Dalla fenomenologia all'esistenzialismo
La crisi delle scienze dei primi decenni del Novecento e l'esperienza drammatica dei conflitti mondiali,
contribuiscono alla nascita di due delle principali correnti filosofiche del XX secolo: la fenomenologia
(rappresentata soprattutto da Husserl) e l'esistenzialismo (rappresentata soprattutto da Heidegger).
La fenomenologia persegue il progetto di un ritorno al concreto “mondo della vita”, superando la riduzione
operata dalla scienze della realtà a insieme di fatti e oggetti fisico-matematici. L'esistenzialismo, ricollegandosi a
Kierkegaard e alla sua dottrina del singolo, si propone di indagare la realtà effettiva dell'uomo nel suo concreto
essere nel mondo.
Husserl (1859-1938)
Cenni biografici
Husserl è nato nel 1859 a Prossnitz (attuale Repubblica Ceca). Si laurea in matematica e poi, dopo la
conoscenza di Franz Brentano e delle sue ricerche sull'origine ps
ichica dei processi logici, si orienta verso gli studi filosofici. Diventa docente universitario a Friburgo, dove
conosce Heidegger, che sarà suo assistente e amico fino all'avvento del nazismo. Husserl in questi anni dà vita
al movimento fenomenologico, che avrà una grande influenza non solo sugli studi filosofici, ma in molti campi
del sapere, come la psicologia, l'etica, la religione, ecc. Con l'avvento di Hitler al potere, Husserl viene costretto
ad abbandonare l'incarico in quanto ebreo. Muore nel 1938.
Opere: Ricerche logiche (1900-1901); La filosofia come scienza rigorosa(1910); Idee per una fenomenologia
pura e una filosofia fenomenologica (1913); Meditazioni cartesiane (1931); La crisi delle scienze europee e la
fenomenologia trascendentale (1954).
Il problema del valore della scienza per l'esistenza umana
La crisi delle scienze europee di cui parla Husserl non riguarda gli esiti pratici, ma la loro capacità di rispondere
alle questioni più profonde sul senso dell'esistenza umana. La conoscenza scientifica considera il mondo come
“cosa”, ciò discende dall'impostazione galileiana, il quale ha dato un'interpretazione generale della natura in
chiave matematica e ha determinato, poi, la spaccatura tra fisico e psichico e ha causato la sovrapposizione di
un mondo di idealità astratte alla realtà concreta dell'esperienza vissuta. Alla fenomenologia, Husserl,
attribuisce il compito di riscoprire il senso perduto delle cose in rapporto alla soggettività.
L'epoché fenomenologica
Il metodo fenomenologico consiste nell'osservare i fenomeni così come si danno alla coscienza. Per farlo è
necessario sospendere il giudizio (epoché) sul mondo così come abitualmente lo conosciamo. Husserl intende
sospendere, mettere tra parentesi, le certezze della scienza e l'atteggiamento naturalistico dell'uomo, che
considera il mondo come una realtà già data e precostituita. Ciò che rimane dopo l'epoché, una volta messo
tra parentesi il mondo, è la coscienza, che come tale è detta residuo fenomenologico, ciò che non può essere
mai messo tra parentesi, in quanto è essa stessa a porre le parentesi. A questo punto, il mondo diventa un puro
fenomeno di coscienza, senza tuttavia annullarsi, anzi rimanendo presente sullo sfondo di qualsiasi indagine.
Ma che cos'è questa coscienza che non può essere messa tra parentesi? Essa è relazione, connessione
inscindibile tra soggetto e oggetto. La coscienza è un insieme di atti che si rivolgono all'oggetto, il quale, a sua
volta, si rivela progressivamente mostrando i suoi diversi livelli di significato. Husserl definisce “intenzionalità”
tale caratteristica generale della coscienza, ovvero il fatto che essa non è mai statica, chiusa in se stessa, ma
sempre “coscienza di qualche cosa”, attività volta verso un oggetto. La coscienza è intenzionalità, essa è una
corrente di esperienze vissute in cui si ha sempre una correlazione tra una polarità soggettiva, chiamata noesi,
cioè gli atti di coscienza (il pensare, l'immaginare, il desiderare, …) e una polarità oggettiva, definita noema,
cioè le varie modalità di apparizione delle cose in relazione agli atti intenzionali del soggetto (il percepito,
l'immaginato, il desiderato, …). La fenomenologia è scienza descrittiva di tali vissuti intenzionali.
L'intenzionalità è la natura stessa della coscienza: la coscienza è intenzionalità, nel senso che ogni sua
manifestazione (ogni pensiero, ogni fantasia, ogni emozione, ogni volizione, ecc.) si riferisce a qualcosa di
diverso da sé, cioè a un oggetto pensato, fantasticato, sentito, voluto, ecc. La coscienza è sempre coscienza di
qualcosa (ogni cogito ha sempre il proprio cogitatum), l'analisi della coscienza è l'analisi degli atti con cui la
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coscienza si rapporta ai propri oggetti, o, il che è lo stesso, dei modi in cui questi oggetti si danno alla
coscienza. Gli atti della coscienza, ovvero i modi di “datità” degli oggetti di coscienza, costituiscono
l'intenzionalità della coscienza.
L'oggetto è ob-iectum, una realtà che trascende la coscienza stessa, alla quale si annuncia e si presenta
attraverso le “esperienze vissute” (prima di conoscere un oggetto, lo viviamo, attraverso una concreta
esperienza vissuta).
Abbiamo detto che nelle esperienze vissute bisogna distinguere la direzione verso l'oggetto (il percepire, il
ricordare, l'immaginare, ecc.) che è detta “noesi” e l'oggetto considerato dalla riflessione nei suoi vari modi di
essere (il percepito, il ricordato, l'immaginato), che è detto “noema”. La noesi è l'insieme degli atti di coscienza.
Il noema è l'elemento oggettivo dell'esperienza vissuta in quanto si costituisce nella coscienza, ma non è
l'oggetto stesso. L'oggetto della percezione è, ad esempio, l'albero, ma il noema di questa percezione è il
complesso dei suoi modi d'essere nell'esperienza soggettiva: l'albero verde, l'albero illuminato, l'albero
percepito, ricordato, ecc. L'oggetto costituisce così un polo intorno a cui vengono a orientarsi e a raggrupparsi i
noemi dell'esperienza vissuta, e per quanto vari e diversi tali noemi possano essere, il polo-oggetto rimane
unico.
Ad esempio, prendiamo il castello di Berlino, se lo consideriamo come una cosa, esso è un edificio bello e
imponente, che è lì, fuori di noi. Ma se mettiamo in atto l'epoché fenomenologica, esso cessa di essere
semplicemente un dato, un oggetto precostituito e diventa una parte del mio “stato d'animo”, ovvero qualcosa
che apprezzo, desidero visitare: questi sono i miei autentici e originari vissuti. Il castello prima è percepito, ma
poi è anche fantasticato, rappresentato in immagini, giudicato, ammirato, desiderato. L'oggetto resta pur
sempre lì, ma no è la sua nuda “oggettività” che ha significato per me. Il castello ha senso per me in quanto
contenuto della mia esperienza vissuta, noema (ossia oggetto mentale percepito, immaginato, apprezzato,
desiderato, …), correlato alla mia noesi (l'atto intenzionale del percepire, immaginare, gioire, desiderare, …). In
ogni noema c'è sempre il medesimo castello, il quale però mi si presenta da diversi punti di vista, che ne
lasciano vedere scorci differenti.
Heidegger (1889-1967)
Cenni biografici
Martin Heidegger nasce nel 1889 a Messkirch, nel Baden, e si diploma presso il liceo di Friburgo (1909). Inizia il
noviziato per entrare nella Compagnia di Gesù, ma vi rinuncia, intraprendendo, prima, studi teologici presso
l'Università di Friburgo, poi dedicandosi alla filosofia e ottenendo il dottorato presso la Facoltà di filosofia
dell'Università di Friburgo (1913). Nel 1919 diventa assistente di Husserl e poi professore all'Università di
Marburgo (1923-1928, tiene corsi su Platone, Hegel, Cartesio e sull'ontologia medievale).
Nel 1927 scrive la sua più celebre opera, Essere e tempo. Fra i suoi allievi figurano noti filosofi come Hans Georg
Gadamer e Hanna Arendt (con la quale avrà anche una contrastata relazione sentimentale).
Nel 1933 aderì al Partito nazionalsocialista e fu nominato rettore dell'Università di Friburgo. Nel 1934 lasciò la
carica di rettore prima della scadenza, rifiutandosi di estromettere due colleghi contrari al regime.
Nel 1936 Heidegger matura una svolta nel suo pensiero che segna l'abbandono delle tematiche
esistenzialistiche, in favore di quelle ontologiche. Uno dei primi documenti che testimoniano la svolta è lo
scritto del 1947 Lettera sull'umanesimo.
Nel 1946 la potenza occupante francese impedì ad Heidegger di proseguire la sua attività di insegnamento,
che poté riprendere solo nel semestre 1950-51.
Fra le opere di questo periodo ricordiamo: Sentieri interrotti (1950), Introduzione alla metafisica (1953), Che
cosa significa pensare? (1954), In cammino verso il linguaggio (1959), Nietzsche (1961), Segnavia (1967). Nel
1955 abbandonò definitivamente l'insegnamento. Morì a Friburgo nel 1967 e venne sepolto a Messkirch.
L'interrogativo sull'essere
Negli scritti di Husserl, Heidegger aveva trovato un superamento della prospettiva neokantiana, in voga tra la
fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, preoccupata esclusivamente di di riflettere sulle condizioni di
validità dell'attività conoscitiva dell'uomo. Per Husserl, l'atto conoscitivo non è solo quello compiuto dalla
ragione, che formalizza e matematizza, ma è, essenzialmente, un incontrare le cose in carne e ossa, ovvero
incontrare la vita nella sua effettività (Lebenswelt = mondo della vita). La vita, per Husserl come per Heidegger,
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è tempo e storicità, vale a dire continuo mutamento, che sfugge a qualsiasi tentativo di cristallizzazione in
formule conclusive.
A partire da queste considerazioni fenomenologiche, Heidegger si rende conto che l'apparato concettuale della
filosofia (da Parmenide a Hegel, ma anche fino a Nietzsche) è inadeguato a comprendere l'essere (la vita) nella
sua effettività. Ciò accade perché, sulla scorta de tradizione filosofica, gli uomini si sono abituati a pensare
l'essere come semplice-presenza (Vorhandenheit), ovvero come qualcosa che ci sta di fronte (objectum), di “già
dato”, avente un suo significato e sue proprietà (vedi le categorie di Aristotele), che sta all'uomo scoprire
(portare alla luce) attraverso l'impiego della ragione. Tuttavia, la vita come storicità non si lascia pensare entro
categorie, non è riducibile ad un elenco di proprietà determinate e razionalmente individuabili. L'esistenza,
nella sua dimensione effettiva (nella sua temporalità e storicità, ovvero nel suo continuo mutare), non è mai
completamente razionalizzabile.
L'esistenza è come il tempo, nel momento in cui cerco di fissarla in un istante, essa è già cambiata. È come se la
conoscenza razionale facesse una fotografia dell'esistenza, ma quella fotografia, per quanto precisa,
rappresenta sempre un istante della vita ormai passato, perché l'esistenza oltrepassa continuamente se stessa.
È necessario, quindi, fondare una nuova filosofia che sia in grado di pensare l'esistenza effettiva senza ridurla a
schemi categoriali, senza pretendere di cristallizzarla, di fissarla, di darne spiegazioni definitive. Il soggetto di cui
questa nuova filosofia si occupa non è il soggetto puro di tipo trascendentale (gli schemi a priori, universali ed
eterni, di cui parla Kant), ma è il soggetto vivente, storico, che esiste nel tempo e che diviene.
Studiare il soggetto vivente (l'uomo), non significa definire la sua essenza, ma porre la questione del suo
mutare continuo, della sua temporalità. La filosofia si è occupata di identificare, classificare le essenze ed ha
perso di vista la vita, l'esistenza concreta.
Nel tentativo di “disegnare” questo nuovo sguardo filosofico, in Essere e tempo (1927), Heidegger dichiara di
volersi occupare, come hanno fatto i suoi predecessori, della questione dell'essere, tuttavia attraverso una
prospettiva nuova e diversa: a partire dall'uomo.
Come diceva Aristotele, il problema della filosofia è chiarire che cos'è l'essere, tuttavia una sua definizione è
impossibile, perché qualsiasi definizione presuppone già l'essere. Ad esempio se mi chiedo “che cosa è un
animale?”, posso rispondere definendo un animale come un organismo sensibile in grado di muoversi
spontaneamente; tuttavia, se mi chiedo che cosa è l'essere, dovrei iniziare la mia definizione con il dire “l'essere
è ...”, ma con l'utilizzo di quella “è” impiego proprio ciò che dovrei spiegare. Tutto ciò mostra come non sia
possibile indagare l'essere come se si trattasse di un qualsiasi oggetto o ente. Sebbene la domanda sull'essere
non conduce ad una precisa definizione, tuttavia può comunque portare ad una chiarificazione del suo senso e
l'unico modo per farlo è di partire dall'interrogazione di quell'ente particolare che, solo, si pone la domanda
sull'essere medesimo. Tale ente è l'uomo, unico ente del mondo che si fa domande del tipo: “che cos'è
l'essere?”, “perché esiste l'essere e non il nulla?”, “qual è il senso della mia esistenza?”.
Parlare dell'essere a partire dall'uomo, significa pensare l'essere non in astratto, ma in rapporto con il tempo
(visto che l'uomo è tempo, la vita dell'uomo si svolge nel tempo).
Inoltre, l'analisi dell'uomo deve essere condotta non a partire da un concetto speciale, archetipico, esemplare,
di uomo, ma deve partire dalla “quotidianità” (Alltaglichkeit) o “medietà”, cioè dal modo in cui “innanzitutto”
e “per lo più” gli uomini si determinano nel mondo, ovvero esistono e conducono la propria vita.
Certo, questo concetto di “medietà” è qualcosa che il filosofo che indaga da per presupposto, è già una sua precomprensione, qualcosa che egli presuppone e che desume dal contesto storico-sociale in cui vive (un orizzonte
preliminare aperto e disponibile). Ciò, tuttavia, non è necessariamente un fatto negativo, un limite, poiché la
pre-comprensione è pur sempre ciò che rende possibile la comprensione successiva.
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Essere ed esistenza
In ogni domanda si possono distinguere tre elementi (ciò che si domanda, ciò a cui si domanda, ciò che si
trova). Nella domanda “Che cos'è l'essere”:
 ciò che si domanda è l'essere stesso
 ciò a cui si domanda è un ente, giacché l'essere è sempre proprio di un ente
 ciò che si trova è il senso dell'essere
Ovvero, la ricerca filosofica indaga l'ente per chiarire il senso dell'essere (che a quell'ente appartiene).
Qual è l'ente che deve essere interrogato? L'uomo, il quale possiede un primato ontologico sugli altri enti:
“Questo esistente che noi stessi sempre siamo e che, fra l'altro, ha quella possibilità d'essere che consiste nel
porre il problema, lo designiamo con il termine Esserci [Dasein]”.
Solo interrogando l'Esserci si può cercare che cos'è l'essere e trovarne il senso.
Il concetto dell'<<esserci>> come possibilità
Che cosa ci dice questa analisi sull'uomo e sulla sua esistenza?
Quest'analisi mette in luce alcune caratteristiche fondamentali dell'esistenza. Heidegger chiama queste
caratteristiche, per distinguerle dalle proprietà degli oggetti, con il termine “esistenziali”.
Vediamo, qui di seguito, quali sono gli esistenziali che chiariscono il senso dell'esistenza.
1) primo esistenziale: l'uomo è Da-sein (esser-ci).
L'uomo è definito da Heidegger come Da-sein, ovvero esser-ci (essere qui e ora), indicando con ciò il fatto che
l'uomo è sempre “gettato” in una determinata situazione.
Heidegger utilizza il termine “gettato” per chiarire il fatto che l'uomo non sceglie dove nasce, né in che tempo.
Egli, senza averlo scelto, nasce con particolari caratteristiche ed in un particolare contesto storico-sociale, e,
almeno in parte queste caratteristiche corporee e storico-sociali determinano il modo in cui la sua vita si svolge.
Naturalmente all'inizio, appena nati, questa determinazione è maggiore e le scelte che il soggetto può compiere
sono minime, successivamente si aprono sempre di più le possibilità di autodeterminazione.
2) secondo esistenziale: l'uomo è poter-essere (e quindi l'uomo è progetto).
L'uomo, come già aveva sottolineato Kierkegaard, ha anche la capacità di trascendere la contingenza. L'uomo è
condizionato dalla situazione, ma allo stesso tempo, è anche “poter-essere”, possibilità, qualcosa che non è
mai dato in modo definitivo, ma “a cui nel suo essere ne va del sue essere stesso”.
L'uomo è situato (gettato), ma nello stesso tempo è poter-essere, oltrepassamento (trascende continuamente
se stesso) e questo oltrepassamento è sempre oltrepassamento di qualcosa (di una situazione raggiunta, ma
proprio perché raggiunta già sul punto di essere superata).
Ciò significa che egli ha la responsabilità del suo essere. L'uomo non si accontenta della sua condizione di
“gettatezza”, ma si protende in avanti, pro-gettandosi in modo continuamente rinnovato. Mentre l'esistere
delle cose è meccanico e automatico, l'esistenza dell'uomo non è fissa, immobile, predeterminata, ma è
possibilità e libertà.
Tradizionalmente quando si parla della natura di un ente, si intende l'insieme dei caratteri costitutivi che
quell'ente possiede e senza dei quali non è quello che è. Ma dire che la natura dell'uomo è di poter-essere è
come dire che la sua natura è di non avere una natura o un'essenza, o meglio è di non avere una natura fissata
una volta per tutte.
Il modo di essere dell'uomo è quello della possibilità e non della realtà, egli non è esistente nel senso della
semplice-presenza, non è qualcosa di semplicemente dato: la sua specificità (ciò che lo distingue, in quanto
uomo, dalle cose) è il fatto di rapportarsi a delle possibilità.
Essenza per l'uomo va presa in senso etimologico, come ex-sistere, stare fuori, oltrepassare la realtà della
semplice-presenza in direzione della possibilità, ovvero continuo oltrepassare la situazione in cui si trova in
vista di una condizione futura progettata.
3) terzo esistenziale: l'uomo è essere-nel-mondo.
L'uomo è “essere-nel-mondo” in quanto non esiste mai isolatamente ma sempre insieme ad altri uomini e
immerso in un mondo fatto di cose. L'uomo è costitutivamente aperto a un mondo di cose e di uomini da cui
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non può prescindere.
Le cose, sostiene Heidegger, prima di essere degli oggetti che ci stanno di fronte (nella loro obiettività, come
semplice-presenza), sono originariamente e innanzitutto per-noi, ovvero hanno significato in rapporto a noi che
le utilizziamo.
Le cose originariamente si danno all'uomo come “utilizzabili”, nel senso che si offrono come strumenti,
oggetti dotati di una certa funzione in riferimento alla vita dell'uomo, ai suoi scopi, ai suoi progetti. Il mondo è
quindi apertura al soggetto e assume significato in funzione di questo rapporto.
L'uomo è nel mondo come ente progettante e come tale inserisce le cose nel suo progetto. Le cose non sono
innanzitutto guardate in modo disinteressato, come se avessero significato indipendentemente da noi (lo
sguardo disinteressato è lo sguardo della scienza), ma noi le guardiamo in rapporto al nostro progetto.
L'obiettività (lo sguardo della scienza) è qualcosa che si raggiunge mettendo da parte i pregiudizi, gli interessi,
le preferenze, è un'operazione che l'uomo fa per scopi precisi di tipo tecnico-scientifico. La semplice-presenza
(l'obiettività) è un modo derivato dell'utilizzabilità (che è il modo originario d'essere delle cose).
[Provo a fare un esempio: se mi interrogo sulla pioggia, posso rispondere ricorrendo a nozioni fisicometereologiche, pensando che questa rappresentazione sia quella che definisce il vero significato del
fenomeno. Tuttavia il significato fisico della pioggia è solo una delle sue possibili rappresentazioni di
quell'evento. Si tratta di un'operazione che è l'uomo stesso compie in vista di scopi pratici, come prevedere se
pioverà o meno e organizzarsi di conseguenza. Ma la pioggia può essere utilizzata anche per altri scopi (diversi
da quelli pratico-scientifici), per esempio per rispecchiare uno stato emotivo: guardando la pioggia percepisco
una corrispondenza con i miei stati interiori e provo determinati sentimenti. La pioggia, come tutte le cose, è
innanzitutto uno strumento, che acquista significato in relazione ai nostri scopi, ai nostri progetti].
Quindi, lo sguardo “obbiettivo” della scienza che rappresenta le cose come oggettive, è uno dei possibili
sguardi, ma non l'unico. Il modo in cui “guardiamo” le cose del mondo dipende dai nostri scopi (dal nostro
progetto di vita).
La valenza delle cose (il loro valere per noi) non ci è mai scoperte tutte attualmente nell'uso (gli strumenti
hanno molteplici, forse infinite, possibilità di utilizzo). Il significato della cosa è più ampio dell'utilizzo attuale;
l'utilizzo concreto non esaurisce l'utilizzabilità delle cose.
Per l'esserci essere-nel-mondo significa essere intimo con una totalità di significati. Le cose gli si danno già
fornite di una funzione, di un significato e si possono presentare come cose proprio in quanto si inseriscono
in una totalità di significati di cui egli già dispone (ma questi significati non sono gli unici, se ne possono
scoprire di altri, le cose possono assumere altri significati, in ragione dei progetti dell'esserci e dello sviluppo di
tali progetti).
4) quarto esistenziale: l'uomo è comprensione
Abbiamo detto che le cose sono innanzitutto per-noi, sono strumenti di cui ci serviamo per realizzare il nostro
progetto. Gli strumenti non sono mai isolati, ma si danno all'interno di una totalità di mezzi. Ogni cosa è in
relazione inscindibile con le altre, ogni cosa “rimanda” alle altre. Ad esempio, il chiodo rinvia al martello con
cui lo percuoto, al ferro dal quale è stato ricavato, al legno in cui lo pianto in vista della costruzione dell'oggetto
che ho in mente. Ciò che viene dato originariamente all'uomo nella sua apertura al mondo, dunque, non sono
singoli oggetti utilizzabili, ma la globalità delle loro relazioni entro cui l'uomo coglie il significato di ciascuno e
se ne appropria nel suo progetto esistenziale. Il mondo è una totalità strumentale.
Ma l'esserci non è solo colui per il quale le cose sono strumenti da adoperare, ma anche colui che sa
interpretarle. Anzi, noi tendiamo ad adoperare gli oggetti in base a come li interpretiamo.
In virtù della sua relazione con il mondo, l'uomo non si pone come una tabula rasa, bensì dotato di pre-giudizi,
pre-nozioni sulla cui base gli oggetti gli si presentano. È in tale orizzonte di “precomprensione” che le cose
assumono un valore e un significato. Si tratta di un processo di “interpretazione”, che il filosofo descrive come
un “circolo ermeneutico”, riferendosi al fatto che ogni significato particolare (ogni ente) viene colto alla luce di
un contesto più ampio (la totalità strumentale “pre-compresa”), che orienta la scoperta degli oggetti, ma che,
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nello stesso tempo, ne risulta a sua volta plasmato e modificato. La valenza delle cose non ci è mai scoperta
del tutto nel modo in cui attualmente le usiamo. I significati che una cosa può avere sono sempre più ampi
rispetto a quelli che noi attualmente gli attribuiamo. Le cose si danno a noi già fornite di un significato (anzi il
mondo si dà già fornito di un significato), di una funzione e noi le riconosciamo e adoperiamo proprio grazie a
questa comprensione che già ne abbiamo. Tuttavia, sviluppando il nostro progetto di vita, possiamo scoprire
che esse hanno anche ulteriori funzioni di cui prima non sapevamo e che possono esserci utili. Per cui la
comprensione delle cose ci permette di utilizzarle, poi utilizzandole accresciamo la nostra comprensione di esse
e possiamo usarle anche in modi nuovi e così via in maniera circolare.
Un esempio di circolo ermeneutico è rappresentato dalla lettura di un libro. Non possiamo capire il significato di
un libro se non abbiamo una pre-comprensione del valore dei libri come documenti scritti, se non ne
conosciamo la lingua, il contesto generale in cui si può collocare, ecc; a sua volta, ogni singola parola letta
contribuirà a modificare e a chiarire l'orizzonte in cui si è manifestata e ad ampliare il bagaglio di nozioni
attraverso cui potremo compiere nuove interpretazioni. La conoscenza non è il risultato di astrazioni logiche di
fronte a un mondo meccanicamente determinato, ma si configura come “interpretazione”, articolazione
sempre più ricca, da parte del soggetto, delle sue pre-comprensioni originarie.
La comprensione è un progetto aperto a modifiche e sviluppi.
L'impossibilità di uscire dalla precomprensione non è qualcosa di negativo o limitante, ma viene a costituire la
nostra stessa possibilità di incontrare il mondo. La conoscenza non è un andare del soggetto verso un oggetto
semplicemente-presente o l'interiorizzazione di un oggetto originariamente separato da parte di un soggetto
originariamente vuoto. La conoscenza è l'articolazione di una comprensione originaria in cui le cose ci sono già
sempre scoperte. Questa articolazione si chiama interpretazione (mentre per discorso si intendono più
interpretazioni articolate insieme). Essa è elaborazione del costitutivo e originario rapporto con il mondo. L'idea
della conoscenza come articolazione di una precomprensione originaria è la dottrina di quello che Heidegger
chiama “circolo ermeneutico”.
5) quinto esistenziale: l'uomo è cura
L'uomo si trova gettato presso le cose e presso gli altri come un essere concreto, un soggetto anche
emotivamente qualificato, che esplica le proprie possibilità subordinando le cose ai suoi bisogni e ai suoi scopi
pratici.
L'esistenza umana si caratterizza come un “prendersi cura” delle cose e degli altri, dove l'espressione cura
indica non solo l'intenzionalità del soggetto – il fatto che egli è rivolto al mondo e agli oggetti – ma anche la sua
temporalità, ossia il suo “essere di là da venire”, il suo coincidere con un progetto in cui le cose assumono
significato. Mi prendo cura delle cose, quindi, significa che mi preoccupo di esse affinché possano entrare a far
parte del mio progetto. Le cose si caricano di una valenza emotiva, sono per me emotivamente importanti,
proprio perché sento che esse possono far parte del mio progetto, non mi sono estranee, indifferenti, non sono
semplicemente qualcosa che mi sta di fronte, ma entrano a far parte della mia vita.
6) sesto esistenziale: l'uomo è essere-per-la-morte (la consapevolezza di ciò permette il passaggio
dall'esistenza inautentica a quella autentica)
La progettualità costitutiva dell'uomo può realizzarsi in due modi differenti, autentico o inautentico: il primo
implica l'assunzione consapevole e responsabile delle proprie possibilità; il secondo comporta un decadimento
dell'uomo al modo di essere delle cose, cioè una sua rinuncia alla scelta e alla libertà.
L'esistenza inautentica coincide con l'adesione acritica e spontanea a un certo mondo storico-sociale,
all'opinione accettata da tutti, alla modalità comune di intendere le cose e di rapportarsi a esse. L'uomo si apre
al mondo assumendo su esso la prospettiva dell'ambiente in cui gli è capitato di nascere ed è per questo che
considera gli enti nel loro valore di utilizzabili per scopi pratici prefissati e predeterminati. È questo il modo in
cui al bambino vengono insegnati i nomi degli oggetti e il loro uso, porgendogli le cose e mostrandogli come
utilizzarle in relazione alle altre. Il mondo allora gli appare come un insieme di significati già costituiti, di segni
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e di strumenti disponibili per i suoi progetti pratici (una visione trasmessa da altri).
In questa dimensione di adesione alla mentalità pubblica, l'uomo non si sceglie, ma vive passivamente; il
progetto che egli è non è propriamente deciso da lui, ma è conseguenza dell'apertura storica in cui si trova
“gettato” e confinato. Heidegger parla a questo proposito di “deiezione” del soggetto, nel senso di “caduta”
dell'esserci nella banalità del quotidiano.
Tale situazione si esprime nel linguaggio attraverso l'uso ricorrente del “si” (“si dice”, “si pensa”, “si fa”...) e la
riduzione del discorso a chiacchiera, alla passiva accettazione di quanto viene detto.
Come è possibile accedere all'esistenza autentica?
Secondo Heidegger, sulla scia di Kierkegaard, ciò è possibile sperimentando un particolare modo di sentire:
l'angoscia. L'angoscia si distingue dalla paura, che è sempre timore determinato; essa rappresenta il
sentimento che scaturisce di fronte alla nullità del mondo, “alla possibile impossibilità di tutte le possibilità
dell'uomo”.
L'esserci non è sempre nel modo della possibilità; esso infatti muore, viene dunque un momento in cui quella
struttura di aperta incompiutezza non è più. La morte non dà completezza all'esserci, semplicemente l'esserci
quando muore non è più (il suo progetto non è concluso, semplicemente si interrompe nel punto in cui era
arrivato).
Il primo aspetto della morte che ci si impone è la sua insuperabilità. La morte è una possibilità a cui l'esserci
non può sfuggire, ma rispetto a ogni altra possibilità è caratterizzata dal fatto che al di là di essa nulla è più
possibile per l'esserci. Essa è la possibilità dell'impossibilità di ogni altra possibilità.
La morte è la possibilità più propria dell'esserci, in quanto lo tocca nel suo stesso “ci”, nella sua stessa essenza
di progetto, mentre ogni altra possibilità si colloca all'interno del progetto stesso, come suo modi di
determinarsi.
Da un lato, la morte è la possibilità più propria, cioè autentica dell'esserci; dall'altro, in quanto non è mai
sperimentabile come “realtà” (almeno la mia morte), essa è autentica possibilità, cioè possibilità che rimane
permanentemente tale, che non si realizza mai, almeno finché l'esserci c'è. Essa è dunque possibilità
autentica e autentica possibilità.
La morte, come possibilità dell'impossibilità di ogni possibilità, lungi dal chiudere l'esserci, lo apre alle sue
possibilità nel modo più autentico. Ciò implica però che essa venga assunta dall'esserci in modo autentico,
cioè sia esplicitamente riconosciuta da lui come la possibilità più propria. Tale assunzione della morte come
possibilità autentica è l'anticipazione della morte; che non significa un “pensare alla morte” nel senso di tener
presente che dovremo morire, ma piuttosto equivale all'assunzione di tutte le altre possibilità nella loro
natura di pure possibilità.
L'anticipazione della morte si identifica con il riconoscimento della non definitività di ognuna delle possibilità
concrete che la vita ci presenta. L'esserci rimane continuamente aperto: nessuna possibilità è mai definitiva
(rigida). Lo sviluppo è sempre aperto, in quanto l'esserci è un essere-per-la-morte (cioè è continuo sviluppo fino
alla morte). L'anticipazione della morte rende concreta l'esistenza autentica.
Gli uomini rifuggono dal pensiero della propria morte, ma essa non è intesa da Heidegger in senso negativo,
come fine della vita, ma come la prospettiva che può conferire senso alla vita stessa, in quanto sottrae l'uomo
alla dimensione inautentica del “sì”, alle possibilità illusorie della quotidianità spesa in attività vane e futili, e
lo pone di fronte a una piena assunzione di responsabilità nei confronti di se stesso e della propria esistenza.
Solo l' “anticipazione della morte” e il riconoscimento di se stesso come “essere-per-la-morte”, cioè essere
limitato, possono evitare all'uomo di disperdersi nel vuoto dell'esistenza “deietta”. Vivere autenticamente,
vivere per la morte, significa condurre la propria esistenza nella piena coscienza che il nostro orizzonte di vita
è limitato e che dunque le scelte che compiamo hanno il valore dell'irreversibilità, dell'aut-aut, che impone
una presa di posizione radicale e che comporta delle conseguenze.
L'anticipazione della morte, mentre svela all'uomo il nulla del mondo e dell'esserci, gli permette
contemporaneamente di far ritorno a se stesso.
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