Una “folla di persone” alla sequela del Dio
Amore.
Un itinerario biblico spirituale insieme a Paolo
di Tarso
Introduzione
In cammino con Paolo per discernere ed incarnare nel “meglio
dell’amore” la propria vocazione personale.
L’apostolo Paolo e tutta la spiritualità biblica ci testimoniano
come la meta e l’approdo consapevole o inconsapevole di ogni
creatura umana sia giungere a conoscere, sentire e gustare il senso
profondo del proprio essere, del proprio mistero come è scritto nel
cuore di Dio. Questo mistero, ci insegna la rivelazione biblica è
depositato e sigillato nella portata semantica ed esistenziale del
nome: “Ti ho chiamato per nome, tu mi appartieni” (Is 43,1).
“Rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli” (Lc
10,20b).
Giungere a scoprire, incarnare e donare il proprio mistero come
effetto del discernimento permanente e dinamico della propria
vocazione personale, e di una vita vissuta in conseguenza ed in
coerenza con questa, è una delle concretizzazioni esistenziali e
spirituali più eccelse del divenire mistero d’amore donato ai fratelli
nella propria originalità ed irripetibilità.
Discernere, scoprire ed eleggere la propria vocazione personale
nella perenne tensione di trasformazione in profondità della propria
vita significa permettere al Dio Amore, e a se stessi, di penetrare
sempre più nella consolante certezza di essere, nella propria
originalità, “preziosi” e fondamentali per l’intera economia della
2
salvezza e necessari alla costruzione di quell’ ”edificio spirituale
unitalsiano”, che ci vede come “pietre vive” edificati sulla pietra
angolare e viva che è Gesù stesso (cf. Ef 2,19-23 e 1 Pt 2,4-5).
La vocazione personale, quindi, quando è conosciuta, scoperta e
vissuta, con una sempre maggiore crescita in essa, diviene l’autentico
criterio di discernimento per tutte le scelte e decisioni di vita. Il vero
ed autentico criterio per giungere a quella vera “verità che ci fa liberi”
(Gv 8,32): la “speranza della nostra vocazione” (Ef 4,4), della quale
dobbiamo sempre e comunque rendere ragione (cf.1 Pt 3,15) per
divenire il “buon profumo del Cristo che vive in noi” (cf. 2 Cor 2,15 e
Gal 2,20) e “splendere come astri nel mondo, tenendo alta la parola
di vita” (Fil 2,15b-16).
Sembra evidente, quindi, la necessità di pervenire ed essere in
una permanente formazione dell’arte del discernimento, che Paolo
considera una delle forme più alte dell’incarnazione del mistero
dell’Amore di Dio:
E perciò prego che la vostra carità (il greco di Paolo ha la parola
importantissima “agape”) si arricchisca sempre più in conoscenza e in
ogni genere di discernimento, perché possiate distinguere sempre il
meglio ed essere integri ed irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi
di quei frutti di giustizia che si ottengono per mezzo di Gesù Cristo, a
gloria e lode di Dio. (Fil 1,9-11)
Le scienze pedagogiche e psicologiche fanno eco a Paolo e ci
insegnano e ci testimoniano anche loro come il processo educativo
oggi non sia “altro”, che quel permettere alla persona umana di
prendere coscienza e tirare fuori le proprie potenzialità e doti
interiori, che rappresentano il segreto dell’originalità di ogni essere
umano nella irripetibilità della sua esistenza biologico-fisiologica,
psicologica e spirituale.
3
Allora ecco come il nostro cammino di incarnazione del mistero
della carità unitalsiana può, sempre più e meglio, approdare e
giungere ad essere quella “associazione di persone”, che – nella
libertà dei figli di Dio (cf. Rom 8,14) - svelano e donano l’uno all’altro
quel frammento eterno della propria originalità, che è impronta e
sostanza della originalità e novità dell’Amore di Dio in ciascuno di noi,
con la quale possiamo e dobbiamo trasfigurare e fare più bella la
nostra associazione, la Chiesa ed il mondo intero.
4
PRIMA TAPPA
Una “folla” di persone
chiamate per nome
nel proprio “qui ed ora”
Il testo: At 26,9-18
Anch’io credevo un tempo mio dovere di lavorare attivamente
contro
il
nome
Gerusalemme;
di
molti
Gesù
dei
Nazareno,
fedeli
li
come
rinchiusi
in
in
realtà
feci
prigione
a
con
l’autorizzazione avuta dai sommi sacerdoti, e quando venivano
condannati a morte, anch’io ho votato contro di loro. In tutte le
sinagoghe cercavo di costringerli con le torture a farli bestemmiare,
infuriando all’eccesso contro di loro, davo loro la caccia fin nelle
città straniere.
In
tali
circostanze,
mentre
stavo
andando
a
Damasco
con
autorizzazione e pieni poteri da parte dei sommi sacerdoti, verso
mezzogiorno vidi sulla strada, o re, una luce dal cielo, più
splendente del sole, che avvolse me ed i miei compagni di viaggio.
Tutti cademmo a terra e io udii una voce che mi diceva: Saulo,
Saulo, perché mi perseguiti? Duro è per te recalcitrare contro il
pungolo. E io dissi: Chi sei, o Signore? E il Signore rispose: Io sono
Gesù, che tu perseguiti. Su, alzati e rimettiti in piedi; ti sono
apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che
hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora. Per questo ti libererò
dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando ad aprire loro gli occhi
perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio e
ottengano la remissione dei peccati e l’eredità in mezzo a coloro che
sono stati santificati per la fede in me.
5
Per la riflessione
Vogliamo riflettere insieme a Paolo sul mistero del nostro essere
persone chiamate a vivere il dono della propria vocazione. La lettura
di questa pagina degli Atti degli Apostoli, nella quale Paolo ricorda la
sua storia al re Erode Agrippa, può aiutarci a penetrare nel cuore
dell’esperienza spirituale di Paolo e permetterci di chiedergli di
raccontarci, nella logica della serietà e della deontologia scientifica
lucana (cf. Il Prologo del suo vangelo:Lc 1,1-4), come “Colui che
discerne i nostri cuori” (cf. 1 Ts 2,4b) lo abbia formato alla scuola di
questo discernere ed incarnare il mistero della volontà personale di
Dio nel suo “qui ed ora” nel proprio cammino umano e spirituale.
Il
racconto
paolino
ci
fa
conoscere
il
palpitare
di
Saulo
nell’esercitare la sua memoria in questa riattualizzazione degli eventi,
delle circostanze e delle persone attraverso le quali e nelle quali il
Signore è intervenuto nella sua vita, chiedendogli di aprire gli
orizzonti del proprio essere verso quelli della terra inesplorata della
sua volontà e della sua giustizia1.
Paolo
non
ha
paura
di
riconoscere
il
suo
passato
di
“bestemmiatore, persecutore e violento” delle vie e dei pensieri di Dio
(cf. 1 Tm 1,13). Ricorda con emozione e con passione di essere stato
tra coloro che hanno acconsentito alla condanna a morte di Stefano
(At 8,1) e di altri (At 26,10). Sembra suggerire la “necessità
soteriologia” di rivestirsi dei panni del proprio peccato e delle proprie
arroganze per permettere, in pienezza, alla luce del Risorto di
scoverchiare le tenebre della sua ignoranza per giungere ad una vera,
autentica e trasparente “esperienza-incontro” con “Colui dal quale
siamo conosciuti” (1 Cor 13,12c).
“Il credente, che gode del discernimento spirituale, coglie le indicazioni dello
Spirito, riflettendo sulle proprie situazioni, meditando sulle possibili attività,
valutando i propri personali sentimenti interiori, esaminando alla luce evangelica la
propria esperienza attiva e contemplativa”. T. GOFFI, L’esperienza spirituale, oggi.
Le linee essenziali della spiritualità contemporanea, Brescia 1984, 92.
1
6
Infatti al versetto 13 c’è il riferimento esplicito alla “luce dal
cielo, più splendente del sole”. Su questa luce Paolo ha, sicuramente,
molto riflettuto tanto che ai Corinti scrive:
“Quel Dio che ha detto: Sia la luce, è lo stesso che ha rifulso
nei nostri cuori” ( 2 Cor 4,6).
La luce del Risorto lo permea talmente da scoprire sempre più
verso quale direzione ed orientamento questo avvenimento lo ha
portato. Essere “ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di
quelle per cui ti apparirò ancora…”; per questo “ti mando ad aprire
loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di
satana a Dio” (At 26,16-17).
Essere strumento, servo, ministro e testimone, nella luce del
Risorto, del discernimento fra ciò che è luce e ciò che è tenebra, tra
ciò che è in potere di satana e ciò che è di Dio. Servo, dunque, del
discernimento a favore delle “genti” perché siano santificate per la
fede nel Cristo, che “lo ha conquistato” (Fil 3,12) e giungere alla sua
piena maturità.
Sembra questo essere solo l’inizio ed il compimento del mistero
dell’esperienza cristica sulla strada di Damasco del Paolo, che vive in
ciascuno di noi, ma siamo solo all’inizio della nostra contemplazione e
del nostro pellegrinaggio spirituale.
Al Paolo impegnato nella sua difesa davanti al re Agrippa
possiamo formulare, ora, un interrogativo perché ci illumini, a nostra
volta, sulla dinamica del nostro formarci alla scuola del divenire
persone rese strumenti, servi, ministri e testimoni della volontà
personale di Dio in noi. La domanda potrebbe enuclearsi in questo
modo. Paolo di Tarso, che consapevolezza avevi di te e del tuo
mistero quando la luce di Damasco ti ha raggiunto?
Paolo ci risponde chiedendoci di ripercorrere, insieme con lui, i
tratti autobiografici del terzo capitolo della lettera ai Filippesi, dove
7
afferma, con forza, che il Signore lo ha “visitato” quando lui era
convinto di essere, ormai, nel pieno possesso dei valori fondamentali,
conquistati a caro prezzo, e sui quali poter distinguere e discernere,
con assoluta sicurezza, ciò che è da Dio e ciò che non è da Dio2.
Per l’approfondimento
“Un tema fondamentale che troviamo scorrendo la Bibbia è
quello di essere “chiamato per nome”. Non è ora il momento più
propizio
per
enumerare
i
tanti
e
ricchissimi
testi
biblici
che
comprovano questo tema. La conclusione sarebbe semplicemente la
seguente: io non sono uno dei tanti nella folla per Dio; non sono per
Lui un numero della serie e neppure sono catalogato in un biglietto;
sono irrepetibilmente unico, perché Dio “mi chiama per nome”.
Questa realtà potrebbe essere certamente chiamata la mia “identità
personale” oppure il mio “orientamento personale nella vita” oppure
ancora il mio profondo e vero “io”. Secondo la Bibbia, però, preferisco
chiamarla la mia “vocazione personale”: E’ cosa triste il fatto che
abbiamo spesso limitato il termine “vocazione” alla chiamata al
sacerdozio o alla vita religiosa, e forse a malincuore parliamo sempre
più della “vocazione” al matrimonio o “vocazione” al laicato. Di fatto,
nella Bibbia,la parola di Dio designa ogni chiamata ad uno specifico
orientamento o missione nella vita, come “vocazione”.
[…] Stiamo tutti sospirando di avere unità e integrazione, in
particolare noi, apostoli attivi. Francamente il grido più profondo del
cuore che io sento degli apostoli attivi , nel mio ministero di direzione
spirituale, è il grido, il desiderio di unità e di integrazione: “Ho tante
“Il dramma di Paolo è un dramma sottile, difficile, quale lo può vivere un uomo
profondamente religioso e minacciava di diventare distorsione radicale
dell’immagine di Dio in lui. Ecco da dove viene Paolo e la sua violenza ideologica. La
violenza ideologica, frutto di fanatismo e dell’incapacità di capire gli altri se non
come sottomessi a se stessi, non è scomparsa ai nostri giorni. Ancora l’uomo cerca
una salvezza propria, cerca una giustizia e un’autogiustificazione che porta ad ogni
genere di aberrazioni, pago di un possesso in cui ci si crede totalmente padroni, e
non servi, della verità”: C.M. MARTINI, Le confessioni di Paolo, Milano 1997, 37.
2
8
cose da fare durante il giorno – questo, quest’altro e ancore altre
cose – che alla fine della giornata sono sfinito, distrutto, dissipato.
Come vorrei fare una cosa sola in profondità!” Non è vero che più si
avanza in perfezione e maturità, più semplici si diventa – una
semplicità non di impoverimento, ma di una ricchezza concentrata in
profondità ! -”.:Herbert ALPHONSO, S.J., La vocazione personale.
Trasformazione in profondità per mezzo degli esercizi spirituali, Roma
1994, 19.24.
Per la preghiera
Ci rivolgiamo direttamente a te, apostolo Paolo.
Tu vedi con quanta presunzione pretendiamo di penetrare nel
mistero della tua vita che tu stesso hai ripensato in tanti anni.
Se
lo
facciamo
è
perché
vogliamo
conoscerti
attraverso
la
conoscenza di ciò che Dio ha fatto in te, conoscere chi è Dio, chi è
Gesù Cristo, chi è Gesù per noi.
Noi sappiamo che tu, apostolo Paolo, non sei indifferente davanti al
nostro desiderio; anzi è il tuo desiderio.
Tu hai vissuto per questo, hai sofferto e sei morto per questo. E’ per
la tua sofferenza e per la tua morte che ora ti preghiamo.
Apri i nostri occhi come il Signore ha aperto i tuoi, perché
comprendiamo la potenza di Dio in te e la potenza di Dio in noi.
Donaci di comprendere ciò che tu eri prima della conversione, ciò
che noi eravamo prima che Dio ci chiamasse, ciò che noi siamo di
fronte alla chiamata di Dio.
Ci rivolgiamo anche a te apostolo Matteo perché, uscendo da ciò
che crediamo di sapere o di avere già capito, entriamo nella terra
sconfinata che è la Parola di Dio,
In questa terra sconfinata troviamo il nutrimento, l’acqua e la
manna che ci fanno camminare, il fuoco che ci riscalda e ci illumina,
ascoltiamo la Parola di Dio, vediamo il lampo della sua gloria.
Anche a noi sia concesso, come a Paolo e a Matteo, di portare il tuo
messaggio e con libertà di parola e di spirito.
9
Ascolta , o Padre, la preghiera che ti facciamo insieme agli Apostoli
Paolo e Matteo, insieme con Maria, Madre di Gesù. Per Cristo nostro
Signore. Amen.
(Card. Carlo Maria MARTINI)
10
SECONDA TAPPA
Una “folla di persone”
afferrate e sedotte da Cristo
Il testo: Fil 3,3-14
Siamo noi i veri circoncisi, noi che rendiamo il culto mossi
dallo Spirito di Dio e ci gloriamo in Cristo Gesù, senza aver fiducia
nella carne, sebbene io possa confidare anche nella carne. Se
qualcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui:
circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di
Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo
persecutore della Chiesa;irreprensibile quanto alla giustizia che
deriva dall’osservanza della legge. Ma quello che poteva essere per
me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo.
Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della
conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato
perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura al fine di
guadagnare Cristo ed essere trovato in lui,non con una mia giustizia
derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo,
cioè con la giustizia che deriva da Dio,basata sulla fede. E questo
perché io possa conoscere lui, la potenza della sua resurrezione, la
partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella
morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dei morti. Non
però che io abbia già conquistato il premio o sia arrivato alla
perfezione, solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché
anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli, io no ritengo
ancora di esservi giunto, questo soltanto so. Dimentico del passato
11
e proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio
che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.
Per la riflessione
In
questa
seconda
tappa
del
nostro
itinerario
vogliamo
permettere a Paolo, e al Paolo che vive in noi, di farci specchiare nel
racconto della sua esperienza di lenta e graduale cristificazione, che
gli permette di rivestirsi gradualmente della piena maturità del Cristo
che vive in lui (cf. Ef 4,13 e Gal 2,20).
Nella prima parte di questa accorata e confidenziale descrizione
autobiografica, fondamento strutturante l’esperienza del suo “qui ed
ora”, Paolo con trasparenza descrive le proprie origini.
“Circonciso l’ottavo giorno”. Così come prescritto da Lev 12,3,
portando nella sua carne il riverbero attualizzante dell’alleanza (berit)
donata da Dio ad Abramo.
“Della stirpe di Israele”. La qualificazione religiosa con la quale
afferma la sua appartenenza al popolo eletto nella radice e nella
continuità della lotta di Giacobbe con il suo Dio, che gli aveva
appunto cambiato il nome in Israele (cf. Gen 32,23-33).
“Della tribù di Beniamino”. Beniamino, il figlio più giovane di
Giacobbe e Rachele, fratello di Giuseppe. Paolo sembra dirci che ha la
gioiosa consapevolezza di avere e gustare anche una discendenza
biologica e genetica con il figlio caro a Giacobbe insieme a Giuseppe.
“Ebreo da ebrei”. A livello culturale, e non solo religioso, figlio di
ebrei e non semplicemente un giudeo ellenista.
“Fariseo quanto alla Legge”. Appartenente al gruppo più
osservante, a livello di rigore morale della Torah. Lo spirito del
fariseismo portava i componenti di questa fazione a rappresentare in
modo intransigente il baluardo dello jahvismo, non venendo a nessun
tipo di compromesso, come per esempio i sadducei, di fronte alle
12
richieste di novità, che derivano dal confronto con l’ellenismo e la
presenza del mondo romano.
“Quanto a zelo persecutore della Chiesa”. La logica conseguenza
del suo essere, visceralmente, compromesso con la Torah da non
potere tollerare il sorgere di una realtà che, solo minimamente,
potesse minare la stabilità monolitica della rivelazione e della
tradizione jahvista.
“Irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza
della Legge”. Paolo si dichiara e si riconosce intriso di quella tensione
spirituale, che lo vede coinvolto completamente in quella serie di
minuziosi comandamenti, di prescrizioni e di rituali che lo rendono
giusto in quanto osservante scrupoloso ed attento.
Paolo viene incontrato, ed incontra la luce del Risorto in una
situazione personale, intrisa di Tradizione, impegno personale e
giustizia, che lo rendono convinto e certo nel discernimento, che
viene dall’economia della Legge, di poter interloquire “alla pari”,
“faccia a faccia”, con il suo Dio…: “MA” (v.7)
E’ interessante soffermarsi, nella nostra riflessione su questo
“ma”. Paolo, nel suo percorrere i sentieri della contemplazione del
passaggio di Cristo nella sua vita, sembra quasi bloccarsi in uno stato
di “esichia”, che gli permetta di ripermearsi di tutti quei sentimenti e
quegli stati d’animo che la sua libertà, la sua memoria, la sua
intelligenza e la sua volontà hanno vissuto durante l’evento di
Damasco, che paradossalmente si rivela come un “gamete fecondo”,
che deve ancora giungere a perfezione (v.12) nella piena maturità di
Cristo (cf. Ef 4,13).
E nella logica del suo cammino di cristificazione, che ha inizio
nel mezzogiorno di At 26, si può sentire il riflesso ed il riverbero del
Discorso della Montagna: “Vi fu detto…ma io vi dico”: Il “ma”
qualitativo
del
“qui
ed
ora”,
che
intrinsecamente
–
e
quasi
ontologicamente – diviene il “Più” della presenza di Colui che non è
13
venuto ad abolire la Legge ma a portarla a compimento nell’amore
(cf. Mt 5,17 e Rom 13,10).
“Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato
una perdita a motivo di Cristo” (v.7). Paolo evidenzia con forza la
profonda e radicale conflittualità e schizofrenia tra l’apparenza, il
superficiale, l’epidermico e l’interiorità, il cuore, lo spessore profondo
del propri essere “in Cristo”. E, osservando l’epidermide del suo
essere, ciò che appare, e trovandoci anche il segno della circoncisione
carnale, intuisce e denuncia per sé e per gli altri la inutilità
soteriologia della ricerca di una propria progettualità e realizzazione
che non sia quella dell’ascolto e del discernimento dei moti interiori
del proprio cuore e della lettura delle circostanze e delle persone, che
sole sono la garanzia della propria originalità e verità, che lo
costituiscono e lo radicano nella centralità del proprio essere, dove è
possibile ricevere ed abbeverarsi a quello spirito di sapienza e di
rivelazione per una più profonda conoscenza di Dio (cf. Ef 1,17) e del
suo pensiero e volere (cf. Col 1,9-10).
Tutto ciò che è apparente guadagno, “fumo e non sostanza”,
Paolo ha imparato e continua ad imparare che è “perdita”. Si verifica
un radicale capovolgimento di valori nella logica del discernere ciò che
è buono e viene da Dio e ciò che non lo è. La Luce Persona della
strada di Damasco diviene il Pedagogo per il personale discernimento
e la decisione di Paolo “per Cristo”.
Paolo “reputa”, giudica, considera tutto una perdita di fronte alla
sublime conoscenza di Cristo, e queste cose sono addirittura ritenute
“sterco” (= skybala). Il Paolo, che è alla scuola del “Dio che discerne i
nostri cuori” (1 Ts 2,4b), ci testimonia questo suo cammino di
formazione al discernimento di ciò che è vero, giusto, gradito a Dio,
rivelandoci subito il suo segreto. E’ il suo cammino di cristificazione,
dono di grazia gratuita di Dio (cf. 1 Cor 15,8.10), a portarlo, come
ciascun cristiano autentico, ad essere quel’ “uomo spirituale che
14
discerne ogni cosa e non è giudicato da nessuno” perché ormai ha “il
pensiero di Cristo” (cf. 1 Cor 2,15-16).
Paolo, formandosi a questo sentire, ci dice che non si valutano
“le cose di Dio” e si aderisce ad esse in un atto di discernimento e di
deliberazione,
se
non
si
è
totalmente
ed
ontologicamente
compenetrati con la Persona di Gesù, il Cristo, che diviene il proprio
Signore, che – a sua volta – è tutto immedesimato e compenetrato
nelle “cose” del Padre Suo!!! (cf. Lc 2,49).
Tutto è “perdita” e “sterco” di fronte alla sublimità della
conoscenza
di
Cristo.3
Conoscere
Cristo,
come
siamo
da
lui
conosciuti, per giungere a valutare e discernere le cose del mondo
interiore ed esteriore come Gesù.
La fede nel Signore, incontrato sulla via di Damasco, ed il
battesimo, come “vera circoncisione di Cristo” (Col 2,11), immersione
nel mistero di morte e risurrezione di Cristo, lo conducono a questa
“sovraeminente” conoscenza, che è scienza non solamente razionale
e teorica, ma vitale ed esperienziale: è conoscere lui, la potenza della
sua resurrezione, la partecipazione alle sue sofferenza, divenendogli
conforme alla morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dei
morti (cf. vv.10-11).
L’intelletto, l’affettività ed il cuore di Paolo, sono resi con ciò,
così, capaci di “discernere quale è la volontà di Dio, ciò che è buono,
a lui gradito e perfetto” (Rom 12,2b). Il suo orientamento è verso una
conoscenza profondamente religiosa ed esperienziale, che proviene
dallo spirito di Dio e che gli permette di conoscere i doni che Dio ci ha
Per Paolo non c’è conoscenza di Gesù se non immedesimarsi al suo mistero di
croce. Per lui è fondamentale il suo sperimentare anche ‘fisicamente’ la vicinanza di
Gesù, sentire nella sua ‘pelle’ e nel profondo del suo intimo la portata amicale del
darsi liberamente da parte di Cristo per la sua vita…perché lui possa vivere. Paolo
conosce solo “Gesù e questi crocifisso” (1 Cor 2,2), non ha altro vanto (Gal 6,14),
altro onore se non quello di completare nella sua carne ciò che manca ai patimenti
di Cristo a favore della sua chiesa (cf. Col 1,24), e di chiedere che nessuno, d’ora in
poi, gli provochi fastidi perché porta le stigmate di Gesù nel suo corpo (cf. Gal
6,17).
3
15
fatto e di esprimerli con un linguaggio insegnato dallo Spirito (cf.
1 Cor 2,6-16).
Conoscere Cristo, sperimentare e penetrare nel mistero della
sua Persona, secondo la propria peculiarità, ancora non basta al
cammino contemplativo e formativo di Paolo. C’è ancora un altro
elemento
di
qualità
da
ottenere.
“Essere
trovato
in
lui”.
Un’espressione concisa, breve ma che vuole comunicare l’essenzialità
vitale dello “stare con lui”. E’ permettere a Dio in Cristo, di donare al
cristiano oltre al processo conoscitivo, intellettivo e volitivo, il tutto di
Dio. Siamo ad un livello che lambisce la realtà mistica. Paolo vuole
comunicarci che questo pellegrinaggio formativo per essere nel
discernimento di Cristo è rispondere all’Amore di un Amico, che ci
chiama a sé, che ci svela chi è, che ci dice il suo nome, che ci dona il
suo cuore, che immola e mette nelle nostre mani il suo essere, la sua
vita, che ci garantisce la sua presenza amica, la sua attenzione di
Risorto ed il suo affetto eterno: “Fatevi miei imitatori, come io lo sono
di Cristo” (1 Cor 4,16. 11,1).
"Non ,però, che io già abbia conquistato il premio o sia arrivato
alla perfezione, solo mi sforzo di conquistarlo, perché anch’io sono
stato conquistato da Gesù Cristo” (v.12).
Paolo ci fa giungere al culmine di questo suo personalissimo
memoriale, questo discernimento contemplativo ed attualizzante la
sua esperienza profondissima di incontro. La sua vita, la sua
esperienza umana e cristiana hanno ormai un unico senso. Il “senso
di Cristo” (cf. 1 Cor 2,16).
Paolo corre nella formazione continua e permanente ad essere
uomo e testimone del discernimento cristiano perché è stato
conquistato da Gesù Cristo, sedotto, ghermito da Gesù Cristo. Si
sente ed è come Geremia, realmente e, quasi ontologicamente,
violentato, appagato e sublimato dall’amore amico e seducente di
Gesù.” Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma
Cristo vive in me. Questa vita che io vivo nella carne io la vivo nella
16
fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me”
(Gal 2,19-20).
Paolo non potrebbe essere quello che è, se non fosse oggettosoggetto di quel reciproco amore “passionale” – non solamente
emotivo, e quindi necessariamente fugace e destinato a volatilizzarsi
- ma di un amore, che vuole come protagonisti due cuori, due “io
profondo”, che trovano nell’essere oblativamente l’uno nell’altro
l’unica ragione di vita e di sussistenza.
E’ la logica dell’Amore cantato e celebrato dal Cantico dei
Cantici, è la logica dell’Amore di sempre del Dio fedele, che in tutta la
storia della salvezza assume i connotati e la valenza di un amore
sponsale, seducente e tenero, verso ogni uomo, maschio e femmina,
chiamato dall’eternità ad essere un unico ed irripetibile partner del
Dio Trinità, Amore esuberante e centrifugo, perché centripeto.
“Dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro…”
(vv.13b-14)
Paolo ci rivela anche il segreto del giungere, lentamente e
progressivamente,
alla
perfezione,
e
al
discernimento
della
perfezione, che è aderire pienamente alla volontà di Dio 4, è la corsa
del discepolo sedotto e conquistato. Paolo sembra qui incarnare e
rispecchiare l’esperienza di Gv 20,2-9: la corsa del discepolo, amico
del Verbo della vita, che vede e crede, e che qualche tempo dopo,
potrà, nella sua tradizione, giungere ad esortare a “non prestare fede
ad ogni ispirazione, ma a metterle alla prova per saggiare se
veramente vengono da Dio” (1 Gv 4,1).
“Come anche nel giudaismo ‘quel che è perfetto’ si identifica dunque con ‘quel che
piace a Dio’ cioè ‘quel che è secondo la sua volontà’. Ma questa volontà non si
identifica più con un codice di leggi promulgato una volta per sempre. La
‘perfezione’ del cristiano come quella dell’ebreo si caratterizza nella docilità ai voleri
divini; sarà dunque una sottomissione, un’obbedienza; ma sarà un’obbedienza alla
volontà divina, la quale deve essere cercata, distinta dal resto, e dalla quale non si
può misurare in anticipo quali saranno le esigenze”: S. LYONNET, “La vocazione
cristiana alla perfezione secondo s. Paolo” in I. de la POTTERIE – S. LYONNET, La
vita secondo lo Spirito, Roma 1992, 261-262.
4
17
Una corsa discernente, come quella di Ct 3,1-4, verso il
passaggio
dell’amato
del
cuore,
sapendolo
cogliere
risorto
ed
interpellante nella propria esistenza, e che invita ad andare oltre i
propri schemi, oltre le precomprensioni, oltre i piccoli orizzonti di una
“tomba vuota”, il passato, verso quell’Infinito, il già e non ancora, in
cui il “si” di ogni persona deve incontrare il suo “si” per essere
sempre più originale ed armonica “sinfonia della salvezza”.
Per l’approfondimento
“Possiamo ritenere che Paolo realizzatosi, come egli stesso ci
afferma, nell’ambito del giudaismo farisaico, fosse soddisfatto di se
stesso? La risposta sorprende: […]. La negatività precisa, tagliente
addirittura volgare del giudizio tradisce uno stato d’animo agitato.
Non è la fredda valutazione di uno sbaglio. In altre parole quando
afferma recisamente che ritiene questi ‘suoi valori’ una perdita
disonorevole, Paolo tradisce un malcontento latente, forse una crisi
vera e propria che si è determinata in lui fariseo e che poi ha portato
alla sua conversione.
Paolo è riuscito a costruire la sua identità, una realizzazione
appagante
di
se
stesso,
una
sua
‘giustizia’,
ottenuta
proprio
attraverso la legge praticata. Ma non esita a qualificare questa
realizzazione di sé come ‘giustizia secondo la carne’. E il termine
‘carne’ ha, qui, quella carica negativa che ricorre spesso in Paolo:
significa l’uomo che prende se stesso, il suo egoismo anche
sofisticato, come l’assoluto della sua vita, quasi un idolo.
Paolo una volta costruito se stesso, questa sua immagine dovette
subito o almeno presto avvertire i limiti fino a trovarvicisi davvero a
disagio.
Considerando
infatti
le
varie
prescrizioni
della
legge,
intendendole, interpretandole con la casistica appassionata ma
minuziosa che caratterizzava la sua scuola, Paolo si dovette sentire
18
legato, impacciato, certo non aiutato in quel rapporto verticale con
Dio e in quel rapporto orizzontale di accoglienza verso gli altri che gli
erano congeniali e che poi appariranno come le sue caratteristiche più
belle. Di qui è ragionevole ipotizzare una tensione interiore, una crisi.
Il linguaggio forte, sproporzionato alla circostanza che Paolo usa,
tradisce, come
abbiamo
notato, un disappunto
interiore
forse
protrattosi a lungo. Anche questo è un aspetto della spiritualità di
Paolo da non trascurare.
Infatti proprio l’impegno totale, senza risparmio di forze, senza
limitazioni, con cui Paolo si dedicò alla osservanza minuta della legge,
sempre
legge
di
Dio,
ma
finita
nelle
mani
dell’uomo
come
interpretazione ed applicazione, dovette insegnarli molto. Dovette
fargli sentire l’esigenza di un rapporto pieno, appassionato e
coerente, con Dio; ma dovette anche ridimensionare in lui quella che
era stata la sua occupazione prevalente per un lungo periodo di
tempo: l’interpretazione casistica, tutta frutto dell’ingegno umano, di
una legge diventata un assoluto. E l’assoluto è sempre e solo Dio, al
di sopra di qualunque schema umano anche di quelli costruiti dagli
uomini sulla sua Parola. Paolo si accorge di essersi servito del
materiale assolutizzato della legge per costruire un se stesso che ora
gli appare uno pseudo-assoluto, quasi un idolo. Arriverà ad esprimersi
nella
2°
lettera
ai
Corinti
in
termini
molto
forti,
addirittura
drammatici: la legge di Dio assolutizzata e manipolata di fatto
dall’uomo apparirà come la ‘lettera che uccide’ in contrapposizione
con ‘lo Spirito che dà la vita’ (2 Cor 3,6). […].
La
conversione
per
Paolo
è,
indubbiamente,
anche
una
vocazione: Paolo, lo dice chiaramente nella lettera ai Galati, sente la
missione di annunciare il vangelo fra i pagani. Ma anche a questo
riguardo si è spostato un nucleo della sua personalità: non pensa ad
organizzare lui, come aveva fatto prima nell’intento di distruggere la
Chiesa di Dio, tutta la missione che gli viene affidata. Si ritira nel
nascondimento
e
passa
probabilmente
lunghi
anni
di
19
approfondimento, di preghiera, di interiorizzazione nel ‘deserto
d’Arabia’ intorno a Damasco. E’ in questo periodo di deserto che
matura nuove costanti che poi ritroveremo e vedremo svilupparsi in
lui”. : Ugo VANNI,S.J., “La spiritualità di Paolo” in La spiritualità del
Nuovo Testamento, a cura di R. Fabris, Roma 1985, 183-185.189190.
Per la preghiera
Noi ci rivolgiamo a te, apostolo Paolo,
pregandoti di intercedere per noi
perché possiamo avere parte
alla “sublime conoscenza” di Cristo
che è conoscenza della sua resurrezione
e comunione con i suoi patimenti.
Tu hai ritenuto che questa conoscenza
fosse il più sublime discernimento
e che per essa valesse la pena di lasciare tutto
e di ritenere tutto come spazzatura.
Poiché la conoscenza sublime di Gesù
è dono soltanto dello Spirito,
noi te la chiediamo, Spirito Santo,
con umiltà e grande desiderio.
E’ troppo pesante e troppo amaro vivere
le sofferenze dell’ oggi
e non potremmo resistere né alzare la testa
senza una partecipazione al mistero del volto di Cristo
e dei lineamenti del volto di Cristo
nelle sofferenze della nostra Chiesa.
Ascolta, dunque, la nostra preghiera
e donaci questa grazia contemplativa. Amen.
( Card. Carlo Maria MARTINI )
20
TERZA TAPPA
Una “folla di persone”
chiamate alla libertà,
che Cristo ci ha conquistato
Il testo: Gal 5,1-15
Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque
saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Ecco,
io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, cristo non vi gioverà nulla. E
dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è
obbligato ad osservare tutta quanta la legge. Non avete più nulla a
che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge;
siete decaduti dalla grazia. Noi infatti per virtù dello Spirito,
attendiamo dalla fede la giustificazione che speriamo. Poiché in
Cristo Gesù non è la circoncisione che conta o la non circoncisione,
ma la fede che opera per mezzo della carità.
Correvate così bene; chi vi ha tagliato la strada che non obbedite
più alla verità? Questa persuasione non viene sicuramente da colui
che vi chiama! Un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta. Io sono
fiducioso per voi nel Signore che non penserete diversamente; ma
chi vi turba subirà la sua condanna, chiunque egli sia. Quanto a me,
fratelli, se io predico ancora la circoncisione, perché sono tuttora
perseguitato?
E’
dunque
annullato
lo
scandalo
della
croce?
Dovrebbero farsi mutilare coloro che vi turbano.
Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa
libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma
mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge
21
infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo
tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda,
guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!
Per la riflessione
Per
Paolo
la
libertà
spirituale
interiore
è
un
orizzonte
fondamentale che caratterizza la portata spirituale ed esistenziale
dell’autenticità personale cristiana.
E’ stato osservato come la riflessione paolina sulla libertà sia
stimolata anzitutto da un confronto all’interno della comunità cristiana
primitiva. Di fatto in essa i pareri sul peso da attribuire alla Legge e,
per conseguenza all’opera redentiva di Gesù, sono diversi e portano a
quella tensione ed a quei conflitti che il testo dei Galati pone in luce.
Paolo ha sperimentato la sua “conversione-chiamata” come una
liberazione. L’idea di giungere alla libertà attraverso la legge è stato
per lui un fallimento di fatto. Pertanto egli non collega più la libertà
con la legge, ma soltanto con Gesù, il suo Cristo.
Contrariamente
a
questo
suo
profondo
orientamento
esistenziale tra i cristiani della Galazia da lui evangelizzati si
introducono alcuni missionari giudeo cristiani che continuano a
predicare il ritorno alle osservanze giudaiche in vista della salvezza.
Sono convinti che la legge costituisce ancora una condizione
necessaria per entrare nella comunità. Il fatto di sentirsi ancora parte
di Israele porta questi missionari cristiani a chiedere ai convertiti
ancora la pratica della circoncisione
e, quindi, dell’osservanza
dell’intera legge.
Paolo si oppone a questo dicendo che i gentili non hanno
bisogno della circoncisione per essere membri del popolo di Dio e
dichiara dunque la necessità di una totale ed assoluta libertà dalla
Torah. L’osservanza della legge, come pure la circoncisione (cf. Gal
22
6,15)
non
possono
valere
come
requisiti
fondamentali
per
l’ammissione alla comunità, tanto più se si considera che il senso
della legge, non data da Dio ma dagli angeli (cf. Gal 3,19) è quello di
provocare trasgressioni e di rendere schiavi (cf.Gal 3,19s).
Rispetto a questa posizione iniziale, Paolo nella lettera ai
Romani modifica un po’ il suo parere osservando che la legge è santa,
giusta e buona (cf.Rom 7,12) e spirituale (cf.7,14). Essa non induce
più al peccato, ma porta il peccato alla coscienza del peccatore
(cf.7,7). Una posizione mutata rispetto a Galati, troviamo anche nella
prima lettera ai Corinti dove Paolo afferma il carattere non più
negativo
della
circoncisione
poiché
la
giustificazione
viene
esclusivamente da Cristo:”essere circoncisi o non esserlo non conta
nulla” (1 Cor 7,19).
Affermare, come predicavano gli ignoti missionari contrari a
Paolo, una giustificazione attraverso la legge significava vanificare
l’azione di Cristo. Ma ciò era evidentemente in linea con il pensiero
giudaico per il quale accettare la legge e vivere in conformità con
essa era il segno e la condizione di una situazione di privilegio.
Togliendo invece valore alla legge Paolo veniva automaticamente a
negare il concetto di elezione. Intorno a questi concetti si sviluppa la
riflessione paolina su Cristo che, giustificando l’uomo, lo rende libero.
La libertà, dunque, esprime lo ‘status’ del credente in Cristo. In
quanto cittadino della città celeste, Gerusalemme, che è nostra
madre e che è libera (cf. Gal 4,24-31), anch’egli è libero.
Con un’altra immagine, Paolo presenta questa libertà anche
come effetto ed espressione della nuova condizione di figli (cf. Gal
4,3-7). E’ una libertà che è intrinseca all’essere del cristiano e non va
vista tanto come libertà di scelta ma come uno stato salvifico
duraturo. Libertà in Cristo prima che libertà da…o per….
Non si tratta, quindi, di una libertà, ‘qualità’, che viene
conquistata, essa è invece il frutto dell’ “evento” di Cristo, che “ci ha
liberati per la libertà” (Gal 5,1). Così, Paolo ci mette in luce un doppio
23
aspetto della vera libertà dei figli di Dio:l’uomo non può liberarsi da
solo, ma ha bisogno di un redentore, e questa libertà è dono ed il fine
della azione salvifica di questo redentore.
Per Paolo, poi, è solo mediante il battesimo che ciascuno di noi
acquisisce questa libertà. Da quel momento ciascuno di noi può dire:
“sono stato crocifisso con Cristo. Non sono più io che vivo; è Cristo
che vive in me” (Gal 2,19b-20a). Quali sono,allora, gli effetti di
questo “essere uniti a Cristo mediante il battesimo” (Gal 3,27)?
Nel possesso dello stesso dono e della stessa dignità, cadono le
separazioni precedenti e si crea un nuovo spazio di libertà: uno spazio
di uguaglianza, di fraternità, di amore vicendevole. Ora, così, “non ha
più importanza alcuna l’essere ebreo o pagano, schiavo o libero,
uomo o donna, perché uniti a Gesù Cristo, siete diventati un solo
uomo” (Gal 3,28).
Liberato dal proprio passato, il cristiano, che sono io, è libero
per il futuro. Crolla “il dominio degli spiriti che governano il mondo”
(Gal 4,3), vengono meno le prescrizioni riguardanti le osservanze sui
cibi
per
dei
tempi
speciali
(cf.
Gal
4,10),
ed
è
soprattutto
ridimensionato il senso della legge.
La nuova via della fede libera da essa, eppure non si tratta di
una libertà assoluta dal momento che è “la libertà che abbiamo in
Cristo” (Gal 2,4). Questa ha piuttosto una sua norma intrinseca (la
legge di Cristo) nella parola della croce di Gesù “attraverso la quale il
mondo è per me crocifisso ed io per il mondo” (Gal 6,14).
E’ in questa esperienza della croce e dell’essere crocifisso con
Cristo che la libertà cristiana trova la sua essenza. Paolo proclama,
così, che “Dio vi ha chiamati a libertà” (Gal 5,13) e nello stesso
tempo aggiunge: “ma non servitevi della libertà per i vostri comodi”
(Gal 5,13).
Libertà ed amore del prossimo sono, così, per il nostro amico
Paolo due facce della stessa medaglia…!!!
24
Per l’approfondimento
“ ‘Voi ,fratelli, siete chiamati a libertà. Purché questa libertà non
divenga un pretesto per vivere secondo la carne; piuttosto mettetevi
a servizio gli uni gli altri mediante l’amore. Tutta la legge infatti trova
la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te
stesso’ (Gal5,13-14).
Si sa, una libertà senza contenuti è sinonimo di disordine e
occasione di soprusi a non finire. Ecco quindi l’interrogativo: la libertà
cristiana in che consiste? A che cosa conduce? Non sarà qualcosa di
preoccupante? Fin dove si può giungere con una tale proclamazione
di libertà?
La risposta paolina, ridotta ai minimi termini, è questa: il
cristiano è libero per amare. La libertà cristiana sfocia e si realizza
nell’amore. Non dico che il cristiano sia libero di amare, come se
potesse anche non farlo; dico: libero per amare, perché l’amore per
lui diviene legge, nuovo imperativo. E’ proprio perché egli potesse
amare senza impacci che Cristo lo ha liberato dall’ingombro e dalla
zavorra del legalismo, della carne, del peccato, della morte e di ogni
forma di potere asfissiante. […].
Il cristiano ora, in Cristo e nello Spirito, non ha più alcun alibi
per il proprio egoismo. In Cristo e nello Spirito gli si è liberato il
campo d’azione ed egli, con tutto se stesso, ‘con tutte le sue forze,
con tutta la sua anima e con tutto il cuore’ si ritrova in immediata e
dinamica comunione con Dio, che chiama finalmente ‘Abbà’ e con gli
uomini, dei quali ora può e deve mettersi a servizio (cf. Rom 8,3-4;
13,8-10).
Altro che libertinismo! Nulla di più esigente della libertà
cristiana! Così pure nessun individualismo, poiché il cristiano è
proiettato fuori di sé, su Dio e sugli altri. Paradossalmente, si può dire
che il cristiano è libero per servire; in ogni caso l’uomo sta sempre ad
25
un servizio: si tratta solo di vedere se egli è l’uomo sotto il peccato o
sotto la grazia (Rom 6,15-22).
Ormai “ciascuno di noi cerchi di compiacere il prossimo nel
bene, per edificarlo; Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso…;
accoglietevi perciò gli uni gli altri come Cristo accolse voi, per la gloria
di Dio” (Rom 15,2-3.7). Dicevamo, più sopra, che il Cristo paolino
non è un maestro di morale. Come si vede da questo testo, solo col
principio dell’amore egli diventa la nostra norma ed il nostro modello,
nostro unico maestro. Ed è solo in tal senso che Paolo può parlare di
“legge di Cristo” (1 Cor 9,21; Gal 6,2) o di “legge dello Spirito” (Rom
8,2) e persino di “legge della fede” (Rom 3,27); ma non si tratta
tanto di una legge data da Cristo, dallo Spirito o dalla fede, bensì lo
stesso Cristo, lo Spirito e la fede sono la nostra nuova legge.
Ciò che conta per il cristiano è soltanto “la fede che agisce
mediante l’amore” (Gal 5,6). Questa affermazione si può considerare
come uno dei principi primi del cristianesimo. Una fede che non si
traducesse sul piano vivo dell’esistenza concreta sarebbe pura
velleità, astrattezza intellettuale, e giustamente Giacomo la dice
‘morta’; d’altra parte un amore che non si radicasse nella fede, cioè
nella libertà ottenutaci da Cristo, sarebbe semplicemente filantropia e
rischierebbe ad ogni momento di deviare o di seccare per mancanza
di humus. […].
I precetti cristiani non sono che argini, i quali permettono al
fiume possente della libertà di Cristo di scorrere ordinatamente verso
lo sbocco dell’amore. Ogni legge esteriore, comunque, non può
essere altro che l’espressione della nuova legge interiore dello Spirito
di vita.
Libertà e amore si rivelano così come i due poli dell’esistenza
cristiana. Ma se entrassero in conflitto, quello dei due invitato a
cedere è la libertà. Paolo lo fa vedere bene nella cosiddetta questione
del mangiare le carni immolate agli idoli, nella prima lettera ai Corinti
(specie 8,1-13; 10,23-33); per amore di chi ne soffrirebbe scandalo,
26
egli invita a rinunciare al proprio diritto di libertà, in base al principio
che solo l’amore costruisce veramente, mentre la pura conoscenza e
l’esercizio della sola libertà possono diventare fonte di superbia e
quindi di offesa (1 Cor 8,2). La libertà da sola rischia di occasionare
pretese infantili, ma l’amore cristiano in ogni caso è segno di
maturità.
L’amore dunque o, come lo chiama Paolo, l’agàpe è l’assoluto
del cristianesimo. E’ questo infatti che dà corpo e concretezza alla
libertà. D’altra parte, il fondamento ultimo del nostro essere cristiani
è appunto un atto d’amore da parte di Dio, libero certamente, ma di
una libertà che si è espressa precisamente nell’amore. ’In tutto noi
siamo più che vincitori per virtù di Colui che ci ha amati’ (Rom 8,37;
cf.5,8;Ef 2,4-5). A questo punto occorrerebbe leggere e meditare il
capitolo 13 della prima lettera ai Corinti, il cui testo, che è uno dei
massimi vertici della letteratura biblica, ha tutta la forza per parlare
da solo. Basterà dire che qui si canta la qualità tipica dell’amore
cristiano, l’agàpe appunto, che, a differenza dell’eros celebrato già da
Platone, non è mosso dal desiderio di ‘avere’ per supplire ad un
proprio vuoto, ma è trasportato dal puro disinteresse di una gratuita
autodonazione, poggiante e derivante da una pienezza di ‘essere’”. :
Romano PENNA, Paolo di Tarso. Un cristianesimo possibile, Cinisello
Balsamo 1994, 118-121.
Per la preghiera
“Ciascuno, infatti, deve pensare che tanto progredirà nella vita
spirituale, quanto si libererà dall’amore di sé, della propria volontà e
de proprio interesse”.
“Prendi, o Signore
e accetta tutta la mia libertà
27
la mia memoria, il mio intelletto, la mia volontà,
tutto quello che ho e possiedo.
Tu me lo hai dato;
a te, Signore, lo ridono.
Tutto è tuo: di tutto disponi secondo la tua volontà.
Dammi il tuo amore e la tua grazia, e questo solo mi basta”
( S. IGNAZIO DI LOYOLA )
28
QUARTA TAPPA
Una “folla di persone”
“eucaristiche”
Il testo:1 Cor 11,23-26
Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho
trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese
del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: ‘Questo è il
mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me’. Allo stesso
modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: ‘Questo
calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta
che ne bevete, in memoria di me. Ogni volta infatti che mangiate di
questo pane e bevete di questo calice, voi annunciate la morte del
Signore finché egli venga.
Per la riflessione
Vogliamo chiedere a Paolo che ci sia maestro, attraverso la sua
esperienza di incontro con il Gesù Eucaristico, e ci aiuti come vivere
ed incarnare personalmente ed esistenzialmente il vertice del suo
cammino di preghiera contemplativa che lo porta a proclamare:”ho
incontrato lui, mi sono nutrito di lui”, quindi, “per me vivere è Cristo
e morire un guadagno” (Fil 1,21), “Sono stato crocifisso con Cristo,
non sono più io che vivo ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).
Credo che non si possa fare a meno di contemplare questi testi
per poter minimamente intuire qualche elemento di tutta la tensione
29
eucaristica della vita di Paolo, come conquistato e sedotto da un Gesù
che sì, incontra in visione sulla via di Damasco e gli “rivela” la sua
chiamata, ma che con il quale non ha vissuto la prossimità amicale
dei tre anni dei suoi amici e “colleghi” apostoli…
Allora pensiamo a quanto sia importante e vitale per Paolo
attingere al mistero della presenza eucaristica di Cristo per sentire
tangibilmente e sperimentare nel banchetto eucaristico e nella
contemplazione del Corpo e Sangue del Signore, quanto questo
Signore lo ami, lo desideri,e quanto sia importante per lui…:
”Paolo” – sembra dirgli Gesù in continuazione – “non ho amore più
grande di questo: dare tutto me stesso per te” (cf. Gv 15,13). Paolo è
qui, e solamente qui , introdotto nella stessa intimità con il Gesù
storico e terreno che i Dodici hanno goduto, sperimentato e
contemplato… E’ qui che può fare l’esperienza unica ed irripetibile di
Giovanni, l’apostolo che pone il capo sul petto, sul cuore del suo
amico e maestro (cf. Gv 13,35), che sente tutta l’intensità della sua
“ordinazione episcopale” che nasce anche per lui da quella notte del
giovedì santo nel cenacolo…: “Prendete e mangiate…”;”Prendete e
bevete…”. Ed è ancora qui che può rivivere quotidianamente ed
efficacemente l’incontro la sera di Pasqua di Gesù con i suoi apostoli,
sempre nel cenacolo: “Ricevete lo Spirito Santo a chi rimetterete i
peccati saranno rimessi e a chi non li rimettere resteranno non
rimessi” (cf. Gv 20,22-23).
Tutto questo può essere il sottofondo vitale e la vera matrice
contemplativa del racconto paolino dell’istituzione dell’Eucarestia che
troviamo nel nostro testo, che ora vogliamo vedere più da vicino.
“Io ho ricevuto”. Paolo vuole entrare con forza nel mistero di
croce, di sangue, di autodonazione di Gesù: lo sente come un ‘donoimpegno’ ricevuto direttamente dal Signore. C’è chiaramente dietro
questa affermazione-realtà tutta la forza della spiritualità dell’alleanza
che Paolo incarna con gioia nella sua vita come risposta al sacrificio di
alleanza che il suo Signore fa nel suo sangue.
30
Paolo riceve coscientemente dal suo Signore il compimento di
tutto il cammino redentivo del “sangue versato in sacrificio”.
Si parte dal sangue degli animali del sacrificio di Abram in Gen
15, dove è presente Jahvè che fa liberamente alleanza con Abram,
mentre lui e nel “tardemàh”, un sonno di quiete contemplativa; al
sangue del sacrificio di alleanza con cui Mosè asperge il popolo in Es
24; fino a questo nuovo sangue versato una volta per tutte per
stipulare e portare a compimento una “berit ‘olam”, un’alleanza
eterna nel sangue del Cristo, Agnello di Dio e Figlio di Dio, che chiede
– però – di essere riattualizzata e rincarnata in ogni presente, in ogni
oggi.
Paolo si sente, così, il ricevente “attualizzatore” di tutta questa
potenza redentiva: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”.
Paolo è chiamato a vivere tutto questo dentro un clima di gioia
sofferta e sudata, come è stata quella notte per il suo Signore.
Sangue effuso per la salvezza dei fratelli, certo, ma sangue che
deve uscire dalle sue vene, come nel Getsemani è stato per Gesù, per
giungere – come il Figlio di Dio – a dire inginocchiandosi e pregando:
“Padre, se vuoi allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta
la mia, ma la tua volontà e in preda all’angoscia pregare più
intensamente; ed il suo sudore diventare come gocce di sangue, che
cadevano a terra…” (cf. Lc 22,42.44).
Come sul Calvario, dove quel sangue deve fuoriuscire tutto dalle
piaghe dove sono conficcati i chiodi, dai fori provocati dalla corona di
spine,
dalle
ferite
lacero-contuse
causate
da
quegli
infernali
strumenti, che erano i “flagelli romani” – ben diversi dai “39 colpi”
ebrei, che Paolo aveva ricevuto ben cinque volte (cf. 2 Cor 11,24) –
fino alla fuoriuscita di “sangue ed acqua” perché “Tutto è compiuto”
(cf. Gv 19,30.34).
Ecco
la
logica
dell’inserimento
nella
sequela
del
Cristo
Eucaristico, che Paolo vuole trasmetterci (cf. 1 Cor 15, 2), che – però
– va ancora più approfondita rivisitando insieme al Paolo, che sono io,
31
alcune frasi di Gesù, che troviamo nel vangelo di Giovanni al capitolo
6 – e che ci aiutano a comprendere sicuramente ancora di più per la
nostra vita – il significato di Fil 1,21 e di Gal 2,20. I versetti di
Giovanni sono il 56 e 57:
“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in
lui. Come il Padre che ha la vita, ha mandato me ed io vivo per il
Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me”.
a cui fanno eco:
“Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io là sarà anche il
servo. Se uno mi serve il Padre mio lo onorerà” (Gv 12,26).
Ecco ancora più evidente il significato delle espressioni paoline.
Paolo vive nella sua carne queste parole. La sua esperienza fondante
il suo essere apostolo è solamente qui, è nell’immedesimazione
ontologica con il mistero del Cristo eucaristico, morto e risorto che lui
vive la sua vita, la sua fede, il suo ministero. Niente ha più a cuore
che, a partire dalla comunione al sacrificio redentore di Cristo, fare
della sua vita quel “sacrificio vivente, santo e gradito a Dio”, che è la
“liturgia eucaristica della sua vita”, in cui lui, insieme al suo Signore,
è “vittima,sacrificio ed altare”.
A ciascuno di noi, ora, tentare di incarnare e di fare tutta nostra
questa esperienza paolina, sintesi di ogni cammino di vera sequela,
che è autentica immersione osmotica, empatica e vitale nel mistero
amico rivelato nella vita donata di un Gesù, che ancora ha bisogno
dei nostri “si” per portare a compimento “ciò che manca ai suoi
patimenti a favore del suo corpo , che è la Chiesa” (cf. Col 1,24).
E’ la lezione dell’Eucarestia vissuta come banchetto dell’Agàpe,
come celebrazione vitale e continua di quell’amore-donazione, che
caratterizza tutto l’essere di Paolo, e che è quell’amore seducente che
32
crocifigge Paolo alla croce risorta di Gesù, trovando in questa l’unico
senso e l’unico scopo del suo vivere e del suo essere.
“Per me vivere è Cristo e morire un guadagno” (Fil 1,21).
“Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come
spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui […].
E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua
resurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme
nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dei morti […].
Solo mi sforzo di correre per conquistarlo perché anch’io sono stato
conquistato da Gesù Cristo” (Fil 3,8-9a.10-11a. 12b).
Per l’approfondimento
“Vorrei pertanto insistere, nel solco della Dies Domini, perché la
partecipazione all’Eucarestia sia veramente, per ogni battezzato, il
cuore della domenica: un impegno irrinunciabile, da vivere non solo
per assolvere a un precetto, ma come bisogno di una vita cristiana
veramente consapevole e coerente. Stiamo entrando in un millennio
che si prefigura caratterizzato da un profondo intreccio di culture e
religioni anche nei Paesi di antica cristianizzazione. In molte regioni i
cristiani sono, o stanno diventando, un “piccolo gregge” (Lc 12,32).
Ciò li pone di fronte alla sfida di testimoniare con maggior forza,
spesso in condizione di solitudine e difficoltà, gli aspetti specifici della
propria identità. Il dovere della partecipazione eucaristica ogni
domenica è uno di questi. L’Eucarestia domenicale, raccogliendo
settimanalmente i cristiani come famiglia di Dio intorno alla mensa
della Parola e del Pane di vita, è anche l’antidoto più naturale alla
dispersione. Essa è il luogo privilegiato dove la comunione è
costantemente
annunciata
e
coltivata.
Proprio
attraverso
la
partecipazione eucaristica, il giorno del Signore diventa anche il
33
giorno della Chiesa, che può così svolgere in modo efficace il suo
ruolo di sacramento di unità”. : Novo Millennio Ineunte, 36.
“L’eucarestia è veramente capita e accolta non solo se si fanno
certe cose verso di essa (la si celebra, la si adora, la si riceve con le
dovute disposizioni, ecc.) o si fanno certe cose a partire da essa (ci si
vuol vene, si lotta per la giustizia, ecc.), ma anche e soprattutto
quando essa diventa la ‘forma’, la sorgente ed il modello operativo
che impronta di sé la vita comunitaria e personale dei credenti.
Nell’eucarestia si rende presente e operante nella chiesa il Cristo del
mistero pasquale. E’ il Figlio in ascolto obbediente alla Parola del
Padre. E’ il Figlio che nell’atto di spendere la propria vita per amore,
trova nella drammatica e dolcissima preghiera rivolta al suo ‘Abbà’ il
coraggio, la misura, la norma del proprio comportamento verso gli
uomini.
Pertanto la celebrazione eucaristica realizza se stessa quando fa
in modo che i credenti donino ‘corpo e sangue’ come Cristo ai fratelli,
ma mettendosi in ginocchio, in attenzione di ascolto e di accoglienza,
riconoscendo che tutto questo è dono del Padre, non confidando nelle
proprie forze, non progettando il servizio degli altri secondo i propri
modi di vedere.
Tutto
questo
richiede,
in
concreto,
la
coltivazione
di
atteggiamenti interiori che precedano, accompagnino, seguano la
celebrazione eucaristica: ascolto della parola rivelata, contemplazione
dei misteri di Gesù, intuizione della volontà di Padre tralucente dalle
parole di Gesù, confronto tra il progetto di vita che scaturisce dalla
pasqua-eucarestia e le sempre nuove situazioni spirituali in cui le
comunità ed i singoli credenti vengono a trovarsi.
Per
questo,
meditazione
preghiera
biblica,
silenziosa,
riflessione
ascolto
personale,
non
della
sono
dall’eucarestia, ma sono vitalmente collegati ad essa”.:
Parola,
disgiunti
34
Card. Carlo Maria MARTINI, La Dimensione contemplativa della
vita.Lettera al clero e ai fedeli per l’anno pastorale 1980-1981, III,2.
Per la preghiera
Signore, aiutaci a vivere sempre
in rendimento di grazie.
Fa’ che celebriamo l’eucarestia con cuore puro,
con l’animo preparato,
in piena obbedienza
a quanto Gesù ci ha comandato
e la Chiesa ci insegna.
Fa’ che l’eucarestia sia il centro, il modello,
la forza plasmatrice di tutta la nostra vita.
Suscita sempre nella Chiesa i tuoi ministri
che presiedano con umiltà e verità
la celebrazione eucaristica
e servano nella carità tutti i fratelli.
Dona a ogni credente, a ogni famiglia,
a ogni gruppo, ogni comunità,
secondo la vocazione e la missione da te ricevuta,
di trovare nell’eucarestia la regola, il modello
e l’alimento della vita cristiana di ogni giorno.
Fa’ ce l’eucarestia
eserciti un fascino segreto e irresistibile
sull’uomo d’oggi,
anche su chi è distratto, dissipato,
chiuso nel suo egoismo, stroncato dalla disperazione.
L’eucarestia,
col linguaggio del rito celebrato con fede
e col linguaggio della vita rinnovata dalla carità,
dica a tutti che non di solo pane vive l’uomo;
che la nostra vita
35
aspira ad andare oltre se stessa
verso il misterioso richiamo del tuo amore;
che ciò che conta veramente non è il possesso,
il dominio sugli altri,
ma l’obbedienza al tuo disegno,
la gratitudine per i tuoi doni,
la generosa sopportazione del dolore,
la vicinanza gratuita a ogni fratello,
la speranza nella vita che tu ci doni oltre la morte.
Specialmente nel giorno del Signore
ogni credente e ogni comunità
apprezzi il dono inestimabile dell’eucarestia;
lo accolga come segreta energia di tutta la vita;
lo rechi ai malati;
lo trasfonda in opere di carità,
in incontri di amicizia,
in momenti di ristoro e di gioia;
lo proponga al mondo d’oggi
come messaggio di speranza e di riconciliazione.
Ti lodiamo e ti benediciamo, Padre,
perché la tua Chiesa,
raccolta ogni domenica
attorno alla mensa eucaristica,
offre l’immagine di una famiglia riunita nell’amore,
aperta a tutti,
attenta a chi ha maggiormente bisogno,
capace di indicare a ogni uomo la strada che,
attraverso le vicende di questa vita, conduce alla tua casa,
dove vivremo per sempre con te nella gloria. Amen”
(Card. Carlo Maria MARTINI)
36
QUINTA TAPPA
Una “folla di persone”
chiamate a discernere
il “più dell’amore”
Il testo: 1 Ts 5, 16-24
Siate sempre lieti, pregare senza interruzione, rendete grazie
in ogni cosa: questa è la volontà di Dio a vostro riguardo in Gesù
Cristo. Non spengete lo Spirito, non disprezzate le profezie,
esaminate ogni cosa, ritenete ciò che è buono, astenetevi da ogni
sorta di male. Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione, e
tutto quello che è vostro spirito, anima e corpo, si conservi
irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Colui
che vi chiama è fedele e farà tutto questo!
Per la riflessione
La prima lettera ai Tessalonicesi è il primo scritto paolino, ma
anche il primo scritto del Nuovo Testamento. Siamo molto vicini alla
morte e risurrezione di Gesù. Sono passati una ventina di anni se,
come si pensa, Gesù è morto il 7 aprile del 30, e questa lettera è del
50-51.
Paolo, quindi, con ancora nell’aria l’odore quasi fisico di Gesù,
da poco risuscitato, comunica ai Tessalonicesi, fra le cose importanti,
la necessità di discernere la volontà di Dio, come un servizio e un
dono profondamente intriso d’amore.
37
Per vivere ed incarnare questa “sensibilità spirituale” (cf. Fil 1,
9-10)
l’apostolo
delinea
tre
“elementi
fondamentali”,
che
costituiscono quasi l’ambiente vitale per essere permanentemente nel
discernimento della volontà personale del Padre in ogni “qui ed ora”
del proprio pellegrinaggio umano e spirituale.
Essere nella gioia (v.16). La gioia, che non è la gioia che viene
dal di fuori: da fattori contingenti, ma la gioia, che Paolo delinea
come il secondo frutto dello Spirito nella lettera ai Galati (cf. Gal
5,22); è la gioia del “rallegrati” rivolto da Gabriele a Maria
nell’annunciazione (cf. Lc 1,28); è la gioia profonda nell’essere nel
cuore di Dio, perché niente e nessuno ci separerà mai dal suo amore
(cf. Rom 8,35): la gioia che nessuno ci può togliere (cf. Gv 15,23).
Essere preghiera incessante (v.17). La preghiera come stato
permanente di capacità contemplativa nell’azione, che significa
cercare e trovare Dio in tutte le cose, “perché tutto è Cristo” (cf. Col
2,17): la realtà è Cristo.
Cercare e trovare Dio in tutte le cose, soprattutto cercare e
trovare Dio in tutte le mie cose, perché con Gesù io possa dire che
devo occuparmi delle cose del Padre mio (cf. Lc 2,49).
Non è una contemplazione asettica, non è nemmeno una
speculazione intellettualoide, ma è cercare e trovare - da spirito
incarnato quale sono - la presenza personale ed appellativa di Dio in
ogni “qui ed ora”, che la Trinità mi regala e mi propone attraverso gli
eventi, le circostanze e le persone, che mi mette dentro ed accanto, e
che permettono al mio cuore di avere quelle risonanze profonde, quei
moti dell’anima, che sono chiamato a riconoscere se vengono dallo
spirito buono o dallo spirito cattivo.
Una preghiera ed una contemplazione nell’azione, quindi, per
discernere e scegliere sempre, nel Cristo che vive in me e cresce in
me fino alla sua piena maturità (cf. Gal 2,20 e Ef 4,13), il meglio, il
“più dell’amore”:
38
“e per questo prego: che il vostro amore cresca sempre più in
conoscenza e ogni delicato sentimento affinché apprezziate le cose
migliori” (Fil 1,9-10).
“Rendere grazie in ogni cosa” (v.18a). Essere, cioè, sempre
eucarestia e permettere alla Trinità, rendendo sempre grazie per ogni
cosa, di donarci sempre di più il Tutto del suo Amore. Noi, infatti,
rendendo grazie riceviamo Colui che è la volontà del Padre, e il nostro
essere nel Padre è sempre in riferimento a Cristo. Paolo questo lo
dice sempre: “questa è la volontà di Dio a vostro riguardo in Cristo”
(v.18b). Quindi, tutto ciò che noi chiediamo, cerchiamo, otteniamo,
verifichiamo del frammento della volontà di Dio in noi, è in rapporto a
Cristo: il Padre ce lo dona in rapporto a Cristo, e in nessun altro
modo, se non in rapporto al Cristo che vive in me, perché il Cristo che
vive in me è anche il Cristo che io ricevo, contemplo e di cui mi nutro.
Dopo aver delineato l’ambiente vitale dei costituenti necessari
per essere nel discernimento della volontà personale di Dio, Paolo
delinea ora i tre “imperativi operativi” per incarnare tale orientamento
deliberativo per il Cristo che vive in noi e cresce nel “più dell’amore”.
“Non spengete lo Spirito” (v.19). Il termine e la tematica
relativa allo Spirito ricopre, sicuramente, un ruolo preminente
all’interno
dell’intera
Scrittura.
Nell’epistolario
paolino
troviamo
“spirito” nelle varie forme e nei vari sensi usato 120 volte nelle lettere
autentiche (nelle 13 lettere 146 volte), delle quali cinque nella nostra
lettera delle quali quattro volte in riferimento allo Spirito Santo.
Si va dal ruolo dello Spirito nella predicazione in 1,5 e 6, alla
sua presenza come principio di vita santa in 4, 8 al trinomio “spirito–
anima – corpo” di 5,23, di complessa interpretazione. Qui nel nostro
testo, alla luce del pensiero paolino, possiamo affermare che l’azione
dello Spirito, da non spengere, è legata alla sua potenzialità di
manifestare al cristiano in genere, o attraverso dei carismi in
39
particolare, una particolare ispirazione in vista ed in funzione del bene
comune.
Lo Spirito, quindi, è Colui che mi dà, mi dona il meglio di Sé del
Figlio Gesù che vive in me, e diviene slancio operativo, orientamento
fondamentale di vita. Questo è lo Spirito che dà la vita (cf. 2 Cor
3,6).
“Non disprezzate le profezie” (v.20). Bisogna entrare in quella
logica di trovare nell’ascolto contemplativo e orante del mistero
dell’incarnazione nel cuore dei fratelli e delle sorelle una parola di Dio
per il mio cuore e per la mia vita. La Parola di Dio non è solo quella
scritta nella Bibbia, ma c’è anche una parola di Dio concreta,
attualizzata nelle circostanze, nelle persone, negli eventi. Non
disprezzare le profezie, non annullare le profezie significa essere
persone che mettono in pratica la certezza che nel battesimo, oltre a
me, anche gli altri hanno ricevuto lo spiritico profetico, cioè lo spirito
per parlare in nome di Dio. il profeta è, infatti, colui che parla in
nome di Dio, non sostituendosi a Dio, ma portando l’originalità della
propria vocazione personale. Allora bisogna ascoltarsi per discernere
davvero, perché l’altra, l’altro sono il luogo santo dell’incarnazione
della parola esistenziale del mio Signore.
Uno dei profeti per eccellenza, Mosè, davanti al roveto ardente
che lo chiama, si toglie i sandali perché quel luogo è santo. Allora è
necessario ascoltare l’altro come ascolto la Parola di Dio per
riconoscere attraverso l’originalità di ciascuno quel frammento di
volontà personale di Dio nel “qui ed ora” della mia storia, della mia
comunità, della mia chiesa, della mia città.
“Esaminate ogni cosa” (v.21a). Il verbo usato qui da Paolo è il
verbo “tecnico” del discernimento, “dokimàzein”. Paolo delle 22 volte,
che il Nuovo Testamento usa questo verbo, lo usa per ben 17: quindi
è un verbo suo tipico.
Qui nel primo scritto neo testamentario, a venti anni dalla morte
e risurrezione di Gesù, Paolo usa questo verbo. Discernete, saggiate,
40
purificate, esaminate ogni cosa! Niente può entrare nella mia vita e in
quella degli altri se non attraverso un rigoroso ed attento giudizio
esistenziale e prudenziale. Bisogna discernere tutto nel discernimento
di Cristo, perché l’uomo spirituale discerne ogni cosa perché ha il
pensiero di Cristo (cf.1 Cor 2,15-16), quindi tutto va fatto passare nel
“crogiuolo”. Paolo usando il verbo “dokimàzein” lo mutua dalla
versione della Bibbia ebraica tradotta in greco, la Settanta, che
traduce con questo cinque verbi che nei salmi, nei libri sapienziali e
profetici rendono il concetto di purificazione dei metalli attraverso il
crogiuolo portato ad alte temperature: “scrutami, hai conosciuto il
mio cuore, i miei reni” (cf. sal 26 (25); 139 (138); ecc.). Tutto va
“fatto bollire”, discreto dallo Spirito ardente, quello da non spengere e
da tenere alto per giungere al “più dell’amore”: il meglio di me e del
Figlio in me, di cui il Padre si compiace.
“tenete ciò che è buono, astenetevi da ogni sorta di male”
(vv.21b-22). Ecco la fine di questa nostra pericope. Paolo nel testo
greco dice letteralmente: “tenete ciò che è bello”. Il bene, il mio
bene, il bene degli altri, è il bello. Giovanni nel suo vangelo definendo
Gesù come il Pastore lo chiama “bello” (cf. Gv 10). Allora il bello è il
bello del Gesù che vive in me, del Gesù che vive negli altri. Ritenere
non solo ciò che è bello, ma il bello! Il Cristo che vive in noi, quello è
da tenere, e da rigettare è il non bello, il male, che si riveste da
“angelo di luce” (cf. 2 Cor 11,14).
Per l’approfondimento
“Il
Nuovo
Testamento
presenta
appunto
la
struttura
del
discernimento come un distinguere tra ciò che è bene e ciò che non lo
è, tra ciò che Dio vuole e ciò che non vuole.
Ricordo alcuni tra i testi classici:
41
* Rom 12,2 :’Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma
trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la
volontà di Dio, ciò che è buono a lui gradito e perfetto’.
Ciò che a Dio è gradito è il nostro essere come il Figlio, al
Battesimo e alla Trasfigurazione; essere come il Servo di Jahvè, nel
quale Dio si compiace. L’oggetto del discernimento è il piacere a Dio,
è quello che lui vuole, ama, quello che è perfetto in quanto ci rende
simili al Padre. Possiamo capirlo dall’espressione di Paolo “rinnovando
la mente”; il termine usato nel testo greco è dokimàzein, che indica lo
sforzo, il tentativo di imparare sondando o saggiando, mediante
esperimenti, la tenuità di qualche cosa. Comporta, quindi, un certo
soppesare, paragonare, provare. Dokimàzein ha lo stesso significato
nel linguaggio profano, per esempio nel racconto di Luca sulla scelta
degli invitati, dove un tale rifiuta l’invito a cena dicendo: “Ho
comprato cinque paia di buoi e vado a provarli (dokimàsai)” per
capire se sono adatti all’aratro, se vanno bene (cf. Lc 14,19).
Nel brano della lettera ai Romani si intende la capacità di
saggiare, di sperimentare ciò che è secondo la volontà di Dio, la
mente di Cristo, e ciò che, invece, non lo è.
* Fil 1,9-10: “Prego che la vostra carità si arricchisca sempre più in
conoscenza e in ogni genere di discernimento, perché possiate
distinguere sempre il meglio ed essere integri e irreprensibili per il
giorno di Cristo”.
Il discernimento ha quindi un valore escatologico, richiama il
fine ultimo dell’uomo, il suo essere definitivamente davanti a Dio.
[…].
Vorrei osservare che la dottrina del discernimento degli spiriti la
troviamo già nel giudaismo, in Qumram, nel manuale della disciplina;
viene ripresa dalla Didachè e poi passa nella tradizione spirituale fino
alla codificazione propria degli ‘Esercizi Spirituali’ di Ignazio di Loyola.
Tuttavia
l’espressione
‘discernimento
degli
spiriti’
–
discretio
spirituum – che leggiamo nel libretto di S. Ignazio, non presa dai tre
42
testi sopra ricordati, bensì da 1 Cor 12,10 dove il ‘distinguere gli
spiriti’ è nella versione greca, diakrìseis pneumàton (letteralmente
‘discernimento di spiriti’, al plurale). A partire dal manoscritto
Sinaitico, che ha il singolare, la versione latina parlerà di discretio
spirituum e il termine passerà così nella tradizione spirituale.
L’oggetto preciso del discernimento è dunque la volontà di Dio,
e comporta una grande visione di fede: Dio mi ama, pensa a me, mi
chiama, ha una scelta particolare per me; la mia vita ha un senso nel
piano di Dio e io ho un nome segreto, misterioso che egli vuole
rivelarmi.
In chi si mette in stato di discernimento ci deve essere la
persuasione che quanto dovrà fare nella sua vita è iscritto in un
disegno molto ampio, il disegno del mistero d’amore di Dio, a cui la
nostra esistenza è risposta.
Per questo il semplice mettersi in stato discernimento, è già
uscire dalla mondanità, è già una purificazione del cuore, un atto
d’amore al Signore, un riconoscere che nella mia vita io sono in
dialogo con una parola più forte di me, che mi ha creato, mi ha
redento, mi sostiene, mi guida e mi accompagna.
Ma se l’oggetto del discernimento è la volontà di dio, il luogo più
specifico del discernere viene precisato come i moti dello spirito, i
movimenti interiori del cuore mediante i quali io conosco me stesso
davanti a Dio e quindi conosco il suo disegno su di me.
Nella tradizione classica, soprattutto ignaziana, i moti dello
spirito sono fondamentalmente di due tipi:
* i moti di tipo promozionale, che infondono entusiasmo, spinta
gusto, gioia del bene, e sono chiamati con il termine generale di
consolazione;
* i moti di tipo bloccante, che portano confusione, timore, paura,
disgusto, ripugnanza e sono chiamati con il termine desolazione.
Sentire, recepire, valutare tali moti, vederne l’aspetto più
profondo
(ci
può
essere
infatti
una
consolazione
superficiale,
43
apparente, che si rivela poi illusoria, oppure ci può essere una
ripugnanza superficiale, che si rivela poi come chiamata) è il dono,
l’arte del discernimento degli spiriti.
Leggendo le regole della tradizione ascetica, in Ignazio di Loyola
e più ampiamente in Giovanni della Croce, ci accorgiamo che esse
riguardano soprattutto il secondo tipo di moti, quelli deprimenti,
bloccanti, che vanno sotto il nome di ‘desolazione’.
Questo significa che il vero problema è di vederci chiaro nei
momenti pesanti, oscuri, difficili, nel groviglio della confusione dei
pensieri. Il problema affrontato, insomma, da Giovanni della Croce
nell’opera “Notte oscura”, dove insegna come comportarsi nelle
purificazioni del senso e dello spirito, quale valore hanno, come siano
parte di un cammino autentico e non costituiscano, invece, perdita e
regressione”. Card. Carlo Maria MARTINI, Conoscersi, Decidersi,
Giocarsi. Gli incontri dell’ora undicesima, Roma 1993, 63-67.
Per la preghiera
O Signore,
tu puoi certamente dire a noi, oggi:
‘Le mie vie non sono le vostre vie;
i miei pensieri non sono i vostri pensieri.
Quanto dista la terra dal cielo,
tanto dista il vostro cammino
dal mio cammino’ (cf. Is 55,8-9).
Per questo ci rivolgiamo a te
E, con san Paolo, ti diciamo:
Che cosa vuoi che io faccia?
Dove vuoi che io vada?
Quali parole vuoi che io dica?
Quali scelte vuoi che io metta in atto?
Trasforma e rinnova la nostra mente,
44
o Signore;
aiutaci ad esaminare tutto
e a ritenere ciò che è buono;
arricchisci anche noi
con il dono del discernimento degli spiriti;
fa’ che, per non sciupare
il dono presente in noi e negli altri,
sperimentiamo le attenzioni che,
almeno in certa misura,
ne favoriscono la fioritura e i frutti.
Maria, Madre del buon consiglio,
prega per noi!
( + Renato Corti )
45
SESTA TAPPA
Una “folla di persone”
trasfigurate
dalla preghiera
Il testo: Rom 8,26-30
Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra
debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente
domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi,
con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i
desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i
disegni di Dio.
Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che
amano Dio, che sono stati chiamati secondo il tuo disegno. Poiché
quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad
essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il
primogenito tra molti fratelli; quelli che ha chiamati li ha anche
giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati.
Per la riflessione
46
Il nostro pellegrinaggio umano e spirituale di battezzati ed
unitalsiani deve essere, sempre meglio, caratterizzato dal cercare e
trovare la volontà personale di Dio per incarnarla nel nostro “qui ed
ora”.
La nostra preghiera non potrà essere mai uno “staccare la
spina” dai problemi, dalle preoccupazioni per giungere a particolari
“visioni beatifiche” o per trovare una specie di “nirvana”, di paradiso
asettico ed incantato.
La preghiera di Paolo, la preghiera del cristiano maturo, la nostra
preghiera, deve essere come la preghiera del Gesù Uomo, che non
“staccava mai la spina”, anzi aumentava il voltaggio della corrente,
una corrente di amore per il Padre, che gli permetteva di leggere
nella verità di questo amore il suo cammino di crescita umana e
spirituale attraverso la riflessione sugli eventi, le circostanze, le
provocazioni, le sofferenze. Tutte queste realtà diventavano,così, il
luogo dove il Padre gli faceva capire quale era il mistero del Suo
volere, del Suo beneplacito nella sua vita di Figlio.
Paolo trasfigurato in Gesù non solo raggiunge la trasfigurazione
del Gesù che vive in lui, ma si immerge nel mistero stesso della
preghiera del Gesù Uomo Dio che prega in lui. E’ il Gesù della Trinità
che è presente in lui: ecco il grande mistero.
La preghiera è mistero di unione con la Trinità, e la dimensione
mistica del nostro battesimo si deve incarnare nella consapevolezza
che è Dio che prende sempre l’iniziativa: non siamo noi, non sono io!
Dio mi chiama ad una preghiera di trasfigurazione del mio
quotidiano, del mio “concreto”. Ridice in ogni esperienza al Paolo, che
sono
io,
il
messaggio
fondamentale
ed
il
nucleo
essenziale
dell’incontro di Damasco.
La preghiera fondamentalmente è chiamata alla conversione,
ripetuta infinite ed eterne volte con amore, e questa conversione per
Paolo non è un puro cambiamento morale ma è un rivolgersi verso
47
Colui che lo attira, è un essere liberamente attratto ed accogliere un
Tu che lo ama e lo chiama a divenire luce.
Il nostro testo della lettera ai Romani ci immerge nella
consapevolezza che questa luce che brilla, e deve brillare sempre in
noi, è la luce dello Spirito che aleggiava sulle acque la mattina della
creazione (cf. Gen 1,2), e che dal giorno del nostro battesimo e della
nostra cresima è con forza iscritto, come parte costitutiva, nel nostro
cuore di uomo spirituale.
Questo Spirito viene incontro alla mia debolezza perché non so
cosa sia giusto chiedere convenientemente, ma è questo Spirito che
prega in me. Lo Spirito prega in me! Ma chi è questo Spirito? Nel
dopo risurrezione, lo Spirito che prega in me è la nuova presenza del
Risorto. E’ lo Spirito in cui e con cui il Gesù Uomo è cresciuto,
maturando la sua preghiera. E’ stato il tutore, il pedagogo della
formazione umana di Gesù, è stato il garante discreto ed efficace del
Padre della formazione umana e spirituale dell’uomo Gesù di Nazareth
fino a portarlo alla pienezza della sua risurrezione.
Questo
tutore,
questa
guida,
questo
consolatore
alberga
insieme al Padre ed al Figlio anche in noi dal giorno del nostro
battesimo, e viene incontro alla nostra debolezza. Se Paolo nella
seconda lettera ai Corinti ci dice che: “quando sono debole, è allora
che sono forte” (12,10), questo vale molto di più per la nostra
preghiera.
Ci deve essere un momento in cui ciascuno di noi, insieme a
Paolo, sperimenta davvero questa debolezza salutare che permette
ancora una volta di scendere dai “nostri altari”, dalle “nostre colonne”
sulle quali crediamo di aver raggiunto il nostro “equilibrio” di
preghiera, per dare la possibilità allo Spirito, che solo sa pregare in
noi, nella nostra originalità ed irripetibilità di dire le cose giuste, di
essere e farci amare nel modo giusto, senza agitazione in gemiti
inutili e sciocchi.
48
I gemiti veri che devono uscire sono i gemiti dello Spirito, che
prega in noi, e non dei capricci, che appesantiscono ed agitano
inutilmente il nostro cuore.
Colui che scruta i cuori, Colui che scruta il mio cuore, solo lui sa
quali sono i pensieri e le ispirazioni dello Spirito che vive in me.
Paolo ci invita con forza, lui che per primo ha vissuto questo, ad
accogliere la novità continua e permanente dello Spirito che prega in
noi.
Questo non è un discorso teorico, ma deve diventare la nostra
vita. Lo Spirito che prega in noi può essere operativo se ciascuno di
noi si impegna, in una ascesi vera, a far tacere ogni propria voglia di
imbrigliare questa libertà dello Spirito (cf. 2 Cor 3,17). Nella prima
lettera ai Tessalonicesi, Paolo dice di non spengere lo Spirito (cf. 1 Ts
5,17), cioè dobbiamo dare la possibilità allo Spirito di fare e di essere
quello che desidera essere per noi.
E’ necessario, allora, arrivare ai nostri momenti di intimità con il
Signore con questo desiderio, con questo imperativo di non spengere
lo Spirito, di non annacquare lo Spirito, e lo Spirito ci condurrà,
davvero, come ha fatto con Gesù e con Paolo, rispettando la nostra
libertà, a cogliere l’essenza del rapporto della preghiera, che è un
rapporto di amore forte ed appassionato in ogni momento della
nostra vita, donatoci e comunicatoci dal cuore della Trinità.
Magari non succederà niente di stravolgente, però ci sarà
sempre di più una qualità di amore, lo Spirito è Amore, che non si
vive secondo una quantità, ma una profonda qualità che ha un
movimento a spirale. La qualità prende tempo, prende spazio, la
qualità penetra a spirale nel profondo.
S. Ignazio di Loyola dice che nella preghiera non ci deve essere
il “multa”, le molte cose, ma il “multum”, la profondità, lo
sperimentare
l’essenza
profonda
di
questo
rapporto
personale
d’amore tra Dio e ciascuno di noi. Penetrare nell’amore significa, così,
goccia dopo goccia, scalfire non più una pietra ma un cuore che
49
desidera essere penetrato. Si instaura , così, un rapporto di qualità
d’amore profondo, che Paolo lega inscindibilmente alla valenza della
nostra chiamata.
Se noi permettiamo allo Spirito, che scruta i nostri cuori, di
elevare in noi la vera preghiera, la preghiera gradita al Padre e
conforme alla sua volontà che ci fa “santi, graditi ed irreprensibili”,
arriviamo a sperimentare che tutto concorre al bene di coloro che
amano Dio in questo modo (cf. Rom 8,28).
Questo cammino esperienziale di preghiera diviene, così,
la
possibilità di raffinare meglio la nostra vocazione personale per
divenire conformi sempre più all’immagine del Figlio Suo, perché
questo Figlio ci dia la certezza che in ogni momento di preghiera di
qualità, possiamo godere dell’essere stati predestinati, chiamati,
giustificati e quindi glorificati.
Ogni momento di preghiera intensa e colma d’amore deve
portarci a questo respirare, godere e trasfigurare la nostra vocazione,
che è vocazione alla glorificazione: “Tu se mio figlio, in te mi sono
compiaciuto, tu mi sei gradito”!
Quanto tempo sprecato certe volte in tanti “ammiccamenti” di
cervello con poco cuore!!!
Se lo Spirito, che scruta dentro di noi con gemiti inesprimibili,
prega davvero, questo Spirito, che è l’Amore, ci ricorda che la
preghiera vera, la preghiera di Gesù e di Paolo, è preghiera che tocca
lo spessore più profondo dell’affettività umana. Un’affettività, che non
è “romanticismo”, ma una profonda risonanza che avviene nel nostro
cuore quando siamo immersi in un’esperienza autentica di incontro
relazionale.
Lo Spirito ci provoca, così, sull’affettività che deve diventare
risonanza autentica delle mozioni profonde che il Cristo, nostro
amico, provoca in noi per farci intuire ed incarnare la nostra
realizzazione e renderci sempre più maturi della “piena maturità di
Cristo” (cf. Ef 4,13).
50
Lo Spirito, che prega brillando nel nostro cuore, ci porta a
chiederci in ogni momento di preghiera vera come accogliamo questo
mistero d’Amore, che ci crocifigge trasfigurandoci.
Paolo più avanti in questo capitolo 8 ci ricorda che, solo se
permettiamo allo Spirito di pregare in verità e libertà, possiamo avere
la certezza che nulla e nessuno ci separerà dall’amore di Cristo:
Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione,
l’angoscia, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte
queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha
amati, sono infatti persuaso che né morte, né vita, né angeli, né
podestà, né presente, né futuro, né altezza, né profondità, né
qualunque altra creatura potrà separarci dall’amore (lo Spirito che
prega e ci fa preghiera, come liturgia della vita) che Dio ha per noi
in Cristo Gesù nostro Signore. (Rom 8,35-37).
Per l’approfondimento
“Paolo e i suoi immediati collaboratori propongono poche e brevi
osservazioni sulla preghiera, eppure da esse traspare già una dottrina
assai elaborata, che culmina nella definizione dei rapporti esistenti tra
la preghiera e lo Spirito.
Per poter giungere a capire questo punto decisivo, ricordiamo le
esigenze
paoline.
Secondo
Paolo
la
preghiera
deve
essere
costantemente presente nella vita, nelle sue due forme specifiche: la
supplica ed il rendimento di grazie. E’ facile concepire la costante
presenza della supplica: alla quotidiana difficoltà del vivere umano,
sotto qualunque forma esso appaia, corrisponde naturalmente una
continua richiesta dell’aiuto divino.
Più difficile è ammettere una continua presenza del rendimento
di grazie. Ma noi sappiamo che Paolo in ciò è categorico:”In ogni
51
necessità esponete le vostre richieste a Dio mediante preghiere e
suppliche con ringraziamenti” (Fil 4,6); “In ogni cosa rendete grazie”
(1 Ts 5,16). La permanenza di questa forma di preghiera è legata alla
fede nella continuità dei benefici divini. Ed è pure legata alla
permanenza della preghiera nella vita quotidiana. Paolo prega “in
ogni tempo…incessantemente” e vuole che i cristiani facciano lo
stesso.
Simili affermazioni categoriche lasciano perplesso il lettore
moderno che giudica impossibile conciliare il tono così assoluto
dell’apostolo con l’ordinaria difficoltà di pregare e con l’impossibilità di
assicurare la continuità di una preghiera cosciente.
Anzitutto, bisogna senz’altro riconoscere con A. Hamman, che è
un errore interrogarsi sull’esattezza psicologica dei termini: pregare
incessantemente, giorno e notte. ‘Perché porsi, come fanno certi
esegeti, in modo così rozzo la domanda: Come ha fatto Paolo a
pregare sempre, giorno e notte?’. La spiegazione dl suo modo di
parlare non deve essere cercata nella psicologia; si trova oltre l’ordine
psicologico, ed è anche assai al di là del motivo letterario. ‘Non è
neppure sufficiente affermare che queste espressioni iperboliche sono
familiari alla letteratura postesilica e rabbinica. Bisogna andare più
lontano’. La risposta va cercata nella realtà stessa delle cose. Paolo
non sta descrivendo la psicologia del discepolo.
La continua preghiera nella vita degli uomini, la cui coscienza è
necessariamente assorbita di tante cose, non è solo qualcosa che si
produce nella coscienza. La preghiera è anzitutto legata a un fatto: il
cristiano vive in ogni momento alla presenza di Dio; la sua condizione
di figlio lo immerge nel mistero trinitario e diventa per lui una nuova
natura, una nuova vita che trasfigura tutta la sua esistenza.
Perciò in realtà la preghiera non è condizionata dai limiti del
corpo, sovente stanco e oppresso dal sonno. Il gesto cosciente,
voluto, ricercato, è certo ridotto dalla debolezza concreta nell’uomo,
dal suo temperamento, dai limiti della sua esistenza, ma quel gesto è
52
solo fioritura, in certo senso superficiale, della vera preghiera.
L’essenziale è altrove e deve essere cercato in quella ‘vita nascosta
con Cristo in Dio’ (Col 3,3), che rende discepoli di Gesù: è una realtà,
misteriosa: destinata a essere svelata un giorno, rivelata alla
coscienza, ‘manifestata’. Fissando talvolta la propria coscienza su
questa realtà nascosta, a volte anche per il sole fatto di vivere questa
realtà, di essere questa realtà, il discepolo di Paolo è in preghiera. Già
è in atteggiamento di ‘ringraziamento’, nello stesso tempo in cui
desidera, supplica, ‘domanda’.
Il cuore della preghiera è dunque l’adesione profonda del
cristiano al suo essere profondo. Una simile conclusione proviene da
alcune formule paoline che abbiamo incontrato sopra; ma proviene
anche, e forse ancor più direttamente, dalla dottrina dei vincoli che
legano la preghiera allo Spirito.
[…]
Il testo della lettera ai Romani è incontestabilmente il più
importante per valutare i rapporti dello Spirito con la preghiera
cristiana. Lo Spirito vi è presentato come ‘intercessore’, perciò come
un mediatore che interviene tra il fedele, oppresso dalle difficoltà che
incontra la sua preghiera, e Dio, il quale chiede che i fedeli gli parlino
in un certo modo. ‘Non sappiamo come si debba pregare…ma lo
Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza e intercede per noi; e
questa sua intercessione per i santi si compie secondo i disegni di Dio’
(8,14-16.26-27).
Ma il linguaggio di Paolo oltrepassa la categoria del mediatore,
che per definizione rimane estraneo agli interlocutori dei quali
assicura l’incontro. L’intercessione dello Spirito avviene nell’intimo del
credente in preghiera. Lo Spirito agisce sia suscitando il grido:
’Abbà,Padre’, sia facendo nascere nel cuore ‘gemiti inesprimibili’,
manifestazione entusiastica e riconoscente della certezza verificata
dell’esperienza del credente, di essere ‘figlio di Dio’.
Queste parole, incomprensibili per l’uomo, intraducibili anche dallo
spirito di colui che le pronuncia, sono perfettamente ‘secondo Dio’.
53
Queste parole, che non sono tali, Dio le capisce. Esse hanno un
significato che non viene dato loro da colui che le pronuncia, ma
dall’azione stessa di Dio in noi, per mezzo dello Spirito. E’ lo Spirito
che
svolge,
in
certo
senso,
il
ruolo
dell’intermediario,
dell’intercessore. In questo modo, dunque, solo Dio ‘che scruta i
cuori’, che penetra nell’uomo ben oltre quel che la coscienza
dell’uomo può scoprirvi, conosce il significato di quel movimento che
guida il fedele e che lo Spirito suscita:?Dio sa qual è il desiderio di
Dio’”: Louis MONLOUBOU, San Paolo e la preghiera.Preghiera ed
evangelizzazione, Torino 1988, 18-19.21.
Per la preghiera
Abbiamo un grande bisogno di te,
Spirito Santo,
per conoscere la via per la quale camminare.
Ne abbiamo bisogno tutti
Perché il nostro cuore sia aperto,
inondato dalla tua consolazione,
affinché, al di là delle parole
e dei concetti che sentiamo
noi cogliamo la tua presenza,
o Spirito Santo che vivi nella Chiesa,
che vivi dentro di noi,
che se l’ospite permanente
che continuamente modella in noi
la figura e la forma di Gesù.
E ci rivolgiamo a te, Maria, Madre della Chiesa,
che ha vissuto
la pienezza inebriante dello Spirito Santo,
che ha sentito
54
la sua forza in te,
che l’hai visto operante
nel tuo Figlio Gesù;
apri il nostro cuore
e la nostra mente alla sua azione.
Fa’ che tutto ciò che noi pensiamo,
facciamo o ascoltiamo,
tutti i gesti e tutte le parole,
non siano se non apertura e disponibilità
a questo unico e Santo Spirito
che forma la Chiesa nel mondo,
che costruisce il corpo di Cristo nella storia,
che promuove la testimonianza di fede
che consola e conforta,
che ci riempie il cuore di fiducia e di pace
anche in mezzo alle tribolazioni e difficoltà.
Donaci, Padre, il Santo Spirito;
te lo chiediamo insieme con Maria,
e con tutti i santi
nel nome del tuo Figlio,
Gesù Cristo nostro Signore.
(Card. Carlo Maria MARTINI)
55
SETTIMA TAPPA
La “liturgia della vita”
della “folla di persone”
chiamate per nome
Il testo: Rom 12,1-2
Vi esorto, dunque fratelli per la misericordia di Dio ad offrire i vostri
corpi come sacrificio vivente, santo, gradito a Dio come vostro culto
spirituale. Non uniformatevi al mondo presente, ma trasformatevi
continuamente nel rinnovamento della vostra coscienza in modo che
possiate discernere che cosa Dio vuole da voi, cosa è buono a Lui
gradito e perfetto.
Per la riflessione
Paolo con questo testo ci dona la sintesi esistenziale della sua
esperienza di uomo che, trasfigurato nel Cristo che vive in lui, ha
veramente capito come debba centrare la sua vita sempre più in Lui e
raggiungere così il pensiero del suo Gesù,che gli dona il pensiero del
Padre e dello Spirito..
56
Paolo non impone nulla, ma ancora una volta, ci propone uno
stile, il suo stile cristificato e cristificante la vita di ciascuno di noi: ‘Vi
esorto, dunque, fratelli…’.
‘Ti esorto in nome della misericordia di Dio’. Ti esorto cuore a
cuore, ti do il mio cuore, la mia pace, la mia gioia, la mia serenità,
perché tu possa essere la volontà del Padre.
Ti esorto nel cuore profondo di Dio, che io ho sperimentato e
sperimento, e che diviene il mio senso di Dio, un senso esistenziale:
un anelito profondo del cercare Dio accogliendolo in pienezza in ogni
frammento del mio essere, che si incarna nel mio corpo. Nel mio
corpo c’è Dio: il Dio, che niente e nessuno può contenere, Il Dio
Padre, Figlio e Spirito, è tutto in me nella originalità del mio corpo.
Cercare e trovare Dio in tutte le cose, mi dice Paolo, significa
entrare nella logica oblativa della vita, dove questa oblazione non è
un sacrificio che mi pesa, ma è la risposta spontanea e consapevole
ad un Amore grande, che mi è continuamente donato e che io dono
(cf. Mt 10,8).
Consegnare quello che gratuitamente il Padre della misericordia
mi ha donato e mi dona è la prima condizione per cercare, trovare ed
incarnare sempre il meglio dell’amore.
C’è una volontà personale di Dio che in me lentamente e
progressivamente cresce fino a giungere alla piena maturità del Cristo
che vive in me (cf. Ef 4,13 e Gal 2,20), e questa io dono nella verità
ed autenticità del mio mistero relazionale, che è il mio corpo.
Divengo un sacrificio vivente, un sacrificio effervescente, un
sacrificio ‘con i piedi per terra’, incarnato profondamente nello
spessore del mio quotidiano. Tutto questo vissuto in quel senso
profondo di Dio, che Paolo ci sottolinea, in cui siamo consapevoli che
tutto è per me, tutto concorre al mio bene (cf. Rom 8,28), perché Dio
mi ama ed io amo Dio. Il mio cammino di santità è, così, permettere
al mio Gesù, lentamente e progressivamente, di dilatare sempre di
più le mie potenzialità, i miei talenti, le mie doti, il mio carisma per
57
essere quello che devo essere e realizzare, donandolo, il mistero che
è in me.
Il culto spirituale, “la liturgia della vita”, è entrare, così,
in
questa logica di un’oblazione gioiosa nella originalità consapevole
della propria irripetibilità, che è santità che cresce fino alla pienezza
del Cristo che vive in me, che legge ed interpreta il mio mistero ed il
mistero degli altri secondo il cuore di Dio e non secondo le apparenze.
Il mio culto spirituale diviene, allora, la risposta autentica,
affettiva ed intelligente a tutte le risonanze profonde che il “Tu
Parola” di Gesù suscita nel mio io profondo. Ecco allora l’importanza
di una lettura sapienziale della Scrittura, capace di leggere ed
interpretare le risonanze che la Parola suscita in me e attraverso
questo non solo discernere la volontà di Dio, ma divenire discernendo
questa volontà di Dio, celebrando in ogni mio qui ed ora la liturgia
della mia vita.
Essere il luogo dove si compie e si attua il disegno del Padre
sulla mia vita e celebrare la liturgia della mia vita diviene, così, il
culmine nel mio “qui ed ora” di ciò che il Signore, non come capriccio,
ma per il mio vero bene vuole da me. E questo è il fine ultimo della
liberazione e della celebrazione del mio sì, risposta ed eco al sì del
Padre, del Figlio e dello Spirito al mio “qui ed ora”.
Allora si capisce bene come tutta la mia vita sia così interpretata
e celebrata tra gli apparenti alti e bassi. Importante è avere la
sensibilità del cuore cristificato di Paolo.
Paolo ci dà, poi, un altro aiuto importante: “Non uniformarti al
mondo presente, ma trasformati continuamente nel rinnovamento
della tua coscienza, del tuo cuore in modo che tu possa discernere
che cosa Dio vuole da te, ciò che è buono, ciò che è gradito a lui, ciò
che è perfetto”.
L’invito forte ed appassionato a divenire sempre più una
persona nuova è l’invito paolino per vivere in pienezza la liturgia della
mia vita, frutto e fine del discernimento della volontà personale di Dio
58
nel mio “qui ed ora”.
Non uniformarmi al mondo significa non attaccarmi alle mie
sicurezze. Non attaccarmi alle mie sicurezze per liberare la mia
vocazione personale in un si autentico ed originale significa, davvero,
con onestà vivere sempre e comunque quell’esame di coscienza e di
consapevolezza, che non è solo fare l’elenco dei peccati, ma andare
nel profondo della mia intelligenza, della mia volontà, del mio cuore e
cercare cosa realmente mi blocca, mi lega, mi imbriglia.
Il
mondo
con
la
sua
concupiscenza,
direbbe
Giovanni,
fondamentalmente è questo: è il mondo del mio cuore legato dalle
mie idolatrie, dai miei blocchi, dalle mie non partenze.
Dobbiamo prenderci in mano veramente in un esame di
coscienza non più “moraleggiante”, ma esistenziale e spirituale.
Questo è il culmine del discernimento spirituale: dobbiamo in una
sempre più grande sensibilità discernente individuare cosa blocca la
mia intelligenza che poi formula giudizi, cosa blocca la mia volontà
che poi delibera, fa scelte, cosa blocca o cosa attira la profondità del
mio cuore, dove il mio Dio vuole vivere una profonda unione
trasfigurativa.
“Non uniformarti al mondo”: la vita spirituale quando è
immersione nella propria originalità per essere noi stessi per il bene
vero degli altri, diviene la possibilità reale di essere dono secondo
l’originalità della mia esperienza con Dio, che mi chiama, mi sceglie,
mi predilige, mi invia ad essere luce e sale secondo questa mia
originalità ed irripetibilità vocazionale.
Guai al “mondo”, ogni mondo vicino o lontano, che vuole farci
tutti uguali, tutti soldatini. Ci sono degli aspetti che la carità della vita
fraterna non impone, ma propone per trasfigurarci, c’è un’originalità
sulla quale non ci si può sedere. Non mi posso uniformare, perché il
Signore ha fatto tutti diversi, tutti unici, tutti originali, tutti irripetibili
per concorrere tutti insieme in questa sinfonia armonica al vero bene
comune. Quindi non spengiamo lo Spirito e non uniformiamoci, non
59
solo nel senso superficiale di questa affermazione, cioè non fare ciò
che fa il mondo, ma andiamo più in profondità, altrimenti non
accoglieremmo la provocazione santa ed amica di Dio che in Paolo ci
parla.
l’Apostolo mi dice, poi, di non conformarmi al mondo presente e
di dovere essere sempre dinamico e crescente “nell’uomo nuovo
creato secondo Dio nella giustizia e nella santità della verità” (Ef
4,24), trasformando continuamente me stesso nel rinnovamento del
mio cuore.
Il verbo greco, che Paolo usa nel nostro testo (“metamorpheo”),
è lo stesso dell’episodio della trasfigurazione di Gesù.
Se, quindi, non ci uniformiamo, se non “scimmiottiamo”, schemi
mangiati e digeriti da altri, ma siamo noi stessi nella carità, allora, il
Signore può trasfigurarci continuamente rinnovando il nostro cuore in
ogni “qui ed ora”.
Solo in questo continuo rinnovamento trasfigurativo posso
discernere cosa Dio voglia da me. E’ interessante notare che Paolo
usa nel testo un pronome indefinito neutro (“tì”), che indica proprio il
dettaglio del “qui ed ora”, il dettaglio esistenziale, cioè la volontà di
Dio, ciò che è buono, gradito e perfetto è sempre un dettaglio
circostanziato.
Il mio essere in crescita nella santità e nella verità vera è
costituito da tanti punti che insieme formano una retta che mi porta
all’eternità e permette all’eternità della Trinità di trovare sempre il
suo compiacimento in me. Tanti dettagli del qui ed ora da accogliere,
ascoltare ed incarnare in piena libertà. Tante chiamate esistenziali
dove leggere, meditare , contemplare e giungere alla consolazione,
discernere, deliberare ed agire.
Il cardinal Martini5 dice che agire secondo il Vangelo è il frutto di
una deliberazione, frutto di discernimento, frutto di una consolazione,
«In realtà, la comprensione più profonda del rapporto preghiera-vita si esprime nel
prolungamento logico e tradizionale della triade lectio, meditatio, contemplatio.
5
60
frutto di una contemplazione della Parola. Il dettaglio così si trova.
Non è complicato, è molto più semplici di tanti giochi nella mente che
lasciano profondamente sterili.
Il discernimento come costituente fondamentale della mia
liturgia della vita, allora, non è una realtà speculativa, ma è un
rispondere all’Amore che chiama alla sua bontà, al suo gradimento,
alla sua perfezione.
Essere buono per Paolo, come per tutta la Scrittura, non è il
solo bene morale, ma è soprattutto ciò che è conforme alla volontà di
Dio. Il bello ed il buono è solo ciò che è nel cuore e secondo il cuore
di Cristo, del Padre, dello Spirito: tutto il resto è uno sprecare tempo,
energie e voglia di vivere.
Essere gradito è un continuo invito ad avere sempre più il
pensiero di Cristo: devo, solo, scegliere come sceglierebbe e sceglie
il Gesù che vive in me… non c’ bisogno di altro!!!
Essere perfetto, come è perfetto il Padre nostro celeste (cf. Mt
5, 48). La perfezione non è altro che essere nel Padre, ragionare
come il Padre, come fa Gesù. Mi occupo delle cose del Padre, sono nel
Quando la meditatio suscita in noi per la grazia dello Spirito Santo, la contemplatio
del mistero di Cristo, ne segue quell’effetto della presenza dello Spirito che la
Scrittura chiama “paraclesi”. E’ la consolazione, una gioia profonda, non
necessariamente sensibile ma vera ed autentica, del mistero divino. Il cuore si
dilata perché ha intuito una scintilla di quel mistero che spesso ci è difficile,
estraneo ed oscuro. Dalla consolatio nasce quello che Paolo, nelle sue lettere dalla
prigionia, indica come discernimento o discretio. L’esperienza della paraclesi dona la
capacità cristiana di capire che cosa, nella propria vita, nel mondo, nella storia,
corrisponde al disegno di Dio e che cosa, al contrario vi si oppone. Questa capacità
di discernere ciò che è secondo la mente di Cristo e ciò che non lo è (cf. Rom 12;
Col 1), non deriva da un ragionamento o da un processo deduttivo ma proprio da
un’intrinseca connaturalità, da una vera esperienza di Dio. La discretio suscita la
deliberatio che è la capacità di scegliere, tra le diverse azioni possibili della nostra
vita, quelle che sono secondo il Vangelo: nella pastorale, in ciò che devo dire o
tacere, nel consiglio, nella confessione, nel rapporto con le persone, nei problemi
più gravi di carattere disciplinare riguardanti la realtà e la società. Spesso sarà
deliberazione di studiare, di prendere i mezzi opportuni, di fare attenzione, di
approfondire una determinata situazione senza darla per scontata: tuttavia si tratta
di una deliberazione che porterà ad agire secondo il Vangelo. L’agire secondo il
Vangelo, dunque, è frutto di una deliberazione interiore, fatta alla luce di un
discernimento che parte da una consolazione interna frutto di una contemplazione
della Scrittura»: C.M. MARTINI, Popolo in cammino, Milano 1983, 20-21.
61
Padre, io faccio solo quello che piace a lui. Gesù quando dice questo
non fa un discorso, che non sta né in cielo né in terra, è la vocazione
che fa tutti noi per giungere alla piena maturità di Cristo, del Cristo
che vive in me. Non abbiamo più solamente il pensiero di Cristo,
abbiamo il pensiero del Padre, cioè viviamo di quella perfezione che
non è solo fare bene o fare male, dire bene o dire male, ma è
respirare a pieni polmoni l’unico sogno di Dio, l’unico fine per cui Dio,
il Dio Amore vive e canta dall’eternità, che è quello si essere Amore!
Il “più dell’amore” ritorna come il vero ed autentico ritornello,
che Paolo canta nella sua liturgia della vita, con i suoi silenzi, con le
sue sofferenze, con le sue gioie , con le sue speranze ed è ciò che con
molta amicizia e semplicità ci lascia come impegno per scendere dal
monte della trasfigurazione e trasfigurarci nel quotidiano.
Per l’approfondimento
“Notavamo più sopra come Paolo dovette interessarsi alle feste
liturgiche che si svolgevano nel tempio. Divenuto cristiano, Paolo non
dimentica il tempio. Ve lo ritroviamo infatti più di una volta a pregare,
a sciogliere dei voti (cf. At 21, 26-30; 22,17). Rimarrà sempre, per
lui, un punto di riferimento stimolante e suggestivo. Ma Paolo non
sostituirà al tempio di Gerusalemme un tempio cristiano; e neppure
concentrerà la vita religiosa e spirituale sul tempio di Gerusalemme.
Per lui la sua predicazione è un vero culto non meno di quello che si
svolgerà nel tempio, ma che lui presta a Dio nello Spirito (Rom 1,9).
Sente che tutta la sua vita apostolica è come il sacrificio di un
profumo offerto continuamente a Dio (cf. 2 Cor 2,14); chiama
addirittura liturgica l’attività burocratica e contabile della raccolta di
fondi per i poveri di Gerusalemme (cf. 2 Cor 9,12). Tutto questo è
significativo. Paolo ha trovato nel suo contatto con Cristo quello che
da giovane trovava nel tempio: ha raggiunto Dio, può stare in
62
contatto con lui, ha, per usare una sua espressione precisa, ‘un
approccio a Dio’ (Rom 5,1) che il contatto con Cristo non riduce a
tempi, ritmi, feste come quelle del tempio di Gerusalemme, ma è
continuo e si ramifica in tutti i dettagli della vita. Paolo avverte che
tutta la sua vita diventa davvero una liturgia continuata. E’ questo
uno degli aspetti più caratteristici della sua spiritualità.
Concludendo: una volta incontratosi con Cristo Paolo rimane preso da
Cristo in permanenza. Tutta la sua vita, dal primo momento in poi è
pervasa gradualmente dalla presenza di vita di Cristo che lo plasma
dal di dentro, lo spinge ad annunciare il vangelo, lo assiste e lo
consola, gli dà il suo Spirito che gli permette di viverne i valori
fondamentali. Potrà affermare che, semplicemente, la sua vita è
Cristo (cf. Fil 1,21). Da questa cristificazione della vita derivano tutti
gli aspetti della spiritualità di Paolo che abbiamo brevemente
esaminati. Potremmo dire: afferrato da Cristo, Paolo si lancia
nell’apostolato, si fa tutto a tutti, ama, si dona, soffre, gioisce e nel
fare tutto questo scopre di nuovo un cristo che si trova nella
sofferenza, nella gioia, nelle persone a cui annuncia il vangelo. C’è un
movimento pendolare in lui. L’amore di cristo lo spinge verso gli altri
(cf. 2 Cor 5,14), l’amore verso gli altri lo spinge verso Cristo”: Ugo
VANNI, S.J., “La spiritualità di Paolo” in La spiritualità del Nuovo
Testamento, a cura di Rinaldo Fabris, Roma 1985, 199-200.
Per la preghiera
Signore, noi ti ringraziamo
Perché ci raduni ancora una volta
Alla tua presenza,
ci raduni nel tuo nome.
Signore, tu ci metti davanti alla tua Parola,
quella che hai ispirato ai tuoi profeti:
63
fa’ che ci accostiamo a questa Parola
con riverenza,
con attenzione, con umiltà;
fa’ che non sia da noi sprecata,
ma sia accolta in tutto ciò che essa ci dice.
Noi sappiamo che il nostro cuore spesso è chiuso,
incapace di comprendere la semplicità
della tua Parola.
Manda il tuo Spirito in noi
Perché possiamo accoglierla
Con verità, con semplicità;
perché essa trasformi la nostra vita.
Fa’, o Signore, che non ti resistiamo,
che la tua Parola penetri in noi
come spada a due tagli;
che il nostro cuore sia aperto
e che la nostra mano non resista;
che il nostro occhio non si chiuda,
che il nostro orecchio non si volga altrove,
ma che ci dedichiamo totalmente a questo ascolto.
Te lo chiediamo, o Padre,
in unione con Maria
per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.
(Card. Carlo Maria MARTINI)
64
OTTAVA TAPPA
Una “folla di persone”
chiamate
all’apostolato dell’Amore
I testi: 1 Cor 15,1-11; 1 Cor 9,1-3.15-23
Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunciato, nel
quale restate saldi, e dal quale anche voi ricevete la salvezza, se lo
mantenete in quella forma in cui ve lo ho annunciato.Altrimenti
avreste creduto invano! Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello
che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati
secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno
secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In
seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la
maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni altri sono morti.
Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra
tutti apparve a me come un aborto. Io, infatti, sono l’infimo degli
apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo,
perché ho perseguitato la Chiesa di Cristo. Per grazia di Dio però
sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi
ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è
con me. Pertanto, sia io che loro così predichiamo e così avete
creduto.
Non sono forse libero, io? Non sono un apostolo? Non ho
veduto Gesù, Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel
65
Signore? Anche se per altri non sono apostolo, per voi almeno lo
sono; voi siete il sigillo del mio apostolato nel Signore. Questa è la
mia difesa contro quelli che mi accusano.
Ma io non mi sono avvalso di nessuno di questi diritti, né ve ne
scrivo perché ci si regoli in tal modo con me; preferirei piuttosto
morire. Nessuno mi toglierà questo vanto! Non è infatti per me un
vanto annunciare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non
predicassi il vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa ho diritto alla mia
ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che
mi è stato affidato. Quale è dunque la mia ricompensa? Quella di
predicare
gratuitamente
il
vangelo
senza
usare
del
diritto
conferitomi dal vangelo. Infatti, pur essendo libero da tutti, mi son
fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: mi sono
fatto Giudeo con i Giudei per guadagnare i Giudei; con coloro che
sono sotto la legge sono diventato uno che è sotto la legge, pur non
essendo sotto la legge allo scopo di guadagnare coloro che sono
sotto la legge. Con coloro che non hanno legge sono diventato come
uno che è senza legge, pur non essendo senza la legge di Dio, anzi
essendo nella legge di Cristo per guadagnare coloro che sono senza
legge. Mi sono fatto debole con i deboli; mi sono fatto tutto a tutti
per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il vangelo,
per diventarne partecipe con loro.
Per la riflessione
Vediamo più da vicino questa “confidenza apostolica”, che Paolo
vuole farci per comprendere cosa possa significare anche per noi
essere inseriti nella chiamata apostolica, che ha la sua radice ed il suo
propellente nell’incontro di predilezione e di missione che Gesù, il
Signore, vuole vivere con ciascuno di noi.
Non siamo spettatori, ma dobbiamo e vogliamo essere attori
protagonisti!
66
Nei versetti iniziali del capitolo 15 della prima lettera ai Corinti,
Paolo ci invita a comprendere come lui senta lo specifico del suo
essere apostolo: “annunciare il vangelo di Gesù, che è la salvezza”
nel chiedere e pretendere l’obbedienza della fede a questo vangelo
per garantire un cammino di autenticità e di verità a tutti coloro, che
la chiamata al ministero apostolico, gli ha affidato.
E’ proprio alla luce del mettere tutto se stesso in questo suo
ministero, che nasce il suo chiedere ed il suo pretendere la serietà e
la totale disponibilità, senza remore, dei Corinti, che siamo noi.
E’ lo stile pedagogico che Paolo vuole usare anche con noi e per
noi…: ”altrimenti avremmo creduto invano” (cf. versetto 2).
Paolo entra ancora di più nello specifico del suo essere apostolo:
“Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto”. Paolo annuncia e
vive ciò che ha sperimentato concretamente ed esistenzialmente nella
sua vita. Non va “dietro a favole artificiosamente inventate” (cf. 2 Pt
1,16), né “vive e proclama un vangelo modellato sull’uomo” (cf. Gal
1,11-12). Ma annuncia e vive la novità scandalosa ed esaltante del
Cristo crocifisso e risorto. Paolo vuole gridare con la sua vita questo
vangelo, che è il suo Signore e proclamarlo come l’unica “via” di
realizzazione e di “umanizzazione” per ogni uomo.
Come non sentire qui l’eco prolifica, che nella successione
apostolica – tanti secoli dopo -, nella stessa scia feconda ed esaltante
fa dire ad un altro Paolo, Papa Paolo VI, che l’uomo oggi ascolta più
volentieri i maestri se questi sono per prima cosa testimoni di questo
Cristo vivificante e reggente la propria vita (cf. Evangelii Nuntiandi,
41).
“In seguito”, ci dice Paolo di Tarso, continuando questo suo
racconto contemplativo ed autobiografico, Gesù appare a Cefa ed ai
Dodici, appare a tutti gli apostoli, e - questo è interessante per noi –
per ultimo, come ad un aborto, appare anche a lui. “Lui che è l’infimo
degli apostoli e non è degno neppure di essere chiamato apostolo
perché ha perseguitato la Chiesa di Dio. Ma per grazia di Dio sono
67
quello che sono e la sua grazia in me non è stata vana” (versetti 910).
Siamo, e Paolo ne è cosciente, nella logica del disegno gratuito
di Dio, della sua libertà propositiva ed amante. E’ la logica dello
sguardo di compiacimento di Dio, che ancora sceglie ed attua la sua
“logica della croce”, la logica di ciò che è contro tutte le logiche
umane dell’apparenza, perché solo attraverso la “logica della croce”
c’è la logica-verità dell’aurora della risurrezione.
E la “logica della croce” è logica di fatica, di sudore, di lotta, di
conquista e Paolo ci testimonia, anche questo, con verità e senza
tanti discorsi “romantici” e melensi: “ho faticato più di tutti loro, non
io però ma la grazia di Dio che è con me”.
La “logica della croce” è vissuta, per primo dal Signore Gesù,che
chiama all’apostolato, e che per primo fatica, suda, lotta e conquista
“il premio” (cf. Fil 3,14) dell’essere tutto presente in ogni suo amico,
chiamato a fare in lui e per lui grandi cose…!!!
Paolo ci specifica in un altro brano come questa fatica si
concretizzi nel ministero del suo essere apostolo. Sono i versetti del
capitolo 9 della prima lettera ai Corinti.
Dal racconto “autobiografico” si evince facilmente tutto il pathos
di Paolo, tutto il suo desiderio empatico nei confronti del suo
ministero.
Questo è un testo che va assaporato lentamente, ed in un clima
di silenzioso ascolto personale. Un testo che può sicuramente
illuminare e fecondare la nostra riflessione, la nostra meditazione, la
nostra contemplazione.
Entriamo nel sudore di Paolo, chiediamo a Paolo cosa significhi il
sudore apostolico del suo si a Cristo.
Chiediamogli cosa significhi per lui, e cosa possano significare
nel nostro cammino di sequela nell’apostolato dell’amore questi
versetti:
68

Essere liberi per farsi servi di tutti (vv. 1.19).

Essere apostoli perché abbiamo incontrato il Signore (v.2).

Essere vangelo vivente, cioè annuncio gioioso che Cristo è tutta
la nostra vita e il nostro essere (v.16).

Accettare, come Paolo, la gratuità sconvolgente del dono di Dio
in Cristo (v.17).

Essere “un ‘icona vivente di Cristo”, un vangelo vivente, perché
la conquista che Cristo ha fatto nella mia vita possa essere
strumento eletto che il Signore assume per farne partecipi altri
(v.23).
E concludiamo questa “galoppata contemplativa” insieme al
nostro amico Paolo nella sequela del Dio Amore, con la certezza che
anche per noi sono vere e saranno sempre vere le parole, che lui ci
riconsegna come la garanzia che questa sua esperienza apostolica di
amore ricevuto e donato “vale la pena” di essere vissuta anche da noi
oggi e sempre.
Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione
ed è giunto il momento di sciogliere le vele.
Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho
conservato la fede.
Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice
mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti
coloro che attendono con amore la sua manifestazione.(2 Tm 4,6-8)
Per l’approfondimento
“Insieme con Sila, Paolo parte per il lungo viaggio missionario
attraversando l’Asia minore, la Macedonia e l’Acaia, predicando
l’evangelo e destando ovunque conversioni.
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Dove passano lasciano piccole comunità di credenti in Cristo: a Filippi,
in Galazia, a Tessalonica, a Corinto. I luoghi che Paolo sceglieva per
la sua missione e da cui irradiare il messaggio cristiano erano i centri
urbani e di preferenza le grandi città. Era poi per lui un punto d’onore
annunciare l’evangelo dove non era stato ancora predicato (cf. Rom
15,20), a costo di lasciare il compito di organizzazione delle ancora
fragili comunità ai suoi collaboratori o ai nuovi convertiti stessi. Paolo
porta il primo annuncio cristiano, è un fondatore di chiese e desidera
raggiungere sempre nuovi luoghi in modo che la parola dell’evangelo
corra per tutta la terra (2 Ts 3,1) e tutte le genti della terra
conoscano il Signore Gesù Cristo. Per questo progetterà di andar a
Roma e di raggiungere addirittura la Spagna, l’estremo confine
occidentale dell’impero (Rom 15,25-32).
Noi non possiamo seguire tutto l’itinerario di Paolo, ma basta
dire che dagli Atti e dalle lettere la sua missione itinerante appare
un’avventura faticosa, estenuante, piena di pericoli e di persecuzioni
sia da parte dei giudei che da parte dei pagani. Conflitti, arresti e
prigionie, dure
pene
quali
la fustigazione, la flagellazione, la
lapidazione lo accompagnarono sempre (2 Cor 11,23-28). Nel primo
viaggio Paolo conobbe la prigionia a Filippi, un tentativo di arresto a
Tessalonica e la persecuzione sempre più ostinata da parte dei giudei
che apparivano ormai come il principale nemico dell’orizzonte della
sua predicazione. Non era aiutato da nessuno da nessuno né
sostenuto finanziariamente se non , in un caso, dalla comunità di
Filippi (Fil 4,10 ss.) e doveva sovente lavorare giorno e notte quale
fabbricatore di tende per potersi mantenere (1 Ts 2,9).
Quando
cercherà
di
descrivere
questa
sua
condizione
di
missionario e apostolo scriverà: ‘Io porto nel mio corpo le stigmate di
Cristo’ (Gal 6,17). La sua vita era infatti una vita da schiavo, da
crocifisso,attivamente partecipe della passione del suo Signore. Paolo
ha
coscienza
soprattutto
di
essere
all’ultimo
posto
come
un
condannato a morte, pazzo a causa di Cristo, debole, disprezzato:
70
‘Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità,
veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci
affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo;
perseguitati, sopportiamo; calunniati, consoliamo; siamo divenuti la
spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti fino ad oggi (1 Cor 4,9-13).
Non c’è esagerazione in questa descrizione: c’è la verità di una vita
spesa per l’evangelo. Paolo non era forte, ma un debole, e se era
stato forte, la missione cristiana lo aveva indebolito e diminuito; non
aveva una figura imponente, né voleva avvincere l’uditorio con gli
artifici dell’oratoria (2 Cor 10,10; 1 Cor 2,1). Più che la proclamazione
era con la sua vita e la sua conoscenza che mostrava in mezzo alle
sue comunità Cristo e Cristo crocifisso (1 Cor 2,2).
In questo primo viaggio Paolo sostò lungamente a Corinto, un
anno e mezzo circa (At 18,11), e li fondò la comunità a lui più cara.
Poco prima aveva tentato di incontrare la sapienza greca ad Atene
all’Areopago, ma aveva subito uno scacco durissimo nonostante
avesse cercato di proporre un messaggio cristiano inculturato nella
sapienza greca. La morte e la risurrezione di Gesù restano follia per i
pagani allo stesso modo in cui erano scandalo per i giudei. Di questo
scacco troviamo le tracce nella prima lettera ai Corinti dove scrive che
predica un Cristo crocifisso, scandalo per i giudei e pazzia per i
pagani, ma in realtà potenza e sapienza di Dio. Questa logica della
croce, questo ‘verbo della croce’ (1 Cor 1,18) è visibile per lui anche
nella composizione della comunità cristiana corinzia che non annovera
né sapienti secondo la carne, né potenti, né nobili, ma è costituita da
ciò che nel mondo è stolto, ciò che è debole, ciò che è ignominioso e
disprezzato, ‘ciò che non è’. Così Dio, per mezzo di Cristo e della
chiesa, riduce a niente ‘le cose che sono’ (1 Cor 1,26-31).
Per la comunità, per lui, questa logica della croce non può solo
essere annunciata ma deve essere vissuta nell’esistenza, nella carne
stessa.
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Paolo era anche un uomo ferito dalla malattia (Gal 4,14).
Questa malattia, che a noi resta ignota, l’ha molto provato e
costantemente segnato, e di essa Paolo ha una consapevolezza
penetrante che lo fa sentire debole, debolissimo, ma che gli fa anche
sperimentare la grazia, la misericordia di Dio. Egli esclama : ‘Quando
sono debole, è allora che sono forte’ (2 Cor 2,10). Gli esegeti si sono
interrogati su questa malattia e hanno ipotizzato epilessia, isteria,
malaria, depressione…Certamente si trattava di un’infermità umiliante
che forse lui e i testimoni delle sue crisi attribuivano, più di altre
malattie, a forze malefiche, al demonio. Egli stesso ne parla: ‘come
sapete, fu a causa di una malattia che per la prima volta vi annunciai
il vangelo. E voi non mostraste né disprezzo per il mio corpo malato
benché costituisse una prova per voi e mi accoglieste invece come un
messaggero, inviato da Dio, come Gesù Cristo’ (Gal 4,13-14).
Altrove Paolo parla di ‘un pungiglione, una spina nella carne, un
emissario di Satana incaricato di schiaffeggiarmi perché io non mi
inorgoglissi’ (2 Cor 12,7).
Era la stessa malattia fisica o qualcos’altro? Inutile fare indagini.
Ci basti ricevere da Paolo la sua testimonianza: provato fisicamente o
psicologicamente, ferito da una potenza di Satana, anziché disperare,
vede in questo, un’occasione per la manifestazione della potenza di
Dio nella sua carne, nella sua vita di povero e fragile uomo, di
peccatore. Quando questa prova, quasi una sentenza di morte, si
riaccendeva, egli la leggeva come un invito a non porre fiducia in se
stesso, ma nel Dio che risuscita i morti (2 Cor 1,9) e quando si
sentiva preso a schiaffi dall’Avversario, nella preghiera al Signore che
poteva liberarlo e guarirlo udiva queste parole divine: ‘Ti basta la mia
grazia, nella tua debolezza si manifesta la mia potenza!’ (cf. 2 Cor
12,7-9).
E accanto a quest’esperienza di prova e di malattia c’è
l’esperienza del peccato di cui Paolo ha avuto acuta consapevolezza:
egli infatti sente nelle sue membra la prepotenza del peccato che lo fa
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schiavo, lo asservisce fino a fargli dire: ‘Sono un disgraziato! Quando
mi sarò liberato da questa schiavitù del ricadere nel peccato che io
non voglio? Perché il male è accanto a me quando voglio fare il bene?
Perché voglio essere fedele alla legge di Dio nel mio intimo e poi
continuo a cadere nel male che non voglio?’ (cf. Rom 7,18-25).
Ma al di sopra di tutto – debolezza, malattia, peccato – per
Paolo regna e ha la vittoria l’amore di Cristo: se Dio non ha
risparmiato suo Figlio, ma lo ha consegnato per amore nostro, chi
accuserà, chi condannerà? E chi potrà separarci da questo amore che
ci ha raggiunti quando eravamo peccatori? (cf. Rom 8,31-35).”: Enzo
BIANCHI, Amici del Signore, Roma 1990, 212-215.
Per la preghiera
Ti ringraziamo, Signore Gesù,
perché ci hai amati al punto
che non possiamo far altro che amarti
con tutto il cuore, con tutta la mente,
con tutta la vita.
Sì, Gesù, il tuo amore ci abbraccia,
ci circonda: siamo in te
e possiamo contemplare in tutto la tua gloria, il tuo amore che si
dona.
Ogni uomo e ogni donna della terra
Sono avvolti dallo stesso Spirito d’amore.
E lo sono pure i nostri peccati,
lo sono tutte le situazioni
che incontriamo.
Facci crescere, Gesù, in questo tuo amore!
Donaci la grazia che sant’Ignazio ci insegna a chiedere
per raggiungere una conoscenza interiore di te,
o Signore, che ti sei fatto uomo per me,
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per amarti sempre più intensamente
e seguirti più da vicino.
Imploriamo questa grazia dal Padre
attraverso te, Gesù, che vivi e regni
con lui nell’unità dello Spirito Santo
per tutti i secoli. Amen.
(Card. Carlo Maria MARTINI)
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