Studio L’EPISTEMOLOGIA DI RICHARD BURTHOGGE di Marco Sgarbi* Abstract. This article deals with the epistemology of Richard Burthogge (1638-1705). Friend and correspondent of Locke, Burthogge published two important epistemological treaties, the Organum Vetus & Novum (1678) and the Essay upon Reason (1694), in which he developed a particular theory of knowledge close to idealism and conceptualism. In this theory he 1) elaborated an instrumental conception of logic; 2) limited the boundaries of reason to sensible experience; 3) conceived the mind as a center of activity, energy, and operations; 4) established that all sensible knowledge is filtered by modi concipiendi, such as substance, quantity, quality, and causality; 5) stated that knowledge is merely phenomenal, namely it concerns only the objects as they appear and not as they really are; 5) established that objects have no reality and sense if not in relation to the mind and that they are framed by a priori rules that are constitutive of reason. The aim of the article is to examine in detail Burthogge’s theory of knowledge and to show his original position within the historical and cultural setting of his time. Keywords: Burthogge, Locke, Kant, Epistemology, Sensation, Mind 1. Status quaestionis Richard Burthogge si presenta alla storiografia filosofica contemporanea come una figura pressoché sconosciuta. Non esiste una monografia a suo riguardo e sono pochi gli studi che trattano il suo pensiero1. Eppure non fu una personalità di secondo piano nel delicato periodo della storia della filosofia inglese che vide la nascita della corrente dell’empirismo. In quest’articolo mi propongo di esaminare in modo specifico la sua particolarissima epistemologia, considerata dalla curatrice delle sue opere come diretta precorritrice della gnoseologia kantiana2. Certo, il giudizio non è imparziale, ma è vero, come si vedrà, che nelle sue due opere dedicate alla teoria della conoscenza, Burthogge sviluppa un approccio molto simile a quello del filosofo di Königsberg. Non è compito del presente articolo stabilire se Burthogge sia stata una fonte di Kant; tuttavia, come ha giustamente osservato Giorgio Tonelli, ciò appare assai improbabile3. Nel presente articolo si cercherà di * [email protected]; professore a contratto all’Università di Verona. L’unico studio effettuato con una certa esaustività sono le novantaquattro pagine dell’InauguralDissertation di Jakob Grünbaum, cfr. Grünbaum 1939. 2 Cfr. Landes 1921, pp. XV-XXIV. Le citazioni dalle opere di Burthogge sono prese da Burthogge 1921, preceduta dal titolo abbreviato dell’opera stessa. 3 Cfr. Tonelli 1994, p. 141. 1 sfuggire da un paragone estrinseco fra questi due autori senza avere alcun supporto storiografico che provi una loro documentata relazione storica, cioè una lettura di Burthogge da parte di Kant. Piuttosto ci si soffermerà sulla ricostruzione del contesto in cui ha operato e sull’analisi delle sue dottrine. Come si è detto, Burthogge è un Carneade. Nella più omnicomprensiva storia della logica della modernità, la Logik der Neuzeit di Wilhelm Risse, non è menzionato4. Mentre Reinhard Brandt nella più importante storia della filosofia inglese del XVII secolo ne fa solo un piccolo accenno5. È ricordato, ma anche in questo caso in modo semplicemente cursorio, da William Hamilton nella sua introduzione alle opere complete di Thomas Reid6. È invece indiscusso merito di Georges Lyon l’aver rivalutato il pensiero di Burthogge e aver dimostrato che i risultati più importanti della sua opera furono del tutto slegati dalla gnoseologia lockiana, ma il suo studio risale alla fine del XIX secolo e affronta il problema con una metodologia storiografica antiquata7. Anche Ernst Cassirer nel suo Erkenntnisproblem dedica un certo spazio a Burthogge, ma più come seguace di Arnold Geulincx che come pensatore indipendente8. È da rilevare anche lo scarso valore storiografico dello studio introduttivo alla pubblicazione delle opere filosofiche complete di Burthogge compiuto da Margaret W. Landes, la quale, con argomenti assai poco convincenti, presenta il filosofo inglese da una parte come un seguace dei platonici di Cambridge e dall’altra come un precursore di Locke e Kant9. Gabriel Nuchelmans, da parte sua, ha dedicato diverse pagine interessanti alla teoria della significazione di Burthogge, ma, sulla scia di Cassirer, sempre in stretta connessione con le dottrine di Geulincx10. John W. Yolton, invece, ne fa un precursore della logica delle idee e il più importante predecessore di Locke11. Solo recentemente Michael R. Ayers ha condotto una ricerca rigorosa sul concettualismo e sull’idealismo di Burthogge, Cfr. Risse 1970. Non c’è alcun riferimento a Burthogge nemmeno nella Bibliographia logica, cfr. Risse 1965. 5 Cfr. Brandt 1988, II, pp. 723-725. 6 Cfr. Reid 1863, II, pp. 928, 938. 7 Cfr. Lyon 1888, pp. 72-96. 8 Cfr. Cassirer 1922, I, pp. 545-553. 9 Cfr. Landes 1921. Le notizie ivi contenute sono state riprese da Sorley 1965, pp. 129-130. 10 Cfr. Nuchelmans 1983, pp. 117-119. 11 Cfr. Yolton 1955; Yolton 1984, pp. 106-107. 4 2 mettendo anche in relazione la sua prospettiva filosofica con quella di pensatori contemporanei quali Willard V.O. Quine e Donald Davidson12. In Italia, invece, Burthogge è rimasto del tutto ignorato dalla storiografia filosofica. A mio avviso è possibile capire il significato e l’originalità di Burthogge nella storia della filosofia solo attraverso uno studio attento di storia intellettuale sul contesto culturale in cui ha operato e dal quale ha assorbito e rielaborato idee e concetti; secondo questi presupposti metodologici sarà condotta l’analisi sulle sue dottrine epistemologiche. 2. Profilo bio-bibliografico. Sono poche le informazioni biografiche riguardo la vita di Burthogge. Nacque probabilmente sul finire del 1637 o agli inizi del 1638 a Plymouth, nella parte più sudoccidentale dell’Inghilterra che nel Seicento era al centro dei traffici commerciali per le Americhe e per le Indie ed era un avamposto per le nuove tendenze culturali. Questo ambiente culturale aperto e dinamico dovette sicuramente stimolare il giovane Burthogge13. Fu battezzato il 30 gennaio 1638 a Plympton St. Maurice e entrò nella prestigiosa Exeter Grammar School. Nel 1654 fu ammesso al All Souls College di Oxford come servitore o corista 14 e divenne bachelor of arts nel 1658 presso il Lincoln College. All’epoca in cui Burthogge svolse gli studi a Oxford l’ambiente era ancora fortemente influenzato dalla filosofia aristotelica, la quale fu rafforzata con gli Statuti Laudiani del 1636, che ripristinarono Aristotele al centro del sistema educativo.15 Non bisogna però pensare che l’aristotelismo professato a Oxford fosse conservatore o che mirasse semplicemente alla restaurazione della tradizione medievale. Piuttosto era all’avanguardia soprattutto nel campo della logica, sviluppando prospettive molto vicine a quelle che saranno poi elaborate dall’empirismo inglese. Il fatto che la filosofia aristotelica fosse il fulcro Cfr. Ayers 2005. Si veda anche la voce biografica curata da Ayers nel Oxford Dictionary of National Biography: http://dx.doi.org/10.1093/ref:odnb/4120. 13 Sul milieu intellettuale di quel periodo cfr. Kearney 1970, pp. 141-173; sull’ambiente culturale nella contea di Devon cfr. Roberts 1985; Jackson 1986, appendice 2. 14 Cfr. Wood 1820, IV, p. 581. 15 Per una panoramica generale sulla diffusione dell’aristotelismo in Inghilterra nel XVII secolo cfr. Schmitt 1983, pp. 3-76, Sgarbi 2012, pp. 85-109, per gli statuti del 1636, p. 43. 12 3 dell’educazione a Oxford fra la prima e la seconda metà del XVII secolo è provato dalle Vindiciae Academiarum di Seth Ward, nelle quali l’autore scrive esplicitamente che le ragioni principali per cui Aristotele era penetrato così profondamente nei curricula universitari erano l’universalità dei problemi posti e la brevità e il metodo con cui erano affrontati, piuttosto che la verità e l’infallibilità delle sue dottrine.16 Dallo stesso Ward però si viene anche a sapere che Aristotele in genere non era più letto direttamente dagli studenti, ma erano preferiti manuali e commentari più agili e comprensibili.17 Si leggevano soprattutto le opere di Martin Smiglecki (1564-1618), Edward Brerewood (15651613), Richard Crakanthorpe (1567-1624), Samuel Smith (1587-1620), Robert Sanderson (1587-1663) e Franco Burgersdijk (1590-1635), i quali traevano larga parte della loro dottrine logiche dai lavori del padovano Jacopo Zabarella (15321589) e sviluppavano una teoria empirica del metodo scientifico18. Dopo i primi studi oxoniensi, Burthogge si trasferì in Olanda per studiare medicina presso l’università di Leiden, dove fu ammesso nel 1661 e divenne l’anno successivo medicinae doctor. Qui probabilmente conobbe Geulincx, che proprio a cavallo fra il 1662 e il 1663 pubblicava le sue due opere epistemologiche più importanti, la Logica fundamentis suis restituta (1662) e il Methodus inveniendi argumenta (1663)19, lavori che sono il frutto delle sue lezioni private di logica. Tuttavia, non è certo se Burthogge seguì le lezioni di Geulincx20, soprattutto vista la fede calvinista professata da quest’ultimo, della quale il giovane pensatore inglese non aveva grande stima: gli scritti religiosi di Burthogge sono tutti rivolti contro i calvinisti e contro i quaccheri. Successivamente Burthogge tornò in patria e si trasferì a Totnes 21, vicino alla sua città natale, dove esercitò attivamente la professione di medico, continuando però la sua intesa attività di saggista. Ivi morì il 24 luglio 1705. Cfr. Ward 1654, p. 39. Ivi, p. 25. 18 Sugli studi di logica nell’università di Oxford cfr. Ashworth 1988, I, pp. 6-9; Feingold 1997. Su questi autori aristotelici oltre al già citato volume di Schmitt, cfr. Thomas 1959-1960; Trentman 1976; Ashworth 1985; Ashworth 1991. 19 Sulla logica di Geulincx cfr. Nuchelmans 1988; van Ruler 2002. 20 Geulincx divenne lettore ufficiale a Leiden solo nel 1662, quando Burthogge aveva già ottenuto il grado di medicinae doctor. Siccome le lezioni di logica erano impartite nei primi anni universitari, è molto scarsa la possibilità che Burthogge abbia seguito i corsi del filosofo fiammingo. Certo, questo non toglie che possa averlo conosciuto e aver letto le sue opere. 21 Sull’ambiente intellettuale di Totnes in quel periodo cfr. Windeatt 1900. 16 17 4 Com’è stato giustamente notato da Ayers, Burthogge si inserisce in un contesto culturale molto simile a quello in cui operavano altri filosofi eccellenti dell’epoca quali William Chillingworth, Henry More, John Locke e Joseph Glanvill (anch’egli peraltro nativo di Plymouth), cioè in un clima religioso aperto, antidogmatico e tollerante22. I suoi primi due lavori di carattere religioso vanno proprio in questa direzione. Il primo scritto di cui siamo a conoscenza è intitolato Divine Goodness Explicated and Vindicated from the Exceptions of the Atheistst, pubblicato per la prima volta a Londra nel 1672 (l’epistola al lettore però reca la data 9 ottobre 1671)23. L’opera mostra le indiscusse conoscenze di Burthogge nel campo della teologia, ma non rivela alcuna particolare influenza dei platonici di Cambridge, come invece sostiene Landes. Lo scritto è esplicitamente diretto da una parte contro gli ateisti che non credono nella verità rivelata nelle Sacre Scritture e dall’altra contro i fanatici. L’obbiettivo di Burthogge è dimostrare razionalmente la bontà di Dio al fine di convincere gli atei sul loro stesso piano razionale, e soprattutto di mostrare che gli argomenti razionali da lui addotti sono derivabili dalle Sacre Scritture. Si tratta di un progetto simile a quello che avrebbe sviluppato Locke una quindicina d’anni più tardi nello scritto The Reasonableness of Christianity, as Delivered in the Scriptures (1695), che risente dell’influenza di Burthogge24. Il secondo lavoro di Burthogge esce nel 1675 con il titolo Causa Dei or an Apology for God25. Si tratta di un’opera più ampia, estesa ed articolata rispetto alla prima ed è stata scritta da Burthogge in risposta ad una lettera di un «inaspettato» lettore26, di cui conosciamo solo le iniziali “A.W.”. Leggendo il primo trattato sappiamo che l’anonimo lettore aveva obiettato a Burthogge sul piano teologico che due erano le logiche conseguenze evincibili dal suo discorso sulla bontà divina del 1672: o non esistono i tormenti infernali o essi hanno una durata finita perché prima o poi la bontà divina interverrà a favore del penitente. Cfr. http://dx.doi.org/10.1093/ref:odnb/4120. Cfr. Burthogge 1672. 24 Cfr. Goldie 1992. 25 Cfr. Burthogge 1675. 26 Così Burthogge si riferisce all’anonimo lettore nella Prefazione dell’opera. 22 23 5 È nel 1678 che Burthogge irrompe nel panorama filosofico vero e proprio con la sua prima opera di epistemologia intitolata Organum Vetus & Novum, che, per la sua importanza, prenderò in considerazione in seguito27. Seguono poi nell’arco di pochi anni una serie di piccoli trattati sul battesimo dal titolo An Argument for Infants’ Baptism (1683) e Vindiciae Paedo-Baptismi (1685), nei quali, sempre secondo argomenti razionali, si voleva dimostrare la necessità del primo sacramento per gli infanti28. Nel 1687 esce il breve pamphlet Prudential Reasons for Repealing the Penal Laws against all Recusants, and for a General Toleration, nel quale l’autore si scaglia contro l’intervento del governo civile in materia di religione, sostenendo che i due ambiti devono essere accuratamente distinti e che il prevaricarsi dell’uno sull’altro non porta altro che ad un disordine controproducente allo Stato. In particolare, Burthogge è contro le aggressioni che lo Stato effettua nei confronti coloro che ricusano la religione anglicana e propone la promulgazione di leggi tolleranti, grazie alle quali soltanto sarebbe possibile la neutralizzazione degli estremismi delle varie correnti religiose. Sul rapporto fra governo e Chiesa Burthogge ritorna ancora nel 1690 con lo scritto The Nature of ChurchGovernment (1690)29. I successivi due lavori, An Essay upon Reason and the Nature of Spirits (1694) e Of the Soul of the World and of Particular Souls (1699) – entrambi dedicati a Locke –, sono degli approfondimenti delle sue teorie in ambito gnoseologico e psicologico30. Nel suo ultimo scritto, Christianity a Revealed Mystery (1702)31, Burthogge ritorna ancora una volta sull’argomento riguardante la possibilità di spiegare razionalmente la religione, un tentativo ben apprezzato da Locke nella sua A Paraphrase and Notes on the Epistles of St. Paul (1707)32. Tutti i lavori di Burthogge sono accomunati da un aspetto particolare, quello di essere esposti sotto forma epistolare. In generale la sua opera si può dividere in Cfr. Burthogge 1678. L’opera ricevette l’imprimatur il 23 novembre 1677. Cfr. Burthogge 1683; Burthogge 1685. 29 Cfr. Burthogge 1690. 30 Cfr. Burthogge 1694; Burthogge 1699. 31 Cfr. Burthogge 1702. 32 Cfr. Locke 1707. 27 28 6 due generi di scritti, quelli dedicati alla religione e alla sua razionalità e quelli dedicati all’epistemologia. Non si tratta di ambiti perfettamente distinguibili secondo Burthogge, dato che l’epistemologia e la logica sarebbero lo strumento più proprio per dimostrare la razionalità della religione33. Nel presente articolo, tuttavia, mi occuperò prevalentemente del suo pensiero epistemologico, slegato – per quanto possibile – dagli aspetti riguardanti la religione, la teologia e la politica. 3. L’organo della ragione, la sua natura e i suoi limiti Il primo lavoro dedicato esclusivamente a temi epistemologici e di teoria della conoscenza è l’Organum Vetus & Novum. Come si evince facilmente dall’espressione del titolo “organum vetus”, il principale riferimento di Burthogge è l’Organon di Aristotele e più in generale la tradizione aristotelica, che concepiva la logica come un strumento per le altre scienze. Tale concezione era stata riproposta con forza sul finire del XVI da Zabarella34 e aveva avuto subito largo successo in territorio britannico35. L’altro immediato riferimento di Burthogge che il titolo sembra suggerire – “organum novum” – potrebbe essere il Novum Organum di Francis Bacon (15611626), ma è subito evidente che delle dottrine del Lord Cancelliere vi sono solo flebili tracce nei suoi scritti. Probabilmente, Burthogge voleva piuttosto esprimere la sua intenzione di sviluppare nell’opera un “novum organum”. Nel caso di Burthogge, questo “novum organum” tuttavia non deve essere concepito in contrapposizione al “vetus”, cioè alla logica aristotelica, quanto piuttosto come un’integrazione, un perfezionamento e un miglioramento di quella. Burthogge non abbandonerà mai questa prospettiva epistemologica, nemmeno nel più tardo Essay upon Reason, scritto dopo la lettura dell’Essay lockiano di cui non si rilevano tracce importanti nella sua opera36. L’Essay di Burthogge, infatti, Giustamente Ayers afferma che l’epistemologia di Burthogge, come quella di Locke, scaturisce dalle sue problematiche politico-religiose e dai suoi interessi scientifici, cfr. Ayers 2005, p. 180. 34 Sulla natura strumentale della logica in Zabarella fra gli altri cfr. Corsano 1962; Bottin 1973; Vasoli 2011. 35 Cfr. Schmitt 1983. 36 Ayers è convinto che l’enfasi data al concetto di “sostanza” nell’Essay rispetto all’Organum sia dovuta all’influenza di Locke, cfr. Ayers 2005, pp. 195-196. 33 7 riprende i temi già trattati nell’Organum, e approfondisce la discussione intorno alla natura della mente, in particolare della coscienza e del rapporto fra mente e materia, mentre tralascia la discussione intorno alla facoltà del giudizio. Non si può parlare così in Burthogge di una epistemologia prima e dopo Locke; piuttosto Burthogge vuole approfondire sistematicamente i temi che nel primo trattato erano stati solo accennati o trattati confusamente. Burthogge è perfettamente conscio della sua nuova proposta in campo logicoepistemologico e non pensa assolutamente di essere meno originale di Locke nella sua trattazione. L’Organum è un vero e proprio trattato di logica, ma, a differenza dell’Organon aristotelico, non esamina elementi primi come le categorie, la proposizione e il sillogismo né le regole formali per la formulazione delle corrette inferenze, ma si rivolge piuttosto allo studio della “logica delle facoltà” che studia le operazioni della mente37. Non è una prospettiva totalmente nuova in seno alla tradizione logica inglese: infatti, non solo Sanderson con il suo Logicae artis compendium aveva già fatto un deciso passo in questa direzione38, ma soprattutto Zachary Coke (n. 1618) con il suo The Art of Logick (1654) e Obadiah Walker (1616-1699) con i suoi Artis rationis libri avevano sviluppato una complessa logica epistemica fondata sull’analisi delle varie operazioni della mente 39 e sui diversi gradi di assenso rispetto a ciò che viene conosciuto40. Il tentativo di Burthogge merita un’attenzione particolare proprio perché, al pari di Coke e Walker – anche loro purtroppo ancora trascurati dalla storiografia filosofica –, sviluppa una gnoseologia che lo vede come immediato predecessore di Locke e quindi una sua possibile fonte41. Burthogge inizia la sua trattazione logica con l’individuazione di tre errori nei quali la mente umana cade frequentemente: l’orgogliosa ignoranza, lo zelo ignorante e il ragionamento impertinente. 37 Sulla logica delle facoltà cfr. Buickerood 1985; Auroux 1993; Michael 1997; Schuurmann 2004, pp. 44-50. 38 Cfr. Nuchelmans 1998, p. 106. 39 Cfr. Coke 1654; Walker 1673. 40 Sulla logica epistemica cfr. Hintikka 1968; Hintikka 1986; Boh 1993; Boh 2000; Galvan 2006. 41 Non vi sono studi sistematici su Burthogge fonte di Locke in campo epistemologico; l’unico tentativo piuttosto datato è di Yolton, cfr. Yolton 1956, pp. 20-21, 46. Nemmeno l’esaustiva monografia di Gibson cita fra le fonti lockiane Burthogge, cfr. Gibson 1917. La storiografia prende in considerazione Burthogge come fonte Locke solo in campo politico-religioso: cfr. Tully 1993. 8 L’orgogliosa ignoranza deriva dalla pretesa della mente di estendere la propria conoscenza anche al di là dei limiti delle cose che le competono, soprattutto in campo metafisico e teologico. Burthogge afferma che la presunzione di essere onniscienti è diretta conseguenza del fatto che non si conosce propriamente e in modo specifico alcuna cosa. Il vero saggio è invece chi sa che l’ignoranza propria e degli altri è il vero oggetto di conoscenza, cioè il punto di partenza da cui deve prendere le mosse il processo cognitivo42: i limiti della ragione sono il territorio entro il quale l’uomo deve esercitare la propria conoscenza. Lo zelo ignorante, consiste nella difesa appassionata di una posizione, o un’opinione, senza avere una conoscenza precisa dell’argomento e assumendo principi senza alcun fondamento. Si tratta di un tipo di errore piuttosto comune fra i ferventi religiosi, ma anche fra i filosofi settari, che sono qui presi di mira43. In generale, Burthogge è contro ogni sorta di fanatismo tanto religioso quanto filosofico perché obnubilerebbe gli sforzi della ragione volti a portare la religione e la filosofia sotto il suo dominio44. Il ragionamento impertinente, il quale è causa di tutti gli altri tipi di errori, si può manifestare in diversi modi. In primo luogo quando si passa da un argomento all’altro nel proprio ragionamento, senza che fra i due ci sia una connessione o un accordo. Ma, soprattutto, esso accade quando in un ragionamento si prende in considerazione un solo e semplice mezzo (o termine medio in caso dei sillogismi) e si conclude in modo precipitoso da una cosa all’altra45. Una volta esposti gli errori in cui la mente cade, Burthogge si concentra sul principale argomento del proprio trattato, ovvero la ragione e sui suoi interessi in campo fisico e religioso, al fine di determinare in che modo sia possibile scoprire ed assicurare la verità attraverso i suoi ragionamenti e in che modo si dia loro assenso e approvazione46. La ragione può essere considerata in tre differenti modi. In un senso molto ampio essa coincide con la mente e con l’intelletto e come tale essa esercita tre Organum, p. 6. Organum, pp. 7-8. 44 Cfr. Ayers 2005, p. 180. 45 Organum, pp. 8-9. 46 Organum, p. 9. 42 43 9 operazioni particolari47: 1) l’apprensione dei termini semplici; 2) la composizione di questi termini attraverso affermazioni e negazioni; 3) il discorso che è illazione di una cosa da un’altra48. Questa idea di ragione era piuttosto comune fra gli aristotelici del periodo, che solevano identificare con queste tre operazioni gli atti specifici dell’intelletto e, su questi atti, costruivano il loro sistema logico in modo progressivo, dal più semplice elemento logico al più composto e complesso. Come si vedrà, tuttavia, se per gli aristotelici l’analisi delle operazioni della mente si svolgeva su due piani distinti, quello logico e quello psicologico, per Burthogge questi due aspetti vengono a fondersi l’uno con l’altro. In un senso più stretto, poi, la ragione riguarda in modo particolare l’ultima di queste operazioni, il discorso, attraverso il quale la mente argomenta e inferisce. Non a caso la ragione si dice tale per via del ragionamento, che è appunto la terza, ultima e più complessa operazione della mente. In un senso più specifico o appropriato – e qui si vede tutto il retaggio religioso di Burthogge – per ragione è da intendere tutto ciò che è opposto alla fede e alla rivelazione49. In Burthogge opposto non vuol dire contrario o contradditorio, ma significa semplicemente che la sfera della razionalità umana è tutt’altra cosa rispetto alla sfera rivelata dalla fede. Sono due sfere complementari che investono l’intera esperienza umana50, ma l’una sancisce i limiti dell’altra. La ragione di cui vuole trattare Burthogge in questo suo scritto è quella facoltà per la quale un essere umano è detto razionale e intelligente, così come ad esempio la vista è quel tipo di facoltà per la quale un essere umano è detto vedente. Più in particolare, spiega Burthogge, la ragione è quella facoltà per la quale l’uomo è detto capace di compiere le sue operazioni più specifiche, così come appunto la vista è quella facoltà che definisce l’uomo come capace di vedere. Si tratta di una piccola annotazione certo non priva di significato. Burthogge sta caratterizzando la ragione e il soggetto non da una prospettiva Burthogge usa interscambiabilmente i termini “ragione” e “intelletto”. Preferisce solitamente usare la nozione di “ragione” quando si riferisce alla più complessa operazione della mente, cioè il ragionamento. Quando tratta invece di apprensione semplice preferisce usare il termine “intelletto”. 48 Organum, pp. 9-10. 49 Organum, p. 10: «But reason is appropriately taken, or most strictly, as it is oppos’d to Faith and Revelation, of which hereafter». 50 Organum, p. 10. 47 10 ontologico-sostanzialista, ma dal punto di vista funzionalistico, secondo le sue operazioni e i suoi atti, e questo perché l’atto della ragione è ciò che permette di conoscere la ragione stessa come facoltà e ne descrive la propria natura specifica. Infatti, spiega Burthogge, la mente è cosciente delle sue operazioni e dei suoi atti nel momento in cui li effettua e ha un immediato riscontro del loro risultato, mentre non vede e non è conscia di se stessa, se non appunto per mezzo di tali atti51. Quindi per Burthogge è chiaro che non si conoscono le facoltà cognitive in sé, ma le si conoscono in relazione ai loro atti ed esse non sono altrimenti concepibili se non per mezzo di questi ultimi52. L’osservazione di Burthogge cela una riflessione sullo statuto dell’autocoscienza e dell’Io. Il soggetto autocosciente nella sua identità come “Io” non è determinato ontologicamente come una sostanza, bensì come un’attività o meglio come un aggregato dei suoi atti cognitivi. Nell’Essay upon Reason Burthogge è particolarmente chiaro in merito: la mente non è una semplice sostanza pensante, distanziandosi dalla concezione di contemporanei come Descartes, che la considera come una res cogitans, o come Spinoza, per il quale la mente è l’idea di un corpo attualmente esistente53. La mente per Burthogge è l’immediato soggetto o principio di ogni pensiero, è centro di energia e attività, non è perciò “sostanza pensante”, ma è causa efficiente del pensiero ed è per questo che essa è in primo luogo determinata dalle facoltà concettive e cogitative54. Esse sono principalmente tre: il senso, l’immaginazione e la ragione. Burthogge specifica che tutte queste facoltà concordano insieme e concorrono nel processo cognitivo; esse sono facoltà meramente mentali e spirituali che non hanno nulla di meccanico e materiale55. Burthogge nega quindi ogni possibilità di concepire la mente come l’epifenomeno o il risultato di processi materiali. Egli aggiunge che queste facoltà concettive e cogitative sono tutte delle cogitazioni (cogitations). Per cogitazione egli intende un’affezione accompagnata Organum, p. 10; Essay, pp. 55-56. Essay, p. 56. 53 Essay, pp. 105-107. 54 Essay, p. 107. In questo caso è strabiliante la somiglianza della caratterizzazione della mente come centro di energia e attività con la monade leibniziana. Allo stato delle cose, tuttavia, non si può affermare che Burthogge sia stato fonte di Leibniz. 55 Essay, p. 57. 51 52 11 da coscienza. Tale tipo di affezione cosciente, o cogitazione, viene definita specificatamente conoscenza56. La conoscenza stessa può essere considerata secondo un duplice aspetto: o in relazione all’oggetto conosciuto ed è chiamata apprensione (o percezione cosciente), o rispetto all’immagine e all’idea attraverso la quale si percepisce e si conosce l’oggetto ed è chiamata propriamente concezione57. Dunque, la differenza che sussiste per Burthogge fra apprensione e concezione è che la concezione riguarda l’immagine o l’idea, mentre l’apprensione riguarda la percezione cosciente dell’oggetto. L’apprensione dell’oggetto, tuttavia, non avviene mai senza la concezione, infatti l’apprensione è una forma di conoscenza per mezzo dell’idea o dell’immagine data dalla concezione. In questo senso tutte le facoltà cognitive dell’uomo riposano sulla concezione ed è per questo motivo che si può ben definire la posizione di Burthogge come eminentemente concettualista. Lo stesso Burthogge afferma che l’atto della concezione è uguale all’atto del pensiero e caratterizza tutte le facoltà della mente, che sono appunto chiamate, per tale motivo, concettive e cogitative58. A partire dall’analisi della concezione, Burthogge vuole spiegare l’origine della coscienza che è sì logicamente distinta dalla concezione, ma mai comunque divisa da essa. La coscienza sorge normalmente, secondo Burthogge, dalla distinzione e dalla differenza che c’è fra le diverse concezioni nella mente. L’esempio che propone il filosofo inglese è particolarmente chiaro: se una persona vede sempre e solo un oggetto, non avrà mai la percezione di essere affetto da questo oggetto, cioè non sarà mai cosciente dell’effetto che l’oggetto produce sulla sua mente. In altre parole, se per ipotesi una persona fin dalla nascita potesse solo vedere, e non potesse utilizzare gli altri sensi, e vedesse solamente “bianco”, non avrebbe affatto la coscienza di vedere. La coscienza emerge solo quando da questo bianco si nota qualcosa di diverso e differente dal bianco stesso, come per esempio un punto nero. Così, conclude Burthogge, è dalla differenza delle concezioni nella mente, cioè dalle diverse affezioni delle facoltà da parte degli oggetti, che nasce la coscienza. Dunque, la concezione è una Ibidem. Ibidem. 58 Essay, p. 58. 56 57 12 modificazione della mente e la cogitazione è la concezione accompagnata dalla coscienza. La coscienza di una concezione, cioè la cogitazione, è un senso di alterazione che avviene nella mente attraverso la concezione stessa 59. In altri termini, per Burthogge ogni pensiero o cogitazione è accompagnato da coscienza, tuttavia non tutte le idee o immagini che sono concepite nella mente sono necessariamente e per forza coscienti. L’alterazione della mente avviene in primo luogo attraverso la sensazione degli oggetti, cioè quando la mente è conscia che essi esercitano un’impressione su di essa. La sensazione diviene così, nell’empirismo di Burthogge, la conoscenza base per la formazione di ogni concezione e coscienza, opponendosi in questo esplicitamente alle posizioni di Descartes e Honoré Fabri, i quali non solo avevano negato che la sensazione fosse un tipo di conoscenza sempre accompagnata da coscienza, ma anche che essa fosse un tipo particolare di facoltà che avesse a che fare con i concetti60. Per Burthogge è tuttavia evidente che la sensazione è una capacità che appartiene a tutti gli animali, per cui ciò che distingue la mente umana da tutte le altre è la sua applicazione all’oggetto, un atto questo chiamato mentalizzazione o attenzione della mente (minding/attention of mind)61. Senza attenzione non ci sarebbe alcuna concezione e così alcuna coscienza. Tuttavia, Burthogge non nega che gli animali abbiano coscienza; infatti siccome l’essere coscienti non è altro che avere una sensazione dell’alterazione operata nella mente da nuove affezioni, anch’essi a buona ragione si possono dire dotati di coscienza, ma il loro livello di attenzione si ferma alla sensazione stessa, mentre nella mente umana procede fino alla ragione62. Burthogge procede così a formulare una rigorosa distinzione fra sensazione, immaginazione e ragione. La sensazione è ciò che fa conoscere gli oggetti esterni, i quali sono conosciuti per mezzo di immagini o apparenze o per mezzo dei sentimenti che eccitano gli organi esterni63. L’immaginazione, invece, è una specie di senso interno, cioè una rappresentazione dell’immagine o dei sentimenti affetti dai sensi. Per ultimo, la ragione è la facoltà attraverso la quale si conoscono Essay, p. 59. Essay, pp. 59-61. 61 Essay, p. 61. 62 Ibidem. 63 Essay, p. 62. 59 60 13 gli stessi atti della mente e gli oggetti esterni attraverso idee o nozioni. Il processo che conduce dai sensi alla ragione è così una specie di sublimazione (sublimation). Infatti, la sensazione è in un certo senso immaginazione, perché dalla sensazione si produce un’immagine e l’immaginazione è il richiamo o il ricordo della sensazione. L’immaginazione è però la ripetizione della sensazione fatta dall’interno, mentre la sensazione è l’immaginazione occasionata sempre dall’impressione immediata che proviene dall’oggetto esterno. Insomma, in termini aristotelici, l’immaginazione, che è in diretto contatto con l’oggetto, è la sensazione, mentre se non è a contatto con questo, è propriamente chiamata con il suo nome. La ragione è definita poi da Burthogge come una forma sublimata di sensazione, cioè la percezione cosciente delle cose per mezzo delle nozioni e non attraverso immagini o rappresentazioni sensibili delle cose. Così in definitiva Burthogge afferma che le fonti della conoscenza sono riducibili a due: la sensazione e la ragione, mentre l’immaginazione svolge un ruolo di semplice raccordo e congiunzione fra queste due facoltà. Tutta la conoscenza comincia necessariamente dalla sensazione e in ciò sta l’approccio empirico di Burthogge. Tuttavia, non tutta la conoscenza deriva dalla sensazione, dato che una vera conoscenza è possibile solo mediante le nozioni della ragione ed è per questo che la prospettiva di Burthogge può anche essere definita concettualista64. A onor del vero, sarebbe meglio caratterizzare la filosofia di Burthogge come empirico-concettualista; infatti, sensazione e ragione interagiscono in un unico processo cognitivo al fine di garantire alla mente la conoscenza degli oggetti. Il processo cognitivo è caratterizzato da due operazioni essenziali: 1) l’apprensione; 2) il giudizio65. 4. Apprensione La prima e più importante operazione della mente è l’apprensione che è la capacità di vedere o percepire le cose, ed è in relazione alla mente così come la 64 65 Essay, p. 63. Organum, pp. 10-11. 14 vista è in relazione all’occhio66. Questo non significa che l’apprensione sia un diverso nome dato alla capacità di vedere, infatti, l’apprensione tratta in generale la capacità di sentire e percepire ciò che la vista stessa e gli altri sensi le forniscono. L’analogia posta da Burthogge significa piuttosto che l’apprensione sta alla mente in modo meramente strumentale, come un organo che deve effettuare specifiche funzioni. Burthogge considera l’apprensione da due punti di vista differenti, uno rispetto all’uso ordinario che concerne le parole, il secondo – quello più proprio che riguarda l’aspetto epistemologico – concerne le nozioni67. Poco c’è da dire sul primo aspetto dell’apprensione se non che è quell’operazione che permette la comprensione delle parole. Questa comprensione avviene su due livelli di significato delle parole, uno verbale e uno reale. Questa distinzione nasce a causa dei limiti della ragione umana che spesso assegna parole e significati a cose che non sono a loro appropriati. Al fine di cogliere il significato reale delle cose, cioè quando il significato reale e quello verbale vengono a coincidere, le cose devono essere apprese chiaramente e distintamente dalla mente. Diviene così necessaria l’analisi dell’apprensione non nel suo uso ordinario, ma in quello più specifico che concerne il processo cognitivo. Per chiarezza (clearness) dell’apprensione Burthogge intende la medesima cosa che per chiarezza della vista, cioè una certa luce per vedere le cose al di fuori dell’oscurità68. La luce intellettuale è ciò che permette all’intelletto di vedere e apprendere il suo oggetto come qualcosa di manifesto. Essa è chiamata anche luce naturale o della ragione ed è opposta alla luce della rivelazione. Alcune cose, afferma Burthogge, possono essere viste da entrambe le luci, le quali comunque non si contraddicono mai l’una con l’altra: infatti, ciò che è vero per una luce è vero anche per l’altra69. La chiarezza dell’apprensione concerne così principalmente la capacità di individuare l’oggetto proprio della conoscenza e i limiti entro cui questa conoscenza può essere esercitata. Organum, p. 11; Essay, p. 66. Essay, p. 66. 68 Organum, p. 19. 69 Organum, pp. 19-20. 66 67 15 La distinzione (distinctness), invece, è la capacità di formare la nozione di una cosa in modo tale che essa si possa distinguere da tutte le altre. La distinzione dell’apprensione si acquisisce principalmente o attraverso un processo distintivo (distinction) o attraverso la definizione (definition). Il processo distintivo consiste nel determinare uno specifico senso di una cosa attraverso una particolare caratteristica, mentre la definizione consiste in una descrizione, cioè in una rappresentazione di una cosa attraverso i suoi attributi. Più una cosa è caratterizzata, cioè più note caratteristiche possiede, e più distinta è la conoscenza che la mente ha di essa. Per raggiungere l’adeguata chiarezza e distinzione nell’apprensione, secondo Burthogge bisogna fare attenzione a quattro condizioni. La prima condizione è avere una debita, adeguata e significativa rappresentazione dell’oggetto, in modo tale che si possa procedere con l’esposizione di essa in modo didattico dagli elementi più semplici a quelli più complessi70. La seconda condizione è avere una giusta disposizione delle facoltà cognitive e dei temperamenti, cioè non essere corrotti dai pregiudizi dell’educazione, dei costumi, delle passioni e dei falsi presupposti. Ciò consiste in campo epistemologico in una certa “sanità della mente” (sanity of mind), alla quale corrisponde in campo etico una “santità della mente” (sanctity of mind) per agire in modo morale71. La terza condizione è avere una debita distanza dall’oggetto, cioè non osservarlo né da troppo vicino né da troppo lontano, altrimenti sfuggirebbero da una parte l’insieme dell’oggetto e la sua organicità e dall’altra gli elementi più piccoli72. Infine è necessaria una dovuta attenzione all’oggetto in modo da formare di esso una nozione corretta; una particolarità questa che, come si è visto, contraddistingue in modo precipuo gli esseri umani73. Una volta determinate le caratteristiche dell’apprensione è possibile comprendere la duplice funzione che essa svolge nel processo cognitivo. Da una Organum, p. 27. Organum, p. 28. 72 Organum, pp. 28-29. 73 Organum, p. 29. 70 71 16 parte l’apprensione è in relazione alle cose così come sono in se stesse e dall’altra è in relazione alle cose così come sono notate o osservate. Burthogge è particolarmente interessato a quest’ultimo aspetto. “Notare” ha per Burthogge diverse accezioni: una prima riguarda la capacità di riconoscere qualche cosa rispetto alle altre; una seconda accezione considera “notare” come registrare; infine, in una terza e ultima accezione “notare” significa caratterizzare qualcosa in un particolare modo affinché questa cosa possa essere sostituita dalla nota stessa. In Burthogge il confine di queste accezioni è molto vago e le diverse funzioni del “notare” si accavallano l’una con l’altra74. Le cose sono designate o da semplici parole o da proposizioni, che sono parole congiunte in affermazioni e negazioni. Sia le parole sia le proposizioni sono apprese dalla mente solo in quanto essa concepisce il loro senso. Il senso (o significato) – Burthogge ancora non distingue questi due elementi – è il motivo e l’oggetto immediato dell’apprensione, così come ad esempio il colore lo può essere della vista. Infatti, l’occhio non vede se non rispetto a qualcosa che è colorato, così la mente non comprende se non il senso (sence) di qualcosa75. Il senso viene ad essere per Burthogge il proprio, adeguato e immediato oggetto della mente percepito per mezzo dell’apprensione76. In questo modo, il filosofo inglese si scaglia conto coloro i quali sostengono che la verità sia l’oggetto proprio e adeguato dell’intelletto. La verità entra in gioco solo con l’operazione del giudizio – da non confondere con l’operazione di combinazione dei termini semplici in proposizioni – la quale esprime il suo assenso nei confronti dell’oggetto appreso. Infatti, è possibile apprendere il senso di una cosa, ma rifiutarne l’assenso, mentre non è affatto possibile il l’inverso perché non ci sarebbe alcun oggetto su cui assentire. Ma che cosa intende veramente Burthogge per “senso”? Sulla scia delle posizioni concettualistiche di Hobbes e Coke77, Burthogge afferma che il senso è la nozione che si forma della mente al posto di una cosa, così come il colore è un sentimento generato e causato nell’occhio da un’impressione dell’oggetto su di Organum, p. 11. Organum, p. 11: «Sence or Meaning is the Motive and immediate Object of Apprehension, as Colour is of Seeing». 76 Ibidem. 77 Sul concettualismo di Hobbes cfr. Dal Pra 1962; Pacchi 1965; Gargani 1983. 74 75 17 esso78. Il senso perciò è qualcosa che è generato completamente nella mente e come tale viene appreso rispetto ad un oggetto che è nel mondo, fuori dalla mente. Per capire bene cosa intenda Burthogge per “senso” è necessario analizzare la sua dottrina delle nozioni, che trasforma in modo decisamente originale la dottrina aristotelica delle primae e secundae notiones, la quale aveva avuto larga diffusione con la disseminazione delle opere degli aristotelici patavini in Inghilterra e con le rielaborazioni da parte degli aristotelici britannici79. Il concetto di “nozione” ha due significati. Il significato più ampio definisce la nozione come qualsiasi concezione o pensiero formato nella mente dalle impressioni che gli oggetti hanno esercitato sui sensi. Sotto quest’aspetto, Burthogge nega la possibilità che vi siano delle idee innate nell’intelletto: tutte le nozioni provengono dai sensi. Tuttavia, Burthogge ammette la possibilità che nella mente ci siano delle nozioni che appaiono innate e tali nozioni sono dette prolessi (prolepses), anticipazioni o principi80. Queste anticipazioni, o principi, non sono veramente innate, ma sono inculcate e apprese molto presto, quando si è ancora infanti, tanto che vengono conosciute inconsciamente e sembrano perciò essere innate. Per esempio il principio secondo il quale “il tutto è maggiore della parte” sembra essere innato, dato che la mente fornisce ad esso un naturale assenso81. Ma, invero, si può dire di conoscere questo principio solo dopo aver conosciuto i concetti di parte, tutto, maggiore e minore. A fianco dell’accezione generale di “nozione” come pensiero, ce n’è un’altra più ristretta e più interessante che si riferisce alla nozione come modus concipiendi. Come si è già accennato non si tratta di una novità assoluta: già Zabarella, infatti, identificava le secundae notiones con i modi considerandi82, e Organum, p. 12: «Sence or Meaning is that Conception or Notion that is formed in the Mind, on a proposal to if of an Object […] as Colour is that Sentiment begotten, and caused in the Eye, upon the impression of its Object on it». 79 Cfr. Zabarella 1597, c. 6 A-B: «Sunt autem primae notiones nomina statim res significantia per medios animi conceptus, ut animal et homo, seu conceptus ipsi, quorum haec nomina signa sunt […] Nominibus quidem primae notionis statim res ipsa significata extra animum respondet, quo circa haec opus nostrum esse non dicuntur: nemo enim coelum, elementa, animalia et stirpes opus humanum esse diceret […] secundae vero sunt alia nomina his nominibus imposita, ut genus, species, nomen, verbum, propositio, syllogismus, et alia eiusmodi sive conceptus ipsi, qui per haec nomina significantur». Dottrine simili si possono trovare nei manuali di Mark Duncan, Robert Balfour, Samuel Smith, Robert Sanderson, John Flavell, così come nell’opera di Thomas Hobbes. 80 Organum, pp. 37-38; Essay, p. 73. 81 Organum, p. 39. 82 Cfr. Pozzo 1998. 78 18 così poi facevano tutti gli aristotelici britannici della prima metà del XVII secolo. L’aspetto interessante della teoria di Burthogge è che applica sistematicamente questo concetto alla sua teoria gnoseologica. La nozione come modus concipiendi è un particolare modo di concepire le cose per il quale esse non sono veramente le cose stesse, ma sono propriamente oggetti: oggetti del pensiero. Infatti, in ogni cosa, secondo Burthogge, c’è sempre qualcosa di puramente oggettivo o nozionale (notional) che è appunto il modo in cui essa viene appresa83. Così per Burthogge la ragione non apprende mai direttamente le cose in se stesse o come aspetti di esse, ma le apprende rispetto a certe nozioni che fanno di esse degli oggetti della mente84. Queste nozioni o modi concipiendi sono definite da Burthogge come enti di ragione che non hanno fondamento nelle cose stesse, ma hanno un “essere formale” solo nella mente che li struttura85. In particolare questi modi concipiendi per Burthogge sono l’entità (sostanza-accidente), la quantità (tutto-parte, grande-piccolo), la qualità e l’azione (causa-effetto)86. Si tratta di una lista che evidentemente Burthogge modella sulla tavola delle categorie aristoteliche e che differisce sostanzialmente, sebbene non funzionalmente, dalla lista dei modi considerandi della logica aristotelica moderna: essa comprendeva in particolare “genere”, “specie” e “differenza specifica”, ma lasciava anche aperte le porte alla possibilità di aggiungere altri concetti come modi di considerare, concepire e conoscere le cose87. È interessante inoltre notare come i modi concipiendi di Burthogge siano sia funzionalmente, ma anche nel loro elenco, molto simili alle categorie dell’intelletto di Kant. Proprio come il filosofo di Königsberg, un secolo prima Burthogge affermava che questi modi concipiendi erano delle nozioni primitive (primitive notions) sotto le quali comprendere e ricevere gli oggetti88 e aggiungeva che nessuna cosa poteva essere compresa dall’intelletto se non per mezzo della nozione dell’entità, della sostanza o dell’accidente, della causa o dell’effetto, della quantità o della qualità89. Il Essay, p. 74. I termini “oggetto” e “oggettivo” va considerato alla maniera scolastica come “oggetto della mente” e “mentale”. 84 Essay, p. 75. 85 Essay, p. 80. 86 Essay, pp. 75, 77. 87 Cfr. Organum, p. 29. 88 Essay, p. 77. 89 Essay, pp. 75-76. 83 19 filosofo aggiungeva anche che nessuna sostanza, nessun accidente, nessuna causa, nessun effetto, esistono nelle cose, ma che essi sono solo nozioni (abiti delle nozioni, dresses of notions), “filtri” attraverso i quali leggere la realtà90. Ne segue così un corollario fondamentale dell’epistemologia di Burthogge: le cose non sono mai per la mente così come sono, ma sono sempre così come la mente le concepisce, rafforzando ancor di più la sua posizione concettualista. Inoltre, se, come si è detto, il senso è la nozione che si forma nella mente della cosa, si può dire che la mente non conosce mai le cose così come sono, ma sempre e solo così come le significa, cioè secondo il senso che attribuisce a esse. Le cose per gli uomini, afferma esplicitamente Burthogge, non sono mai conosciute come realmente sono, ma sono sempre conosciute per analogia91, cioè le cose sono per noi così come esse vengono conosciute per mezzo dei modi concipiendi92. Quindi gli oggetti sono solo in quanto “prodotti” delle nostre facoltà mentali e senza di esse non hanno alcuna realtà. Egli aggiunge che gli oggetti non sono nemmeno da considerarsi come delle rappresentazioni o immagini che in qualche modo corrispondano direttamente alla cosa, opponendosi così alla posizione corrispondentista e rappresentazionalista all’epoca ancora sostenuta parzialmente da Smiglecki e Hobbes. Infatti, la ragione non si riferisce immediatamente alle cose, dalle quali scaturirebbero immagini e rappresentazioni, ma piuttosto si riferisce alle sensazioni93. Inoltre, aggiunge Burthogge, la ragione è una facoltà che non attinge immediatamente il particolare dalla natura, ma piuttosto procede per mezzo di astrazione e ha a che fare con gli universali. La ragione perciò non tratta di immagini o rappresentazioni, ma di loro sublimazioni, anche se è cosciente che tali astrazioni sono concetti inadeguati per spiegare esaustivamente il particolare. Per ultimo, così come l’oggetto immediato dei sensi è ciò che affetta il sentimento, l’oggetto della ragione è qualche cosa di intellettuale, escludendo così le immagini che derivano o dai sensi o da un loro ricordo. Essay, pp. 80-81. Organum, p. 12: «To understand this, we are to consider, That to us men, things are nothing but as they stand in our Analogie; that is, are nothing to us but as they are known by us»; Essay, p. 76. 92 Organum, p. 12. 93 Essay, p. 77. 90 91 20 Le cose conosciute, cioè gli oggetti, sono solo apparenze e fenomeni generati dalle impressioni sulle nostre facoltà. Gli oggetti della conoscenza perciò non sono più le cose in se stesse, ma le cose così come appaiono e vengono significate dalla mente94. Ogni facoltà, afferma Burthogge, ha un ruolo decisivo «in making its immediate Object»95; infatti, così come l’occhio “fa” il colore, l’orecchio il suono, la fantasia le immagini, così anche l’intelletto costruisce i propri concetti (o nozioni) attraverso i quali apprende le cose96. Nell’affermare ciò, Burthogge non sta solo dicendo che le proprietà secondarie come il colore e il suono hanno origine nella mente e non competono alle cose, ma sta sancendo anche che ogni proprietà degli oggetti e gli oggetti stessi non sono altro che prodotti del pensiero, degli entia cogitationis97. La realtà di Burthogge viene così privata da ogni statuto ontologico e assurge a mera virtualità: ogni ens reale diviene un ens rationis. Infatti, questi entia cogitationis sono tutte delle apparenze (appearances) che non sono, usando termini legati alla Scolastica, «properly and formally in the things themselves»98, cioè non si può sapere se essi si riferiscano realmente e veramente alle cose e abbiano una corrispondenza con esse. Ciò di cui si è certi, è che le apparenze hanno uno statuto ontologico virtuale solo in relazione alle facoltà cognitive e questo sembra evidente a Burthogge ancora una volta se si pensa ai sensi: nessun colore può essere se non nell’occhio, nessun suono può essere se non nell’orecchio, così nessuna nozione e nessun senso saranno se non nella mente. Gli entia cogitationis sembrano essere negli oggetti anche senza le facoltà cognitive, ma, aggiunge Burthogge, lo sono nella stessa misura in cui un’immagine è (riflessa) in uno specchio o nell’acqua99. Quindi tutte le cose in quanto entia cogitationis sono in funzione delle facoltà cognitive, cioè entità della sensazione, se oggetti immediati dei sensi, immagini, Non del tutto a torto in questa dottrina Landes aveva visto in nuce la contrapposizione kantiana fra fenomeni (come cose che appaiono) e noumeni (come cose in sé). 95 Organum, p. 12. Il corsivo è mio. 96 In questo senso la prospettiva di Burthogge può essere considerata come un costruttivismo debole, cioè che si conosce solo ciò che si costruisce, ma si è coscienti di conoscerlo solo come apparenza. Il costruttivismo forte, invece, afferma che ciò che si costruisce o si fa è la realtà. Sui diversi tipi di costruttivismo, cfr. Rockmore 2005. 97 Organum, p. 12. 98 Ibidem. 99 Organum, p. 13 94 21 se oggetti dell’immaginazione, e entità mentali (o nozioni), se oggetti della ragione100. Gli entia cogitationis (cogitable beings) non hanno perciò alcun fondamento nella realtà senza le facoltà cognitive, ma sono effetti di esse: sono in un certo senso chimere o finzioni in relazione ai sensi all’immaginazione, mentre sono semplici nozioni in relazione all’intelletto101. Il fatto che la ragione non percepisca la realtà delle cose come sono in se stesse e che essa dipenda dalla mente, non significa che nulla sia reale 102. Burthogge si rende conto dell’originalità di questo suo argomento e della necessità che esso venga difeso103. È vero che per mezzo dei modi concipiendi conosciamo le cose così come appaiono alla mente e non come sono, tuttavia bisogna ammettere che queste in un certo senso sono, cioè che abbiano un fondamento (ground/foundation) nelle cose e tale fondamento consiste proprio nell’essere causa (cause) e occasione (occasion) della produzione delle apparenze nella mente104. In questo senso Burthogge ricorre, come farà Kant, alla cosiddetta “groundtheory”, secondo la quale è vero che le cose vengono conosciute come appaiono, ma queste non sono create completamente dalla mente. Le cose hanno una realtà in se stesse che è sconosciuta, ma che è principio della conoscenza: ci sono delle cose del mondo che non sono conoscibili così come sono, ma esistono realmente. L’esistenza di queste cose ha senso solo nella misura in cui esse si fanno conoscere in un particolare modo, cioè appaiono alla mente attraverso i suoi vari modi concipiendi. In termini scolastici – così come Burthogge si esprime – gli oggetti della conoscenza sono reali non formalmente, ma fondamentalmente, cioè sono solo occasionalmente nelle cose, mentre sono sempre propriamente nella mente105. In questo senso, la nozione mentale si chiama oggetto in quanto oggetto Ibidem. Organum, p. 14. 102 Essay, p. 84. 103 Essay, pp. 86-89. 104 Organum, p. 12: «they are in our Faculties not in their Realities as they be without them, no nor so much as by Picture and proper Representation, but onely by certain Appearances and Phaenomena, which their impressions on the Faculties do either cause or occasion in them» 105 Organum, p. 14: «they are real (as a School-man would express it) not formally, but fundamentally; they are inchoately and occasionally in the things, but not consummately and 100 101 22 della mente nel processo cognitivo e corrisponde a ciò che gli scolastici chiamavano conceptus objectivi. L’epistemologia di Burthogge è così ancora legata ad un modello essenzializzato di gnoseologia scolastica, ma trasforma questi temi in una più elaborata logica delle facoltà e teoria della conoscenza che erano del tutto sconosciute in quel periodo, e che lasciano preconizzare alcuni aspetti simili all’epistemologia kantiana. L’oggetto della conoscenza è semplicemente un’apparenza, un fenomeno, ma ben fondato nella realtà. Burthogge riconosce che questa sua posizione possa avere un antecedente in Platone, per il quale le cose del mondo sono solo ombre e apparenze e il reale risiede nel mondo ideale106. Tuttavia, il filosofo inglese afferma che solo ciò che si conosce è un’apparenza, e che ciò che è reale è nel mondo esterno e non nel mondo delle idee. La teoria di Burthogge così si svincola da una certa tradizione platonica professata da molti pensatori al suo tempo107. Il modello di conoscenza elaborato da Burthogge è perciò intenzionale (intentional), piuttosto che reale108: tutto ciò che è conosciuto è un’idea, un concetto oggettivo, appunto un cogitabile che dà senso alle impressioni che provengono dalla sensazione. È proprio nell’intenzionalità della conoscenza che sta il nesso fra il “senso” e la nozione. Come si è visto, Burthogge identifica il senso con la nozione mentale in quanto oggetto del pensiero, ma li distingue dal punto di vista funzionale: si parla di senso solo in relazione a parole o proposizioni, mentre si parla di nozione solo in relazione agli oggetti della conoscenza. È chiaro però per il filosofo inglese, riprendendo su questo punto la posizione concettualista di Hobbes, che è impossibile apprendere una parola o una proposizione senza il senso, né il senso senza una corrispondente nozione; infatti, conoscere il senso di una parola significa in primo luogo costruire una nozione di essa. Perciò i concetti hanno una priorità epistemologica anche rispetto al senso e alla parola e non solo rispetto all’oggetto che viene conosciuto per mezzo dei modi concipiendi. formally but in the Faculties; not in the things, but as the things relate to our Faculties; that is, not in the things as they are Things, but as they are Objects». 106 Essay, pp. 88-89. 107 Sull’epistemologia dei platonici di Cambridge cfr. Brown 2010. 108 Essay, p. 82. 23 Rimane però da risolvere la non facile questione di come le nozioni, per mezzo del senso, corrispondano alle cose del mondo, soprattutto se è vero che abbiano un fondamento in esso. Alcune posizione concettualiste, come quella di Zabarella, lasciavano irrisolto il problema, stabilendo una perfetta corrispondenza fra le cose e le nozioni mentali; altre, come quella di Hobbes, ricorrevano all’ipotesi più raffinata della mente specchio del mondo. Burthogge propone, invece, una soluzione diversa. Il senso è dato solo da una congruità nell’oggetto rispetto alle facoltà, dove per oggetto si intende sempre un oggetto mentale: «Sence, Meaning, or Notion arises from a Congruity in the Object to the Faculty»109. In altri termini l’oggetto in quanto concetto mentale deve essere congruo alle condizioni e alle leggi interne della mente, altrimenti questo oggetto sarebbe un oggetto del tutto insignificante, sebbene ancora rappresentabile. Spiegare bene che cosa sia questa congruità risulta piuttosto difficile anche per Burthogge, e si ha l’impressione che, come Zabarella e Hobbes, voglia in parte sorvolare sopra l’argomento; ma siccome su questa questione si gioca tutta la sua logica, il filosofo inglese cerca di abbozzare una risposta, ricorrendo ancora una volta al parallelo con la sensazione. Domandarsi perché non si possa comprendere una parola o una proposizione senza senso, che è laddove non vi è congruità nell’oggetto rispetto alla facoltà, significa paradossalmente chiedersi perché non si possano vedere o udire i gusti, o gustare e odorare i suoni, o così gustare, udire e odorare i colori 110. La ragione può comprendere solo ciò che ha un senso, quel senso che essa stessa fornisce a ciò che è dato dall’esperienza. Un senso però, è bene ricordarlo, che deve essere congruo alle facoltà stesse che percepiscono l’oggetto. Ad esempio, se si percepisce un “cavallo”, non può dire di percepire la “cavallinità” o un’animale quadrupede, perché la sensazione sottostà a delle leggi che individuano l’oggetto e che non permettono la considerazione dell’universale. Così parimenti l’intelletto non si occupa uno specifico cavallo, ma con la “cavallinità” secondo le modalità di sostanza-accidente, causa-effetto etc. È chiaro quindi che la congruità di cui parla Burthogge è puramente logicomentale. Infatti, egli si premura di distinguere questo tipo di congruità da quella degli oggetti con se stessi o con altri oggetti: la prima è chiamata congruità 109 110 Organum, p. 15. Ibidem. 24 rispetto alle facoltà o armonia degli oggetti con le loro facoltà, la seconda è chiamata congruità nelle cose o armonia degli oggetti con se stessi111, così come le parti di un corpo organico convengono a costituire la forma del tutto. Il rapporto significazionale fra senso e cosa diviene così per Burthogge totalmente intrinseco alla mente e si fonda sull’idea che ci deve essere adeguatezza e armonia fra l’oggetto concepito e la facoltà che concepisce, cioè nel momento in cui l’oggetto mentale viene formato deve adeguarsi alle condizioni logiche poste dalla mente stessa. Ciò riguarda l’apprensione di oggetti singoli espressi medianti parole. Diversamente accade rispetto alla proposizione e al discorso. Infatti, non è sufficiente conoscere il senso delle parole, bensì bisogna conoscere anche la relazione di congiunzione che sussiste fra esse, la quale non è che un altro concetto mentale o modus concipiendi. L’intera logica di Burthogge si fonda perciò sull’apprensione di una duplice relazione: quella degli oggetti con la loro facoltà e quella fra diversi oggetti espressi dalle parole. 5. Giudizio La seconda operazione specifica della ragione è il giudizio. Questa parte è trattata da Burthogge solo nell’opera del 1677, mentre non è presa in considerazione nell’Essay upon Reason che preferisce, invece, trattare dei problemi legati al rapporto fra mente e corpo che investono la filosofia cartesiana e spinoziana, ma che in questo ambito non concorrono a spiegare la sua teoria epistemologica. Il giudizio è definito come quell’atto dell’intelletto che consente la comparazione di più cose acquisite dall’apprensione al fine di fornire il proprio assenso o dissenso112. L’atto del giudizio è presentato come duplice: il primo aspetto concerne la possibilità di comparare e considerare le cose, mentre il secondo di analizzarle e decretare su di esse. Si tratta di due momenti distinti, nei quali la mente da una parte studia l’oggetto e dall’altra pone il suo assenso o 111 112 Ibidem. Organum, pp. 29-30. 25 dissenso. La prima parte dell’atto del giudizio viene chiamata propriamente ragionamento, mentre la seconda è invece chiamata risoluzione mediante ragione113. Il ragionamento consiste secondo Burthogge nella elaborazione e nell’illustrazione di particolari ragioni. La ragione in quanto motivo è il principio, il fondamento proprio del giudizio intellettuale, cioè la causa per cui l’intelletto assente o dissente su una particolare considerazione o comparazione di più cose. L’assenso prodotto dal giudizio, infatti, è l’approvazione dell’intelletto rispetto alla cosa considerata o alla comparazione effettuata, mentre il dissenso è l’esatto opposto, ovvero la disapprovazione rispetto a ciò che è considerato e viene comparato114. In questi termini, Burthogge fa coincidere l’attività suprema del giudizio con il ragionamento, o, meglio, in piena tradizione aristotelica, con la dimostrazione. Infatti, mostrare la ragione di una cosa significa provarla, cioè argomentarla al punto tale che l’interlocutore non può negare che le cose stiano in quel particolare modo. La logica è proprio quel metodo che insegna a condurre il ragionamento a prove che sono inconfutabili rispetto a ciò che si vuole dimostrare. Ci sono due vie secondo Burthogge per dirigere la mente nel corretto ragionamento: una è connaturata con la ragione, mentre l’altra è insegnata. A queste due vie corrispondono una logica artificiale e una logica naturale. La logica artificiale coinciderebbe per Burthogge con la logica insegnata nelle scuole, la quale è essenzialmente una logica aristotelica. Essa è utile in molti modi, dall’acuire l’ingegno al rendere più sagaci, precise e attente le deduzione115. Tuttavia, ammette Burthogge, la logica artificiale sarebbe completamente inutile senza la logica naturale. Quest’ultima è una logica “universale” che compete anche alle persone semplici e illetterate, ma più in generale a tutti gli uomini116, i quali proprio per la loro comune razionalità, identificata con la logica naturale, possono dirsi uguali. Organum, p. 30. Ibidem. 115 Organum, pp. 30-31. 116 Organum, p. 31. 113 114 26 Essere uguali dal punto di vista razionale significa per Burthogge che, avendo le stesse facoltà, usando lo stesso metodo e partendo dai medesimi principi, il risultato dell’inferenza, cioè la conclusione, non può che essere identico per ogni essere umano. Gli esseri umani ovviamente poi si differenziano nell’uso reale di questa logica, cioè acquisendo con l’esperienza delle particolari abilità che consentono loro di utilizzare tecniche di argomentazione e metodi d’indagine ben specifici che riguardano solo alcuni individui e non altri. La logica quindi insegna come sviluppare queste potenzialità naturali e come usare la ragione a proprio vantaggio. I fini per i quali si può utilizzare la logica sono due, uno è speculativo e uno pratico. Questi due tipi di fine designano anche due funzioni della ragione, la ragione speculativa o teoretica e la ragione pratica117. La ragione speculativa ha lo specifico compito di mostrare se una cosa è vera o falsa, mentre la ragione pratica ha il compito di indicare se una cosa va fatta oppure no118. Queste due funzioni della ragione sono il fondamento rispettivamente del giudizio speculativo e del giudizio pratico. Il giudizio speculativo concerne la verità e la falsità e determina l’assenso o il dissenso, mentre il giudizio pratico decreta la moralità di un’azione, determinando approvazione o biasimo. In particolare Burthogge è interessato al giudizio speculativo, il quale prova che una cosa è vera o mostra che una cosa è falsa. Verità e falsità sono perciò due elementi che contraddistinguono il giudizio dall’apprensione, la quale, invece, considerava solo l’armonia fra l’oggetto e la facoltà preposta per concepirlo, senza valutarne l’essere vero o falso dell’oggetto stesso: infatti, una nozione può essere vera o falsa ma non essere riconosciuta come tale119. Come era lecito aspettarsi, seguendo in questo caso la proposta di Hobbes di origine aristotelica, per Burthogge anche la verità e la falsità sono due attributi che competono esclusivamente alla mente e mai alle cose, dato che essi stanno alla mente così come il bianco e il nero stanno all’occhio: sono attributi mentali del giudizio riguardo l’oggetto concepito120. Si tratta quindi di una concezione meramente Organum, pp. 31-32. Organum, p. 32. 119 Ibidem. 120 Ibidem. 117 118 27 logica della verità. Infatti, Burthogge nega la concezione metafisica della verità propria dei platonici di Cambridge, per la quale essa sarebbe la conformità delle cose con le idee originarie nell’intelletto divino. Quest’ultima riguarderebbe le cose così come sono conosciute da Dio: un tipo di conoscenza del tutto inaccessibile all’uomo. I limitati poteri della ragione umana hanno a che fare con un tipo di verità che è semplicemente logica, cioè che stabilisce come sono le cose così come appaiono alla mente121. Per spiegare la sua concezione di “verità”, Burthogge prende in esame le dottrine a quel tempo più in voga, in particolare quella cartesiana e quella di Herbert di Cherbury. La teoria della verità di Descartes è ricondotta a quella degli stoici e affermerebbe che non ci sarebbe altra regola, altro segno, altra misura per distinguere ciò che è vero che una chiara e distinta percezione. Burthogge però critica subito questa posizione, affermando che la percezione non potrà mai essere la causa e il fondamento dell’assenso di cui gode la verità, ma solo una condizione di essa. Infatti la verità è qualcosa nell’oggetto concepito e che invita l’assenso, mentre la percezione chiara e distinta non è nell’oggetto, bensì dell’oggetto. Questo non significa per Burthogge che la verità sia nelle cose; essa rimane sempre nella mente ma appunto in quanto mentale essa scaturisce dall’oggetto concepito e non è propriamente dell’oggetto: gli oggetti mentali non sono mai veri o falsi, è la mente che li giudica tali. Burthogge sembra più vicino alla concezione di verità proposta da Cherbury, per il quale essa è una sorta di accordo o armonia delle cose alle facoltà della mente che invita a un libero e pieno assenso122. Tale definizione, tuttavia, era stata utilizzata da Burthogge per spiegare la congruità delle cose percepite dalla mente, non per la verità. Tale congruità non può essere quindi il fondamento della verità, ma piuttosto sarà quella dell’apprensione stessa, sia in relazione ai sensi che apprendono cose sensibili, sia in relazione all’intelletto che apprende cose intelligibili. Organum, p. 33. Organum, pp. 35-36. Cfr. Cherbury 1633, p. 68: «est enim veritas (uti saepe monuimus) Harmonia quaedam inter objecta et facultates Analogas, habens sensum gratissimae et lubentissimae sine ulla haesitatione Respondedntem». 121 122 28 La verità, come motivo, ragione e fondamento dell’assenso, viene così definita da Burthogge come l’armonia oggettiva, cioè completamente mentale, degli “oggetti” fra di loro, e quindi non con le facoltà della mente, ma sempre e comunque all’interno dello schema che questi hanno nella mente stessa: «Truth, as it is the Ground, Motive, and Reason of Assent, is objective Harmony, or the Harmony, Congruity, Even-lying, Answerableness, Consistence, Proportion, and Coherence of things each with other, in the Frame and Scheme in our Mindes»123. In altre parole questo significa che non solo è necessaria una congruità fra l’oggetto concepito e la facoltà che lo concepisce secondo le leggi della mente stessa: questo sarebbe sufficiente solo per avere una conoscenza dell’oggetto. Per la verità è necessaria anche una congruità delle cose fra loro che però sottostia anch’essa ai particolari schemi che la mente ha di concepire le cose. Ad esempio, si pensi all’affermazione “il veleno causa la salute”. Le nozioni di “veleno”, “causa” e “salute” per essere concepite hanno bisogno solo della loro congruità con la rispettiva facoltà, cioè devono essere oggetti consistenti e adeguati alla facoltà di appartenenza. Per determinare la verità dell’affermazione, tuttavia, è necessario vedere se “veleno” e “salute” siano oggetti consistenti per mezzo della nozione di causa attraverso cui sono concepiti. Evidentemente questo è falso, infatti non c’è un’armonia fra queste due nozioni e il modus concipiendi di causa (che è esso stesso una nozione): il veleno non potrà mai essere causa di salute. Si badi bene, questo non significa che le tre nozioni siano state apprese in modo erroneo, piuttosto che non esiste l’armonia e la congruità fra loro. Inoltre è bene notare che queste tre nozioni, fra cui c’è il modus concipiendi di causa-effetto, possono benissimo essere in accordo fra loro nell’affermazione “il veleno non causa salute”. La differenza fra queste due affermazioni è meramente logica e per Burthogge in ciò consiste la verità in campo epistemologico: una congruità degli oggetti nella mente secondo specifiche regole logiche e schemi. Per Burthogge, come nel caso dell’apprensione, anche nel caso del giudizio, è sempre la mente con la sua attività a fornire una descrizione della realtà per mezzo dei suoi modi concipiendi e per mezzo delle relazioni che vengono colte fra gli oggetti stessi. Per Burthogge questo non significa che le cose stiano così e in 123 Organum, p. 41. 29 questa maniera, ma è così che vengono conosciute dall’uomo e altrimenti non possono essere descritte. Ogni tentativo di dare una spiegazione della realtà al di là delle apparenze apprese dalla mente è un tentativo non solo destinato al fallimento, ma anche deleterio, in quanto spinto dalla presunzione di elevare la limitata ragione umana all’intelletto divino, il solo che conosce le cose come sono in se stesse veramente. 6. Conclusione L’epistemologia di Burthogge è dunque interessante per la sua posizione concettualista e costruttivista, fondata però su un forte piano empirico: quello della sensazione. Sono diverse le idee epistemologiche di Burthogge che destano un certo interesse, che mostrano una certa originalità e che devono essere rivalutate. Innanzitutto egli difende una concezione strumentale della logica riprendendo e approfondendo l’idea aristotelica, ma spostando l’interesse verso una logica delle facoltà che favorisce lo studio della logica naturale che concerne la costituzione psicologica della mente, piuttosto che la forma delle argomentazioni logiche. Si tratta questa di una posizione che avrà largo seguito in Locke e in tutta la logica psicologica del Settecento. Nell’elaborare questo particolare tipo di logica, Burthogge determina i limiti della ragione umana, confinando il suo campo di competenza a tutto ciò di cui si fa esperienza e in modo particolare a ciò che proviene dai sensi. Questo non significa che la conoscenza sia semplicemente conoscenza sensibile, ma solo che tutta la conoscenza ha origine dall’esperienza, mentre la conoscenza intellettuale è semplicemente un riflesso di questa. Tutta la conoscenza proveniente dalla sensazione è una conoscenza filtrata attraverso dei modi concipiendi – come la sostanza, la quantità, la qualità, la causalità – che appartengono alla ragione e fanno conoscere le cose al soggetto secondo una particolare determinazione. La conoscenza è così indubbiamente il risultato di un’azione congiunta fra sensazione e i modi concipiendi che si esplica in un processo di sublimazione delle sensazioni in concezioni. Tale conoscenza è una conoscenza meramente fenomenica, cioè riguarda gli oggetti così come appaiono alla mente attraverso i suoi modi concipiendi e non come veramente sono nella 30 realtà: l’accesso alla sostanza è totalmente negato. In questo senso è la mente che “significa” gli oggetti per mezzo delle facoltà cognitive. Così, inevitabilmente, gli oggetti non hanno realtà e senso se non in relazione alla mente: essi sono entia cogitationis. Non esistono realmente, o meglio la loro esistenza reale nel mondo è insignificante per la mente che li concepisce come semplici apparenze. Essi hanno valore solo all’interno del processo cognitivo. Gli oggetti della mente sottostanno a regole a priori che sono costitutive della mente stessa. Non solo perché gli oggetti sono conosciuti per mezzo dei modi concipiendi, ma anche perché questi oggetti devono essere congruenti alle rispettive facoltà. L’intelletto non può concepire un’immagine o una sensazione, così come l’immaginazione non può raffigurarsi un concetto. Ogni facoltà ha un proprio oggetto che è appreso secondo particolari leggi. La mente, tuttavia, costruisce solo i “fenomeni”, che sono oggetti puramente mentali, non produce dal nulla le cose del mondo. Queste sono esistenti nel mondo in quanto cause delle alterazioni delle sensazioni percepite dalla mente. I fenomeni hanno perciò un fondamento nelle cose, sebbene questo fondamento sia di per sé inconoscibile. Questa concezione epistemologica implica necessariamente che la verità non appartiene mai alle cose, ma sempre, solo ed esclusivamente alla mente e consiste nella congruità degli oggetti fra loro, secondo le leggi e gli schemi mentali che appartengono a priori alla mente stessa. Solo questo tipo di verità produce l’assenso che porta a una conoscenza rigorosa degli oggetti. Sottesa a questa epistemologia concettualista, Burthogge elabora una teoria funzionalistica della mente come centro di attività, energia e operazioni, piuttosto che come una cosa o una sostanza. Così, la stessa coscienza non è coscienza della mente stessa, come res cogitans, quanto coscienza delle attività che la mente esercita per mezzo delle sue facoltà. Il soggetto non è mai conscio di sé stesso come sostanza, ma sempre come centro di operazioni cogitative. In particolare la coscienza deriva dalle differenti concezioni mentali che si fondano sull’alterazione prodotta dagli oggetti sulla sensazione. Nella prospettiva di Burthogge la relazione fra mente e mondo è risolta totalmente a favore del primo termine a discapito del secondo. È la mente che dà un significato al mondo e costruisce i propri oggetti. Questo non vuol dire che il 31 mondo sia così come viene costruito, ma che è così che lo si conosce, come esso appare, e altrimenti non lo si potrebbe descrivere con le limitate capacità umane. L’alternativa è la caduta in un ontologismo della sostanza occulta e inconoscibile. Quanto ci sia nell’empirismo di Locke e nel criticismo di Kant di queste dottrine di Burthogge è difficile dirlo, tuttavia è senz’altro una posizione epistemologica innovativa e interessante, degna di essere ricordata fra le più importanti del panorama logico inglese della fine del XVII secolo. Infine, il caso di Burthogge mostra con evidenza come le ricostruzioni filosofiche che riconducono le dottrine gnoseologiche pre-lockiane e contestualizzano la stessa opera di Locke all’interno dell’ambiente cartesiano siano piuttosto generiche e in un certo senso anche fuorvianti. Non solo c’erano solo Descartes e i suoi seguaci sull’agenda dei filosofi del periodo. La situazione all’epoca era ben più complessa: diverse e divergenti teorie gnoseologiche stavano nascendo in Inghilterra con spiccati tratti di originalità. Solo un meticoloso lavoro storico di “decolonizzazione del passato” e una forte attenzione verso i “trucioli del pensiero” possono restituire l’immagine di un scenario fondamentale della storia della filosofia moderna come quello dell’Inghilterra sul finire del XVII secolo124. Riferimenti bibliografici - 124 Ashworth 1985: Earline J. Ashworth, Introduction, in Robert Sanderson, Logicae artis compendium, CLUEB, Bologna 1985, pp. I-LV. Ashworth 1988: Earline J. Ashworth, Die philosophischen Lehrstätten. 1. Oxford, in J.-P. Schobinger (Hrsg.), Grundriss der Geschichte der Philosophie. Die Philosophie des 17. Jahrhunderts. Bd. 3. England, Schwabe & Co., Basel 1988, I, pp. 6-9. Ashworth 1991: Earline J. 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