Maschere identitarie.
La sfida del motto delfico.
Renzo Mulato
Verona - venerdì 23 maggio 2008
1.Premessa.
In principio basti un breve cenno alla tradizione che solitamente viene associata a ciò che
è effimero e folklorico: la creazione e l’uso della maschera. Eppure essa è talmente
persistente, variegata e vasta, presente in forme irripetibili e irriducibili presso tutti i popoli,
che ha posto sempre numerose aporie, in ogni tempo; sia in campo scientifico, che
religioso, che politico. Si rammenti solo il suo ruolo, in specie di quella diabolica, nella
storia europea, con il corteo di inquisizioni, riti e divieti, feste e condanne. L’arte ne ha
prodotto magnifiche testimonianze.
La antropologia culturale ed altri saperi, come la psicoanalisi e la psicologia analitica, ne
hanno fatto un oggetto di indagine, da cui hanno tratto materiale prezioso per la
costruzione di elementi teorici determinanti.
La maschera sembra appartenere a quella foresta del simbolico alla quale i saperi
attingono come a un materiale prezioso, primordiale e strutturato ad un tempo. Proprio
perché umbratile, deforme ed aberrante, esso possiede una forza che supera tutto ciò che
sta in luce. Il mondo delle fantasie, delle illusioni e delle favole possiede infatti spessore e
logica, come e più di quello concettualmente determinato. Definiamole pure anamofosi e
aberrazioni, ovvero deviazioni ottiche e smarrimenti dell'intelletto: “Tuttavia le aberrazioni
corrispondono ad una realtà delle apparenze e posseggono una innegabile facoltà di
trasfigurazione. La vita delle forme dipende non soltanto dal luogo in cui esse esistono
realmente, ma anche da quello in cui vengono viste e si ricreano”. 1
La maschera possiede la capacità di fissare in forme definite sia il pathos di una
esperienza forte, che possiamo denominare esperienza ontologica, sia le degenerazioni
1
J. Baltrusaitis, Aberrazioni. Saggio sulla leggenda delle forme, trad. it. Adelphi, Milano 1983. Di J.
Baltrusaitis si vedano anche: Lo specchio, Adelphi, Milano 1981; Anamorfosi, Adelphi, Milano 1978.
patologiche di una esperienza umana. In queste accezioni possono essere forme e formule
di un pathos primigenio, sia rappresentazioni sincretiche del mostruoso.
La storia delle idee se ne è occupata in modo sistematico, direttamente ed obliquamente,
come mostrano innumerevoli indagini, in campo artistico ed in altri campi, segnatamente in
campo giuridico.2
Quanto alla riflessione filosofica, nel suo versante più legato alla astrazione, non si può
dire che se ne sia occupata in modo approfondito e diretto, quasi appartenesse a quella
parte del mondo interiore di cui nulla si possa dire di sensato da un punto di vista
razionale. Eppure il mascherarsi è un atto molto vicino al processo di disvelamento della
verità: laddove l’atto del celare in forma, grottesca o deforme, è in realtà un mostrare, per
via obliqua, ciò che si intende tenere ben nascosto oppure ciò che non può essere svelato
direttamente. Alcune verità accecano l'occhio incapace di contenerle. Giorgio Colli ha
indicato in questo atto un carattere precipuo dell’anima del mondo, della Natura: essa ama
nascondersi, infatti, invece che mostrarsi.3
Noi concordiamo con Giorgio Colli, ovvero con gran parte della filosofia antica, greca e
latina, nonché con quella medioevale, ed anche con Oscar Wilde, il quale sosteneva che
le verità, che le maschere contengono, sono verità metafisiche, legate quindi ai fondamenti
della esistenza.4
Le maschere della Carnia (Friuli) faranno da contrappunto alla esposizione.5
2. Alcune questioni di metodo, di principio e di stile.
Si tratta, comunque, di un campo e di un materiale molto complesso, dotato di una logica
propria, da maneggiare con cura e soprattutto con metodo appropriato, dove prevalga
l’interrogarsi, il dubitare, il definire per via negativa, piuttosto che per via positiva. Ciò che è
2
Si vedano: E. Anati, 40.000 anni di arte contemporanea. L'arte preistorica d'Europa, Edizioni del
Centro, Brescia 2.000; A. Breton, L'arte magica, Adelphi, Milano 1991; ed in campo giuridico A. Prosperi,
Giustizia bendata, Einaudi, Torino 2008.
3
Giorgio Colli, La natura ama nascondersi, Adelphi, Milano 1988.
4
O. Wilde, Intentions, in Works, London e Glasgoww, pg. 1247
5
Le maschere carniche, qui citate, sono visibili presso il Museo Carnico delle Arti e Tradizioni
Popolari, in Tolmezzo. In generale sono fatte di legno, di dimensioni grandi, tali da poter essere indossate,
sovrapposte al viso ed in sintonia con vesti denotanti il carattere del personaggio rappresentato. Venivano
anticamente usate in riti collettivi, sia di tipo ludico (Carnevale), che sociale e religioso (matrimoni).
concettualmente ineccepibile secondo logica formale, non si identifica con il mondo cui la
maschera allude, dunque è necessario seguire altre vie, peraltro già tracciate – fra
numerosi altri – da E. Cassirer ed E. Melandri.6
La filosofia medioevale aveva seguito la medesima via, nel solco della logica stoica e
nell'ambito della riscoperta del pensiero aristotelico, di cui giungevano nuovi testi
attraverso le fonti bizantine e nuove traduzioni attraverso la cultura araba. Si rammenti un
formidabile testo di Abelardo, dal significativo titolo di Sic et non, composto da un prologo e
158 interrogativi, nei quali si esalta la potenza di quell’ et che si interpone tra il ‘sì’ ed il ’no’,
in grado di creare un lògos dove luce ed ombra, affermazione e negazione, non si
escludono affatto, non si elidono, mostrano invece un legame inscindibile. Sic et non è
anche un chiasmo, particolare figura retorica attinente al metodo di cui qui si parla, la più
breve che si conosca, con cui entrerà in consonanza la speculazione di S. Kierkegaard
(Enten/Eller), da affrontarsi con la guida di Cornelio Fabro.7
* Nell'accostarci alle forme del pathos ed alle corrispettive de-formazioni patologiche abbiamo
bisogno di paradigmi simili a quelli in uso nelle Universitates studiorum medioevali, che
introducevano un metodo singolare di ricerca. Ogni questione da affrontare, come nel caso
del testo abelardiano, veniva preceduta da un interrogativo di tipo disgiuntivo, espresso
dalla endiadi: videtur quod sic/videtur quod non. Maneggiando questa punta aguzza, sia che
in ambito teologico che filosofico, il maestro invitava gli allievi a traguardare i molteplici
versanti della questione con intensità e rigore eguali. Solo alla fine dell’intero percorso era
possibile assumere come vero lo scioglimento dell'enigma. E non sempre questo era
possibile: qualcosa di indicibile, di ineffabile, costringeva gli investigatori ad un infinito
viaggiare. Ben prima di R. Descartes i maestri medievali erano maestri di metodo, più che
6
Si vedano Ernst Cassirer e la essenziale Filosofia delle forme simboliche, trad. it. La Nuova Italia, Firenze
1964; Simbolo, mito e cultura, trad. it. Laterza, Bari 1985. Particolarmente si veda Enzo Melandri in La linea e il
circolo, Ed. Quodlibet, Macerata 2004.
7
Cornelio Fabro è noto per il particolare rigore della elaborazione, che peraltro è necessario nelle
indagini più ardue. Da giovane notò che nei testi di S. Kierkegaard, allora tradotti in italiano, vi erano delle
incongruenze e delle contraddizioni . Scoprì che essi erano traduzioni delle traduzioni e quindi studiò la
lingua alla fonte per poter accedere direttamente al pensiero kierkegaardiano. Di S. Kierkegaard si vedano: Il
concetto dell’angoscia e La malattia mortale, trad. it. C. Fabro, Ed. Sansoni, Firenze 1965; Diario,
Morcelliana, Brescia 1984;Aut-Aut (Enten-Eller), trad. it. di K. M. Guldbrandsen -R. Cantoni, Milano 1945.
illustratori di sentenze. Una successione logica stringente ed inesorabile, un vero e proprio
paradigma metodologico, si dipanavano tra una lezione magistrale ed il commento dei
testi, seguendo un percorso preciso: textus selecti, quaestiones disputatae, quaestiones
quodlibetales, sententiae, summae; ed ancora altri textus selecti, quaestiones disputatae.8
Vorrei segnalare come, alla luce di questa capacità di interrogarsi in modo rigoroso ed
inesausto, la odierna polemica sul cosiddetto relativismo mostri la sua desolante
pochezza.
* Si impone una breve digressione sul ruolo dei paradigmi, di cui spesso si discute attorno
al dilemma se, in campo inferenziale, debbano essere esplicativi o indiziari. Il primo tipo è
proprietà esclusiva di una certa degenrazione scientista, che considererebbe la maschera
solo come un oggetto da catalogare, ed è comunque ristretto ad un procedimento di tipo
deduttivo. Il secondo è di tipo induttivo ed il metodo che ne deriva è indicato dalla stessa
struttura della lingua, come si può evincere dalla formazione dei verbi nelle lingue greca e
latina e nelle lingue neolatine.9
Il procedere per paradigmi indiziari consente una stretta connessione con il principio di
relazione (forte il suo legame con il principio di contraddizione) ed un legame, molto
problematico, con altri principi (di identità, non contraddizione, causalità). Del resto il
materiale di cui oggi parliamo ed il tema del Convegno esprimono contraddizioni e
problematicità coabitanti: non sempre l'inquilino che coabita con noi è luminoso, solare.
Sono comunque coabitazioni inevitabili, come mostra la nozione di complementarità a-
8
Rilevante il metodo dei textus selecti e della loro lettura in pubblico: un elemento decisivo per
accostarsi ai materiali più ardui, che manca totalmente nei nostri studi, spesso troppo solitari e sintetici. Si
veda a proposito il testo di H. G. Gadamer, Verità e metodo, trad. it. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1983.
9
Il sistema dei verbi greci e latini è complesso ed ogni paradigma offre un insieme di indizi da seguire
con accuratezza. Nella lingua latina, ciascun verbo ha due radici, una inerente ai tempi del presente e l’altra
ai tempi del perfetto. L’aspetto linguistico e grammaticale non inganni: nasconde una vera e propria
concezione dello spazio e del tempo, che coinvolge la possibilità di agire e interagire, poiché tempi e modi
derivati dalla prima radice riguardano tutto ciò che cade nella immediatezza della azione e non è ancora
compiuto (quod infectum), mentre tempi e modi della seconda sono attinenti a ciò che è accaduto o accadrà
fuori dell’ambito della immediatezza (quod perfectum). Per un approfondimento si veda di A. Meillet J.Vendryes, Traité de la grammaire comparée des lingues classiques, Ed. Librairie ancienne Honoré
Champion, Paris 1968.
simmetrica ed il ruolo del pensiero analogico, accanto alle forme più conosciute, dirette ed
univoche, della razionalità.
* Ad una attenta indagine archeologica e fenomenologia sul campo scelto, non sfuggirà
che esso indica relazioni complesse ed esige attenzione al rapporto tra struttura e
sovrastruttura ed ai livelli di realtà che in ogni relazione si intrecciano. Vogliamo
sottolineare come la relazione stessa vada intesa come principio, di significato ed
estensione universali.
Questo ci fa riconoscere che ogni elemento, anche quello più umile come una maschera
carnica, ogni cosa/ente o non ente/è in quanto è in relazione. Al contrario il nulla è concepibile
solo come assenza di ogni relazione. Per dirla secondo i canoni della logica: A e B esistono,
in quanto sempre A implica B, e viceversa. Ed il principium individuationis, che segna la
singolarità irripetibile di A e di B, perde il significato di assoluta separatezza che in origine
sembra implicare.
Alcuni caratteri della maschera la avvicinano alla natura dialettica della relazione come
principio, sia essa di legno o cuoio, oppure sia fatta di materiale impalpabile come quello di
cui è intessuta la psiche. Se le osserviamo con attenzione troveremo delle sorprendenti
analogie, che qui per brevità elenchiamo, seppur in modo riduttivo e allusivo, come si
addice alla dimensione del mostruoso e del grottesco:
mobilità, fluidità, metamorfosi
consistenza: solidità, fragilità
reversibilità
identità e non identità: differenza
complementarità
a-simmetria
temporalità come dis-continuità (durata, fine e principio)
potenzialità : possibilità che si, che no
analogia
* L'ultimo carattere rinvia alla importanza della analogia nella conoscenza dei recessi della
vita psichica e pone delle questioni stile. Ci si interroga su quale sia la forma più adatta ad
esporre un pensiero che debba legare non una realtà compatta, ma dei frammenti di
realtà, spesso oscuri e allusivi. La scelta più adeguata appare quella di un pensare per
aforismi, anche per una ragione più generale, attinente al modus vivendi nella superba
epoca presente. E' una via non breve, obliqua ed ellittica, ma la ragione di tale scelta sta
nella atmosfera in cui noi tutti siamo immersi, poiché nel tempo presente non è consentito
che un discorso da lungi, attorno a ciò che riteniamo essenziale. Il pensiero, in quanto
appartiene alle connessioni più difficili e tenaci, non ama l’immediatezza ed ha bisogno di
trovare un proprio spazio per ritrovarsi ed esprimersi. Il tempo presente tende invece a
cancellare ogni spazio e pausa ed a privilegiare la velocità e i moti vorticosi di un tempo
puntiforme. Le forze potenti che attraversano il nostro tempo sembrano poter sminuzzare
ogni relazione, precipitando il singolo nel particolare, in microcosmi chiusi, in un mondo
senza relazioni forti, in una dimensione permanentemente inautentica dell’esistenza.
Perfino gli spazi e i modi dell’abitare sembrano adatti a contenere esclusivamente
solitudini: maschere solitarie. Gli spazi pubblici sono tendenzialmente aboliti o inabitabili e
quindi le moltiplicano, essendo dedicati prevalentemente a privatissime trattative tra
venditore e compratore. Il supermercato ha soppiantato, per ora, la agorà e lo studium. Noi
seguiremo piuttosto la via heideggeriana del vagare per sentieri e inseguire tracce,
indicazioni (Holzwege, Wegmarken); la via del traguardare da lontano, dell’allontanamento
(die Gelassenheit), per poi poter ritornare al principio e contemplare da vicino l’oggetto delle
nostre riflessioni.10
3. Il motto delfico e la sua sfida.
Sul frontone del tempio di Delfi, secondo la testimonianza di Plutarco, vi erano alcune
scritte e tra queste spiccava un perentorio gnòthi seautòn, conosci te stesso.11
E' una sfida autentica che sale dagli abissi del tempo e si pone contro forze odierne,
dotate di ybris onnivora, che sembrano mosse da una sorta di delirio di onnipotenza, nel
tentativo di accumulare con velocità crescente, senza limiti: capitali, oggetti, notizie e
perfino conoscenze. In realtà finiscono per soggiacere alla legge bronzea della
accumulazione, loro primaria ragion d’essere. Una crescita s-misurata è destinata a
10
Per il tema della ricerca per sentieri impervi, dietro indicazioni e tracce si vedano: M. Heidegger,
Holzwege (Sentieri interrotti) del 1950; Wegmarken, del 1976. Quest’ultimo è pubblicato da Adelphi, nel
1987, a cura di F. Volpi, col titolo di Segnavia. Il fatto che M. Heidegger non sia stato in grado, in un
momento cruciale della sua esistenza, di prendere la distanza indispensabile da una tragedia epocale che ha
investito l’umanità e quindi la filosofia, non diminuisce la forza della sua intuizione. Almeno quale è esposta
sinteticamente in Die Gelassenheit, trad. it. di A. Fabris, L’abbandono, Ed. Il Melangolo, Genova 1983.
11
Plutarco, De E apud Delphos, in Dialoghi delfici, Adelphi, Milano 1983.
generare una divaricazione crescente tra cumulo e sua struttura vertebrante: la velocità ed
il peso del primo sono inversamente proporzionali alla possibilità della seconda di reggere
ed assecondarne la crescita. Cumulo e struttura sottostante obbediscono infatti a diverse
ed opposte categorie della esistenza: quantità contro qualità, ad esempio. Le relazioni
umane e naturali sembrano avviate verso uno stato di guerra permanente, e così si
generano fratture ed abissi, implosioni ed esplosioni. Prevedibili quanto a prospettiva,
essendo in esse più forti gli elementi disgiuntivi e disgreganti, imprevedibili quanto a tempi
e forme.
Il titanismo, più vicino al dionisiaco, tende a divorare se stesso per cecità ontologica,
ovvero per psicotica incapacità a percepire il limite, come insegnano i grandi miti dei Titani
e della Torre di Babele. Non appare in grado nemmeno di concepirne la necessità,
incapace come è di controllare la espansione e la immensità dei suoi possedimenti. Tale
status, di hobbesiana memoria, non può che generare nuovi abissi di distruzione ed
autodistruzione, ai quali è difficile porre termine, come possiamo osservare nella
impotenza e nella deriva delle grandi organizzazioni create nel secolo precedente. Siano
esse nazionali o internazionali.
Lo spirito apollineo, di cui Delfi era il custode, in assoluta antitesi impone il culto per la
divina proporzione e per la misura, che già attraversava molte culture (mesopotamica,
greca, latina, medioevale ed umanistica), e che ha difficile cittadinanza nel nostro tempo.
Il motto delfico indica il modo con cui sottrarsi a questo destino, che non è affatto
ineluttabile, con il chiaro avvertimento che non sarà una via breve ed accessibile. Ad essa
si riferisce il pensiero di Eraclito quando segnala che Il Signore, cui appartiene quell'oracolo
che sta a Delfi non dice apertamente, né nasconde, ma accenna, indica (fr. A 1 ), o quando
osserva perentorio che la armonia nascosta è più forte di quella manifesta (fr. A 20).12
* Una digressione ci consente di accostare il motto delfico al tema delle maschere
identitarie, attraverso qualche nota su concetto di identitas e sul suo inscindibile rapporto
con quello di ipseitas.
La prima è un sostantivo di genere femminile, che viene coniato nel Medioevo e che deriva
dal neutro del pronome is-ea-id ed ha avuto una significativa deriva semantica. In origine
non comprendeva esclusivamente i tratti costitutivi di una persona o di un luogo o di un
12
Colli, La sapienza greca vol III, Adelphi, Milano 1982
oggetto, bensì indicava un uomo, quel singolo, e la sua appartenenza alla natio, ovvero alla
lingua in cui era nato, in cui si riconosceva, attraverso cui veniva riconosciuto. La questio disputata
ruotava attorno ad una questione più generale, ovvero alla inquietante contraddizione del
principium individuationis.
Dobbiamo giungere all' Ottocento ed al Novecento per registrare la mostruosa
trasformazione della identità individuale in identità collettiva, attraverso il legame
inscindibile che si instaura tra la nazione ed il binomio della terra e del sangue, simbiosi di
luogo e razza. Si assiste così alla espansione del significato della identità: non è più
l'insieme dei caratteri che distinguono il singolo dagli altri enti, ma l'insieme dei tratti iconici
che separano un gruppo dall'altro, una etnia dall'altra, una nazione dalle altre, con cui
ciascuna sarà in rapporto congiuntivo o disgiuntivo con le altre. A seconda di quel che
consentirà la maschera identitaria di massa, assunta nel fuoco dello scontro. La maschera
espressiva individuale, o individuante caratteri precipui di un gruppo o genere, viene
sostituita da una maschera concettuale pervasiva, dove i tratti simbolici segnano confini
invalicabili e accentuano la differenza: tra superiore ed inferiore, tra puro ed impuro.
Ci preme sottolineare qui una conseguenza della rottura della identitas con la ipseitas.
Quell'id solitario, che la sottende, finisce per indicare solo una ossessione: si traduce
nell'inseguire il possesso di un nucleo stabile, o meglio di una armatura e maschera stabili,
che permetta di dominare le incertezze ontologiche della esistenza. Nella impossibilità di
crearlo da sé, essendo troppo arduo il percorso, esso verrà garantito solo dall'esterno.
La ipseitas, infatti, sostantivo di genere femminile derivante dal pronome ipse, indica un
percorso complesso e interiore, per giungere ad una comprehensio dialettica di sé e del
mondo, come il motto delfico indica e come segnala Karl Jaspers in una sua riflessione
presente in una fondamentale opera del 1913.13
*Una breve ricognizione su alcune ‘maschere concettuali’, che persistono nella nostra
tradizione culturale e sociale, ci segnalerà la persistenza di alcuni modelli strutturanti, di
cui si sono occupati anche S. Freud e K. G. Jung. Il motto delfico assume così il valore di
una indicazione imprenscindibile, se si intende sfuggire alla omologazione identitaria che
essi svelano in modo inequivocabile.
13
Karl Jaspers, Psicopatologia generale, trad. it. Il Pensiero Scientifico Editore, Città di Castello 1964
L'intero secolo XX è trascorso in uno scontro di idelogie (armature e maschere concettuali)
ed in un confronto di divise (maschere sociali segno di identità posticce). Ha concluso il
suo arco con il trionfo di alcune modalità pervasive della apparenza, paradossalmente
depositata
nel
possesso
di
oggetti.
Indispensabili
perché
di
moda.
Quanto
prospetticamente inutili.
Non si ignorerà che in tale modus (non) essendi vi è la totale dimenticanza dell'essere ed
una stretta connessione con la nullificazione della persona, come già Leopardi aveva
anticipato.14
La identità, aspetto eminentemente culturale della persona e del gruppo, giunge quindi al
suo rovesciamento: alla elisione di ogni realtà altra e di ogni differenza. In questo modo è
di fronte ad un bivio parmenideo: ha creato il deserto fuori e dentro di sé e, giunta ai limiti,
è costretta a misurarsi nuovamente con la alterità, ad uscire fuori di sé per poter rientrare
ed abitare gli spazi interiori senza abrasioni e lacerazioni mortali.
Insomma deve accettare la sfida del motto delfico.
* Dovranno essere dolorosamente ripensate le relazioni tra singolo, gruppo, città e res
publica, reintroducendo il valore del limite e del sacro (dal latino seco; sacer: ciò che è
separato) e quindi il concetto di soglia etica, sia nella vita sociale che nelle professioni più
intrusive.
Il dolore dei pensieri, che non è inferiore a quello fisico, è conseguenza della rottura delle
rigide armature dietro cui si celava una intima fragilità, appena mascherata dalle
stereotipie.
La soglia etica è quel confine, mobile ma resistente, che l'insieme delle leggi pone nel
regolare ogni relazione umana, bisognosa di essere contenuta entro limiti reciprocamente
accettabili.
Si tratta di sentieri accidentati, di un cammino sicuramente impervio, che ha bisogno di
una guida.
Ci soccorre la antica riflessione di Aristotele, segnatamente in due opere, essenziali ad
una riflessione adeguata alla altezza della aporia: la Poetica ed il De Anima.
14
Morte.
G. Leopardi e la identificazione della moda con la morte in Operette Morali, Dialogo tra la Moda e la
La prima è dedicata alla arte del teatro e della poesia ed ha al suo centro il concetto di
meraviglioso (thaumastòn, 1451 b), ovvero del mondo delle rappresentazioni artistiche in
grado di cogliere l'essenza imprevedibile della esistenza. I caratteri essenziali di essa sono
metafore appropriate per il nostro percorso e per la ricerca in generale: peripezia, catastrofe
(rivolgimento) e riconoscimento (1452a).
La seconda, il De Anima, connette la corporeità robusta della maschera con le modificazioni
patiche che si introducono nell'anima attraverso il corpo (403 a 16): ogni modificazione
dell'anima passa attraverso il corpo e lascia i segni su di esso. E che cosa sarà mai
l'anima se non una sintesi dei contrari? Come a dire che l'endiadi identitas e ipseitas si
riconosce espressa dalla parola anima, che quindi sarà armonia del corpo, sua unità ed
essenza (407 b 28). Oppure sua disarmonia, disunione ed inessenzialità.
Possiamo liberamente concludere che la superficie corporea, segnatamente il viso, non
saranno altro che un testo scritto in cui sono visibili le tracce di quello status e e di quelle
vicissitudini cui abbiamo appena accennato sulla scorta di Aristotele.
4. Questioni ontologiche.
Compaiono infine delle ineludibili questioni ontologiche, non esclusive della riflessione
antropologica, psicologica e neppure di quella filosofica.
Si dice spesso, ed altrettanto si crede, che la riflessione filosofica sia un sapere separato e
quindi debba essere riservata agli esperti, storici e accademici.
Minimamente.
Lo dimostra la stessa storia della filosofia: Pitagora era un matematico, Marco Aurelio un
imperatore, Tommaso d'Aquino un teologo, Cartesio un matematico e fisico, Spinoza un
ottico, Leopardi un poeta...e il sapere puramente accademico era di là da venire.
Quando ne va della essenza, dei fondamenti di una esistenza, allora sorge da quel
frammento di realtà vissuta una domanda che eccede il campo specifico. La risposta deve
riflettere, non il frammento, ma la aporia che esso contiene, eccedente la comprensione
immediata. Di cui ci siamo meravigliati.
Diremo, sulla scorta di J. Baltrusaitis, che la parola riflessione è desunta dall'ottica e
rappresenta la capacità di seguire nuovamente la essenza dell'oggetto, quale la si è
intravista in modo inadeguato fin dal primo momento della sua emersione.
La riflessione filosofica, in definitiva, è propria di chi segue la strada della ricerca dei
fondamenti. Poi sarà una questione di strumenti, di metodo e di rigore, mantenendo
sempre la apertura originaria.
* Di che cosa abbiamo noi oggi parlato, dentro il rapporto tra maschere ed identità?
Soprattuto di questioni ontologiche, che solo una riflessione metafisica in seguito potrà
dipanare adeguatamente. Questo tipo particolarissimo di riflessione ha un carattere
preciso: è la risultante di un lungo percorso, che in principio ha passi incerti, esattamente
come fa l'essenza dell'oggetto sfuggente di cui si parla. Solo in seguito si misurerà se il
cammino ci fa cogliere l'essenza, con una specie di ritorno al principio.
Ci limitiamo ad alcuni semplici cenni circa i discorsi fatti e le questioni ontologiche cui ci
rinviano.
Si è parlato di identità come processo e sviluppo; come appropriazione armoniosa del
soggetto in quanto tale. Si è riflettuto attorno ad alcuni modelli strutturanti ed al loro rapporto
con la evoluzione storica. E' apparsa la questione se il corpo stesso sia memoria. Si è
affrontato tutto ciò che è in princio, arcaico e primitivo, nella esistenza umana ed in molte
manifestazioni della psiche. Si è riflettutto attorno a strutture e sovrastrutture ed alla
relazione tra apparenza e realtà.
In tutti gli interventi e nelle discussioni è poi apparso il tema – strettamente connesso alla
maschera - del vedere, ovvero del rapporto tra visibile ed invisibile.
Possiamo agevolmente tradurre e sintetizzare tutto ciò in una aporia onnicomprensiva, che
condensa gli innumerevoli interrogativi emersi nel Convegno, nella relazione tra
trascendenza ed immanenza. In chiusura ci limitiamo a riferire un breve apologo risalente ad
un dialogo di Platone.15
* Alcibiade è l'emblema dell'uomo che gli dei hanno dotato di molte qualità: è bello, ricco,
eccelle negli agòni ed in guerra, è di notevole intelligenza; ma è molto ambizioso.
Un giorno attraversa la città di Atene per recarsi alla assemblea, dove chiederà di essere
eletto al potere supremo. Mentre cammina soprapensiero vede pararsi di fronte il suo
maestro Socrate, che egli non vede da diverso tempo. Sorpreso chiede perché mai
Socrate gli si sia fatto incontro ed il maestro risponde che l'amicizia si vede al momento del
bisogno: ecco perché è là.
15
Platone, Alcibiade I°.
In breve si fa raccontare lo scopo del percorso di Alcibiade ed inizia ad interrogarlo
sull'oggetto delle sue ambizioni.
Le domande si fanno incalzanti ed infine il giovane deve ammettere che egli è il migliore in
qualche campo, ma non in tutti. Comprende, si vergogna un po' della sua smodata
ambizione, chiede che debba mai fare.
Socrate risponde con altre domande ed infine lo esorta ad essere consapevole di sé, a
seguire il motto delfico Conosci te stesso.
Usa per questo la metafora dell'occhio come specchio dell'anima.
“Prima di agire, guardati dentro, e per questo spécchiati prima nell'occhio dell'altro. E' un
particolare specchio convesso. La tua immagine ne risulterà rovesciata e deformata:
quello sei tu”.