L`aspetto competitivo nel pensiero filosofico 2. La quaestio medievale

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L’aspetto competitivo nel pensiero filosofico
2. La quaestio medievale
La lotta per l’egemonia culturale
Un concetto basilare di origine gramsciana è quello di “egemonia culturale”.
Al di là del suo utilizzo da parte di Antonio Gramsci nel quadro di una
interpretazione marxista della storia, il concetto è fondamentale per
comprendere come in ogni epoca sia stato sempre cruciale possedere il
controllo della trasmissione del sapere.
Nell’Alto Medioevo, il monopolio della cultura, come noto, fu esercitato dalla
Chiesa tramite i monasteri, la cui opera meritoria di preservazione dei capolavori
della scienza, della
filosofia e della
letteratura dell’età
classica deve, tuttavia,
essere anche intesa
come una forma di
controllo su tale
patrimonio e uno
strumento per garantire
la formazione di
un’élite intellettuale.
In tal modo, la Chiesa
era in grado sia di
essere autosufficiente
nell’amministrazione
delle proprie istituzioni e
dei beni di cui disponeva
sia di fornire ai sovrani e
ai signori feudali europei
il personale per far
funzionare la burocrazia
e gli apparati
amministrativi.
Nel Basso Medioevo lo scenario iniziò a modificarsi, con l’accrescimento del ruolo
delle città e con la lenta sostituzione delle scuole cattedrali con le nascenti
università.
Qui, nelle nuove istituzioni accademiche, veniva a formarsi un’élite intellettuale non
più appartenente ai rami cadetti della nobiltà che avevano abbracciato la carriera
ecclesiastica, ma a quel ceto borghese che era figlio dei mestieri e delle professioni e
che era destinato a introdurre le forme di una nuova mentalità e di una cultura più
mondana.
Lo spettacolo della cultura
Affinché la competizione sociale per impadronirsi dell’egemonia culturale
potesse essere coronata da successo si dovevano, però, verificare alcune condizioni.
Per lo più, esse furono legate all’indebolimento dei poteri universalistici – Papato
e Impero – logoratisi reciprocamente nelle lotte per le investiture e per le contese
interne, tra eresie e rivolte nobiliari. Tuttavia, era indispensabile anche il
riconoscimento del ruolo sociale dell’università da parte delle comunità, nelle
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città in cui gli atenei iniziarono a prosperare. Il ruolo fu riconosciuto dal punto di vista
economico e politico ma, dato il carattere dell’istituzione, era prima di tutto
indispensabile che tale riconoscimento avvenisse sul piano culturale.
La disputatio medievale fu la rappresentazione quasi drammaturgica della
supremazia culturale che l’Università rivendicava agli occhi della sua
comunità di riferimento. In particolare, tale valore era espresso dalla cosiddetta
‘disputa quodlibetale’ (dal latino quodlibet ‘qualsiasi’ o ‘ciò che si vuole’) perché in tale
occasione – generalmente una volta all’anno, durante feste solenni come la Pasqua –
la discussione non avveniva solo all’interno della comunità accademica, ma al
cospetto anche delle autorità e del popolo. La contesa, nelle dispute quodlibetali,
avveniva su un argomento scelto dal pubblico – o più facilmente dalle personalità
eminenti che ne facevano parte – e il metodo principe della Scolastica aveva modo di
dispiegare tutta la sua potenza. Una volta posta la quaestio (l’argomento della
disputa) da una parte l’opponens sollevava obiezioni contro di essa e dall’altra il
respondens replicava controbattendo. Entrambi svisceravano il tema discutendone
tutti gli aspetti principali e i relativi problemi subordinati che ne erano scaturiti. In tal
maniera, veniva condotta la prima fase, che si esauriva con il dispiegamento in campo
di tutte le diverse obiezioni e contro-obiezioni, dialetticamente contrapposte
come due eserciti in battaglia. Solo a questo punto interveniva, solitamente dopo un
giorno o due, il magister, che avrebbe sciolto tutti i dubbi e spazzato via le
perplessità con la sua lectio magistralis, la lezione destinata a chiarire – sostenuta
dalla forza delle auctoritates (le Scritture, i Padri della Chiesa, Aristotele) – come si
dovesse interpretare correttamente, e conclusivamente, la questione.
Campione in questo genere di dispute dialettiche indubbiamente fu Pietro Abelardo
(1079-1142) che, nell’autobiografica Storia delle mie disgrazie, ricorda come fosse
divenuto per la sua eloquenza e per le sue capacità logiche e retoriche una sorta di
superpagato idolo delle folle: aveva il mondo ai suoi piedi, come oggi una star
dello sport o dello spettacolo.
La disputa interreligiosa
Accanto alla disputatio accademica, nel Medioevo ebbero luogo delle altre contese di
carattere interreligioso. Se nella disputa universitaria erano in gioco delle
reputazioni, in quella religiosa la posta in gioco era decisamente più alta. Per chi le
sosteneva, infatti, si trattava di
ergersi a campioni – come nelle
ordalie e nei tornei medievali –
della propria fede.
In particolare, le dispute interreligiose
vertevano sulla superiorità del
Cristianesimo sull’Ebraismo e
vedevano contrapposti teologi
cristiani da una parte – a volte scelti
tra religiosi da poco convertiti – ed
esperti rabbini dall’altra. La
partecipazione alla discussione
pubblica implicava rischi non
irrilevanti: se da un lato consentiva di
dare visibilità alla propria fede nei
confronti dei fedeli dell’altra,
alimentando forme di proselitismo,
dall’altra esponeva i paladini dei
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due fronti a una serie d’insidie. Per i campioni dell’Ebraismo, vincere poteva
comportare il pericolo di esporre la propria comunità a reazioni persecutorie; per quelli
del Cristianesimo, la minaccia era quella di incappare in accuse di eresia, dato che la
tattica dei rabbini spesso consisteva nel forzare gli avversari a negare la validità
del Vecchio Testamento, enfatizzando una contraddizione tra le due Scritture
estremamente rischiosa. In pratica, lo scopo dei teologi ebrei era non puntare alla
vittoria ma a determinare, come fosse una partita di scacchi, una situazione di stallo.
Le più famose dispute interreligiose di questo tipo furono quelle che si svolsero a
Parigi (nel 1240), a Barcellona (nel 1263) e a Burgos (1375).
Le dispute interreligiose vennero riprese successivamente, durante il periodo
della Riforma, e videro la partecipazione in prima persona dei grandi protagonisti di
quella pagina della storia: ad
Heidelberg, nel 1518, intervenne
lo stesso Lutero, prevalendo
sugli avversari, i teologi Brenz e
Bucer. La successiva disputa di
Dresda (1519) aprì la strada del
sostegno a Lutero da parte di
Melantone e, infine, in quella di
Regensburg (1541), alla quale
in un ruolo defilato di agente
informale del re di Francia
partecipò Giovanni Calvino,
naufragò il desiderio di Carlo V
di comporre pacificamente il
dissenso religioso nel Sacro
Romano Impero.
Da quel momento in poi, fino al
termine della Guerra dei Trent’Anni, le dispute interreligiose si sarebbero combattute a
cannonate sui campi di battaglia di mezza Europa.
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