Edipo Re Iliade 23,679 :” Eurialo … che

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Edipo Re
Iliade 23,679 :” Eurialo … che un tempo venne a Tebe,al funerale di Edipo”
Odissea 11,271-280: “E vidi la madre di Edipo, la bella Epicasta, che azione inaudita compì per ignoranza unendosi
al figlio, che l’aveva sposata dopo aver ucciso suo padre: ben presto gli dei rivelarono agli uomini il fatto. Ma egli, pur
patendo dolori, regnò sui Cadmei in Tebe amabile per i voleri funesti degli dei: ella schiacciata dalla sua pena, legò un
laccio erto all’alto soffitto e scese alla casa di Ade, spietato portiere, e gli lasciò innumerevoli dolori, quanti son soliti
infliggerne le maledizioni della madre”.
Esiodo, Opere 161-163 : “ la guerra annientò alcuni sotto Tebe, nella terra di Cadmo, mentre combattevano a causa
delle greggi di Edipo”. Cat. fr.192 M.-W. : “… le esequie di Edipo dai molti dolori”.
Edipodia, Tebaide , poemi ciclici.
Stesicoro, Pap. di Lille ( fr. 222bDavies) ( Giocasta propone la divisione del regno di Tebe tra i 2 figli di Edipo,
Eteocle e Polinice).
Pindaro, Ol.2,42-45, a Terone vincitore col carro, 476 a.C. :“ Un tempo infatti -era destino- il figlio, per caso,
incontrò il padre Laio, e lo uccise, e compì così l’antico oracolo delfico. Lo vide l’Erinni e implacabile gli estinse la
stirpe guerriera: caddero i figli in duello”.
Eschilo (Laio, Edipo), Sette contro Tebe,778-790 ( infelici nozze,parricidio,accecamento, maledizioni contro i figli).( 467
a.C. ).
Sofocle, Edipo Re ( 424? , 415?); Edipo a Colono (407/6 a.C.) rappresentata postuma nel 401 a.C.
Euripide, Fenicie (409? a.C.).
Al mito di Edipo Sofocle ha dedicato due tragedie; la prima in ordine di tempo, Edipo Re, è di incerta datazione (
424? 415?); la seconda , Edipo a Colono, fu composta da Sofocle sul finire della vita (407/406) e rappresentata
postuma nel 401 dal nipote Sofocle il giovane.
L’Edipo Re tratta uno dei miti più famosi e noti sin dai poemi omerici. Il primo resoconto è il passo dell’Odissea
11,271-280, dove si dice che Epicasta si unisce al figlio, senza sapere (ἀιδρείῃσι νόοιο).Edipo l’ha sposata, dopo aver
ucciso il padre. Il passo è ambiguo e si conclude con la citazione delle Erinni della madre che procurano infiniti
dolori al figlio. Nella Tebaide di Stesicoro è invece la madre che propone una divisione del regno ai figli. In Pindaro,
Ol.2,42-45 (476 a.C.) non si accenna alle nozze con la madre, ma solo al parricidio. In Eschilo, Sette contro Tebe ( 467
a.C.),vv. 778-790, è delineata in nuce la trama dell’Edipo Re e dell’Edipo a Colono: Edipo è stimato e onorato per aver
liberato Tebe, ma senza sapere sposa la madre dopo aver ucciso il padre; quando se ne rende conto si autoacceca e
maledice i figli: che si spartiscano la terra con le armi in pugno. Della trilogia ci mancano i primi due drammi: Laio
ed Edipo. Probabilmente nel primo di questi drammi si trattava del comando di Apollo a Laio di non generare un
figlio che lo avrebbe ucciso. Secondo alcune fonti, Laio sarebbe stato punito per aver rapito, per amore, il giovane
Crisippo, figlio dell’ospite Pelope.
Ma come è presentato Edipo da Sofocle? Nella prima scena egli è il salvatore: a lui si rivolgono i Tebani, vecchi e
giovani, perché li salvi dal male che sta distruggendo la città. Edipo si rivolge a loro chiamandoli figli: ὦ τέκνα è la
prima parola della tragedia, che dà subito la temperatura spirituale del rapporto che corre tra il re e i suoi sudditi. Nel
finale questo sovrano rispettato e amato scoprirà di essere l’involontaria causa dei mali di Tebe.
Ѐ stato detto che questa tragedia è un giallo, dove però il detective e il criminale coincidono. Ed infatti proprio il
desiderio di giovare ai suoi “figli” spingerà Edipo a mettere in moto il meccanismo che gli rivelerà le sue orribili
verità per cui alla fine scoprirà di essere lui il mìasma , la contaminazione che dovrà essere espulsa da Tebe, cioè
l’assassino del re Laio. Ma poi la ricerca prenderà una piega ancor più sconvolgente, perché scoprirà che l’ucciso
Laio è anche il genitore di chi lo ha ucciso e scoprirà infine la verità sulle nozze con Giocasta, la madre.
La scoperta della verità comincia lentamente nel 2° episodio, nella scena che coinvolge Edipo e Giocasta. Vi è
nell’atteggiamento della donna, nel modo in cui cerca di sollevare Edipo dall’angoscia, una sorta di protezione
materna che arriva sino alla negazione dell’arte profetica di Apollo ( “ O profezie divine, dove siete?”v.945). Ma è
proprio da questo punto che comincia la scoperta della verità. Nel mentre si nega la veridicità dell’oracolo è proprio
la sua veridicità che finirà per essere dimostrata. E così viene alla luce che l’oracolo stringe in una rete sia il padre
che aveva osato disobbedire al comando del dio e poi commettere l’infanticidio, sia la madre resasi complice di
quell’infanticidio ( v.1175), sia il figlio che mentre cerca di fuggire dal destino predettogli dal dio, incorre
involontariamente proprio nel destino cui tenta di sfuggire. All’orrore della condizione in cui è piombato, Edipo
reagisce con l’autoaccecamento, che esprime un desiderio di isolamento inteso a chiudere per sempre ogni
comunicazione con gli affetti così oltraggiati ( il padre, la madre, i figli ). Ed è probabile che qui giochi l’arcaica
credenza nel mìasma , la contaminazione che promana da chi ha compiuto atti orrendi e che si trasmette per
contagio, come un virus, a chi soltanto tocchi o guardi o parli con colui che è fonte di contaminazione. Si pensi all’
Eracle euripideo, che dopo aver ucciso inconsapevolmente moglie e figli, vela il suo capo per evitare la
contaminazione all’amico Teseo (Eur.,Eracle 1199ss.).
Che senso ha questo evento? Propongo di partire dal giudizio che ne dà il Coro.
Nel 4° stasimo il Coro dei Vecchi Tebani piange sulla vanità della vita umana: “ Generazioni di uomini vi reputo un
nulla. Quale uomo ottiene più che l’illusione della felicità? E dopo l’illusione viene il declino. Abbiamo davanti a noi
l’esempio del tuo destino, infelicissimo Edipo, e dunque non diremo felice nessuno degli uomini… Tu che ti levasti
… in difesa della nostra città. Da allora sei chiamato nostro signore e onorato più di ogni altro. … Ma ora chi è più
sventurato di te?... Figlio di Laio, vorremmo non averti mai visto; piangiamo su di te, gridando i più tristi lamenti.
Eppure, se si deve dire la verità, grazie a te abbiamo avuto respiro, grazie a te il nostro occhio ha trovato riposo nel
sonno.” (1186-1222). Dunque il Coro piange sull’infelicità dell’uomo e non dimentica il bene ricevuto: l’uomo che
ha compiuto azioni mostruose inconsapevolmente, ha però compiuto azioni salvifiche consapevolmente.
Già questo dovrebbe far dubitare della tesi di Jean-Pierre Vernant ( “ Ambiguità e rovesciamento. Sulla struttura
enigmatica dell’Edipo Re”, in J.-P.Vernant- P.Vidal-Naquet, Mito e tragedia nell’antica Grecia, tr.it., Torino 1976,88-120),
che propone un confronto tra la figura di Edipo e quella del φαρμακός. Il φαρμακός è l’equivalente greco del’ebraico
Άzā’zel, che S.Gerolamo traduce caper emissarius, cioè “capro espiatorio” ( cfr. Levitico 16), ed è in relazione con il “
giorno dell’espiazione” ( del Kippur). Si tratta di una usanza comune a molti popoli dell’antichità, secondo cui ogni
essere animato ( o anche oggetto inanimato), ritenuto capace di accogliere in sé i mali e le colpe della comunità,
poteva mediante la sua espulsione liberare di quei mali e di quelle colpe appunto la comunità. Nel Levitico 16,20-22 il
capro espiatorio viene accompagnato nel deserto e ivi lasciato libero. L’equivalente greco è il φαρμακός : un
individuo reietto ( un criminale, uno schiavo, uno straniero), caricato di tutte le contaminazioni della comunità, la cui
espulsione attiva un’azione purificatrice per tutta la comunità. Ma la tragedia non si conclude con l’espulsione di
Edipo; e d’altra parte l’espulsione dell’assassino di Laio ( o la sua uccisione) è il responso di Apollo (vv.95ss.). Ed è lo
stesso Edipo che richiede vanamente la propria espulsione. Ed infine non è tanto la catarsi della comunità che è
rilevante nel finale, quanto la pietà per l’individuo terribilmente colpito a cui la collettività riconosce gli straordinari
meriti, come abbiamo visto.
D’altra parte è stato osservato che in questo dramma sofocleo non ha rilievo alcuno l’ereditarietà della colpa che si
trasmette attraverso le generazioni, secondo l’ideologia di Eschilo ( su ciò cfr. A. Lesky , La poesia tragica dei Greci,
Bologna 1996, 322-339 ; tr.it. da Die tragische Dichtung der Hellenen, Göttingen 1972, 3 ed.). Non c’è un rapporto
causale tra la sventura di Edipo e una colpa commessa dai suoi antenati. L’accento batte sulla fragilità della
condizione umana, ben al di là degli interessi della polis ( su questo aspetto cfr. V. Di Benedetto, Sofocle, Firenze
1983, specialmente i cc. V e IX). E i versi conclusivi del dramma ( “ non giudicare felice nessun uomo mortale prima
che sia giunto al termine dell’esistenza senza aver sofferto alcun dolore”,vv.1528-1530) esprimono il profondo
pessimismo sulla imprevedibilità della condizione umana che ha il suo analogo nel colloquio tra Creso e Solone, su
cui riferisce Erodoto I,32.9. Qual è allora la colpa di Edipo?
Prima di indagare su questo è bene mettere a fuoco i modi della ricezione degli spettatori/lettori. Forse il dramma
suscita in essi un sentimento di condanna per la malvagità e di approvazione per la sventura che punisce Edipo? O
invece è un sentimento di pietà perché sentiamo che quella sventura è immeritata e che il personaggio è generoso e
nobile? E addirittura quello che è capitato a lui poteva capitare a qualunque di noi?
Se è così , questa è la condizione fondamentale per l’identificazione dello spettatore con il personaggio tragico: pietà,
perché colui che cade in disgrazia non lo merita ( ed è affine dunque a chiunque di noi si ritenga immeritevole di così
grave sventura); paura , perché ciò che accade al personaggio tragico potrebbe capitare a ciascuno di noi. Questo è il
punto di Aristotele, quando afferma che il personaggio tragico non cade in disgrazia per vizio e malvagità ( nel qual
caso non sentiremmo pietà per lui), ma per un qualche errore, hamartìa ( Arte poetica 1453 a 8-10; 15-16). L’errore,
hamartìa, può dunque essere un calcolo non corretto delle conseguenze delle proprie azioni, o un eccesso di
emotività, o una valutazione superficiale dei fatti nel momento della deliberazione; insomma un atto, volontario o
non volontario, che viola in qualche modo l’ordine. Nell’Edipo Re la hamartìa, l’errore è commesso da un uomo che
ignora di compiere il parricidio e le nozze incestuose, che anzi tenta con tutta la sua intelligenza di sfuggire a questa
sorte che egli, quando ne viene a conoscenza, aborre con tutte le sue forze. Se dunque un errore c’è stato è di aver
creduto di poter sfuggire alla parola del dio Apollo, che è parola di Zeus: “ O Zeus, che hai deciso di fare di me?” è
la domanda atterrita di Edipo (v.738), allorché comincia a intravedere il proprio coinvolgimento nell’uccisione di
Laio. E quando sta per precipitare nell’angosciosa certezza di essere proprio lui l’assassino di Laio ( non ancora
riconosciuto come padre) e di contaminarne il letto, grida : “.. non avrebbe ragione chi dicesse che è un dio crudele
quello che mi colpisce in questo modo?” (vv.828-829).
Il Coro dei Vecchi Tebani in qualche modo contestando la razionalità ateizzante di Giocasta ( che irrideva alla scarsa
veridicità degli oracoli) nel 2° stasimo invoca la protezione del dio sulla città e proclama: “nell’aiuto del dio non
cesseremo di confidare” (vv.878-881).Dunque una riverenza assoluta nei confronti del dio; ma nella tragedia
sofoclea, a differenza di quella eschilea, non si apre mai il discorso sulla presenza del male nel mondo, sul perché il
dio colpisce l’innocente. Eschilo aveva risposto che il dio punisce il colpevole. E la sua risposta fa pensare ai discorsi
degli amici di Giobbe che spiegano le disgrazie capitate allo sventurato come dovute alle sue colpe. Ma alla fine Dio
conferma il pensiero di Giobbe: il dolore non è sempre un castigo di colpe personali ( Giobbe 42,7-8). Era questo il
pensiero inespresso anche di Sofocle?
Verso la fine della sua vita Sofocle ripensò al mito di Edipo, sviluppando tutto quello che nel primo dramma era
rimasto implicito. Lo ambientò a Kolonòs hippios, un bosco sacro alle Eumenidi, distante circa 2 km. da Atene
(distinto da Kolonòs agoràios, il quartiere cittadino di Atene, dove sembra probabile sia nato Sofocle nel 497/6 a.C.).
Colono è il luogo in cui avrà fine l’esilio errabondo del tebano Edipo. L’oracolo di Apollo gli ha predetto che dopo
gli innumerevoli mali, finalmente in quel luogo avrebbe avuto pace e, sepolto in quella terra, avrebbe arrecato
vantaggio ai suoi ospiti ateniesi e rovina a coloro che lo avevano cacciato in esilio, cioè i Tebani, compresi i suoi figli:
così riferisce Edipo stesso nel Prologo della tragedia (vv.86ss.). In tal modo si mette subito a fuoco il perenne
rapporto di Edipo con l’oracolo di Apollo. Il dio che ora promette una conclusione onorevole della vita di Edipo ha
in precedenza crudelmente segnato il suo destino.
L’Edipo a Colono rappresenta l’ultimo atto della tragedia di Edipo, secondo Sofocle. L’infelice scacciato da Tebe,
cieco, con la sola compagnia delle figlie, Antigone e Ismene,dopo lungo vagabondaggio giunge nel bosco sacro
ateniese di Colono, per chiedere da supplice ospitalità. Di questo bosco Sofocle ci ha lasciato una splendida
descrizione nel I stasimo. ( Edipo a Colono 668-767). Questo bosco è per sineddoche Atene, la città protettrice dei
supplici e degli stranieri, secondo lo slogan della propaganda politica ateniese, sin dai tempi di Pericle. Ed uno dei più
importanti comandamenti nella società arcaica e classica greca era la protezione dei supplici: rifiutarla comportava il
rischio di incorrere nell’ira di Zeus Hikèsios, protettore dei supplici. La hikesìa, l’atto del supplicare, richiedeva un
particolare rituale e i supplici si rappresentavano con bende di lana e ramoscelli di ulivo. D’altra parte Edipo nel
chiedere accoglienza ad Atene si comporta secondo le regole ; straniero com’è, rispetta le leggi del luogo. Dice il
Coro dei Vecchi di Colono: “ Sei straniero in terra straniera. Devi odiare quello che è sgradito alla città ( di Atene),
venerare quello che ad essa è caro” ( vv.184-187).
Infine Edipo è un ospite che recherà vantaggi a chi lo ospita. Il suo corpo sarà fonte di bene per la terra , qualunque
essa sia,che lo custodirà: il corpo di Edipo difenderà dagli assalti dei nemici la terra in cui sarà seppellito ( vv.616ss.).
Queste prerogative, di poter fare bene agli amici e male ai nemici della terra che ne custodisca il corpo, sono le
prerogative proprie dello status dell’eroe. Da uomo macchiato di atroci impurità a eroe, questo è il capovolgimento,
la katastrophè (v.103 ) della vita di Edipo: “ Gli dei una volta ti distrussero, ora ti sollevano”, così commenta la figlia
Ismene (v.394). Come al solito, Sofocle non indaga sul perché del comportamento divino; ne prende atto: Apollo è
voce di Zeus.
Edipo chiede dunque ospitalità in questi termini al re di Atene Teseo. Ma va subito sottolineato che Teseo concede
ospitalità, prima ancora di conoscere i vantaggi che gliene verranno, e lo fa nei termini della pietà e della solidarietà
umana:” Ho pietà di te … Anch’io sono cresciuto in esilio, in terra straniera, affrontando innumerevoli rischi della
vita. Così a un ospite quale tu ora sei, mai potrei rifiutare il mio aiuto. So di essere uomo, e sul futuro non posso
vantare diritti maggiori dei tuoi.” ( Edipo a Colono 562-568).
Teseo è per antonomasia l’eroe di Atene, la città protettrice dei supplici, e Sofocle,collocando a Colono il luogo
della sepoltura di Edipo, si crea l’opportunità di levare un ultimo inno alla nobiltà e alla grandezza della sua polis,
protettrice dei supplici, ed insieme, assicurando con la sepoltura di Edipo una sorta di immunità alla terra di Atene,
può dare una parola di conforto e di speranza ai suoi concittadini, in un momento di grave pericolo. Non va infatti
dimenticato che tradizionalmente, a partire da Omero ed Esiodo ( Iliade 23,679s.; Odissea 11,275ss.; Esiodo, Catal. fr.
192 M.-W. ), il luogo della sepoltura di Edipo è Tebe, non certo Atene; per cui si è argomentato con buona
probabilità che Sofocle abbia del tutto inventato la sepoltura di Edipo a Colono o, tutt’al più, che abbia utilizzato
una qualche leggenda locale attica e antitebana ( Tebe insieme con Sparta fu una delle più pericolose avversarie di
Atene durante la guerra del Peloponneso).
Ma l’Edipo a Colono non è solo il dramma che conclude in modo onorevole il destino disgraziato di Edipo, ma è
anche il dramma che ripropone le disgrazie di Edipo sotto nuova luce, sottoponendole ad un esame morale e
giuridico mai accennato prima. L’Edipo Re si chiude su un Edipo inorridito, che con l’autoaccecamento fisico sembra
voler isolarsi dal mondo e bloccare l’impurità che i suoi atti hanno prodotto. Ma nell’Edipo a Colono Edipo dichiara
che la furia dell’autopunizione era stata troppo più grande dei suoi errori (vv.438-439) e proclama il principio
fondamentale di ogni civiltà etico-giuridica, che si fonda sulla responsabilità, cioè la facoltà di intendere e di volere.
Edipo non sapeva e quindi non poteva aver voluto uccidere il padre, unirsi in nozze alla madre. Ecco come risponde
ai Vecchi Ateniesi che lo interrogano:”Ho avuto dei mali atroci, contro la mia volontà, il dio me ne sia testimone.
Non ci fu mia scelta … Ho solo ricevuto un dono per aver salvato la città ( di Tebe) … Ho ucciso … ho colpito;
ma sono puro di fronte alla legge, e non sapevo nulla (vv.521ss.). E contro l’impudenza del cognato Creonte che gli
rinfaccia le sue azioni , Edipo proclama la propria innocenza:” Tu mi rinfacci le uccisioni, le nozze, le sventure che
io ho subito, infelice, senza volerle … Ma se non sapevo quello che stavo facendo e a chi, come si può
rimproverarmi un fatto involontario? … Per queste nozze non posso venire considerato colpevole, come non lo
posso per il parricidio che tu mi rinfacci con animo maligno” ( vv. 960ss.).
Azioni involontarie sono quelle del padre anche per Antigone (v.240) che definisce Edipo “ un uomo che il dio ha
spinto alla rovina”(vv.252-254). E in questa limpida analisi che Edipo fa di se stesso emerge l’uomo volitivo che
nell’Edipo Re aveva voluto indagare implacabilmente sino alla fine rovinosa il mistero terribile della propria nascita. E
la coscienza della propria incolpevolezza , fondata sulla giustificazione dei propri atti (v.546), gli fa proclamare di
essere puro di fronte alla legge (v.548). Questa consapevolezza gli consente di affrontare con vigore i suoi nemici,
coloro che gli fanno torto: i suoi figli e il cognato Creonte , che lo avevano scacciato e abbandonato nella disgrazia
e che ora vorrebbero portarlo via da Atene, perché hanno saputo che vincerà il partito che avrà con sé Edipo. Come
riferisce la figlia Ismene, a proposito dell’oracolo di Apollo:” In te sta il potere di Tebe” (v.392). Lo sventurato esule
scaglia la maledizione del genitore offeso e oltraggiato contro i figli maschi che lo hanno esiliato e abbandonato.
Contro Creonte che ammanta di belle parole ingannevoli il proposito di impadronirsi di Edipo per procurarsene i
vantaggi , Edipo risponde smascherandone e mettendone a nudo la falsità e la prepotenza, che la retorica astuta non
riesce a velare (vv. 761-807).
E tuttavia Edipo, pur dichiarandosi esente da ogni colpa, sente gravare su di sé la contaminazione che promana da
quel parricidio, da quelle nozze incestuose. Quando vuole dimostrare a Teseo la sua riconoscenza per avergli
concesso ospitalità, egli dice:” Porgimi la destra , signore, che io possa toccarla e, se è lecito anche baciare il tuo
volto. Ma che dico? Come desiderare che tu tocchi un infelice dentro cui vive ogni macchia di male? No, non lo
voglio, non te lo permetterei neppure” (vv.1130-1135).
Qui è la coscienza del miasma, della contaminazione che grava su chi ha compiuto atti orrendi, ancorché
involontariamente: la nozione arcaica dell’impurità che colpisce, indipendentemente dal movente, e che si trasmette
per contagio ( come il bacillo del tifo, dirà suggestivamente Eric Dodds ), anche solo toccando o guardando o
parlando con chi è fonte di contaminazione. I Vecchi del Coro, atterriti dal tuono che annuncia a Edipo la fine ormai
vicina, temono che il dio voglia punirli “per aver guardato un uomo impuro” (vv.1482-1483).
La morte di Edipo è misteriosa; nessun uomo, tranne Teseo, è in grado di riferirne (vv.1656-1657); questa morte ha
in sé qualcosa di meraviglioso (v.1665): è per il vecchio Edipo il vagheggiato riposo dopo tanti affanni. Si conferma
così l’amara sentenza silenica riecheggiata dal Coro al v.1225:” Non nascere è il destino migliore, subito dopo il
miglior destino è, appena nati, tornar subito là da dove si è venuti”.
L’Edipo a Colono è l’ultimo atto d’amore di Sofocle per Atene: la città rifugio degli oppressi e dei senza patria; la città
democratica di Teseo confrontata con la nemica autocratica Tebe. Ai suoi concittadini il vecchio drammaturgo
sembra offrire la speranza che nulla di male potranno arrecare i nemici alla terra ateniese che custodisce il corpo
dell’eroe Edipo. Ma quando il dramma fu rappresentato il sogno imperiale di Atene era già svanito.
Giuseppina BASTA DONZELLI
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