Léo Moulin, La vita degli studenti nel Medioevo (trad

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Léo Moulin, La vita degli studenti nel Medioevo (trad. it. Jaca Book, Milano 1992)
Sull’origine e gli scopi dell’università:
Nella bolla che emana, nel 1388, per esprimere il proprio consenso alla fondazione dell’università di Colonia, il papa
Urbano VI scrive che gli obiettivi principali della nuova istituzione saranno quelli di diffondere la scienza per scacciare
le nubi dell’ignoranza (“scientia per quam pelluntur ignorantiae nubila”), di porre gli atti e le opere “in lumine
veritatis”, alla luce della verità, e infine ciò che definisce la missione sociale dell’università: essa dovrà essere utile
“tanto alla comunità quanto ai singoli” (“tam publica quam privata res geritur utiliter”) e “accrescere il benessere degli
uomini” (“prosperitas humanae conditionis augetur”)» (pp. 5-6).
Sulla libertà di ricerca:
«L’università è anche considerata e considera se stessa come il luogo per eccellenza di una totale libertà di pensiero.
[…]. L’università di Padova protegge a tal punto il professore Pietro di Abano, accusato di stregoneria, che
l’Inquisizione non può bruciarlo sul rogo se non dopo la sua morte.
Sulla composizione sociale degli studenti:
«Non è facile determinare le origini sociali degli studenti. Alcuni criteri puramente geografici possono indicare tanto
una capanna che un maniero (e chi proviene da una capanna può avere delle ragioni per non dirlo). Provenire da un
ambiente urbano non significa necessariamente appartenere a un ambiente agiato […]. Il New College (Oxford)
fornisce le seguenti cifre per il periodo che va dal 1380 al 1500: “figli di contadini”: più del 61% degli studenti (il cui
totale ammonta a poco più di un migliaio); “borghesi e artigiani”: circa il 18%; “piccola nobiltà”: 8,4%; “aristocrazia”:
0,6%. Il numero degli studenti di origine rurale è dunque nettamente superiore a quello degli studenti di origini urbane»
(p. 115).
Sulla crisi degli alloggi:
«Nelle città universitarie ben presto la domanda superò l’offerta […]. Infatti, se nel 1155, a Bologna, gli studenti dicono
ancora di trovare alloggio nel centro della città, fin dal 1189 il papa Clemente III scrive al vescovo di Bologna perché
intervenga per frenare il rialzo dei prezzi e per far rispettare l’uso secondo il quale una camera, una volta affittata a uno
studente, sia per sempre destinata a questo uso» (p. 15).
Sulle abitudini e gli svaghi degli studenti:
«Se ci si attiene ai regolamenti dei collegi e ai sermoni dei moralisti, lo studente modello pratica ogni giorno le sei
opera scholarium, e cioè: levarsi di buon mattino, vestirsi, pettinarsi, lavarsi le mani, recitare le preghiere e andare con
gioia a scuola. È impegnato, studioso, obbediente, casto e serio. Non gioca a scacchi e non fa sport». Ma le regole, si sa,
son fatte per essere infrante. Anzi, se vi sono regole è il segno evidente che qualcuno è solito trasgredirle. Così, non
senza ironia, Moulin cita un Manuale del perfetto studente (1495), che elenca appunto «ciò che è proibito allo
studente», ovvero ciò che lo studente, probabilmente, faceva quasi di norma: «star fuori la notte (che comincia alle 20 in
inverno e alle 21 in estate), giocare alla domenica con dei laici, nuotare al lunedì, bighellonare al mercato il mercoledì,
non assistere al mattutino, sonnecchiare durante la messa, mancare ai vespri, picchiare i bambini, sporcare i libri quando
si canta l’ufficio, incitare al disordine, dire stupidaggini (“insanias”), spezzare alberi, disturbare il boia mentre esegue i
suoi doveri, recitare commedie nelle chiese e nei cimiteri…» (pp. 24-25).
Sulla disperazione dei genitori, attraverso le lettere private:
«Borbottano: “Tu perdi il tuo tempo a gironzolare a cavallo per la città”, “a giocare a dadi” (gioco generalmente
proibito agli studenti), “a carte o a pallacorda”, “ti sei comprato un cane e vai a caccia”, “spendi il tuo denaro in vestiti
regali, in morbide pellicce”, dimostri “la tua grande mattezza”. O ancora: “Ho saputo, non dal tuo maestro (precisazione
fatta, senza alcun dubbio, su richiesta del maestro stesso), ma da alcune persone di fiducia, che tu non studi seriamente,
che ti diverti a suonare la chitarra, che frequenti luoghi sconvenienti (meretricia frequentando)” […]. A volte il padre
spiega: “Sono meno ricco di quanto tu creda”, “anche le tue sorelle hanno diritto…”, “la vigna non ha dato nulla
quest’anno” […]. Severa risposta di uno studente: “Chi resta a casa giudica gli assenti come vuole, mentre è a tavola,
mangiando di buon appetito marmitte di carne e pane a sazietà, dimenticando completamente chi, sottomesso alle dure
regole della scuola, è oppresso dalla fame, dalla sete, dal freddo e dalla nudità”. Talvolta la ramanzina paterna assume
un tono patetico: “I tuoi genitori sono ormai pieni di pena e degni di pietà… tu accorci la loro vita…”» (p. 101).
Sugli alquanto vivaci rapporti tra le Nazioni:
«Tutta l’Europa viene messa alla berlina dall’Europa stessa. È ovvio che ogni Nazione abbia delle buone ragioni per
combattere con ardore le altre Nazioni – di preferenza le più vicine. Per i polacchi, i mazoviani hanno la caratteristica di
essere nello stesso tempo sempliciotti e intriganti. Gli inglesi criticano i normanni frivoli e millantatori, i tedeschi
furiosi e osceni, i borgognoni stupidi e collerici. A Parigi, secondo Giacomo di Vitry (1180-1240), i tedeschi sono detti
ladri e lenoni, gli inglesi ubriaconi e codardi, i francesi (d’Ile-de-France) superbi ed effeminati, i bretoni volubili e
indecisi, quelli di Poitiers traditori e “cortigiani della fortuna”, i borgognoni grossolani e sciocchi, i lombardi avari e
maliziosi, i romani sediziosi e violenti, i siciliani tirannici e crudeli, i normanni fatui e orgogliosi, i fiamminghi prodighi
ed epuloni, i brabantini incendiati e ladri. I tedeschi sono dipinti dai cechi come “lupi nell’arena, mosche nel piatto,
serpenti sul petto e puttane nei bordelli”. “È più facile che un serpente si scaldi nel ghiaccio, che un ceco auguri del
bene a un tedesco”. Per i boemi, i teutoni nascono “de culo Pilati” (occorre tradurre?), mentre essi stessi provengono
“de corpore Christi”…» (pp. 118-119).
Sulle intemperanze di certi maestri:
«L’università di Cracovia denuncia il vizio di ubriacarsi (“detestabile vitium ebrietatis”) di certi professori, in occasione
di uscite notturne (“occasione nocturnae vagationis”), accompagnate da schiamazzi che disturbano gli abitanti della città
(“inquietationis hominum”). Il maestro che si comporta in tal modo perderà il suo salario (“suspenditur a salario et
lectura”). Se persevera, ogni possibilità di carriera (“ascensus”) gli sarà preclusa. Si può arrivare fino alla scomunica»
(p. 161).
Sull’uso della lingua latina:
«La lingua comune a tutti gli studenti, in tutte le università d’Europa, è il latino (questo spiega la facilità con cui, e
talvolta con il minimo pretesto, maestri e allievi passano da un’università all’altra). È la lingua della Chiesa e di ogni
élite intellettuale […]. I maestri del XV secolo – questa volta siamo in Sassonia – avevano inventato un gioco
(“discretio magistralis”) in cui vi era un asino che parlava tedesco (ma quale tedesco?), dunque non come un essere
razionale (“velut homo rationalis”), il quale, evidentemente, parlava latino. Gli abitanti di Bologna, esasperati dalle
ripetute stravaganze degli studenti, si gettano all’assalto delle loro case, urlando: “Exite foras, ribaldi”, “Uscite,
mascalzoni” […]. Gli scolari che avevano a che fare con le guardie, con gli osti e le prostitute, conoscevano il dialetto
locale? È lecito dubitarne. Si dice che gli stessi mendicanti e vagabondi conoscevano sufficientemente il latino per
esercitare il loro mestiere. Si cita poi il caso del papa Giovanni XXII (di Cahors), il quale, dopo aver studiato a Parigi e
a Orléans, dovette farsi tradurre una lettera del re Carlo IV (1294-1328) scritta in francese» (p. 129).
Sulla “disputatio”:
«I corsi iniziavano con una lezione pubblica (principium) che era inframmezzata da “dispute” (disputatio temptatoria)
incentrate su diversi temi delle Sentenze [raccolte da Pietro Lombardo], seguite da una “disputa generale su un qualsiasi
argomento” (“de quodlibet”) e proposta da “chiunque”, in cui l’estro aveva libero sfogo. Poiché si dava per acquisito il
sapere, restavano la sottigliezza dell’analisi, la sua profondità, la sua intelligenza e anche la maniera, più o meno
brillante, di difendere la tesi proposta alla riflessione. Nessuno poteva essere ammesso a un esame preparatorio alla
licenza se non aveva frequentato dispute di maestri per un anno “o per la maggior parte dell’anno” e partecipato
“attivamente” (“respondebit”) a due dispute, in presenze di qualche maestro (statuto di Parigi, 1366). Altre “dispute”
avevano luogo nel pomeriggio (le “meridiane”) o anche alla sera (le “vespertine”). Il successo di queste disputationes
era grande. Ci vengono descritti ascoltatori appassionati che assistono alle finestre. A Parigi sono pressoché giornaliere.
Un cronista arriva a scrivere che Parigi è simile a “un alveare di api industriose, avide di sapere”, che sono attive “notte
e giorno”. A Padova si proibisce agli studenti di far rumore durante le “dispute”, di intervenire contro i disputanti o i
loro avversari, di accordarsi con l’uno o con l’altro di loro prima del dibattito» (pp. 140-141).
Sui cattivi e sui buoni maestri:
«Giovanni di Salisbury, vescovo di Chartres (XII secolo), condanna i maestri che “ottundono le facoltà intellettuali dei
loro studenti, cercando di dar prova della propria erudizione”. Sfortunatamente, egli aggiunge, vi sono insegnanti i quali
vedono nella dialettica soltanto dei giochi di parole e, in realtà, non sono altro che degli sciocchi che argomentano col
solo scopo di argomentare. Daniele di Mornay, un altro inglese, prende in giro i silenzi, la gravità, il sussiego di certi
maestri. Tutto ciò, egli dice, non è altro che il mantello che ricopre la loro ignoranza, la quale appare, in tutto il suo
infantilismo, non appena aprono la bocca […]. Ecco quali saranno le domande che Dio farà al maestro, quando questi si
presenterà davanti a lui [secondo un Manuale di iniziazione alla vita universitaria, redatto da Martino da Fano, nel
1255]: “A qual fine hai studiato?”, “Come hai ‘letto’ (insegnato)?”, “Come hai pregato?”, “Come hai ‘disputato’?”, “Sei
stato zelante?”. Anche perché “non è la toga che fa il dottore, né la berretta, né la posizione più elevata” che egli
occupa, dice un altro testo latino; ciò che fa il dottore è contemporaneamente il suo sapere e il suo modo di trasmetterlo,
“ad utilitatem auditorum”, per essere utili a coloro che ascoltano» (pp. 149-151).
Sulla pedagogia e il “razionalismo” medievali:
«Con il suo alternarsi di lezioni mattutine, inizialmente ex cathedra, di ripetizioni e di verifiche del sapere, di
discussioni e di dispute destinate ad acuire lo spirito critico, in cui i contatti intellettuali tra il maestro e i suoi allievi
sono intimi e vibranti, la pedagogia medievale sarà, tutto sommato, durante i due secoli del suo apogeo (XII e XIII) di
notevole efficacia […]. Un vademecum anonimo del 1230-1240 serve da guida al nuovo pupillo di un maestro parigino.
Vi si trovano menzionati Prisciano e Donato per la grammatica; Cicerone, De inventione, per la retorica; Aristotele (sei
trattati), Boezio, Porfirio e il Liber sex principiorum per la logica; Tolomeo e l’Almagesto per l’astronomia; Euclide per
la geometria; Boezio per l’aritmetica e la musica; infine, per la metafisica, la fisica, le scienze naturali e la morale,
Aristotele (con dodici trattati), il Liber de causis e il De motu cordis, Cicerone e il De officiis, Platone e il Timaeus,
Boezio e il De consolatione. Non si deve giudicare la pedagogia medievale sul suo contenuto, ma sul suo modo di
formare gli spiriti e di offrire loro larghi spazi di libertà intellettuale. Libertà così grande e così reale che finirà per
rendere possibile la propria ridefinizione e soprattutto l’analisi delle verità religiose più indiscusse. Infatti è proprio
all’interno di un sistema che era ben lontano dall’essere chiuso (esso ricerca e assimila volentieri gli apporti giudaici e
arabi) che, sotto le spoglie di tecniche della disputatio, si sono sviluppati sistemi di pensiero ortodossi ma contraddittori,
marginali ma precursori del pensiero moderno».
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