Esequie - Don Angelo Comini
3 settembre 2011
Convocati da un lutto, come credenti ci ritroviamo insieme per ascoltare la Parola del Signore di fronte ad
un fratello che salutiamo; egli è giunto a conclusione della sua vita tra noi, ed è entrato nella vita vera e
definitiva. Tuttavia avvertiamo oggi una sofferenza che ci colpisce come persone, perché siamo separati da
un prete attento e delicato, veramente amico di ciascuno di noi; avvertiamo anche con chiarezza che la
nostra comunità diocesana e presbiterale è stata privata di un sacerdote capace di comunione e di
significative ricchezze umane e intellettuali.
Chiediamo la consolazione della fede che, illuminata dalla lettera di Paolo ai Romani, ascoltata come
seconda lettura, ci ricorda che un uomo battezzato e redento, è cittadino del cielo e può finalmente, nella
luce dello Spirito, pronunciare la parola ‘Padre’ nei confronti di Dio con quella pienezza di significato e di
partecipazione personale quale non ci è possibile ripetere nei giorni della nostra vita terrena. E’ solo la vita
consegnata a Cristo nella morte che ci consente di essere figli con ogni fibra dell’essere: figli grati, creature
abbandonate alla misericordia.
Don Angelo, come egli stesso scrive nel Testamento Spirituale, così ha considerato il suo morire: Pensando
alla mia morte, mi abbandono alla misericordia del Signore e Lo ringrazio per tutti i doni che mi ha fatto: la
vita, la fede, il sacerdozio…
Sono profondamente grato a tutti coloro che mi hanno fatto del bene: i genitori, i familiari, parenti, amici,
superiori, educatori, collaboratori… Tutti porto nel cuore…
La sua vita inizia a Villanterio, in quella che è ora la piccola comunità di Monte Bolognola, allora parrocchia,
e santuario dedicato alla Madonna Consolatrice, costruito agli inizi del ‘900. Egli sperimenta dunque
l’intensa pietà popolare dei fedeli della zona, e allo stesso tempo cresce a contatto con una via di
comunicazione che conduce velocemente a Milano.
La chiesa parrocchiale, in mezzo ai campi, sulla riva del Lambro, riuniva la piccola comunità, animata da
zelanti parroci. Da questa esperienza don Angelo ha imparato a vivere la concretezza di una fede che
diventa rapporto personale che trasforma la vita, diventa amicizia. Allo stesso tempo vede un mondo che si
muove, che muta velocemente, che invita alla ricerca e all’esplorazione di ciò che sta più oltre. Quando
entra in Seminario e riveste l’abito ecclesiastico, il suo parroco gli scrive un biglietto che egli ricordò per
tutta la vita: gli diceva che l’ingresso in Seminario era solo l’inizio di un cammino di perfezione che avrebbe
dovuto percorrere per tutta la vita, e lo spronava: “Nulla dies sine linea”. Ogni giorno un piccolo passo: oggi
più di ieri; oggi meno di domani.
Noi che lo abbiamo conosciuto sappiamo che ha imparato l’invito del suo parroco ricordandolo e
praticandolo, come mostra la sua vita. La fede vissuta ogni giorno, il radicamento dentro la Chiesa locale
con i tempi di obbedienza e le occasioni di collaborazione creativa, l’amicizia fedele come relazione
profonda e personale. “Nulla dies sine linea”: vivere la fede dentro l’esperienza concreta della comunità,
riflettendo con libertà e bontà sui fatti e sulle condizioni della vita.
Nei diversi momenti della sua vita sacerdotale, nei diversi ministeri svolti è stato il “servo fedele”: a Cristo
ha offerto tutta la sua vita. Nel Testamento scrive: Porto tutti nel cuore, insieme al Seminario, al Collegio
Borromeo, e a tutti i parrocchiani del Carmine. Le sue obbedienze, i suoi amori.
Inserito nella Chiesa pavese, nella sua tradizione, ha contribuito con lucidità di intelligenza, a fare in modo
che la pastorale della Chiesa non si appiattisse sulle “cose”, ma fosse sempre sostenuta da una riflessione
progettuale. Era preciso nel lavoro pastorale, preparava per tempo, sempre proponendo con creatività e
finezza. Studente alla Cattolica di Milano, con il tempo di essere ospite, con altri sacerdoti, del Collegio
dell’Università, ha così posto le basi per una affinata sensibilità agli aspetti culturali della vita della Chiesa.
Prende il posto di insegnante in seminario, segue come assistente la Fuci, il Movimento dei Laureati
Cattolici, coltivando nell’amicizia una vivace attenzione alla ricerca spirituale nei giovani e negli adulti che
segue.
Con gli universitari e con i laureati ha promosso il dialogo tra la fede e la cultura: la partecipazione ai corsi
nazionali, i ritiri spirituali, l’organizzazione di vari incontri, tutto pensato scegliendo ciò che di meglio la
cultura cattolica offriva in quegli anni, ha mostrato la sua volontà in concreto, di promuovere cristiani
maturi. I suoi riferimenti, cui ritornava con la memoria narrando di quegli anni, erano Mons. Costa,
Assistente dei Laureati Cattolici e poi vescovo a Crema, il Cardinale Poma, di cui ricordava la capacità di
dare un respiro nuovo alla vita del Seminario, Don Pelagio Visentin, e il Prof. Giuseppe Lazzati. Ha coltivato
in questo modo, la preoccupazione costante di vivere il suo sacerdozio come testimonianza di una fede che
sa riconoscere i tempi e i segni del Vangelo, e così si incarna nel presente, dove il Signore chiama.
La sua esperienza di studioso, il legame di amicizia e di profonda ammirazione per don Cesare Angelini,
tutto rendeva don Angelo un uomo capace di coinvolgere altri nella ricerca teologica e spirituale. A lui è
stata debitrice la scuola di formazione per i laici che ha preceduto l’Istituto di Scienze Religiose; voleva
proprio formare con sistematicità dei laici che entrassero con competenza nella vita della Chiesa.
Anticipando quello che sarebbe stato il Consiglio pastorale, ha promosso in Diocesi una “Commissione
pastorale” fatta da sacerdoti e laici che pensassero la pastorale. All’intuizione di una collaborazione di ogni
componente della comunità cristiana alla pastorale è rimasto fedele fino alla fine; ricordo la conclusione
dell’ultimo Consiglio Presbiterale da lui moderato. Disse ad alta voce: Ecco, io ho fatto la mia parte…
E la sua collaborazione con il nuovo vescovo, da sette anni a questa parte, può proprio essere descritta allo
stesso modo: una presenza discreta, benevola, propositiva; non si sottraeva all’impegno richiesto e, al
confronto desiderato, portava il suo contributo schietto e arguto.
Il suo modo di essere, gentile e riservato, la sua espressione spesso intelligentemente ironica, rivestiva una
volontà tenace. Don Angelo ha saputo coltivare progetti grandi che, nonostante le difficoltà, è riuscito a
realizzare. Il Collegio universitario Santa Caterina è certamente frutto anche di questa sua determinazione,
gentile ma ferma. Così pure la venuta del Papa Giovanni Paolo II a Pavia, al Borromeo e la realizzazione
dell’altare nella chiesa del Carmine; si tratta di altrettanti risultati del suo “saper volere”. Il suo stile,
discreto, intelligente, apparentemente distaccato, in realtà conteneva l’intensità di uno spirito che sapeva
riconoscere ciò che è essenziale nella vita e nella fede.
Ha vissuto con fedeltà il suo sacerdozio, collegandosi alla radice tradizionale alta della Chiesa pavese: tutto
ciò che ha promosso, era sempre frutto del suo modo profondo di sentire la fede e la vita. Con lucidità
giovanile sapeva separare la tradizione dagli aspetti decadenti legati ad un tempo passato e contingente;
con intelligente prudenza si affacciava alle novità e ne parlava con quella ironia e quella misura che
consentiva di separare il buono da ciò che può sembrare moderno, ma è solo azzardato. Per questo si può
dire che fu un prete che sapeva incontrare tutti, che di tutti aveva rispetto, e dalla sua la fede traeva forza e
ispirazione per comprendere e stimare le persone.
Sua caratteristica è stata il vivere la fede nella sua centralità, in ciò che è “essenziale”, rinnovando, a partire
proprio da se stesso, le manifestazioni che il credere assume nel tempo. Lo possiamo considerare
testimone della nostra tradizione, di spiritualità e di intellettualità a cui egli rimaneva fedele: per questo,
pienamente “pavese”. Fa parte di quella ‘autobiografia’ spontanea che egli forniva nei momenti di
riflessione libera, il ricordo di educatori e di compagni di seminario diventati componenti ideali di una
cerchia di amici con cui scambiava idee, rinnovava persuasioni, confrontava esperienze: Antonio Poma,
Luigi Maverna, Virginio Noè, Paolo Magnani, Italo Terni. Era cosciente così di far comprendere meglio e di
vivere in maggiore profondità il tessuto vivo di una comunità cristiana.
Don Angelo, fino agli ultimi giorni, ha mostrato l’amore e la stima per le vicende di uomini e donne che
hanno costituito la storia della nostra Chiesa, e lo ricordo intento a ricercare documentazione degli aspetti
più intensi della vita della comunità diocesana. Penso in particolare al tempo, alle energie, alla curiosità
intellettuale con cui ha impegnato i suoi ultimi mesi, nel dare un seguito alla storia del Seminario di Pavia,
che intendeva continuare perché interrotta sul finire dell’ottocento.
Un uomo così, un presbitero tanto positivo nel vivere il suo sacerdozio, ci ha scritto nel suo testamento: Mi
auguro che nessuno si rattristi per la mia morte, che è un ritorno alla casa del Padre. Quanta verità di fede e
insieme quale gentile ironia in questo augurio!
Noi abbiamo ascoltato la parola del discorso della Montagna nella quale il Signore ci invita a considerare ciò
che apre la vita umana alla gioia: povertà nello spirito, mitezza, misericordia, cuore semplice, capacità di
costruire la pace. In don Angelo abbiamo visto e sperimentato i doni che Dio fa all’uomo che crede in Lui;
per noi egli è stato un segno della disponibilità della creatura ad essere plasmata dallo Spirito del Signore.
E vogliamo ascoltare fino al termine il suo Testamento: I miei funerali siano semplici: non corone di fiori, ma
qualche preghiera e qualche opera buona. Arrivederci.