CUORE Prof. Schiavone 17/04/2007 8.00- 10.00 SCOMPENSO CARDIOCIRCOLATORIO È una delle patologie più frequenti nella popolazione e una di quelle in assoluto con la quale più spesso vi troverete a dover fare i conti. È una sindrome abbastanza complessa per poterne dare una definizione univoca e chiara; la più generica e che più riproduce la sua realtà clinica è la seguente: “lo scompenso cardiocircolatorio è una condizione fisiopatologica in cui un’anormalità della funzione cardiaca è responsabile dell’incapacità del cuore a fornire una quantità di sangue adeguata alle esigenze metaboliche dei tessuti periferici”. Nelle condizioni di scompenso abitualmente, a meno che non ci sia un’estrinsecazione clinica conclamata, la quantità di sangue che arriva ai vari organi e tessuti, in condizioni di riposo, è sufficiente per un loro normale funzionamento. Mentre si manifesta in modo evidente quando venga richiesto un aumento della portata cardiaca, per esempio in condizioni di sforzo, inteso in tutte le sue accezioni, non solo fisico, quindi quando ci dovrebbe essere un implemento della portata cardiaca, che non può essere assicurato dal cuore. Considerando quest’ultimo aspetto, forse la definizione più giusta sarebbe quella di una condizione, in cui un’alterazione o funzionale o strutturale cardiaca renda il cuore incapace di fornire ai tessuti periferici, in maniera istantanea, una quantità di sangue necessaria per il corretto funzionamento degli stessi, nelle diverse esigenze metaboliche. FUNZIONE CARDIOCIRCOLATORIA Substrati metabolici,ossigeno, ormoni, catecolamine, etc… contrattilità distensibilità frequenza RAA Portata cardiaca Resistenze periferiche (tono vasomotorio) Una funzione circolatoria normale si esprime in ultima sostanza con una normale portata cardiaca, risultato dell’interazione tra l’azione cardiaca e le resistenze periferiche, nel senso che il lavoro, che il cuore svolge per pompare il sangue dall’interno della propria cavità all’esterno nei grandi vasi, è modulato dalle seconde, espressione del tono vasomotorio delle arteriose, che creano una sorta di barriera, più o meno variabile, al cuore stesso. Anche, però, caratteristiche proprie del cuore contribuiscono a determinare l’entità della portata cardiaca: contrattilità, distensibilità e frequenza cardiaca. Quando al cuore si richiede uno sforzo aggiuntivo, cioè un aumento della portata cardiaca, la prima risposta da parte del cuore è un aumento della frequenza cardiaca e della forza di contrazione. La variazione della distensibilità non può essere al servizio delle varie necessità perché dipende da alterazioni organiche della parete miocardica, cioè dalla perdita di tessuto muscolare attivo e sua sostituzione con materiale fibroso. Su frequenza e contrattilità, invece, incidono tutta una serie di elementi regolatori di natura neuroumorale, chimico, ormonale, substrati metabolici, la disponibilità di ossigeno; ma tutto ciò agisce anche a livello delle resistenze periferiche. Tra portata cardiaca e resistenze periferiche esiste un equilibrio estremamente complesso, su cui incidono numerosissimi parametri, anche con delle variazioni che possono inficiare l’azione stessa del cuore; il cuore può aumentare le proprie contrattilità e frequenza, ma, se contemporaneamente aumentano le resistenze periferiche in misura notevole, il risultato finale è solo un aumento dello stress parietale del cuore, senza aumentare la portata cardiaca. Quindi, perché questa modulazione avvenga realmente e proficuamente in funzione delle esigenze dei tessuti periferici istante per istante, è necessario un sapiente rapporto tra tutti i parametri che regolano il flusso circolatorio; non sempre tutti questi meccanismi sono diretti verso lo stesso scopo. Di fronte ad una condizione in cui il cuore viene sottoposto ad un eccesso di lavoro (per cause intracardiache, come una stenosi valvolare aortica, od extracardiache, come la presenza di una fistola artero-venosa), o pressorio o volumico, il cuore stesso risponde con un rimodellamento della camera ventricolare. Il sovraccarico presso rio e quello volumico costringono il cuore a lavorare in maniera antieconomica, con eccessiva richiesta e quindi dispendio di ossigeno ed energia. Un sovraccarico pressorio si ha tutte le volte in cui si pone un ostacolo all’uscita del sangue dal ventricolo sx nell’aorta e, appunto, le cause possono essere intrinseche al cuore stesso oppure estrinseche. Poniamo l’esempio di un ostacolo intrinseco al cuore: nella stenosi aortica, per superare tale ostacolo dato dalla riduzione dell’ostio valvolare, il cuore deve lavorare di più e le singole fibrocellule muscolari cardiache sono sottoposte ad un maggiore stress. In tal caso, l’aumento dello stress parietale si traduce in uno stimolo all’iperproduzione proteica , che a propria volta si traduce in aumento del volume delle fibrocellule e, secondo le vedute più recenti, anche del proprio numero. Il risultato ultimo è l’aumento dello spessore delle pareti, detto ipertrofia miocardica; normalmente un cuore pesa tra i 250 e i 300 g, mentre cuori con spiccata ipertrofia possono raggiungere i 450500 g, e anche oltre. In questo modo si ottiene un’accresciuta forza lavoro, perciò l’ipertrofia sarebbe un meccanismo finalisticamente ben orientato, perché avendo più unità lavorative, si aumenta il lavoro producibile e si tende a pareggiare quel debito di fatica che ci sarebbe stato senza questo tentativo di compenso, e che così viene invece ripartito tra più voluminose, e presumibilmente numerose, fibrocellule. L’ipertrofia miocardica è, però, una condizione antifisiologica e qui c’è da fare una differenziazione tra muscolo scheletrico e muscolo cardiaco, a parità di richiesta funzionale: sottoponendo un muscolo scheletrico ad un allenamento continuo, questo man mano diventa ipertrofico e non è malato, anzi probabilmente funziona molto meglio della sua controparte normale, come resa energetica. Questo perché mantiene inalterate le proprie caratteristiche strutturali e funzionali, nonostante l’aumento dello spessore e del numero delle fibre muscolari. A livello cardiaco, invece, l’ipertrofia fibrocellulare non è accompagnata di solito da un parallelo aumento della vascolarizzazione; la densità capillare del cuore normale, che è approssimativamente di un capillare per 5 cardiomiociti, diventa la metà in un cuore ipertrofico, cioè di un capillare per 10 cardiomiociti. Quindi le cellule sono potenzialmente più produttive, ma in realtà sono mal nutrite, in quanto l’apporto di ossigeno che ricevono resta pari a quello precedente l’ipertrofia e quindi causa di una ischemizzazione relativa. In più, i sistemi neuroumorali od ormonali (angiotensina II, aldosterone, etc),che inducono l’aumento della sintesi proteica, determinano anche un massivo incremento della quota collagene del cuore, facendo assumere all’impalcatura fibrosa in percentuale un valore nettamente superiore rispetto al normale. Anche qui, se nel cuore normale avevamo 5 fibre connettivali per ogni cellula muscolare, nell’ipertrofia saranno 10 fibre per ogni cellula. Ricapitolando, abbiamo un deficit di irrorazione ed un’alterazione nel rapporto tra fibrocellule muscolari e quota collagene. L’alterazione di tale rapporto determina una ridotta distensibilità della massa muscolare; così, le pressioni di riempimento ventricolare aumentano, perché il cuore non è più così elastico. Tanto per far capire meglio il concetto di compliance e le sue implicazioni, considerate il cuore come fosse di gomma; ne esistono diverse qualità, come quella dei palloncini del luna park che è particolarmente elastica, potendoci insufflare dentro vari litri di gas o liquido distendendoli notevolmente, ma senza comportare un eccessivo aumento della pressione al loro interno, perché il contenente si adatta abbastanza bene al contenuto. Un altro tipo di gomma è quella dei copertoni delle automobili, in cui anche modesti ingressi di aria determinano notevoli innalzamenti di pressione, proprio perché la distensibilità del materiale è modesta. Quindi, aumentando nel cuore la quota fibrosa, esso assomiglia sempre più alla gomma dei copertoni, piuttosto che a quella di un palloncino;a parità di volume di riempimento diastolico, si genera una pressione telediastolica nettamente elevata. Ne consegue che tale accresciuta pressione si esercita, in particolare, sugli strati subendocardici, quelli più interni e più a stretto contatto col sangue, che è l’elemento che crea pressione. Per una questione di fisiologia di circolazione coronaria, che vi verrà spiegata in un secondo momento, nella parete endocardica la capacità di autoregolazione è zero, o comunque molto bassa, per cui, essa non può rispondere a questa forza di compressione ab estrinseco aumentando il flusso, cioè vasodilatando i propri capillari, perché lo sono già al massimo; quindi, si lascia progressivamente schiacciare da questa pressione endocavitaria elevata e si creano fenomeni di necrosi subendocardica. È una parete destinata, in un tempo più o meno lungo, a cedere per tutti questi motivi; infatti, a lungo andare, l’ipertrofia si traduce progressivamente in scompenso cardiocircolatorio. Quindi, quello che nasce come un meccanismo compensatorio, per rinormalizzare la funzione cardiaca, ha in realtà in se stesso i germi della distruzione del cuore. Nel sovraccarico volumico, poi, in fase diastolica arriva un volume di sangue al ventricolo maggiore di quello che dovrebbe essere; una cavità ventricolare è costruita per contenere in diastole circa 70, massimo 100 ml di sangue e, quando per diverse condizioni patologiche ne arriva una quota maggiore, essa tende a dilatarsi. Comportano questa evenienza tutte le condizioni di rigurgito, per esempio il rigurgito nell’insufficienza aortica, in cui una certa quota di sangue in diastole invece di progredire in periferia, per la mancata giustapposizione dei lembi ricade all’interno del ventricolo. Al ventricolo, in seguito al normale ritorno venoso e attraverso il circolo polmonare, arriva anche la normale quota di sangue reflua dalla periferia, 50-60 ml; a questi si aggiunge quella quota variabile che ricade nel ventricolo per l’insufficienza valvolare. Lo stesso succede nell’insufficienza mitralica, in cui una quota di sangue, in aggiunta a quella della normale circolazione, fa la spola tra l’atrio ed il ventricolo. In conseguenza di questo aumentato volume di sangue, il ventricolo tende a dilatarsi e, volendo vedere in ciò un certo finalismo, potremmo dire che lo fa per sfruttare al meglio la legge di Starling (la forza sviluppata in contrazione isometrica è direttamente proporzionale alla lunghezza iniziale della fibra muscolare, ossia al pre-carico). Quindi, con la dilatazione ventricolare si possono ottenere delle prestazioni meccaniche contrattili superiori alla norma, tant’è vero che, nelle situazioni patologiche di rigurgito, inizialmente i pazienti hanno delle frazioni di eiezione nettamente superiori alla norma: 70-75% contro il 55-60% del normale. A lungo andare, però, come avviene anche per gli elastici comuni, le fibre si sfibrano, per cui si perde la capacità di ritorno alla posizione o dimensioni iniziali al termine della sollecitazione meccanica, cioè si perde l’elasticità, la compliance del tessuto muscolare cardiaco. La curva che esprime la legge di Starling ha infatti una iniziale fase ascendente, poi un plateau, dopo di che decade pressoché verticalmente; quando si ha la rottura del sistema miofibrillare per eccessiva distensione delle fibre, si ha un decadimento della pulsione contrattile. In più, il consumo di ossigeno di tali fibrocellule è direttamente proporzionale alla loro lunghezza, e quindi alla misura del raggio interno della cavità ventricolare; ma non aumenta adeguatamente l’apporto di ossigeno, perciò si va in deprivazione di ossigeno, che conferisce alle cellule una sofferenza ischemica cronica che le rende prima o poi prone ad una caduta di funzione e quindi allo scompenso. Tutti questi fenomeni, che vanno sotto il nome di rimodellamento ventricolare, sono sostenuti da una noxa consistente in alterazioni strutturali e/o funzionali cardiache, ed essi tendono a pareggiare questi deficit, però in sostanza a lungo andare aggravano la situazione di partenza. Questo è comune a tutti i meccanismi di compenso, i quali sono tutti antifisiologici: anche se nascono nell’intento di parare le alterate funzioni cardiocircolatorie, tuttavia alla fine sono dannosi e tutta la fisiopatologia dello scompenso cardiocircolatorio si basa sui meccanismi di compenso. Infarto miocardico ipertensione valvulopatie Sovraccarico funzionale Stress parietale Dilatazione ipertrofia Disfunzione Aritmia Attivazione neuroumorale Quando esiste un danno cardiaco qualsiasi (infarto, valvulopatia, ipertensione arteriosa, etc), che produce una riduzione della portata cardiaca, l’organo che più di tutti risente nell’immediato di ciò è il rene, che a livello dell’apparato iuxtaglomerulare produce renina, che converte l’angiotensinogeno in angiotensina I, convertita dall’ACE in angiotensina II, uno dei più potenti vasocostrittori che si conoscono. Essa produce un vasocostrizione a carico soprattutto degli organi non vitali; volendo essere finalistici, ciò ha la finalità di ridurre l’apporto di sangue in tessuti che non ne hanno un gran bisogno, come può essere la cute, il compartimento splancnico, e quindi favorire un maggior afflusso in organi vitali, come cervello, cuore, rene. In realtà, però, così facendo, non si fa che aumentare le resistenze vascolari periferiche; tant’è che in queste fasi dello scompenso la pressione diastolica aumenta: abbiamo basse pressioni sistoliche, che traducono la riduzione della portata cardiaca, con pressioni diastoliche relativamente più alte (es. 120-125 mm Hg/ 90-95 mm Hg). L’aumento delle resistenze vascolari periferiche è una fase del cosiddetto “compenso”; ciò mette il cuore nelle condizioni di un aggravamento del proprio lavoro, che produce un aumento dello stress di parete, a sua volta determinante ulteriore danno cardiaco. Si instaura un circolo vizioso che si ripercuote attraverso queste tappe in uno dei tanti circoli viziosi della fisiopatologia dello scompenso cardiaco. Danno cardiaco Riduzione portata cardiaca Danno Ischemia renale Consumo di ossigeno Renina Stress parietale Angiotensina Resistenze periferiche Vasocostrizione organi non vitali Come abbiamo visto prima, l’aumento della renina determina un aumento dell’angiotensina I e II, che da una parte potenzia l’ipertrofia e dall’altra induce un aumento della liberazione di aldosterone, che concorre pure all’ipertrofia, ma soprattutto induce ritenzione di Na e una perdita di K. La ritenzione di Na comporta ritenzione di liquidi, quindi ipervolemia; ciò potrebbe essere, tutto sommato, desiderabile, vista la ridotta portata cardiaca, ma determina anche un sovraccarico volumico, con conseguente aumento del lavoro cardiaco in un cuore che non ha più le capacità per farlo. Anche l’ipersecrezione di aldosterone, perciò, si traduce in ultimo in un danno al cuore; ha poi come effetto secondario l’aumentata secrezione di NE, che si aggiunge all’angiotensina nell’indurre vasocostrizione. In conclusione, avremo un aumento della volemia associato ad un aumento delle resistenze periferiche, quindi sovra-stress di parete. L’ipervolemia, poi, quando esista un’ipertensione venosa, come accade in corso di scarso funzionamento cardiaco, si traduce in una dispersione di liquidi negli interstizi: edemi periferici nelle prime fasi, ascite più tardi. Altra considerazione da fare riguarda il K: la sua perdita induce alterazione dell’equilibrio elettrico delle cellule cardiache, rendendole più prone ad aritmie, danno funzionale che si somma a quello strutturale. Esistono molti altri fenomeni legati alla perdita di K, come la riduzione delle capacità del muscolo scheletrico; tutte conseguenze, comunque, innescate dal primum movens, che è la riduzione della portata cardiaca. Fisiopatologia dello scompenso cardiaco Attivazione neurormonale Renina Lavoro cardiaco Angiotensina I-II Ipertrofia Sovraccarico di volume Aldosterone Ritenzione Na Perdita K Ipervolemia Edemi NE Vasocostrizione La riduzione della portata cardiaca produce anche stimolazione dei barocettori aortici e carotidei, che inducono in via riflessa aumentato rilascio di catecolamine, con stimolazione dei recettori e 2 cardiaci che comporta aumento della frequenza cardiaca, sia nel ritmo sinusale sia nella fibrillazione striale o altre aritmie. Le catecolamine stimolano anche i recettori 1 e 2 periferici, che si traduce in vasocostrizione e quindi aumento delle resistenze periferiche; ancora una volta i due effetti combinati che sono deleteri per la condizione cardiocircolatoria. Inoltre la stimolazione dei barocettori induce in risposta un aumento della contrattilità, cosa che comporta accresciute richiesta e consumo di ossigeno, in una condizione già di ischemia relativa (per quanto detto prima), che assommata alle conseguenze dell’ipocaliemia più facilmente porta ad aritmie e complicazioni via via ingravescenti. Riduzione portata cardiaca Ischemia, aritmie danno cardiaco Stimolazione barocettori Catecolamine Stimolazione recettori 1 e 2 cardiaci e 1 e 2 periferici Consumo ossigeno cardiaco Contrattilità- tono vascolare periferico Ci sono altre attivazioni nefaste nell’ambito della fisiopatologia dello scompenso cardiaco, quali l’iperproduzione di chinine, arginina e vasopressina, endotelina1, ottenendo: vasocostrizione periferica, aumento dell’inotropismo cardiaco, vasocostrizione renale, ritenzione di Na ed acqua, ipertensione polmonare, neoangiogenesi, aterosclerosi ed ipertrofia cardiaca; tutti effetti determinati da queste sostanze e che concorrono al peggioramento dell’equilibrio cardiocircolatorio totale. Quindi, ripetendo, i meccanismi attivati dalla riduzione della portata cardiaca si definiscono compensatori, perché tendono al riequilibrio delle condizioni di circolo, ma in cronico esitano in un progressivo danno del cuore: questo è il centro della fisiopatologia del cuore. Non si può, quindi, definire un unico quadro di fisiopatologia dello scompenso cardiocircolatorio, e vi è una serie di alterazioni più o meno concatenate tra di loro che determinano alla fine il peggioramento continuo del quadro clinico. L’eziologia prevalente di queste condizioni è quella ischemica, che da sola ricopre un 50% circa dei casi, sottoforma di infarto miocardico in primis e di condizioni ischemiche croniche in seconda istanza. Seguono le eziologie a carattere non ischemico: cardiomiopatia dilatativa idiopatica 18%; cardiopatia vascolare 4%; ipertensione arteriosa 3,8%; cardiopatia alcoolica 1,8%; cardiomiopatia post-partum 0,4%; cardiomiopatia infiltrativi 0,1%; altro (soprattutto uso di tossici, in particolare cocaina) 21%. Tra tutte queste, la cardiomiopatia dilatativa idiopatica è una forma di alterazione grave della capacità contrattile cardiaca per cui esiste una familiarità: noxae patologiche varie che agiscono su terreni metabolici predisposti possono in età più o meno giovanile produrre questo tipo di malattia. Conosco una famiglia nella quale il nonno è morto all’improvviso a 40 aa probabilmente per un’aritmia parossistica; suo figlio è morto a 60 aa per uno scompenso grave ed irreversibile legato ad una cardiomiopatia dilatativi seria; la figlia di costui stava perfettamente bene fino a che, all’età di 37-38 aa ha avuto un parto, prima del quale è stata adeguatamente controllata, proprio considerati i precedenti familiari. L’ECG era assolutamente normale, non aveva alcun tipo di disturbo; a distanza di un mese dal parto, questa paziente si presenta con una frazione di eiezione scesa dal 65% del pre-partum al 22%, con un quadro clinico di edema polmonare acuto ed un ECG che evidenziava un blocco di branca sx completo e un QRS di durata particolarmente elevata. Il punto di vista ecocardiografico evidenziava un volume ventricolare telediastolico sx che era passato da 82-83 del pre-partum a 180 del post-partum. Si conoscono le forme di miocardiopatia postpartum, che non si sa bene come inquadrare dal punto di vista eziologico e fisiopatologico, ma in questa donna probabilmente una noxa patogena, come probabilmente un fatto simil-influenzale, che racconta nell’intervallo tra il parto ed il ricovero, noxa che in atre donne senza familiarità non avrebbe sortito alcun effetto reale, è bastata per scatenare una reazione di questo genere. Vuol dire che esiste una meiopragia d’organo, cioè una debolezza fondamentale, per cui l’organo risponde a stimoli, che nel normale non dovrebbero esitare in alcuna forma particolare di cardiomiopatia, in questa maniera perversa. In tal senso c’è una familiarità nelle cardiomiopatie dilatative idiopatiche primitive. Danno cardiaco Ipossiemia P telediastolica V sx Ridotta portata cardiaca RAA RPV P capillare polmonare Meccanismi neurormonali Angiotensina II Aldosterone Dispnea- EPA P arteriosa polmonare Ischemia Aritmie Lavoro V dx Dilatazione V dx Insufficienza tricuspidalica Ipervolemia Epatomegalia Insufficienza epatica Ipoalbuminemia P portale e P venosa sistemica Edemi periferici Ascite Questo schema tende a rapportare i momenti della fisiopatologia dello scompenso con alcune delle sue manifestazioni cliniche più importanti. C’è un danno cardiaco, una ridotta portata cardiaca, un primo circolo di cosiddetto compenso che passa per l’iperattivazione del sistema reninaangiotensina-aldosterone, con l’aumento delle resistenze periferiche e della volemia ed abbiamo detto come questo si ritorca sul cuore stesso. Dall’ipervolemia derivano: primo, gli edemi periferici, secondo l’ascite, che deriva anche da una condizione di epatomegalia e di insufficienza epatica prodotta dall’aumento cronico della P nella vena cava inferiore, che si riverbera, attraverso le vv. sovraepatiche, al fegato, il quale progressivamente si imbibisce di acqua, aumentando di volume. L’epatomegalia, però, non è fine a se stessa, perché determina un aumento della pressione intraepatica e quindi un’ipertensione portale, che a ritroso investe anche il microcircolo intestinale, da cui inizia una trasudazione di liquido che forma l’ascite. L’eccesso cronico di liquido nel fegato produce anche una sofferenza epatocitaria, che porta tra le altre cose ad ipoalbuminemia, ridotta pressione oncotica e ulteriore trasudazione di liquido nel compartimento extravascolare, peggiorando ulteriormente sia l’ascite sia gli edemi periferici. Il danno cardiaco, abbiamo detto, produce un aumento della pressione telediastolica del ventricolo sx e perciò della pressione capillare polmonare, responsabile della dispnea, una delle manifestazioni cliniche più eclatanti di scompenso cardiaco. Essa è una sensazione soggettiva di respiro difficoltoso, è un sintomo, non un segno; noi medici erroneamente diciamo dell’ammalato che è dispnoico, quando rileviamo in lui un respiro difficoltoso, ma dovrebbe essere l’ammalato stesso a riferircelo, mentre noi dovremmo distinguere tecnicamente, della dispnea che lui ci riferisce, se sia una tachipnea, una iperpnea, un respiro rumoroso, etc. La dispnea ha degli steps progressivi, relativamente all’entità dello scompenso che la genera; per cui, nelle fasi iniziali, la dispnea è assente a riposo, mentre si manifesta dopo sforzo (dispnea da sforzo). Progressivamente si riduce l’entità dello sforzo minimo capace di elicitarla, fino ad esserci anche a riposo; segue l’ortopnea, cioè quella dispnea che obbliga all’ortostatismo o al platistatismo. In clinostatismo, infatti, subentra un’alterata distribuzione di liquidi nel polmone, per cui il paziente non riesce a respirare. Dall’ortopnea si passa alla dispnea parossistica notturna, consistente in accessi improvvisi ed autolimitantesi di dispnea, abitualmente notturni perché il sovraccarico di liquidi nel polmone, che in ortostatismo si distribuisce prevalentemente alle basi polmonari, consentendo di respirare a sufficienza, in clinostatismo lo fa a tutti i diversi livelli, compromettendo oggettivamente la capacità respiratoria del paziente. In più, gli edemi e l’ascite nell’ortostatismo per gravità si trasferiscono nelle parti declivi; mentre in clinostatismo, essi tendono a riassorbirsi, venendo meno l’effetto della gravità, se non nelle parti inferiori degli arti, quindi c’è un ulteriore aumento della volemia, che il cuore non può sopportare. Perciò, aumenta la pressione telediastolica, la pressione capillare polmonare e quindi si hanno i sopraccitati accessi dispnoici notturni. Ultimo step di questa condizione respiratoria è l’edema polmonare acuto, una condizione premortale, se non adeguatamente trattato nel giro di pochi minuti; si instaura, di solito, su una pregressa insufficienza cardiaca oppure in conseguenza di un fatto cardiaco acuto, come un infarto miocardico acuto massivo. L’ammalato è pallido, con sfumatura cianotica, manifesta sudorazione fredda, è orripilato, presenta un abbassamento dello stato di coscienza perché l’ossigenazione diventa particolarmente bassa, è agitato, non riuscite a tenerlo fermo, né vuole stare fermo, è obbligato a stare seduto, abitualmente sulla sponda del letto con le gambe appese, perché questo gli consente un sequestro periferico di liquidi, con ridotto ritorno venoso e migliore respirazione. In genere egli tende a piegare le gambe, in modo da comprimere al poplite le vene ed evitare che molto sangue ritorni al cuore. Se auscultate, anche senza strumenti, sentite un gorgoglio, che viene preceduto da una tossetta, dovuta all’edema della mucosa bronchiale, che pian piano si trasforma nella sensazione acustica di gorgoglio, legato all’ingresso dell’aria in un volume contenente liquido. A ciò, se l’ammalato non decide di lasciarci prima, segue l’emissione di liquido schiumoso rosato, perché sempre nel liquido della trasudazione polmonare c’è qualche globulo rosso, e questa schiuma esce dalla bocca e dalle narici perché, sempre per l’ipossia, c’è un’incoordinazione dei movimenti di deglutizione ed antideglutizione, per cui si aprono tutte le vie di fuga per questo liquido. Se ancora a questo livello non si interviene, l’ammalato è perduto, perché per avere la fuoriuscita di tale schiuma dalla bocca vuol dire che i polmoni sono strapieni di acqua e quindi non ossigena e l’ipossia gravissima produce danni cerebrali e cardiaci irreversibili, a cui segue la morte. Andando a farne l’autopsia, a parte le condizioni cardiache, si ritrovano delle grosse masse polmonari, mentre nella norma il polmone è molto piccolo, come delle spugne, molto pesanti e con la sola pressione di un dito espellono una gran quantità di questa schiuma rosata. Se però la condizione si instaura in cronico, l’aumento della pressione veno-capillare polmonare produce un aumento della pressione arteriosa polmonare, in virtù della vasocostrizione delle arteriose polmonari, con cui si riduce l’afflusso di sangue dal distretto arterioso a quello venocapillare. L’aumento della pressione arteriosa polmonare determina un sovraccarico di lavoro al ventricolo dx, che non è per natura dotato di una massa muscolare tale da poter aumentare esponenzialmente il proprio lavoro, come avviene a sx, quindi è in grado di sopportare solo modesti aumenti del lavoro. Quando il sovraccarico è eccessivo, il ventricolo si dilata, stirando l’anello valvolare della tricuspide e impedendone un’adeguata giustapposizione dei suoi lembi, con insufficienza tricuspidalica. Quest’ultima impone un sovraccarico volumico al ventricolo dx, una dilatazione ed un particolare aumento pressorio dell’atrio dx (6-10-15 mmHg contro i 2-3 mmHg nella norma), il che si traduce immediatamente in aumento della pressione arteriosa centrale e in particolare della vena cava inferiore; allora, per via retrograda, si producono gli stessi effetti prodotti per via anterograda. L’ipertensione venosa, quindi, aggrava l’ipertensione portale, l’epatomegalia, l’insufficienza epatica, l’ipoalbuminemia, alimentando e peggiorando il circolo. Lo scompenso cardiaco è caratterizzato da alcuni sintomi soprattutto: dispnea da sforzo, ridotta tolleranza allo sforzo, dispnea parossistica notturna, ortopnea, edema perimalleolare. I segni invece sono, tra quelli più specifici: lo spostamento laterale dell’itto della punta, l’incremento della pressione venosa giugulare, la presenza del III tono. Tra i segni meno specifici ci sono: tachicardia, rantoli polmonari, ingrossamento epatico, edema periferico; tutti questi segni possono originare anche da patologie completamente diverse, quindi hanno una specificità piuttosto bassa. Il III tono è già più specifico, ma non totalmente, perché ad esempio è presente nel soggetto giovane, in cui è assolutamente fisiologico; però, accoppiando il III tono allo spostamento laterale dell’itto della punta, ha già un significato più specifico, perciò ogni considerazione deve essere ritenuta come il tassello di un puzzle. Anche l’ipertensione venosa giugulare di per sé non è patognomonica di scompenso cardiaco, perché può essere dovuta anche ad un tumore mediastinico, o ad una trombosi della vena cava superiore; ma se avviene insieme al rilievo del III tono e dell’aumento della volumetria ventricolare sx, assume caratteri di specificità molto più evidenti. I criteri diagnostici di scompenso si dividono in maggiori e minori; i maggiori sono ortopnea, dispnea parossistica notturna, turgore giugulare, rantoli polmonari, cardiomiopatia, edema polmonare acuto, ritmo di galoppo (III tono oppure IV tono, nei casi più avanzati), pressione venosa aumentata di più di 16 cm di acqua (circa 10 mmHg), tempo di circolazione superiore a 25 sec (il normale è di 12 sec), reflusso epato-giugulare (comprimendo il fegato e aumentiamo ulteriormente le pressioni venose, le giugulari diventano ancora più dilatate). I criteri minori invece sono: edemi declivi, tosse notturna, dispnea da sforzo, epatomegalia, versamento pleurico, ridotta capacità vitale, tachicardia. La dispnea da sforzo, ad esempio, può essere presente nella banalissima anemia, nelle broncopneumopatie croniche, quindi non è patognomonica dello scompenso e così tutti questi altri segni minori. La tachicardia è normalmente presente in un paziente con lo scompenso, però c’è anche nell’anemia, nell’ipertiroidismo, nelle disfunzioni neurovegetative, nei soggetti ansiosi, prima di un esame, quindi non si può definire come segno maggiore dello scompenso. A proposito dell’accuratezza diagnostica, la dispnea da sforzo ha una sensibilità del 75%, ma una specificità del 50%; la dispnea parossistica notturna una sensibilità del 31% ed una specificità del 76%; l’ortopnea una sensibilità del 21%, ma una specificità del 81%. Cause non cardiache di dispnea da sforzo sono malattie polmonari (BPCO, fibrosi), TEP; per la dispnea parossistica notturna la sindrome nefritica, l’insufficienza renale, l’anemia, l’obesità; per l’ortopnea l’ansietà, il decondizionamento fisico. Gli edemi declivi hanno bassa sensibilità e bassa specificità; in loro presenza bisogna valutare la presenza di insufficienza venosa, trombosi venosa profonda, ipoalbuminemia, farmaci (calcio-antagonisti) per un’accurata diagnosi differenziale. I calcioantagonisti sono dei vasodilatatori periferici ed aumentano la permeabilità dei vasi periferici, per cui favoriscono la trasudazione di liquidi, che può essere tale da indurre rottura della cute, formazione di ulcere e fuoriuscita di liquido cristallino (“acqua di rocca”). A questo punto il prof. ci delizia con dei racconti in merito ai metodi non molto ortodossi di risolvere gli edemi declivi conficcando degli aghi nell’arto del paziente in modo da renderlo un colabrodo; l’epatomegalia concedendo a delle sanguisughe di fare bisboccia sull’ipocondrio dx del paziente, magari lo stesso di prima. Dulcis in fundo, per fare i salassi non facevano mica dei prelievi; piuttosto dei bei tagli a vivo nell’incavo del gomito, lasciando il paziente per un pò a buttare il sangue, nel senso letterale del termine. Diletta Contaldo