guerre fratricide: “l’Italia combatte l’Italia”. Non solamente le risorse materiali vengono deturpate ma la stessa morale, il diritto e la religione di cui il popolo italiano faceva tanto vanto: “ il suo primato civile”. Secondo la visione provvidenziale dell’autore (proprio con il fuoco si purifica l’oro) solamente le sventure potranno purificare la società perché soltanto dalle ceneri e dal fuoco “ sorgerà una società italiana moderna e splendida per ragione e virtù”. Ma “ la guerra rappresenta il ritorno della società ad uno stato brutale”. Il mondo raggiungerà la civiltà tanto agognata solamente quando tutti i popoli saranno uniti in Cristo nel comune interesse dell’amore e della pace”. Contrariamente a quanto auspicato dal messaggio di Dio invece i popoli non fanno altro, secondo De’Sivo che incrementare le differenze che li separano rendendole sempre più profonde, tanto che sembra risorgere l’antico paganesimo che appellava barbaro lo straniero e lo voleva morto o servo”. Se invece esistesse un congresso permanente capace di giudicare con un codice internazionale e che avesse una comune forza per l’esecuzione dei suoi decreti allora anche la piccola Norvegia dovrebbe essere uguale all’ampia Russia innanzi al magistrato delle nazioni. Tale concetto non è destino che rimanga inadempiuto, in quanto è proprio il bisogno di coesione e di unità che anima da secoli l’uomo, il comune desiderio di pace e di prosperità, i vincoli sempre più estesi del commercio, “l’elettrecismo , il vapore, montagne forate, gli istmi tagliati, son tutti passi verso una civiltà piena e non lontana, che uguaglierà le potenze e farà tacere le ambizioni e le vanità. Pienamente allora Cristo avrà regno”. In queste righe è chiaramente espressa la concezione desivana relativa alla configurazione politica che l’Italia e l’intera Europa sono destinate ad assumere in quanto solo tale “ perfezione sociale assicurerebbe davvero l’uguaglianza, la fraternità e la libertà con l’esaltamento della religione”. Proprio in tale contesto la “setta” rappresenterebbe il nemico per antonomasia dei valori sopracitati, essa “va gridando le nazionalità per subissare le nazioni e derubarle e far poi di tutte una famiglia sociale senza legge”. La setta rappresenta l’incarnazione del male , una forza diabolica che agisce nell’ombra andando a minare e compromettere l’unità e la stabilità degli stati. Essa corrompe la popolazione inventando la storia, si impone nella letteratura e nella scuola, insinuandosi nelle menti dei giovani studenti animandoli con illusorie promesse di libertà, giustizia ed indipendenza e trasformandoli in suoi principali emissari ed esecutori. Essa impera come Satana ed ha schiere infinite di dèmoni ubbidienti. “La setta è il rovescio del Cristianesimo. Cristo unisce le nazioni in un amore di Dio. La setta disunisce bensì le famiglie e aspira all’isolamento dell’ateismo”. Secondo l’autore l’unico, solo, successo di cui tanto vaneggia tale organizzazione fu la rivoluzione francese, che si configura come il mezzo identificatore della setta. Essa fu responsabile di numerosi e sanguinosi eventi. Decapitò Luigi XVI, fece incoronare Napoleone e fu responsabile della sua caduta, congiurò contro la Repubblica del 1848, dilagò in Spagna con Perez, divise l’America nella sua originaria unità politica e territoriale, portò alla nascita di stati plebiscitari in Italia. La setta mondiale è sempre esistita fin dalla epoche più remote ed ha assunto nomi e si è fatta portatrice di valori di volta in volta diversi ma fondamentalmente il suo principale obiettivo era quello di rovesciare l’ordine presente del mondo, di suscitare una qualsiasi mutazione allo scopo di “pigliarsi il mondo”. Essa è la guerra di quelli che non hanno a quelli che hanno.” Ma nonostante tutte le battaglie , i morti e le sofferenze, arriva spietata la domanda dell’autore: si è poi raggiunta la libertà tanto propagandata?! La risposta è che ogni rivolta che è stata compiuta allo scopo di ottenere la libertà non è stata altro che una mera menzogna. La libertà tanto acclamata dalla setta, quella che affiora dalle labbra ed è impressa sui vessilli non è la vera libertà, quella che è sommo concetto, quella che il Signore ha racchiuso nei nostri cuori. Ma la setta non vuole la libertà, la strumentalizza per il raggiungimento dei suoi obiettivi (l’anarchia, la guerra, le imposte forzate, l’abolizione degli altari e delle leggi, il comunismo , la tirannia) la invoca a gran voce ma solo per accogliere un numero sempre maggiore di adepti nelle proprie schiere, poi senza pietà li lascia cadere sui patiboli. La vera libertà è quella dell’uomo onesto: egli non ha alcun vincolo , non prova alcuna invidia né agogna i beni altrui . Egli è libero in quanto vive sotto l’esempio di Cristo: sopporta, combattendo per la patria e muore per gli altari e per la religione. La forza rivale della setta è la società, ultimo baluardo di giustizia perché quando è sconfitta dalla setta le carceri vengono abolite ed introdotte illegali fucilazioni, esili, vendette, persecuzioni… Giunge allora una preghiera di De’Sivo che intima al popolo di risvegliarsi, poiché questo non può appellarsi al Risorgimento, in quanto la rinascita tanto agognata non può condurre a tali inenarrabili crudeltà. Solo l’unione delle nazioni e la virtù cristiana possono guidare il popolo alla ribellione, al trionfo, alla liberazione dalla setta, alla vera libertà. Dopo aver fornito una dettagliata trattazione sulla setta, nel secondo capitolo del saggio, l’autore effettua un minuzioso panegirico della peculiarità del Regno delle due Sicilie celebrandolo quale esempio di primato edile e sociale. I “rigeneratori” torinesi invece dopo tante sperticate lodi di tutto dare, tutto ne han tolto: e solo han potuto creare la miseria e il nulla”. Nel terzo capitolo De’Sivo ribadisce la grandezza del Sud ( “Era in cima di fatto, perché esso aveva, in proporzione de’ suoi abitanti, più templi, più teatri, più oratori, più poeti, più filosofi, più artisti, più opificii, più reggie, più commercio, più capitali, più scienze, più arti, più uomini d’ingegno che non il resto della penisola.”) ammettendo come unico errore il fatto che il governo non si sia adeguatamente difeso dalle “infamie” che i giornali avevano contribuito a diffondere ed , inoltre, commettendo l’ulteriore errore di sospettare di ogni scrittore in quanto tale (“ fe parere che tutti gli uomini di ingegno vi fossero contrari”). Inoltre una parte pur minima, corrotta ed insana della popolazione contribuì a diffondere la calunnia, non contradetta, sorretta e divulgata da mercatanti di rivoluzioni e così preparò il palco sul quale era da immolarsi la nostra felicità”. Sventati i moti del “48, fu usata eccessiva clemenza nei confronti dei congiuranti e “non fu sol perdonata la colpa, talvolta premiata. Della rivoluzione rimasero gli uomini ed essi han preparato il 1860”. Proprio coloro che avrebbero dovuto esser grati al re per averli “ perdonati, tollerati e promossi “ furono tra i primi tra le file dei cospiratori”. Quanto all’atteggiamento dei piemontesi ne viene evidenziata l’ambiguità in quanto da un lato asseconda le “vittime illustri del despotismo”, dall’altro però sostiene gli “operatori del dispotismo” e cospira ai danni della monarchia borbonica servendosi dei collaboratori più vicina ad essa, che di fatto hanno circuito il sovrano. Nell’ottica desiviana, il Piemonte fu a dir poco “impudente” quando giustificò come atto di politica dell’ “intervento” andare in aiuto “d’un assalito Papa” e del “non intervento” […] accorrere a pro di un assalitore pirata.” Il riferimento va a Garibaldi che, pur venendo dichiarato “un pirata”, quando riuscì a trionfare nel Napoletano, venne considerato da Cavour in Parlamento un suo inviato per far risorgere l’Italia. De’ Sivo mette in guardia dalla rivoluzione considerata una “nuova e favorita potenza”, che ha la facoltà, a differenza delle altre nazioni di “aver diritti senza doveri, assumendo così essa sola il compito di portare libertà, indipendenza e guai a chi senza di lei osi esser felice”. Il regno delle due Sicilie era libero e indipendente fin dal 1734, ma ciò “era a seconda del dritto antico, del dritto divino; esso invece doveva essere felice pel dritto nuovo, pel dritto infernale”, pertanto si rivelava necessaria la rivoluzione. Fu così che si attuò l’impresa garibaldina che indusse “cavalleresca pieghevolezza” [!] del re Francesco di Borbone a promettere vanamente una costituzione per fermare i Piemontesi. A condurre alla fine il regno piemontese fu, secondo De’ Sivo , la camorra, che insinuatasi nei luoghi centrali del potere indusse il re a lasciare Napoli, rimpiazzandolo con Garibaldi, accolto con esultanza, “ma non per la gioia, ma per il timore”. L’esercito garibaldino “lurido, bieco, famelico, disordinato […] entra nella città di Napoli che i vandali mai non vide, vide i garibaldini”. Un’ultima resistenza fu tentata a Capua, mettendo in luce l’onore napoletano, ma sopraggiunse i aiuto dei garibaldini il “re galantuomo” [Vittorio Emanuele II] che, in modo meschino, non si curò nemmeno di far dichiarazione di guerra, bensì schiacciò un esercito sfinito, che combatté con onore.Il capitolo sesto si chiude con una serie di domande emblematiche. De’Sivo si interroga se questo rovesciamento totale del diritto sia giustificabile in nome dell’“Italia una” e soprattutto se il Piemonte realmente voglia un’Italia unita, se l’Italia possa “essere una” e se sia conveniente esserlo. Inoltre i “Napolitani consentono? Di questo è da ragionare.” Il titolo con cui si conclude il saggio è inequivocabile: “Il Piemonte non vuole un’Italia unita”. Il De’ Sivo parte dal definire il diritto di nazionalità in base al quale si tende ad unire le genti nel nome della lingua; in base a tale principio l‟Italia unita non può mancare di Venezia, Corsica, Malta e Trieste ma per le simpatie nei confronti di Francia e Inghilterra e per il timore dei Tedeschi, tutto ciò non risulta possibile, ma sembra inoltre che manchi la volontà, dal momento che cedendo Nizza e Savoia alla Francia, è stato reso più vulnerabile il territorio italiano. In realtà il Piemonte “non vuol fare l‟Italia, ma vuol mangiar l‟Italia” secondo De Sivo. Il Tedesco veniva accusato di dominare l‟Italia, in realtà controllava la sedizione e per questa ragione “anzi che dominatore ne era benefattore”. Il Piemonte invece non esita addirittura a calpestare il primato morale che l’ Italia può vantare per la presenza a Roma della sede del vicario di Cristo, pur di asservire l’Italia, ma “l’usurpazione in tempi civili non riesce a grandezza”. (Valentina Sari) 5.CONCLUSIONE IL RISORGIMENTO ITALIANO E’ FINITO? Che cosa è avvenuto con il Risorgimento? Per usare le parole dello storico A. M. Banti nel corso del Risorgimento ”…è successo che si è costruito in Italia uno Stato di tipo nuovo, uno Stato- nazione ; ovvero uno Stato fondato sul principio secondo il quale la sovranità appartiene non ad un singolo (re), o a gruppi ristretti (nobili), ma all’intera collettività identificata con il termine “Nazione.” Banti aggiunge poi che questa appena descritta non è una dinamica che riguardi solo l’Italia. Il nazionalismo, infatti, così come si forma nel primo Ottocento, è un fenomeno europeo, ed è strutturato dovunque intorno ad un’ideologia che è materiata, essenzialmente, dei medesimi elementi.” Banti conclude affermando peraltro che oggi siamo ben distanti dalla sensibilità e dai valori di allora: “il Risorgimento è un Paese lontano.” Si può concordare sulla lontananza ma a noi sembra che riflettere, anche in modo critico, su quel passato serva per comprendere molte difficoltà del nostro presente. Partiamo dalle considerazioni riportate sopra dalle quali emerge con chiarezza che il Risorgimento è stato la nostra “rivoluzione”, il passaggio cioè dall’Ancien regime alla sovranità popolare, che ha permesso al nostro Paese di aprirsi al mondo della libertà e della modernità. Qui c’è un primo aspetto critico: se è vero che attraverso il Risorgimento il popolo italiano “si è fatto Stato” dando vita ad un patto politico, va detto che esso però ha assunto allora la forma dell’adesione passiva (rivoluzione passiva), del plebiscito. Il popolo italiano fu chiamato ad avallare un assetto politico che era stato creato da altri. Il fallimento del progetto mazziniano, nel 1848-1849, di dar vita ad una Costituente democratica ha avuto come conseguenza che il patto tra gli italiani e lo Stato abbia assunto all’inizio un carattere più formale che sostanziale, più subito che consensuale. Erano limiti a cui si sarebbe potuto rimediare nei decenni successivi ma a cui non fu posto rimedio per responsabilità delle classi di governo ma anche delle opposizioni. Un vero Patto Costituente si è potuto realizzare, in Italia, solo a cento anni di distanza e dopo la caduta rovinosa del regime fascista, la sconfitta nella seconda guerra mondiale e la lotta di Resistenza. Negli anni 1945-1948 l’Italia risorgeva,questa volta non dalla dominazione straniera ma dai disastri di una guerra voluta da Mussolini e dal suo regime. Prendeva così forma il nuovo Stato italiano, la Repubblica, la Costituzione democratica. Finalmente c’era una base comune, condivisibile da tutti, su cui costruire il futuro. L’Italia, grazie alla Costituzione è cresciuta, si è sviluppata, è diventata una delle principali potenze economiche nel mondo e, tuttavia, anche l’esperienza repubblicana fino ad oggi non ha sanato del tutto l’estraneità tra Stato e cittadini per cui il patto costituzionale resta ancora fragile e instabile. Ciò è accaduto soprattutto perché la democrazia repubblicana, nel nostro Paese, è stata a lungo una democrazia incompiuta, senza alternanza, a causa della guerra fredda e dell’impossibilita per l’opposizione di legittimarsi alla guida del governo. Le divisioni politiche e ideologiche hanno impedito finora una completa maturazione democratica per cui facciamo fatica come comunità nazionale a identificarci tutti in un sistema di regole giusto ed efficace che precisi i diritti e i doveri e garantisca, al di là dei governi e delle maggioranze contingenti, una convivenza civile, lontana dalle contrapposizioni feroci proprie di una guerra civile strisciante. Fenomeni come la criminalità organizzata, che spadroneggia su intere regioni, oppure come la diffusa evasione fiscale, che per quantità non ha paragoni negli altri paesi sviluppati, sono problemi che stanno di fronte all’intera comunità nazionale che dovrebbero unire tutte le forze politiche in un compito comune per debellarli. Un paese senza regole condivise e rispettate da tutti non può avere un futuro, ma è destinato a frantumarsi in una molteplicità di corporazioni o di gruppi sociali contrapposti gli uni agli altri senza rimedio. La volontà da parte di tutti di ispirarsi ai principi di un “patriottismo costituzionale”, inteso come sentimento comune di legalità e giustizia potrebbe rappresentare la vera realizzazione del Risorgimento italiano. INTRODUZIONE: Il testo seguente intitolato “il Risorgimento italiano è finito?” è il risultato di una ricerca collettiva condotta dagli allievi della IID classico nel corso di quest’anno scolastico. Ciascun allievo ha letto e riassunto un saggio sulla storiografia nel Risorgimento, da quello meno recente a quello più attuale, allo scopo di approfondire un tema di studio che resta importante al di là delle celebrazioni di quest’anno.