Studio
L’EPISTEMOLOGIA DI RICHARD BURTHOGGE
di Marco Sgarbi*
Abstract. This article deals with the epistemology of Richard Burthogge (1638-1705). Friend and
correspondent of Locke, Burthogge published two important epistemological treaties, the
Organum Vetus & Novum (1678) and the Essay upon Reason (1694), in which he developed a
particular theory of knowledge close to idealism and conceptualism. In this theory he 1) elaborated
an instrumental conception of logic; 2) limited the boundaries of reason to sensible experience; 3)
conceived the mind as a center of activity, energy, and operations; 4) established that all sensible
knowledge is filtered by modi concipiendi, such as substance, quantity, quality, and causality; 5)
stated that knowledge is merely phenomenal, namely it concerns only the objects as they appear
and not as they really are; 5) established that objects have no reality and sense if not in relation to
the mind and that they are framed by a priori rules that are constitutive of reason. The aim of the
article is to examine in detail Burthogge’s theory of knowledge and to show his original position
within the historical and cultural setting of his time.
Keywords: Burthogge, Locke, Kant, Epistemology, Sensation, Mind
1. Status quaestionis
Richard Burthogge si presenta alla storiografia filosofica contemporanea come
una figura pressoché sconosciuta. Non esiste una monografia a suo riguardo e
sono pochi gli studi che trattano il suo pensiero1. Eppure non fu una personalità di
secondo piano nel delicato periodo della storia della filosofia inglese che vide la
nascita della corrente dell’empirismo.
In quest’articolo mi propongo di esaminare in modo specifico la sua
particolarissima epistemologia, considerata dalla curatrice delle sue opere come
diretta precorritrice della gnoseologia kantiana2. Certo, il giudizio non è
imparziale, ma è vero, come si vedrà, che nelle sue due opere dedicate alla teoria
della conoscenza, Burthogge sviluppa un approccio molto simile a quello del
filosofo di Königsberg. Non è compito del presente articolo stabilire se Burthogge
sia stata una fonte di Kant; tuttavia, come ha giustamente osservato Giorgio
Tonelli, ciò appare assai improbabile3. Nel presente articolo si cercherà di
*
[email protected]; professore a contratto all’Università di Verona.
L’unico studio effettuato con una certa esaustività sono le novantaquattro pagine dell’InauguralDissertation di Jakob Grünbaum, cfr. Grünbaum 1939.
2
Cfr. Landes 1921, pp. XV-XXIV. Le citazioni dalle opere di Burthogge sono prese da Burthogge
1921, preceduta dal titolo abbreviato dell’opera stessa.
3
Cfr. Tonelli 1994, p. 141.
1
sfuggire da un paragone estrinseco fra questi due autori senza avere alcun
supporto storiografico che provi una loro documentata relazione storica, cioè una
lettura di Burthogge da parte di Kant. Piuttosto ci si soffermerà sulla ricostruzione
del contesto in cui ha operato e sull’analisi delle sue dottrine.
Come si è detto, Burthogge è un Carneade. Nella più omnicomprensiva storia
della logica della modernità, la Logik der Neuzeit di Wilhelm Risse, non è
menzionato4. Mentre Reinhard Brandt nella più importante storia della filosofia
inglese del XVII secolo ne fa solo un piccolo accenno5. È ricordato, ma anche in
questo caso in modo semplicemente cursorio, da William Hamilton nella sua
introduzione alle opere complete di Thomas Reid6.
È invece indiscusso merito di Georges Lyon l’aver rivalutato il pensiero di
Burthogge e aver dimostrato che i risultati più importanti della sua opera furono
del tutto slegati dalla gnoseologia lockiana, ma il suo studio risale alla fine del
XIX secolo e affronta il problema con una metodologia storiografica antiquata7.
Anche Ernst Cassirer nel suo Erkenntnisproblem dedica un certo spazio a
Burthogge, ma più come seguace di Arnold Geulincx che come pensatore
indipendente8.
È da rilevare anche lo scarso valore storiografico dello studio introduttivo alla
pubblicazione delle opere filosofiche complete di Burthogge compiuto da
Margaret W. Landes, la quale, con argomenti assai poco convincenti, presenta il
filosofo inglese da una parte come un seguace dei platonici di Cambridge e
dall’altra come un precursore di Locke e Kant9. Gabriel Nuchelmans, da parte sua,
ha dedicato diverse pagine interessanti alla teoria della significazione di
Burthogge, ma, sulla scia di Cassirer, sempre in stretta connessione con le dottrine
di Geulincx10. John W. Yolton, invece, ne fa un precursore della logica delle idee
e il più importante predecessore di Locke11. Solo recentemente Michael R. Ayers
ha condotto una ricerca rigorosa sul concettualismo e sull’idealismo di Burthogge,
Cfr. Risse 1970. Non c’è alcun riferimento a Burthogge nemmeno nella Bibliographia logica,
cfr. Risse 1965.
5
Cfr. Brandt 1988, II, pp. 723-725.
6
Cfr. Reid 1863, II, pp. 928, 938.
7
Cfr. Lyon 1888, pp. 72-96.
8
Cfr. Cassirer 1922, I, pp. 545-553.
9
Cfr. Landes 1921. Le notizie ivi contenute sono state riprese da Sorley 1965, pp. 129-130.
10
Cfr. Nuchelmans 1983, pp. 117-119.
11
Cfr. Yolton 1955; Yolton 1984, pp. 106-107.
4
2
mettendo anche in relazione la sua prospettiva filosofica con quella di pensatori
contemporanei quali Willard V.O. Quine e Donald Davidson12. In Italia, invece,
Burthogge è rimasto del tutto ignorato dalla storiografia filosofica.
A mio avviso è possibile capire il significato e l’originalità di Burthogge nella
storia della filosofia solo attraverso uno studio attento di storia intellettuale sul
contesto culturale in cui ha operato e dal quale ha assorbito e rielaborato idee e
concetti; secondo questi presupposti metodologici sarà condotta l’analisi sulle sue
dottrine epistemologiche.
2. Profilo bio-bibliografico.
Sono poche le informazioni biografiche riguardo la vita di Burthogge. Nacque
probabilmente sul finire del 1637 o agli inizi del 1638 a Plymouth, nella parte più
sudoccidentale dell’Inghilterra che nel Seicento era al centro dei traffici
commerciali per le Americhe e per le Indie ed era un avamposto per le nuove
tendenze culturali. Questo ambiente culturale aperto e dinamico dovette
sicuramente stimolare il giovane Burthogge13. Fu battezzato il 30 gennaio 1638 a
Plympton St. Maurice e entrò nella prestigiosa Exeter Grammar School. Nel 1654
fu ammesso al All Souls College di Oxford come servitore o corista 14 e divenne
bachelor of arts nel 1658 presso il Lincoln College.
All’epoca in cui Burthogge svolse gli studi a Oxford l’ambiente era ancora
fortemente influenzato dalla filosofia aristotelica, la quale fu rafforzata con gli
Statuti Laudiani del 1636, che ripristinarono Aristotele al centro del sistema
educativo.15 Non bisogna però pensare che l’aristotelismo professato a Oxford
fosse conservatore o che mirasse semplicemente alla restaurazione della
tradizione medievale. Piuttosto era all’avanguardia soprattutto nel campo della
logica, sviluppando prospettive molto vicine a quelle che saranno poi elaborate
dall’empirismo inglese. Il fatto che la filosofia aristotelica fosse il fulcro
Cfr. Ayers 2005. Si veda anche la voce biografica curata da Ayers nel Oxford Dictionary of
National Biography: http://dx.doi.org/10.1093/ref:odnb/4120.
13
Sul milieu intellettuale di quel periodo cfr. Kearney 1970, pp. 141-173; sull’ambiente culturale
nella contea di Devon cfr. Roberts 1985; Jackson 1986, appendice 2.
14
Cfr. Wood 1820, IV, p. 581.
15
Per una panoramica generale sulla diffusione dell’aristotelismo in Inghilterra nel XVII secolo
cfr. Schmitt 1983, pp. 3-76, Sgarbi 2012, pp. 85-109, per gli statuti del 1636, p. 43.
12
3
dell’educazione a Oxford fra la prima e la seconda metà del XVII secolo è provato
dalle Vindiciae Academiarum di Seth Ward, nelle quali l’autore scrive
esplicitamente che le ragioni principali per cui Aristotele era penetrato così
profondamente nei curricula universitari erano l’universalità dei problemi posti e
la brevità e il metodo con cui erano affrontati, piuttosto che la verità e
l’infallibilità delle sue dottrine.16 Dallo stesso Ward però si viene anche a sapere
che Aristotele in genere non era più letto direttamente dagli studenti, ma erano
preferiti manuali e commentari più agili e comprensibili.17 Si leggevano
soprattutto le opere di Martin Smiglecki (1564-1618), Edward Brerewood (15651613), Richard Crakanthorpe (1567-1624), Samuel Smith (1587-1620), Robert
Sanderson (1587-1663) e Franco Burgersdijk (1590-1635), i quali traevano larga
parte della loro dottrine logiche dai lavori del padovano Jacopo Zabarella (15321589) e sviluppavano una teoria empirica del metodo scientifico18.
Dopo i primi studi oxoniensi, Burthogge si trasferì in Olanda per studiare
medicina presso l’università di Leiden, dove fu ammesso nel 1661 e divenne
l’anno successivo medicinae doctor. Qui probabilmente conobbe Geulincx, che
proprio a cavallo fra il 1662 e il 1663 pubblicava le sue due opere
epistemologiche più importanti, la Logica fundamentis suis restituta (1662) e il
Methodus inveniendi argumenta (1663)19, lavori che sono il frutto delle sue
lezioni private di logica. Tuttavia, non è certo se Burthogge seguì le lezioni di
Geulincx20, soprattutto vista la fede calvinista professata da quest’ultimo, della
quale il giovane pensatore inglese non aveva grande stima: gli scritti religiosi di
Burthogge sono tutti rivolti contro i calvinisti e contro i quaccheri.
Successivamente Burthogge tornò in patria e si trasferì a Totnes 21, vicino alla sua
città natale, dove esercitò attivamente la professione di medico, continuando però
la sua intesa attività di saggista. Ivi morì il 24 luglio 1705.
Cfr. Ward 1654, p. 39.
Ivi, p. 25.
18
Sugli studi di logica nell’università di Oxford cfr. Ashworth 1988, I, pp. 6-9; Feingold 1997. Su
questi autori aristotelici oltre al già citato volume di Schmitt, cfr. Thomas 1959-1960; Trentman
1976; Ashworth 1985; Ashworth 1991.
19
Sulla logica di Geulincx cfr. Nuchelmans 1988; van Ruler 2002.
20
Geulincx divenne lettore ufficiale a Leiden solo nel 1662, quando Burthogge aveva già ottenuto
il grado di medicinae doctor. Siccome le lezioni di logica erano impartite nei primi anni
universitari, è molto scarsa la possibilità che Burthogge abbia seguito i corsi del filosofo
fiammingo. Certo, questo non toglie che possa averlo conosciuto e aver letto le sue opere.
21
Sull’ambiente intellettuale di Totnes in quel periodo cfr. Windeatt 1900.
16
17
4
Com’è stato giustamente notato da Ayers, Burthogge si inserisce in un contesto
culturale molto simile a quello in cui operavano altri filosofi eccellenti dell’epoca
quali William Chillingworth, Henry More, John Locke e Joseph Glanvill
(anch’egli peraltro nativo di Plymouth), cioè in un clima religioso aperto, antidogmatico e tollerante22.
I suoi primi due lavori di carattere religioso vanno proprio in questa direzione.
Il primo scritto di cui siamo a conoscenza è intitolato Divine Goodness Explicated
and Vindicated from the Exceptions of the Atheistst, pubblicato per la prima volta
a Londra nel 1672 (l’epistola al lettore però reca la data 9 ottobre 1671)23. L’opera
mostra le indiscusse conoscenze di Burthogge nel campo della teologia, ma non
rivela alcuna particolare influenza dei platonici di Cambridge, come invece
sostiene Landes. Lo scritto è esplicitamente diretto da una parte contro gli ateisti
che non credono nella verità rivelata nelle Sacre Scritture e dall’altra contro i
fanatici. L’obbiettivo di Burthogge è dimostrare razionalmente la bontà di Dio al
fine di convincere gli atei sul loro stesso piano razionale, e soprattutto di mostrare
che gli argomenti razionali da lui addotti sono derivabili dalle Sacre Scritture. Si
tratta di un progetto simile a quello che avrebbe sviluppato Locke una quindicina
d’anni più tardi nello scritto The Reasonableness of Christianity, as Delivered in
the Scriptures (1695), che risente dell’influenza di Burthogge24.
Il secondo lavoro di Burthogge esce nel 1675 con il titolo Causa Dei or an
Apology for God25. Si tratta di un’opera più ampia, estesa ed articolata rispetto
alla prima ed è stata scritta da Burthogge in risposta ad una lettera di un
«inaspettato» lettore26, di cui conosciamo solo le iniziali “A.W.”. Leggendo il
primo trattato sappiamo che l’anonimo lettore aveva obiettato a Burthogge sul
piano teologico che due erano le logiche conseguenze evincibili dal suo discorso
sulla bontà divina del 1672: o non esistono i tormenti infernali o essi hanno una
durata finita perché prima o poi la bontà divina interverrà a favore del penitente.
Cfr. http://dx.doi.org/10.1093/ref:odnb/4120.
Cfr. Burthogge 1672.
24
Cfr. Goldie 1992.
25
Cfr. Burthogge 1675.
26
Così Burthogge si riferisce all’anonimo lettore nella Prefazione dell’opera.
22
23
5
È nel 1678 che Burthogge irrompe nel panorama filosofico vero e proprio con
la sua prima opera di epistemologia intitolata Organum Vetus & Novum, che, per
la sua importanza, prenderò in considerazione in seguito27.
Seguono poi nell’arco di pochi anni una serie di piccoli trattati sul battesimo
dal titolo An Argument for Infants’ Baptism (1683) e Vindiciae Paedo-Baptismi
(1685), nei quali, sempre secondo argomenti razionali, si voleva dimostrare la
necessità del primo sacramento per gli infanti28.
Nel 1687 esce il breve pamphlet Prudential Reasons for Repealing the Penal
Laws against all Recusants, and for a General Toleration, nel quale l’autore si
scaglia contro l’intervento del governo civile in materia di religione, sostenendo
che i due ambiti devono essere accuratamente distinti e che il prevaricarsi
dell’uno sull’altro non porta altro che ad un disordine controproducente allo Stato.
In particolare, Burthogge è contro le aggressioni che lo Stato effettua nei confronti
coloro che ricusano la religione anglicana e propone la promulgazione di leggi
tolleranti, grazie alle quali soltanto sarebbe possibile la neutralizzazione degli
estremismi delle varie correnti religiose. Sul rapporto fra governo e Chiesa
Burthogge ritorna ancora nel 1690 con lo scritto The Nature of ChurchGovernment (1690)29.
I successivi due lavori, An Essay upon Reason and the Nature of Spirits (1694)
e Of the Soul of the World and of Particular Souls (1699) – entrambi dedicati a
Locke –, sono degli approfondimenti delle sue teorie in ambito gnoseologico e
psicologico30.
Nel suo ultimo scritto, Christianity a Revealed Mystery (1702)31, Burthogge
ritorna ancora una volta sull’argomento riguardante la possibilità di spiegare
razionalmente la religione, un tentativo ben apprezzato da Locke nella sua A
Paraphrase and Notes on the Epistles of St. Paul (1707)32.
Tutti i lavori di Burthogge sono accomunati da un aspetto particolare, quello di
essere esposti sotto forma epistolare. In generale la sua opera si può dividere in
Cfr. Burthogge 1678. L’opera ricevette l’imprimatur il 23 novembre 1677.
Cfr. Burthogge 1683; Burthogge 1685.
29
Cfr. Burthogge 1690.
30
Cfr. Burthogge 1694; Burthogge 1699.
31
Cfr. Burthogge 1702.
32
Cfr. Locke 1707.
27
28
6
due generi di scritti, quelli dedicati alla religione e alla sua razionalità e quelli
dedicati all’epistemologia. Non si tratta di ambiti perfettamente distinguibili
secondo Burthogge, dato che l’epistemologia e la logica sarebbero lo strumento
più proprio per dimostrare la razionalità della religione33. Nel presente articolo,
tuttavia, mi occuperò prevalentemente del suo pensiero epistemologico, slegato –
per quanto possibile – dagli aspetti riguardanti la religione, la teologia e la
politica.
3. L’organo della ragione, la sua natura e i suoi limiti
Il primo lavoro dedicato esclusivamente a temi epistemologici e di teoria della
conoscenza è l’Organum Vetus & Novum. Come si evince facilmente
dall’espressione del titolo “organum vetus”, il principale riferimento di Burthogge
è l’Organon di Aristotele e più in generale la tradizione aristotelica, che
concepiva la logica come un strumento per le altre scienze. Tale concezione era
stata riproposta con forza sul finire del XVI da Zabarella34 e aveva avuto subito
largo successo in territorio britannico35.
L’altro immediato riferimento di Burthogge che il titolo sembra suggerire –
“organum novum” – potrebbe essere il Novum Organum di Francis Bacon (15611626), ma è subito evidente che delle dottrine del Lord Cancelliere vi sono solo
flebili tracce nei suoi scritti. Probabilmente, Burthogge voleva piuttosto esprimere
la sua intenzione di sviluppare nell’opera un “novum organum”. Nel caso di
Burthogge, questo “novum organum” tuttavia non deve essere concepito in
contrapposizione al “vetus”, cioè alla logica aristotelica, quanto piuttosto come
un’integrazione, un perfezionamento e un miglioramento di quella.
Burthogge non abbandonerà mai questa prospettiva epistemologica, nemmeno
nel più tardo Essay upon Reason, scritto dopo la lettura dell’Essay lockiano di cui
non si rilevano tracce importanti nella sua opera36. L’Essay di Burthogge, infatti,
Giustamente Ayers afferma che l’epistemologia di Burthogge, come quella di Locke, scaturisce
dalle sue problematiche politico-religiose e dai suoi interessi scientifici, cfr. Ayers 2005, p. 180.
34
Sulla natura strumentale della logica in Zabarella fra gli altri cfr. Corsano 1962; Bottin 1973;
Vasoli 2011.
35
Cfr. Schmitt 1983.
36
Ayers è convinto che l’enfasi data al concetto di “sostanza” nell’Essay rispetto all’Organum sia
dovuta all’influenza di Locke, cfr. Ayers 2005, pp. 195-196.
33
7
riprende i temi già trattati nell’Organum, e approfondisce la discussione intorno
alla natura della mente, in particolare della coscienza e del rapporto fra mente e
materia, mentre tralascia la discussione intorno alla facoltà del giudizio. Non si
può parlare così in Burthogge di una epistemologia prima e dopo Locke; piuttosto
Burthogge vuole approfondire sistematicamente i temi che nel primo trattato
erano stati solo accennati o trattati confusamente.
Burthogge è perfettamente conscio della sua nuova proposta in campo logicoepistemologico e non pensa assolutamente di essere meno originale di Locke nella
sua trattazione. L’Organum è un vero e proprio trattato di logica, ma, a differenza
dell’Organon aristotelico, non esamina elementi primi come le categorie, la
proposizione e il sillogismo né le regole formali per la formulazione delle corrette
inferenze, ma si rivolge piuttosto allo studio della “logica delle facoltà” che
studia le operazioni della mente37. Non è una prospettiva totalmente nuova in seno
alla tradizione logica inglese: infatti, non solo Sanderson con il suo Logicae artis
compendium aveva già fatto un deciso passo in questa direzione38, ma soprattutto
Zachary Coke (n. 1618) con il suo The Art of Logick (1654) e Obadiah Walker
(1616-1699) con i suoi Artis rationis libri avevano sviluppato una complessa
logica epistemica fondata sull’analisi delle varie operazioni della mente 39 e sui
diversi gradi di assenso rispetto a ciò che viene conosciuto40.
Il tentativo di Burthogge merita un’attenzione particolare proprio perché, al
pari di Coke e Walker – anche loro purtroppo ancora trascurati dalla storiografia
filosofica –, sviluppa una gnoseologia che lo vede come immediato predecessore
di Locke e quindi una sua possibile fonte41.
Burthogge inizia la sua trattazione logica con l’individuazione di tre errori nei
quali la mente umana cade frequentemente: l’orgogliosa ignoranza, lo zelo
ignorante e il ragionamento impertinente.
37
Sulla logica delle facoltà cfr. Buickerood 1985; Auroux 1993; Michael 1997; Schuurmann 2004,
pp. 44-50.
38
Cfr. Nuchelmans 1998, p. 106.
39
Cfr. Coke 1654; Walker 1673.
40
Sulla logica epistemica cfr. Hintikka 1968; Hintikka 1986; Boh 1993; Boh 2000; Galvan 2006.
41
Non vi sono studi sistematici su Burthogge fonte di Locke in campo epistemologico; l’unico
tentativo piuttosto datato è di Yolton, cfr. Yolton 1956, pp. 20-21, 46. Nemmeno l’esaustiva
monografia di Gibson cita fra le fonti lockiane Burthogge, cfr. Gibson 1917. La storiografia
prende in considerazione Burthogge come fonte Locke solo in campo politico-religioso: cfr. Tully
1993.
8
L’orgogliosa ignoranza deriva dalla pretesa della mente di estendere la propria
conoscenza anche al di là dei limiti delle cose che le competono, soprattutto in
campo metafisico e teologico. Burthogge afferma che la presunzione di essere
onniscienti è diretta conseguenza del fatto che non si conosce propriamente e in
modo specifico alcuna cosa. Il vero saggio è invece chi sa che l’ignoranza propria
e degli altri è il vero oggetto di conoscenza, cioè il punto di partenza da cui deve
prendere le mosse il processo cognitivo42: i limiti della ragione sono il territorio
entro il quale l’uomo deve esercitare la propria conoscenza.
Lo zelo ignorante, consiste nella difesa appassionata di una posizione, o
un’opinione, senza avere una conoscenza precisa dell’argomento e assumendo
principi senza alcun fondamento. Si tratta di un tipo di errore piuttosto comune fra
i ferventi religiosi, ma anche fra i filosofi settari, che sono qui presi di mira43. In
generale, Burthogge è contro ogni sorta di fanatismo tanto religioso quanto
filosofico perché obnubilerebbe gli sforzi della ragione volti a portare la religione
e la filosofia sotto il suo dominio44.
Il ragionamento impertinente, il quale è causa di tutti gli altri tipi di errori, si
può manifestare in diversi modi. In primo luogo quando si passa da un argomento
all’altro nel proprio ragionamento, senza che fra i due ci sia una connessione o un
accordo. Ma, soprattutto, esso accade quando in un ragionamento si prende in
considerazione un solo e semplice mezzo (o termine medio in caso dei sillogismi)
e si conclude in modo precipitoso da una cosa all’altra45.
Una volta esposti gli errori in cui la mente cade, Burthogge si concentra sul
principale argomento del proprio trattato, ovvero la ragione e sui suoi interessi in
campo fisico e religioso, al fine di determinare in che modo sia possibile scoprire
ed assicurare la verità attraverso i suoi ragionamenti e in che modo si dia loro
assenso e approvazione46.
La ragione può essere considerata in tre differenti modi. In un senso molto
ampio essa coincide con la mente e con l’intelletto e come tale essa esercita tre
Organum, p. 6.
Organum, pp. 7-8.
44
Cfr. Ayers 2005, p. 180.
45
Organum, pp. 8-9.
46
Organum, p. 9.
42
43
9
operazioni particolari47: 1) l’apprensione dei termini semplici; 2) la composizione
di questi termini attraverso affermazioni e negazioni; 3) il discorso che è illazione
di una cosa da un’altra48. Questa idea di ragione era piuttosto comune fra gli
aristotelici del periodo, che solevano identificare con queste tre operazioni gli atti
specifici dell’intelletto e, su questi atti, costruivano il loro sistema logico in modo
progressivo, dal più semplice elemento logico al più composto e complesso.
Come si vedrà, tuttavia, se per gli aristotelici l’analisi delle operazioni della mente
si svolgeva su due piani distinti, quello logico e quello psicologico, per Burthogge
questi due aspetti vengono a fondersi l’uno con l’altro.
In un senso più stretto, poi, la ragione riguarda in modo particolare l’ultima di
queste operazioni, il discorso, attraverso il quale la mente argomenta e inferisce.
Non a caso la ragione si dice tale per via del ragionamento, che è appunto la terza,
ultima e più complessa operazione della mente.
In un senso più specifico o appropriato – e qui si vede tutto il retaggio religioso
di Burthogge – per ragione è da intendere tutto ciò che è opposto alla fede e alla
rivelazione49. In Burthogge opposto non vuol dire contrario o contradditorio, ma
significa semplicemente che la sfera della razionalità umana è tutt’altra cosa
rispetto alla sfera rivelata dalla fede. Sono due sfere complementari che investono
l’intera esperienza umana50, ma l’una sancisce i limiti dell’altra.
La ragione di cui vuole trattare Burthogge in questo suo scritto è quella facoltà
per la quale un essere umano è detto razionale e intelligente, così come ad
esempio la vista è quel tipo di facoltà per la quale un essere umano è detto
vedente. Più in particolare, spiega Burthogge, la ragione è quella facoltà per la
quale l’uomo è detto capace di compiere le sue operazioni più specifiche, così
come appunto la vista è quella facoltà che definisce l’uomo come capace di
vedere. Si tratta di una piccola annotazione certo non priva di significato.
Burthogge sta caratterizzando la ragione e il soggetto non da una prospettiva
Burthogge usa interscambiabilmente i termini “ragione” e “intelletto”. Preferisce solitamente
usare la nozione di “ragione” quando si riferisce alla più complessa operazione della mente, cioè il
ragionamento. Quando tratta invece di apprensione semplice preferisce usare il termine
“intelletto”.
48
Organum, pp. 9-10.
49
Organum, p. 10: «But reason is appropriately taken, or most strictly, as it is oppos’d to Faith
and Revelation, of which hereafter».
50
Organum, p. 10.
47
10
ontologico-sostanzialista, ma dal punto di vista funzionalistico, secondo le sue
operazioni e i suoi atti, e questo perché l’atto della ragione è ciò che permette di
conoscere la ragione stessa come facoltà e ne descrive la propria natura specifica.
Infatti, spiega Burthogge, la mente è cosciente delle sue operazioni e dei suoi atti
nel momento in cui li effettua e ha un immediato riscontro del loro risultato,
mentre non vede e non è conscia di se stessa, se non appunto per mezzo di tali
atti51. Quindi per Burthogge è chiaro che non si conoscono le facoltà cognitive in
sé, ma le si conoscono in relazione ai loro atti ed esse non sono altrimenti
concepibili se non per mezzo di questi ultimi52.
L’osservazione
di
Burthogge
cela
una
riflessione
sullo
statuto
dell’autocoscienza e dell’Io. Il soggetto autocosciente nella sua identità come “Io”
non è determinato ontologicamente come una sostanza, bensì come un’attività o
meglio come un aggregato dei suoi atti cognitivi. Nell’Essay upon Reason
Burthogge è particolarmente chiaro in merito: la mente non è una semplice
sostanza pensante, distanziandosi dalla concezione di contemporanei come
Descartes, che la considera come una res cogitans, o come Spinoza, per il quale la
mente è l’idea di un corpo attualmente esistente53. La mente per Burthogge è
l’immediato soggetto o principio di ogni pensiero, è centro di energia e attività,
non è perciò “sostanza pensante”, ma è causa efficiente del pensiero ed è per
questo che essa è in primo luogo determinata dalle facoltà concettive e
cogitative54.
Esse sono principalmente tre: il senso, l’immaginazione e la ragione.
Burthogge specifica che tutte queste facoltà concordano insieme e concorrono nel
processo cognitivo; esse sono facoltà meramente mentali e spirituali che non
hanno nulla di meccanico e materiale55. Burthogge nega quindi ogni possibilità di
concepire la mente come l’epifenomeno o il risultato di processi materiali.
Egli aggiunge che queste facoltà concettive e cogitative sono tutte delle
cogitazioni (cogitations). Per cogitazione egli intende un’affezione accompagnata
Organum, p. 10; Essay, pp. 55-56.
Essay, p. 56.
53
Essay, pp. 105-107.
54
Essay, p. 107. In questo caso è strabiliante la somiglianza della caratterizzazione della mente
come centro di energia e attività con la monade leibniziana. Allo stato delle cose, tuttavia, non si
può affermare che Burthogge sia stato fonte di Leibniz.
55
Essay, p. 57.
51
52
11
da coscienza. Tale tipo di affezione cosciente, o cogitazione, viene definita
specificatamente conoscenza56.
La conoscenza stessa può essere considerata secondo un duplice aspetto: o in
relazione all’oggetto conosciuto ed è chiamata apprensione (o percezione
cosciente), o rispetto all’immagine e all’idea attraverso la quale si percepisce e si
conosce l’oggetto ed è chiamata propriamente concezione57. Dunque, la differenza
che sussiste per Burthogge fra apprensione e concezione è che la concezione
riguarda l’immagine o l’idea, mentre l’apprensione riguarda la percezione
cosciente dell’oggetto. L’apprensione dell’oggetto, tuttavia, non avviene mai
senza la concezione, infatti l’apprensione è una forma di conoscenza per mezzo
dell’idea o dell’immagine data dalla concezione. In questo senso tutte le facoltà
cognitive dell’uomo riposano sulla concezione ed è per questo motivo che si può
ben definire la posizione di Burthogge come eminentemente concettualista. Lo
stesso Burthogge afferma che l’atto della concezione è uguale all’atto del pensiero
e caratterizza tutte le facoltà della mente, che sono appunto chiamate, per tale
motivo, concettive e cogitative58.
A partire dall’analisi della concezione, Burthogge vuole spiegare l’origine
della coscienza che è sì logicamente distinta dalla concezione, ma mai comunque
divisa da essa. La coscienza sorge normalmente, secondo Burthogge, dalla
distinzione e dalla differenza che c’è fra le diverse concezioni nella mente.
L’esempio che propone il filosofo inglese è particolarmente chiaro: se una
persona vede sempre e solo un oggetto, non avrà mai la percezione di essere
affetto da questo oggetto, cioè non sarà mai cosciente dell’effetto che l’oggetto
produce sulla sua mente. In altre parole, se per ipotesi una persona fin dalla
nascita potesse solo vedere, e non potesse utilizzare gli altri sensi, e vedesse
solamente “bianco”, non avrebbe affatto la coscienza di vedere. La coscienza
emerge solo quando da questo bianco si nota qualcosa di diverso e differente dal
bianco stesso, come per esempio un punto nero. Così, conclude Burthogge, è dalla
differenza delle concezioni nella mente, cioè dalle diverse affezioni delle facoltà
da parte degli oggetti, che nasce la coscienza. Dunque, la concezione è una
Ibidem.
Ibidem.
58
Essay, p. 58.
56
57
12
modificazione della mente e la cogitazione è la concezione accompagnata dalla
coscienza. La coscienza di una concezione, cioè la cogitazione, è un senso di
alterazione che avviene nella mente attraverso la concezione stessa 59. In altri
termini, per Burthogge ogni pensiero o cogitazione è accompagnato da coscienza,
tuttavia non tutte le idee o immagini che sono concepite nella mente sono
necessariamente e per forza coscienti.
L’alterazione della mente avviene in primo luogo attraverso la sensazione degli
oggetti, cioè quando la mente è conscia che essi esercitano un’impressione su di
essa. La sensazione diviene così, nell’empirismo di Burthogge, la conoscenza
base per la formazione di ogni concezione e coscienza, opponendosi in questo
esplicitamente alle posizioni di Descartes e Honoré Fabri, i quali non solo
avevano negato che la sensazione fosse un tipo di conoscenza sempre
accompagnata da coscienza, ma anche che essa fosse un tipo particolare di facoltà
che avesse a che fare con i concetti60. Per Burthogge è tuttavia evidente che la
sensazione è una capacità che appartiene a tutti gli animali, per cui ciò che
distingue la mente umana da tutte le altre è la sua applicazione all’oggetto, un atto
questo chiamato mentalizzazione o attenzione della mente (minding/attention of
mind)61. Senza attenzione non ci sarebbe alcuna concezione e così alcuna
coscienza. Tuttavia, Burthogge non nega che gli animali abbiano coscienza; infatti
siccome l’essere coscienti non è altro che avere una sensazione dell’alterazione
operata nella mente da nuove affezioni, anch’essi a buona ragione si possono dire
dotati di coscienza, ma il loro livello di attenzione si ferma alla sensazione stessa,
mentre nella mente umana procede fino alla ragione62.
Burthogge procede così a formulare una rigorosa distinzione fra sensazione,
immaginazione e ragione. La sensazione è ciò che fa conoscere gli oggetti esterni,
i quali sono conosciuti per mezzo di immagini o apparenze o per mezzo dei
sentimenti che eccitano gli organi esterni63. L’immaginazione, invece, è una
specie di senso interno, cioè una rappresentazione dell’immagine o dei sentimenti
affetti dai sensi. Per ultimo, la ragione è la facoltà attraverso la quale si conoscono
Essay, p. 59.
Essay, pp. 59-61.
61
Essay, p. 61.
62
Ibidem.
63
Essay, p. 62.
59
60
13
gli stessi atti della mente e gli oggetti esterni attraverso idee o nozioni. Il processo
che conduce dai sensi alla ragione è così una specie di sublimazione
(sublimation). Infatti, la sensazione è in un certo senso immaginazione, perché
dalla sensazione si produce un’immagine e l’immaginazione è il richiamo o il
ricordo della sensazione. L’immaginazione è però la ripetizione della sensazione
fatta dall’interno, mentre la sensazione è l’immaginazione occasionata sempre
dall’impressione immediata che proviene dall’oggetto esterno. Insomma, in
termini aristotelici, l’immaginazione, che è in diretto contatto con l’oggetto, è la
sensazione, mentre se non è a contatto con questo, è propriamente chiamata con il
suo nome.
La ragione è definita poi da Burthogge come una forma sublimata di
sensazione, cioè la percezione cosciente delle cose per mezzo delle nozioni e non
attraverso immagini o rappresentazioni sensibili delle cose. Così in definitiva
Burthogge afferma che le fonti della conoscenza sono riducibili a due: la
sensazione e la ragione, mentre l’immaginazione svolge un ruolo di semplice
raccordo e congiunzione fra queste due facoltà. Tutta la conoscenza comincia
necessariamente dalla sensazione e in ciò sta l’approccio empirico di Burthogge.
Tuttavia, non tutta la conoscenza deriva dalla sensazione, dato che una vera
conoscenza è possibile solo mediante le nozioni della ragione ed è per questo che
la prospettiva di Burthogge può anche essere definita concettualista64.
A onor del vero, sarebbe meglio caratterizzare la filosofia di Burthogge come
empirico-concettualista; infatti, sensazione e ragione interagiscono in un unico
processo cognitivo al fine di garantire alla mente la conoscenza degli oggetti. Il
processo cognitivo è caratterizzato da due operazioni essenziali: 1) l’apprensione;
2) il giudizio65.
4. Apprensione
La prima e più importante operazione della mente è l’apprensione che è la
capacità di vedere o percepire le cose, ed è in relazione alla mente così come la
64
65
Essay, p. 63.
Organum, pp. 10-11.
14
vista è in relazione all’occhio66. Questo non significa che l’apprensione sia un
diverso nome dato alla capacità di vedere, infatti, l’apprensione tratta in generale
la capacità di sentire e percepire ciò che la vista stessa e gli altri sensi le
forniscono. L’analogia posta da Burthogge significa piuttosto che l’apprensione
sta alla mente in modo meramente strumentale, come un organo che deve
effettuare specifiche funzioni.
Burthogge considera l’apprensione da due punti di vista differenti, uno rispetto
all’uso ordinario che concerne le parole, il secondo – quello più proprio che
riguarda l’aspetto epistemologico – concerne le nozioni67. Poco c’è da dire sul
primo aspetto dell’apprensione se non che è quell’operazione che permette la
comprensione delle parole. Questa comprensione avviene su due livelli di
significato delle parole, uno verbale e uno reale. Questa distinzione nasce a causa
dei limiti della ragione umana che spesso assegna parole e significati a cose che
non sono a loro appropriati. Al fine di cogliere il significato reale delle cose, cioè
quando il significato reale e quello verbale vengono a coincidere, le cose devono
essere apprese chiaramente e distintamente dalla mente.
Diviene così necessaria l’analisi dell’apprensione non nel suo uso ordinario,
ma in quello più specifico che concerne il processo cognitivo. Per chiarezza
(clearness) dell’apprensione Burthogge intende la medesima cosa che per
chiarezza della vista, cioè una certa luce per vedere le cose al di fuori
dell’oscurità68. La luce intellettuale è ciò che permette all’intelletto di vedere e
apprendere il suo oggetto come qualcosa di manifesto. Essa è chiamata anche luce
naturale o della ragione ed è opposta alla luce della rivelazione. Alcune cose,
afferma Burthogge, possono essere viste da entrambe le luci, le quali comunque
non si contraddicono mai l’una con l’altra: infatti, ciò che è vero per una luce è
vero anche per l’altra69. La chiarezza dell’apprensione concerne così
principalmente la capacità di individuare l’oggetto proprio della conoscenza e i
limiti entro cui questa conoscenza può essere esercitata.
Organum, p. 11; Essay, p. 66.
Essay, p. 66.
68
Organum, p. 19.
69
Organum, pp. 19-20.
66
67
15
La distinzione (distinctness), invece, è la capacità di formare la nozione di una
cosa in modo tale che essa si possa distinguere da tutte le altre. La distinzione
dell’apprensione si acquisisce principalmente o attraverso un processo distintivo
(distinction) o attraverso la definizione (definition). Il processo distintivo consiste
nel determinare uno specifico senso di una cosa attraverso una particolare
caratteristica, mentre la definizione consiste in una descrizione, cioè in una
rappresentazione di una cosa attraverso i suoi attributi. Più una cosa è
caratterizzata, cioè più note caratteristiche possiede, e più distinta è la conoscenza
che la mente ha di essa.
Per raggiungere l’adeguata chiarezza e distinzione nell’apprensione, secondo
Burthogge bisogna fare attenzione a quattro condizioni. La prima condizione è
avere una debita, adeguata e significativa rappresentazione dell’oggetto, in modo
tale che si possa procedere con l’esposizione di essa in modo didattico dagli
elementi più semplici a quelli più complessi70.
La seconda condizione è avere una giusta disposizione delle facoltà cognitive e
dei temperamenti, cioè non essere corrotti dai pregiudizi dell’educazione, dei
costumi, delle passioni e dei falsi presupposti. Ciò consiste in campo
epistemologico in una certa “sanità della mente” (sanity of mind), alla quale
corrisponde in campo etico una “santità della mente” (sanctity of mind) per agire
in modo morale71.
La terza condizione è avere una debita distanza dall’oggetto, cioè non
osservarlo né da troppo vicino né da troppo lontano, altrimenti sfuggirebbero da
una parte l’insieme dell’oggetto e la sua organicità e dall’altra gli elementi più
piccoli72.
Infine è necessaria una dovuta attenzione all’oggetto in modo da formare di
esso una nozione corretta; una particolarità questa che, come si è visto,
contraddistingue in modo precipuo gli esseri umani73.
Una volta determinate le caratteristiche dell’apprensione è possibile
comprendere la duplice funzione che essa svolge nel processo cognitivo. Da una
Organum, p. 27.
Organum, p. 28.
72
Organum, pp. 28-29.
73
Organum, p. 29.
70
71
16
parte l’apprensione è in relazione alle cose così come sono in se stesse e dall’altra
è in relazione alle cose così come sono notate o osservate. Burthogge è
particolarmente interessato a quest’ultimo aspetto. “Notare” ha per Burthogge
diverse accezioni: una prima riguarda la capacità di riconoscere qualche cosa
rispetto alle altre; una seconda accezione considera “notare” come registrare;
infine, in una terza e ultima accezione “notare” significa caratterizzare qualcosa in
un particolare modo affinché questa cosa possa essere sostituita dalla nota stessa.
In Burthogge il confine di queste accezioni è molto vago e le diverse funzioni del
“notare” si accavallano l’una con l’altra74.
Le cose sono designate o da semplici parole o da proposizioni, che sono parole
congiunte in affermazioni e negazioni. Sia le parole sia le proposizioni sono
apprese dalla mente solo in quanto essa concepisce il loro senso. Il senso (o
significato) – Burthogge ancora non distingue questi due elementi – è il motivo e
l’oggetto immediato dell’apprensione, così come ad esempio il colore lo può
essere della vista. Infatti, l’occhio non vede se non rispetto a qualcosa che è
colorato, così la mente non comprende se non il senso (sence) di qualcosa75. Il
senso viene ad essere per Burthogge il proprio, adeguato e immediato oggetto
della mente percepito per mezzo dell’apprensione76.
In questo modo, il filosofo inglese si scaglia conto coloro i quali sostengono
che la verità sia l’oggetto proprio e adeguato dell’intelletto. La verità entra in
gioco solo con l’operazione del giudizio – da non confondere con l’operazione di
combinazione dei termini semplici in proposizioni – la quale esprime il suo
assenso nei confronti dell’oggetto appreso. Infatti, è possibile apprendere il senso
di una cosa, ma rifiutarne l’assenso, mentre non è affatto possibile il l’inverso
perché non ci sarebbe alcun oggetto su cui assentire.
Ma che cosa intende veramente Burthogge per “senso”? Sulla scia delle
posizioni concettualistiche di Hobbes e Coke77, Burthogge afferma che il senso è
la nozione che si forma della mente al posto di una cosa, così come il colore è un
sentimento generato e causato nell’occhio da un’impressione dell’oggetto su di
Organum, p. 11.
Organum, p. 11: «Sence or Meaning is the Motive and immediate Object of Apprehension, as
Colour is of Seeing».
76
Ibidem.
77
Sul concettualismo di Hobbes cfr. Dal Pra 1962; Pacchi 1965; Gargani 1983.
74
75
17
esso78. Il senso perciò è qualcosa che è generato completamente nella mente e
come tale viene appreso rispetto ad un oggetto che è nel mondo, fuori dalla mente.
Per capire bene cosa intenda Burthogge per “senso” è necessario analizzare la sua
dottrina delle nozioni, che trasforma in modo decisamente originale la dottrina
aristotelica delle primae e secundae notiones, la quale aveva avuto larga
diffusione con la disseminazione delle opere degli aristotelici patavini in
Inghilterra e con le rielaborazioni da parte degli aristotelici britannici79.
Il concetto di “nozione” ha due significati. Il significato più ampio definisce la
nozione come qualsiasi concezione o pensiero formato nella mente dalle
impressioni che gli oggetti hanno esercitato sui sensi. Sotto quest’aspetto,
Burthogge nega la possibilità che vi siano delle idee innate nell’intelletto: tutte le
nozioni provengono dai sensi. Tuttavia, Burthogge ammette la possibilità che
nella mente ci siano delle nozioni che appaiono innate e tali nozioni sono dette
prolessi (prolepses), anticipazioni o principi80. Queste anticipazioni, o principi,
non sono veramente innate, ma sono inculcate e apprese molto presto, quando si è
ancora infanti, tanto che vengono conosciute inconsciamente e sembrano perciò
essere innate. Per esempio il principio secondo il quale “il tutto è maggiore della
parte” sembra essere innato, dato che la mente fornisce ad esso un naturale
assenso81. Ma, invero, si può dire di conoscere questo principio solo dopo aver
conosciuto i concetti di parte, tutto, maggiore e minore.
A fianco dell’accezione generale di “nozione” come pensiero, ce n’è un’altra
più ristretta e più interessante che si riferisce alla nozione come modus
concipiendi. Come si è già accennato non si tratta di una novità assoluta: già
Zabarella, infatti, identificava le secundae notiones con i modi considerandi82, e
Organum, p. 12: «Sence or Meaning is that Conception or Notion that is formed in the Mind, on
a proposal to if of an Object […] as Colour is that Sentiment begotten, and caused in the Eye, upon
the impression of its Object on it».
79
Cfr. Zabarella 1597, c. 6 A-B: «Sunt autem primae notiones nomina statim res significantia per
medios animi conceptus, ut animal et homo, seu conceptus ipsi, quorum haec nomina signa sunt
[…] Nominibus quidem primae notionis statim res ipsa significata extra animum respondet, quo
circa haec opus nostrum esse non dicuntur: nemo enim coelum, elementa, animalia et stirpes opus
humanum esse diceret […] secundae vero sunt alia nomina his nominibus imposita, ut genus,
species, nomen, verbum, propositio, syllogismus, et alia eiusmodi sive conceptus ipsi, qui per haec
nomina significantur». Dottrine simili si possono trovare nei manuali di Mark Duncan, Robert
Balfour, Samuel Smith, Robert Sanderson, John Flavell, così come nell’opera di Thomas Hobbes.
80
Organum, pp. 37-38; Essay, p. 73.
81
Organum, p. 39.
82
Cfr. Pozzo 1998.
78
18
così poi facevano tutti gli aristotelici britannici della prima metà del XVII secolo.
L’aspetto interessante della teoria di Burthogge è che applica sistematicamente
questo concetto alla sua teoria gnoseologica. La nozione come modus concipiendi
è un particolare modo di concepire le cose per il quale esse non sono veramente le
cose stesse, ma sono propriamente oggetti: oggetti del pensiero. Infatti, in ogni
cosa, secondo Burthogge, c’è sempre qualcosa di puramente oggettivo o nozionale
(notional) che è appunto il modo in cui essa viene appresa83.
Così per Burthogge la ragione non apprende mai direttamente le cose in se
stesse o come aspetti di esse, ma le apprende rispetto a certe nozioni che fanno di
esse degli oggetti della mente84. Queste nozioni o modi concipiendi sono definite
da Burthogge come enti di ragione che non hanno fondamento nelle cose stesse,
ma hanno un “essere formale” solo nella mente che li struttura85. In particolare
questi modi concipiendi per Burthogge sono l’entità (sostanza-accidente), la
quantità (tutto-parte, grande-piccolo), la qualità e l’azione (causa-effetto)86. Si
tratta di una lista che evidentemente Burthogge modella sulla tavola delle
categorie
aristoteliche
e
che
differisce
sostanzialmente,
sebbene
non
funzionalmente, dalla lista dei modi considerandi della logica aristotelica
moderna: essa comprendeva in particolare “genere”, “specie” e “differenza
specifica”, ma lasciava anche aperte le porte alla possibilità di aggiungere altri
concetti come modi di considerare, concepire e conoscere le cose87. È interessante
inoltre notare come i modi concipiendi di Burthogge siano sia funzionalmente, ma
anche nel loro elenco, molto simili alle categorie dell’intelletto di Kant. Proprio
come il filosofo di Königsberg, un secolo prima Burthogge affermava che questi
modi concipiendi erano delle nozioni primitive (primitive notions) sotto le quali
comprendere e ricevere gli oggetti88 e aggiungeva che nessuna cosa poteva essere
compresa dall’intelletto se non per mezzo della nozione dell’entità, della sostanza
o dell’accidente, della causa o dell’effetto, della quantità o della qualità89. Il
Essay, p. 74. I termini “oggetto” e “oggettivo” va considerato alla maniera scolastica come
“oggetto della mente” e “mentale”.
84
Essay, p. 75.
85
Essay, p. 80.
86
Essay, pp. 75, 77.
87
Cfr. Organum, p. 29.
88
Essay, p. 77.
89
Essay, pp. 75-76.
83
19
filosofo aggiungeva anche che nessuna sostanza, nessun accidente, nessuna causa,
nessun effetto, esistono nelle cose, ma che essi sono solo nozioni (abiti delle
nozioni, dresses of notions), “filtri” attraverso i quali leggere la realtà90.
Ne segue così un corollario fondamentale dell’epistemologia di Burthogge: le
cose non sono mai per la mente così come sono, ma sono sempre così come la
mente le concepisce, rafforzando ancor di più la sua posizione concettualista.
Inoltre, se, come si è detto, il senso è la nozione che si forma nella mente della
cosa, si può dire che la mente non conosce mai le cose così come sono, ma
sempre e solo così come le significa, cioè secondo il senso che attribuisce a esse.
Le cose per gli uomini, afferma esplicitamente Burthogge, non sono mai
conosciute come realmente sono, ma sono sempre conosciute per analogia91, cioè
le cose sono per noi così come esse vengono conosciute per mezzo dei modi
concipiendi92. Quindi gli oggetti sono solo in quanto “prodotti” delle nostre
facoltà mentali e senza di esse non hanno alcuna realtà. Egli aggiunge che gli
oggetti non sono nemmeno da considerarsi come delle rappresentazioni o
immagini che in qualche modo corrispondano direttamente alla cosa, opponendosi
così alla posizione corrispondentista e rappresentazionalista all’epoca ancora
sostenuta parzialmente da Smiglecki e Hobbes. Infatti, la ragione non si riferisce
immediatamente alle cose, dalle quali scaturirebbero immagini e rappresentazioni,
ma piuttosto si riferisce alle sensazioni93. Inoltre, aggiunge Burthogge, la ragione
è una facoltà che non attinge immediatamente il particolare dalla natura, ma
piuttosto procede per mezzo di astrazione e ha a che fare con gli universali. La
ragione perciò non tratta di immagini o rappresentazioni, ma di loro sublimazioni,
anche se è cosciente che tali astrazioni sono concetti inadeguati per spiegare
esaustivamente il particolare. Per ultimo, così come l’oggetto immediato dei sensi
è ciò che affetta il sentimento, l’oggetto della ragione è qualche cosa di
intellettuale, escludendo così le immagini che derivano o dai sensi o da un loro
ricordo.
Essay, pp. 80-81.
Organum, p. 12: «To understand this, we are to consider, That to us men, things are nothing but
as they stand in our Analogie; that is, are nothing to us but as they are known by us»; Essay, p. 76.
92
Organum, p. 12.
93
Essay, p. 77.
90
91
20
Le cose conosciute, cioè gli oggetti, sono solo apparenze e fenomeni generati
dalle impressioni sulle nostre facoltà. Gli oggetti della conoscenza perciò non
sono più le cose in se stesse, ma le cose così come appaiono e vengono significate
dalla mente94. Ogni facoltà, afferma Burthogge, ha un ruolo decisivo «in making
its immediate Object»95; infatti, così come l’occhio “fa” il colore, l’orecchio il
suono, la fantasia le immagini, così anche l’intelletto costruisce i propri concetti
(o nozioni) attraverso i quali apprende le cose96. Nell’affermare ciò, Burthogge
non sta solo dicendo che le proprietà secondarie come il colore e il suono hanno
origine nella mente e non competono alle cose, ma sta sancendo anche che ogni
proprietà degli oggetti e gli oggetti stessi non sono altro che prodotti del pensiero,
degli entia cogitationis97. La realtà di Burthogge viene così privata da ogni statuto
ontologico e assurge a mera virtualità: ogni ens reale diviene un ens rationis.
Infatti, questi entia cogitationis sono tutte delle apparenze (appearances) che non
sono, usando termini legati alla Scolastica, «properly and formally in the things
themselves»98, cioè non si può sapere se essi si riferiscano realmente e veramente
alle cose e abbiano una corrispondenza con esse. Ciò di cui si è certi, è che le
apparenze hanno uno statuto ontologico virtuale solo in relazione alle facoltà
cognitive e questo sembra evidente a Burthogge ancora una volta se si pensa ai
sensi: nessun colore può essere se non nell’occhio, nessun suono può essere se
non nell’orecchio, così nessuna nozione e nessun senso saranno se non nella
mente. Gli entia cogitationis sembrano essere negli oggetti anche senza le facoltà
cognitive, ma, aggiunge Burthogge, lo sono nella stessa misura in cui
un’immagine è (riflessa) in uno specchio o nell’acqua99.
Quindi tutte le cose in quanto entia cogitationis sono in funzione delle facoltà
cognitive, cioè entità della sensazione, se oggetti immediati dei sensi, immagini,
Non del tutto a torto in questa dottrina Landes aveva visto in nuce la contrapposizione kantiana
fra fenomeni (come cose che appaiono) e noumeni (come cose in sé).
95
Organum, p. 12. Il corsivo è mio.
96
In questo senso la prospettiva di Burthogge può essere considerata come un costruttivismo
debole, cioè che si conosce solo ciò che si costruisce, ma si è coscienti di conoscerlo solo come
apparenza. Il costruttivismo forte, invece, afferma che ciò che si costruisce o si fa è la realtà. Sui
diversi tipi di costruttivismo, cfr. Rockmore 2005.
97
Organum, p. 12.
98
Ibidem.
99
Organum, p. 13
94
21
se oggetti dell’immaginazione, e entità mentali (o nozioni), se oggetti della
ragione100.
Gli entia cogitationis (cogitable beings) non hanno perciò alcun fondamento
nella realtà senza le facoltà cognitive, ma sono effetti di esse: sono in un certo
senso chimere o finzioni in relazione ai sensi all’immaginazione, mentre sono
semplici nozioni in relazione all’intelletto101.
Il fatto che la ragione non percepisca la realtà delle cose come sono in se stesse
e che essa dipenda dalla mente, non significa che nulla sia reale 102. Burthogge si
rende conto dell’originalità di questo suo argomento e della necessità che esso
venga difeso103. È vero che per mezzo dei modi concipiendi conosciamo le cose
così come appaiono alla mente e non come sono, tuttavia bisogna ammettere che
queste
in
un
certo
senso
sono,
cioè
che
abbiano
un
fondamento
(ground/foundation) nelle cose e tale fondamento consiste proprio nell’essere
causa (cause) e occasione (occasion) della produzione delle apparenze nella
mente104.
In questo senso Burthogge ricorre, come farà Kant, alla cosiddetta “groundtheory”, secondo la quale è vero che le cose vengono conosciute come appaiono,
ma queste non sono create completamente dalla mente. Le cose hanno una realtà
in se stesse che è sconosciuta, ma che è principio della conoscenza: ci sono delle
cose del mondo che non sono conoscibili così come sono, ma esistono realmente.
L’esistenza di queste cose ha senso solo nella misura in cui esse si fanno
conoscere in un particolare modo, cioè appaiono alla mente attraverso i suoi vari
modi concipiendi. In termini scolastici – così come Burthogge si esprime – gli
oggetti della conoscenza sono reali non formalmente, ma fondamentalmente, cioè
sono solo occasionalmente nelle cose, mentre sono sempre propriamente nella
mente105. In questo senso, la nozione mentale si chiama oggetto in quanto oggetto
Ibidem.
Organum, p. 14.
102
Essay, p. 84.
103
Essay, pp. 86-89.
104
Organum, p. 12: «they are in our Faculties not in their Realities as they be without them, no nor
so much as by Picture and proper Representation, but onely by certain Appearances and
Phaenomena, which their impressions on the Faculties do either cause or occasion in them»
105
Organum, p. 14: «they are real (as a School-man would express it) not formally, but
fundamentally; they are inchoately and occasionally in the things, but not consummately and
100
101
22
della mente nel processo cognitivo e corrisponde a ciò che gli scolastici
chiamavano conceptus objectivi. L’epistemologia di Burthogge è così ancora
legata ad un modello essenzializzato di gnoseologia scolastica, ma trasforma
questi temi in una più elaborata logica delle facoltà e teoria della conoscenza che
erano del tutto sconosciute in quel periodo, e che lasciano preconizzare alcuni
aspetti simili all’epistemologia kantiana.
L’oggetto della conoscenza è semplicemente un’apparenza, un fenomeno, ma
ben fondato nella realtà. Burthogge riconosce che questa sua posizione possa
avere un antecedente in Platone, per il quale le cose del mondo sono solo ombre e
apparenze e il reale risiede nel mondo ideale106. Tuttavia, il filosofo inglese
afferma che solo ciò che si conosce è un’apparenza, e che ciò che è reale è nel
mondo esterno e non nel mondo delle idee. La teoria di Burthogge così si svincola
da una certa tradizione platonica professata da molti pensatori al suo tempo107.
Il modello di conoscenza elaborato da Burthogge è perciò intenzionale
(intentional), piuttosto che reale108: tutto ciò che è conosciuto è un’idea, un
concetto oggettivo, appunto un cogitabile che dà senso alle impressioni che
provengono dalla sensazione.
È proprio nell’intenzionalità della conoscenza che sta il nesso fra il “senso” e la
nozione. Come si è visto, Burthogge identifica il senso con la nozione mentale in
quanto oggetto del pensiero, ma li distingue dal punto di vista funzionale: si parla
di senso solo in relazione a parole o proposizioni, mentre si parla di nozione solo
in relazione agli oggetti della conoscenza. È chiaro però per il filosofo inglese,
riprendendo su questo punto la posizione concettualista di Hobbes, che è
impossibile apprendere una parola o una proposizione senza il senso, né il senso
senza una corrispondente nozione; infatti, conoscere il senso di una parola
significa in primo luogo costruire una nozione di essa. Perciò i concetti hanno una
priorità epistemologica anche rispetto al senso e alla parola e non solo rispetto
all’oggetto che viene conosciuto per mezzo dei modi concipiendi.
formally but in the Faculties; not in the things, but as the things relate to our Faculties; that is, not
in the things as they are Things, but as they are Objects».
106
Essay, pp. 88-89.
107
Sull’epistemologia dei platonici di Cambridge cfr. Brown 2010.
108
Essay, p. 82.
23
Rimane però da risolvere la non facile questione di come le nozioni, per mezzo
del senso, corrispondano alle cose del mondo, soprattutto se è vero che abbiano un
fondamento in esso. Alcune posizione concettualiste, come quella di Zabarella,
lasciavano irrisolto il problema, stabilendo una perfetta corrispondenza fra le cose
e le nozioni mentali; altre, come quella di Hobbes, ricorrevano all’ipotesi più
raffinata della mente specchio del mondo. Burthogge propone, invece, una
soluzione diversa. Il senso è dato solo da una congruità nell’oggetto rispetto alle
facoltà, dove per oggetto si intende sempre un oggetto mentale: «Sence, Meaning,
or Notion arises from a Congruity in the Object to the Faculty»109. In altri termini
l’oggetto in quanto concetto mentale deve essere congruo alle condizioni e alle
leggi interne della mente, altrimenti questo oggetto sarebbe un oggetto del tutto
insignificante, sebbene ancora rappresentabile. Spiegare bene che cosa sia questa
congruità risulta piuttosto difficile anche per Burthogge, e si ha l’impressione che,
come Zabarella e Hobbes, voglia in parte sorvolare sopra l’argomento; ma
siccome su questa questione si gioca tutta la sua logica, il filosofo inglese cerca di
abbozzare una risposta, ricorrendo ancora una volta al parallelo con la sensazione.
Domandarsi perché non si possa comprendere una parola o una proposizione
senza senso, che è laddove non vi è congruità nell’oggetto rispetto alla facoltà,
significa paradossalmente chiedersi perché non si possano vedere o udire i gusti, o
gustare e odorare i suoni, o così gustare, udire e odorare i colori 110. La ragione
può comprendere solo ciò che ha un senso, quel senso che essa stessa fornisce a
ciò che è dato dall’esperienza. Un senso però, è bene ricordarlo, che deve essere
congruo alle facoltà stesse che percepiscono l’oggetto. Ad esempio, se si
percepisce un “cavallo”, non può dire di percepire la “cavallinità” o un’animale
quadrupede, perché la sensazione sottostà a delle leggi che individuano l’oggetto
e che non permettono la considerazione dell’universale. Così parimenti l’intelletto
non si occupa uno specifico cavallo, ma con la “cavallinità” secondo le modalità
di sostanza-accidente, causa-effetto etc.
È chiaro quindi che la congruità di cui parla Burthogge è puramente logicomentale. Infatti, egli si premura di distinguere questo tipo di congruità da quella
degli oggetti con se stessi o con altri oggetti: la prima è chiamata congruità
109
110
Organum, p. 15.
Ibidem.
24
rispetto alle facoltà o armonia degli oggetti con le loro facoltà, la seconda è
chiamata congruità nelle cose o armonia degli oggetti con se stessi111, così come
le parti di un corpo organico convengono a costituire la forma del tutto.
Il rapporto significazionale fra senso e cosa diviene così per Burthogge
totalmente intrinseco alla mente e si fonda sull’idea che ci deve essere
adeguatezza e armonia fra l’oggetto concepito e la facoltà che concepisce, cioè nel
momento in cui l’oggetto mentale viene formato deve adeguarsi alle condizioni
logiche poste dalla mente stessa.
Ciò riguarda l’apprensione di oggetti singoli espressi medianti parole.
Diversamente accade rispetto alla proposizione e al discorso. Infatti, non è
sufficiente conoscere il senso delle parole, bensì bisogna conoscere anche la
relazione di congiunzione che sussiste fra esse, la quale non è che un altro
concetto mentale o modus concipiendi.
L’intera logica di Burthogge si fonda perciò sull’apprensione di una duplice
relazione: quella degli oggetti con la loro facoltà e quella fra diversi oggetti
espressi dalle parole.
5. Giudizio
La seconda operazione specifica della ragione è il giudizio. Questa parte è
trattata da Burthogge solo nell’opera del 1677, mentre non è presa in
considerazione nell’Essay upon Reason che preferisce, invece, trattare dei
problemi legati al rapporto fra mente e corpo che investono la filosofia cartesiana
e spinoziana, ma che in questo ambito non concorrono a spiegare la sua teoria
epistemologica.
Il giudizio è definito come quell’atto dell’intelletto che consente la
comparazione di più cose acquisite dall’apprensione al fine di fornire il proprio
assenso o dissenso112. L’atto del giudizio è presentato come duplice: il primo
aspetto concerne la possibilità di comparare e considerare le cose, mentre il
secondo di analizzarle e decretare su di esse. Si tratta di due momenti distinti, nei
quali la mente da una parte studia l’oggetto e dall’altra pone il suo assenso o
111
112
Ibidem.
Organum, pp. 29-30.
25
dissenso. La prima parte dell’atto del giudizio viene chiamata propriamente
ragionamento, mentre la seconda è invece chiamata risoluzione mediante
ragione113.
Il
ragionamento
consiste
secondo
Burthogge
nella
elaborazione
e
nell’illustrazione di particolari ragioni. La ragione in quanto motivo è il principio,
il fondamento proprio del giudizio intellettuale, cioè la causa per cui l’intelletto
assente o dissente su una particolare considerazione o comparazione di più cose.
L’assenso prodotto dal giudizio, infatti, è l’approvazione dell’intelletto rispetto
alla cosa considerata o alla comparazione effettuata, mentre il dissenso è l’esatto
opposto, ovvero la disapprovazione rispetto a ciò che è considerato e viene
comparato114. In questi termini, Burthogge fa coincidere l’attività suprema del
giudizio con il ragionamento, o, meglio, in piena tradizione aristotelica, con la
dimostrazione. Infatti, mostrare la ragione di una cosa significa provarla, cioè
argomentarla al punto tale che l’interlocutore non può negare che le cose stiano in
quel particolare modo.
La logica è proprio quel metodo che insegna a condurre il ragionamento a
prove che sono inconfutabili rispetto a ciò che si vuole dimostrare. Ci sono due
vie secondo Burthogge per dirigere la mente nel corretto ragionamento: una è
connaturata con la ragione, mentre l’altra è insegnata. A queste due vie
corrispondono una logica artificiale e una logica naturale. La logica artificiale
coinciderebbe per Burthogge con la logica insegnata nelle scuole, la quale è
essenzialmente una logica aristotelica. Essa è utile in molti modi, dall’acuire
l’ingegno al rendere più sagaci, precise e attente le deduzione115. Tuttavia,
ammette Burthogge, la logica artificiale sarebbe completamente inutile senza la
logica naturale. Quest’ultima è una logica “universale” che compete anche alle
persone semplici e illetterate, ma più in generale a tutti gli uomini116, i quali
proprio per la loro comune razionalità, identificata con la logica naturale, possono
dirsi uguali.
Organum, p. 30.
Ibidem.
115
Organum, pp. 30-31.
116
Organum, p. 31.
113
114
26
Essere uguali dal punto di vista razionale significa per Burthogge che, avendo
le stesse facoltà, usando lo stesso metodo e partendo dai medesimi principi, il
risultato dell’inferenza, cioè la conclusione, non può che essere identico per ogni
essere umano. Gli esseri umani ovviamente poi si differenziano nell’uso reale di
questa logica, cioè acquisendo con l’esperienza delle particolari abilità che
consentono loro di utilizzare tecniche di argomentazione e metodi d’indagine ben
specifici che riguardano solo alcuni individui e non altri. La logica quindi insegna
come sviluppare queste potenzialità naturali e come usare la ragione a proprio
vantaggio. I fini per i quali si può utilizzare la logica sono due, uno è speculativo
e uno pratico. Questi due tipi di fine designano anche due funzioni della ragione,
la ragione speculativa o teoretica e la ragione pratica117.
La ragione speculativa ha lo specifico compito di mostrare se una cosa è vera o
falsa, mentre la ragione pratica ha il compito di indicare se una cosa va fatta
oppure no118. Queste due funzioni della ragione sono il fondamento
rispettivamente del giudizio speculativo e del giudizio pratico. Il giudizio
speculativo concerne la verità e la falsità e determina l’assenso o il dissenso,
mentre il giudizio pratico decreta la moralità di un’azione, determinando
approvazione o biasimo.
In particolare Burthogge è interessato al giudizio speculativo, il quale prova
che una cosa è vera o mostra che una cosa è falsa. Verità e falsità sono perciò due
elementi che contraddistinguono il giudizio dall’apprensione, la quale, invece,
considerava solo l’armonia fra l’oggetto e la facoltà preposta per concepirlo, senza
valutarne l’essere vero o falso dell’oggetto stesso: infatti, una nozione può essere
vera o falsa ma non essere riconosciuta come tale119. Come era lecito aspettarsi,
seguendo in questo caso la proposta di Hobbes di origine aristotelica, per
Burthogge anche la verità e la falsità sono due attributi che competono
esclusivamente alla mente e mai alle cose, dato che essi stanno alla mente così
come il bianco e il nero stanno all’occhio: sono attributi mentali del giudizio
riguardo l’oggetto concepito120. Si tratta quindi di una concezione meramente
Organum, pp. 31-32.
Organum, p. 32.
119
Ibidem.
120
Ibidem.
117
118
27
logica della verità. Infatti, Burthogge nega la concezione metafisica della verità
propria dei platonici di Cambridge, per la quale essa sarebbe la conformità delle
cose con le idee originarie nell’intelletto divino. Quest’ultima riguarderebbe le
cose così come sono conosciute da Dio: un tipo di conoscenza del tutto
inaccessibile all’uomo. I limitati poteri della ragione umana hanno a che fare con
un tipo di verità che è semplicemente logica, cioè che stabilisce come sono le cose
così come appaiono alla mente121.
Per spiegare la sua concezione di “verità”, Burthogge prende in esame le
dottrine a quel tempo più in voga, in particolare quella cartesiana e quella di
Herbert di Cherbury. La teoria della verità di Descartes è ricondotta a quella degli
stoici e affermerebbe che non ci sarebbe altra regola, altro segno, altra misura per
distinguere ciò che è vero che una chiara e distinta percezione. Burthogge però
critica subito questa posizione, affermando che la percezione non potrà mai essere
la causa e il fondamento dell’assenso di cui gode la verità, ma solo una condizione
di essa. Infatti la verità è qualcosa nell’oggetto concepito e che invita l’assenso,
mentre la percezione chiara e distinta non è nell’oggetto, bensì dell’oggetto.
Questo non significa per Burthogge che la verità sia nelle cose; essa rimane
sempre nella mente ma appunto in quanto mentale essa scaturisce dall’oggetto
concepito e non è propriamente dell’oggetto: gli oggetti mentali non sono mai veri
o falsi, è la mente che li giudica tali.
Burthogge sembra più vicino alla concezione di verità proposta da Cherbury,
per il quale essa è una sorta di accordo o armonia delle cose alle facoltà della
mente che invita a un libero e pieno assenso122. Tale definizione, tuttavia, era stata
utilizzata da Burthogge per spiegare la congruità delle cose percepite dalla mente,
non per la verità. Tale congruità non può essere quindi il fondamento della verità,
ma piuttosto sarà quella dell’apprensione stessa, sia in relazione ai sensi che
apprendono cose sensibili, sia in relazione all’intelletto che apprende cose
intelligibili.
Organum, p. 33.
Organum, pp. 35-36. Cfr. Cherbury 1633, p. 68: «est enim veritas (uti saepe monuimus)
Harmonia quaedam inter objecta et facultates Analogas, habens sensum gratissimae et
lubentissimae sine ulla haesitatione Respondedntem».
121
122
28
La verità, come motivo, ragione e fondamento dell’assenso, viene così definita
da Burthogge come l’armonia oggettiva, cioè completamente mentale, degli
“oggetti” fra di loro, e quindi non con le facoltà della mente, ma sempre e
comunque all’interno dello schema che questi hanno nella mente stessa: «Truth,
as it is the Ground, Motive, and Reason of Assent, is objective Harmony, or the
Harmony, Congruity, Even-lying, Answerableness, Consistence, Proportion, and
Coherence of things each with other, in the Frame and Scheme in our Mindes»123.
In altre parole questo significa che non solo è necessaria una congruità fra
l’oggetto concepito e la facoltà che lo concepisce secondo le leggi della mente
stessa: questo sarebbe sufficiente solo per avere una conoscenza dell’oggetto. Per
la verità è necessaria anche una congruità delle cose fra loro che però sottostia
anch’essa ai particolari schemi che la mente ha di concepire le cose. Ad esempio,
si pensi all’affermazione “il veleno causa la salute”. Le nozioni di “veleno”,
“causa” e “salute” per essere concepite hanno bisogno solo della loro congruità
con la rispettiva facoltà, cioè devono essere oggetti consistenti e adeguati alla
facoltà di appartenenza. Per determinare la verità dell’affermazione, tuttavia, è
necessario vedere se “veleno” e “salute” siano oggetti consistenti per mezzo della
nozione di causa attraverso cui sono concepiti. Evidentemente questo è falso,
infatti non c’è un’armonia fra queste due nozioni e il modus concipiendi di causa
(che è esso stesso una nozione): il veleno non potrà mai essere causa di salute. Si
badi bene, questo non significa che le tre nozioni siano state apprese in modo
erroneo, piuttosto che non esiste l’armonia e la congruità fra loro. Inoltre è bene
notare che queste tre nozioni, fra cui c’è il modus concipiendi di causa-effetto,
possono benissimo essere in accordo fra loro nell’affermazione “il veleno non
causa salute”. La differenza fra queste due affermazioni è meramente logica e per
Burthogge in ciò consiste la verità in campo epistemologico: una congruità degli
oggetti nella mente secondo specifiche regole logiche e schemi.
Per Burthogge, come nel caso dell’apprensione, anche nel caso del giudizio, è
sempre la mente con la sua attività a fornire una descrizione della realtà per mezzo
dei suoi modi concipiendi e per mezzo delle relazioni che vengono colte fra gli
oggetti stessi. Per Burthogge questo non significa che le cose stiano così e in
123
Organum, p. 41.
29
questa maniera, ma è così che vengono conosciute dall’uomo e altrimenti non
possono essere descritte. Ogni tentativo di dare una spiegazione della realtà al di
là delle apparenze apprese dalla mente è un tentativo non solo destinato al
fallimento, ma anche deleterio, in quanto spinto dalla presunzione di elevare la
limitata ragione umana all’intelletto divino, il solo che conosce le cose come sono
in se stesse veramente.
6. Conclusione
L’epistemologia di Burthogge è dunque interessante per la sua posizione
concettualista e costruttivista, fondata però su un forte piano empirico: quello
della sensazione. Sono diverse le idee epistemologiche di Burthogge che destano
un certo interesse, che mostrano una certa originalità e che devono essere
rivalutate.
Innanzitutto egli difende una concezione strumentale della logica riprendendo e
approfondendo l’idea aristotelica, ma spostando l’interesse verso una logica delle
facoltà che favorisce lo studio della logica naturale che concerne la costituzione
psicologica della mente, piuttosto che la forma delle argomentazioni logiche. Si
tratta questa di una posizione che avrà largo seguito in Locke e in tutta la logica
psicologica del Settecento. Nell’elaborare questo particolare tipo di logica,
Burthogge determina i limiti della ragione umana, confinando il suo campo di
competenza a tutto ciò di cui si fa esperienza e in modo particolare a ciò che
proviene dai sensi. Questo non significa che la conoscenza sia semplicemente
conoscenza sensibile, ma solo che tutta la conoscenza ha origine dall’esperienza,
mentre la conoscenza intellettuale è semplicemente un riflesso di questa. Tutta la
conoscenza proveniente dalla sensazione è una conoscenza filtrata attraverso dei
modi concipiendi – come la sostanza, la quantità, la qualità, la causalità – che
appartengono alla ragione e fanno conoscere le cose al soggetto secondo una
particolare determinazione. La conoscenza è così indubbiamente il risultato di
un’azione congiunta fra sensazione e i modi concipiendi che si esplica in un
processo di sublimazione delle sensazioni in concezioni. Tale conoscenza è una
conoscenza meramente fenomenica, cioè riguarda gli oggetti così come appaiono
alla mente attraverso i suoi modi concipiendi e non come veramente sono nella
30
realtà: l’accesso alla sostanza è totalmente negato. In questo senso è la mente che
“significa” gli oggetti per mezzo delle facoltà cognitive. Così, inevitabilmente, gli
oggetti non hanno realtà e senso se non in relazione alla mente: essi sono entia
cogitationis. Non esistono realmente, o meglio la loro esistenza reale nel mondo è
insignificante per la mente che li concepisce come semplici apparenze. Essi hanno
valore solo all’interno del processo cognitivo. Gli oggetti della mente sottostanno
a regole a priori che sono costitutive della mente stessa. Non solo perché gli
oggetti sono conosciuti per mezzo dei modi concipiendi, ma anche perché questi
oggetti devono essere congruenti alle rispettive facoltà. L’intelletto non può
concepire un’immagine o una sensazione, così come l’immaginazione non può
raffigurarsi un concetto. Ogni facoltà ha un proprio oggetto che è appreso secondo
particolari leggi. La mente, tuttavia, costruisce solo i “fenomeni”, che sono oggetti
puramente mentali, non produce dal nulla le cose del mondo. Queste sono
esistenti nel mondo in quanto cause delle alterazioni delle sensazioni percepite
dalla mente. I fenomeni hanno perciò un fondamento nelle cose, sebbene questo
fondamento sia di per sé inconoscibile. Questa concezione epistemologica implica
necessariamente che la verità non appartiene mai alle cose, ma sempre, solo ed
esclusivamente alla mente e consiste nella congruità degli oggetti fra loro,
secondo le leggi e gli schemi mentali che appartengono a priori alla mente stessa.
Solo questo tipo di verità produce l’assenso che porta a una conoscenza rigorosa
degli oggetti.
Sottesa a questa epistemologia concettualista, Burthogge elabora una teoria
funzionalistica della mente come centro di attività, energia e operazioni, piuttosto
che come una cosa o una sostanza. Così, la stessa coscienza non è coscienza della
mente stessa, come res cogitans, quanto coscienza delle attività che la mente
esercita per mezzo delle sue facoltà. Il soggetto non è mai conscio di sé stesso
come sostanza, ma sempre come centro di operazioni cogitative. In particolare la
coscienza
deriva
dalle
differenti
concezioni
mentali
che
si
fondano
sull’alterazione prodotta dagli oggetti sulla sensazione.
Nella prospettiva di Burthogge la relazione fra mente e mondo è risolta
totalmente a favore del primo termine a discapito del secondo. È la mente che dà
un significato al mondo e costruisce i propri oggetti. Questo non vuol dire che il
31
mondo sia così come viene costruito, ma che è così che lo si conosce, come esso
appare, e altrimenti non lo si potrebbe descrivere con le limitate capacità umane.
L’alternativa è la caduta in un ontologismo della sostanza occulta e inconoscibile.
Quanto ci sia nell’empirismo di Locke e nel criticismo di Kant di queste
dottrine di Burthogge è difficile dirlo, tuttavia è senz’altro una posizione
epistemologica innovativa e interessante, degna di essere ricordata fra le più
importanti del panorama logico inglese della fine del XVII secolo.
Infine, il caso di Burthogge mostra con evidenza come le ricostruzioni
filosofiche
che
riconducono
le
dottrine
gnoseologiche
pre-lockiane
e
contestualizzano la stessa opera di Locke all’interno dell’ambiente cartesiano
siano piuttosto generiche e in un certo senso anche fuorvianti. Non solo c’erano
solo Descartes e i suoi seguaci sull’agenda dei filosofi del periodo.
La situazione all’epoca era ben più complessa: diverse e divergenti teorie
gnoseologiche stavano nascendo in Inghilterra con spiccati tratti di originalità.
Solo un meticoloso lavoro storico di “decolonizzazione del passato” e una forte
attenzione verso i “trucioli del pensiero” possono restituire l’immagine di un
scenario fondamentale della storia della filosofia moderna come quello
dell’Inghilterra sul finire del XVII secolo124.
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