Dr.ssa Gigliola Vadalà
Le caratteristiche del contratto terapeutico e la sua
applicazione nell’approccio con l’adolescente in
crisi
(elaborato presentato come tesina per il secondo anno della
scuola di specializzazione in Psicoterapia I.A.C.P.)
Indice
Introduzione……………………………………………………………..3
1. Il contratto terapeutico……………………………………………5
1.1 Aspetti generali…………………………………………………..5
1.2 Il contratto terapeutico:definizione………………………………6
2. L’adolescente e le sue sfide………………………………………..8
2.1 Il lavoro con l’adolescente: un setting particolare……………….8
2.2 L’adolescente e le sue trasformazioni……………………………9
2.3 Adolescenza come “crisi per eccesso”………………………….10
2.4 I compiti evolutivi dell’adolescenza…………………………….11
2.5 Genitori e figli adolescenti………………………………………12
3. L’adolescente e lo psicologo:caratteristiche e regole nella
consultazione………………………………………………………13
3.1 Elementi del colloquio con l’adolescente in crisi……………….13
3.2 Atteggiamenti del terapeuta……………………………………..14
Conclusioni………………………………………………………………18
Bibliografia
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INTRODUZIONE
Si sente spesso dire dagli adulti che l’adolescente non è “né carne, né
pesce”, intendendo dire che egli non è più un bambino, ma non è ancora un
adulto.
Spesso si tratta di un’ etichetta svalutante, in cui si sottolinea quello che l’adolescente
NON E’, piuttosto che cercare di capire l’essenza del suo essere. L’adolescente in
realtà avverte in pieno una serie di trasformazioni e disarmonie: da un lato tante
nuove scoperte ed esigenze vicine al mondo dell’adulto, dall’altro modalità, bisogni
ed aspetti di sé più infantili. Volendo inquadrare con una battuta questa fase della
vita, verrebbe quasi da dire che l’adolescente vive, invece, il dramma esistenziale di
sentirsi “sia carne che pesce”!
In questo lavoro si parla di adolescenti alle prese con il difficile obiettivo di superare i
compiti evolutivi, propri di questo periodo della vita, per arrivare all’indipendenza e
all’autonomia. Si tratta di chiudere definitivamente con un’epoca ed entrare in un
nuovo sistema di rappresentazioni che concernono il rapporto con i genitori, con la
coppia, con i valori dell’identità di genere, con la società degli adulti e le sue
istituzioni (Charmet.1996).
Alcuni però non ce la fanno a chiudere con l’adolescenza, sono ragazzi “in crisi” che
arrivano alla consultazione.
Condividendo l’ipotesi che l’adolescenza e tutte le sue molteplici manifestazioni non
siano una malattia, ma una stagione della vita, mi sono proposta di analizzare come
può essere organizzato un intervento d’aiuto all’adolescente in difficoltà partendo da
un aspetto della consultazione: il contratto terapeutico (prima definendolo negli
aspetti più generali, poi nella specifica applicazione con l’adolescente). Esso diventa
un elemento necessario per definire e ricontestualizzare ad ogni momento la relazione
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con l’adolescente, caratterizzata dalla sua incapacità di mentalizzare le emozioni e i
vissuti e la naturale tendenza agli agiti (Telleschi,1988).
Infine, mi sono soffermata sulle competenze e le attitudini che dovrebbe possedere il
terapeuta per meglio relazionarsi nell’approccio con l’adolescente,
riprendendo
alcuni concetti della teoria rogersiana quali l’ascolto, l’empatia, la congruenza,
l’accettazione incondizionata e la fiducia nell’altro.
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1. IL CONTRATTO TERAPEUTICO
1.1 Aspetti generali
Il contratto terapeutico rappresenta una parte importante della consulatazione con il
cliente e precisamente apre la possibilità di un lavoro psicoterapico possibile. Durante
il primo contatto o i primi colloqui, il terapeuta si impegna a conoscere alcuni aspetti
della persona per poter poi fissare degli obiettivi. E’ importante però sottolineare che
durante il colloquio, il terapeuta deve assumere un atteggiamento di base che
permetta al cliente di esprimersi liberamente. L’atmosfera che si rivela più sicura e
produttiva, dice Kopp è quella in cui niente di ciò che viene detto provoca critiche,
raffronti punitivi o un tono del discorso che faccia intendere al paziente che egli
agisce in modo esattamente opposto a quello in cui dovrebbe agire in quel momento
(Kopp, 1979).
Secondo Rogers (1971) lo psicologo, durante il primo colloquio, non ha il compito di
conoscere la storia completa della persona poiché “…quando lo psicologo assume
questo atteggiamento teso ad ottenere le informazioni necessarie per raccogliere una
buona storia del caso, il soggetto non può fare a meno che sentire che la
responsabilità della soluzione dei suoi problemi è stata assunta dallo psicologo”.
Prima di stipulare un contratto è necessario esplorare insieme al cliente le cause del
suo disagio e i modi più opportuni per affrontarlo. Talvolta, infatti, l’intervento più
adatto può essere un altro (gruppi, lavoro di coppia, altri orientamenti…), oppure la
persona non è sufficientemente motivata ad affrontare una psicoterapia. Altre volte
può succedere che le richieste possono riguardare situazioni in cui sono più indicati
altri tipi di intervento: medico, psichiatrico, sociale, psicopedagogico, riabilitativo,
legale…
Secondo Rogers prima di decidere di formulare un contratto il terapeuta deve
analizzare certi fattori che determinano la scelta di proseguire o meno con quel
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cliente. Prima di tutto vedere se la persona vive uno stato di tensione o stress, il
trattamento è efficace solo se esiste una certa quantità di angoscia psicologica
derivante da una situazione di instabilità. (Rogers, 1971).
Si deve inoltre valutare la forza e la capacità dell’individuo di intraprendere azioni
che possano modificare la sua vita e anche se la situazione in cui la persona vive è
modificabile. La terapia è possibile solo se la persona la vuole veramente, Rogers,
infatti, afferma che lavorare con una mancanza di motivazione consapevole
nell’individuo, è più difficile che lavorare con il problema delle psicosi (1987).
Stabiliti i criteri per poter proseguire nel lavoro è necessario anche che il terapeuta
sia il più congruente possibile qualora le condizioni permettano di definire un
contratto, dovrà ad esempio chiedersi se desidera veramente lavorare con quella
persona. Kopp in “Ripartire da uno” (1979) scrive “…nel corso di una seduta può
divenire chiaro che io non sono la persona che fa per lui. Oppure può essere il
paziente a non avere voglia di lavorare proprio con me. La scelta reciproca per me è
una cosa molto seria”.
Qualora si ritenga opportuno non proseguire con il lavoro psicoterapico, è importante
comunicare alla persona i precisi motivi di questa scelta in modo da non ferirla o
minacciare la sua autostima. La formulazione del contratto, aiuta anche a capire quali
fantasie il cliente si era fatto rispetto al primo colloqui e all’intera terapia. E’
importante che in fase contrattuale si accenni brevissimamente a cosa è la
psicoterapia e cosa realisticamente ci si può aspettare o no dalle sedute. Una volta
analizzate tutte queste variabili è possibile stipulare il contratto terapeutico.
1.2 Il contratto terapeutico: definizione.
Il contratto terapeutico comprende le regole fondamentali della psicoterapia, fissando
quelle che sono chiamate le costanti del setting. E’ utile presentare le regole del
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contratto nel modo più semplice possibile, con la consapevolezza che alcuni aspetti
potranno venire ripresi e chiariti nelle sedute successive o ridefiniti nel caso in cui
non siano stati del tutto compresi o rispettati. Insieme al cliente si concorda l’orario e
la frequenza delle sedute, nell’approccio rogersiano in genere si propone una seduta
alla settimana. Sia la frequenza che la durata delle sedute dipendono dalla scuola di
riferimento. Rogers (1971) afferma che manca una conoscenza sperimentale che
definisca la durata ottimale della seduta, ma che sia poco saggio protrarre oltre un’ora
la seduta del colloquio. In casi particolari si può decidere di aumentare la frequenza
delle sedute dove c’è molta sofferenza e si ritiene che questo sia
efficace nel
rispondere ai bisogni del cliente.
Nel contratto si stabilirà anche l’onorario e le modalità di pagamento che può
avvenire a fine seduta o mensilmente. Il pagamento assume una funzione terapeutica
molto importante, secondo Rogers, infatti, …”il pagamnento di un onorario adeguato
al reddito dell’individuo può costituire un mezzo attraverso cui il soggetto indica la
sua serietà nel cercare assistenza, nonché un modo di mantenere il suo rispetto di sé
pur accettando l’aiuto dell’altro…” (Rogers, 1971). E’ importante che il terapeuta si
regoli in modo congruente nei casi in cui la persona presenta difficoltà economiche o
non riesca assolutamente a pagare la terapia.Qualsiasi sia la decisione, è utile porre
attenzione ai significati che tale scelta comporta , ad esempio una riduzione
dell’onorario può far illudere il cliente di essere speciale oppure sviluppa
un’eccessiva dipendenza o idealizzazione del terapeuta. La stessa attenzione va data
al fatto di comunicare al cliente che le sedute che salta e in cui non avverte nel tempo
stabilito, andranno pagate. Secondo Kopp (1979) una posizione di eccessiva
permissività o contraddittorietà da parte del terapeuta comporta alcuni rischi, sempre
Kopp scrive…”se non ho abbastanza cura per me stesso da accertarmi di essere
pagato per ogni ora che ho stabilito per contratto , il mio risentimento farà sentire il
suo peso nelle fasi successive del lavoro”. (Kopp, 1979).
Il contratto terapeutico definisce le caratteristiche del setting in cui si lavorerà. La
riservatezza, il segreto professionale, la libertà di esprimere vissuti con le parole e
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non con gli agiti sono alcune delle costanti del setting, nel senso che devono essere
assolutamente rispettate per non compromettere la terapia. Altre variabili, come
l’orario, la frequenza, la durata e il costo del colloquio possono essere perfezionati o
ridefiniti nel corso della terapia. Nella riformulazione è però necessario esplorare
tutto ciò che è avvenuto e il significato che ha assunto per entrambi.
2. L’ADOLESCENZA E LE SUE SFIDE
2.1 Il lavoro con l’adolescente: un setting particolare.
Tutti gli operatori che sono entrati in contatto con gli adolescenti si sono spesso
stupiti della “velocità” con cui spariscono dai centri di consulenza, nonostante la più
che manifesta disponibilità ad occuparsi dei loro problemi. Tutto questo ha spinto gli
esperti ad indagare in modo più approfondito gli aspetti tecnico-operativi che
strutturano un possibile e stabile setting, rendendo il più proficuo possibile il rapporto
terapeutico con l’adolescente in crisi.
Secondo Lay (1980) uno strumento tecnico della massima importanza è rappresentato
da un “primo colloquio” inteso come fase del tutto autonoma rispetto al trattamento,
un primo colloquio dove si stabiliscano regole e percorsi adeguati al caso e dove ci
sia da parte del terapeuta un precoce ma controllato accoglimento della latente e
spesso “impaziente” richiesta di aiuto terapeutico.Compito del terapeuta sarà innanzi
tutto riuscire a costruire con l’adolescente un campo relazionale, un’esperienza in cui,
a poco a poco, il ragazzo si possa sentire al sicuro quando parlerà delle sue fantasie,
delle sue debolezze e delle sue incapacità
Winnicott (1965)
parlava in riferimento al rapporto madre-bambino di holding
(sostenere): “Il nome sostenere”,precisa Winnicott, “sta ad indicare non solo il reale
tenere in braccio il bambino ma anche l’insieme di misure ambientali antecedenti al
concetto del vivere con…si riferisce ad un rapporto tridimensionale o spaziale cui si
aggiunge gradualmente l’elemento tempo…esso comprende il completamento o no di
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processi che dall’esterno possono sembrare puramente fisiologici, ma appartengono
alla psicologia del bambino e si svolgono in un campo psicologico complesso
determinato dalla consapevolezza e dall’empatia della madre”. E’ con questo
significato che si intende fornire, attraverso la consultazione, una esperienza di
holding che sia sufficientemente accogliente e confortevole per l’adolescente,
favorendo un migliore sviluppo emozionale e l’acquisizione di nuove strutture
psichiche per la rimessa in moto del processo di sviluppo.
Comprendere appieno la realtà particolare dell’adolescente diventa una premessa
indispensabile per la scelta di una strategia d’aiuto che permetta di entrare in contatto
con lui, occorre quindi conoscere gli aspetti che portano un adolescente a vivere un
momento di crisi nel suo passaggio verso l’età adulta.
2.2 L’adolescente e le sue trasformazioni.
L’adolescenza è l’età del cambiamento, come implica la stessa etimologia della
parola: “adolescere” significa in latino “crescere”. L’adolescenza è un passaggio tra
l’infanzia e l’età adulta, non è una malattia, ma una stagione della vita, fatta di
turbolenze e stagnazioni. L’obiettivo fondamentale del passaggio adolescenziale è la
conquista dell’autonomia personale, in modo da arrivare alla responsabilità dell’età
adulta, grazie ad una consapevole costruzione della propria identità (Bara, 1996).
L’adolescenza come periodo del ciclo di vita ha inizio con la pubertà (10-11 anni) e
dovrebbe risolversi verso i 15-16 anni con il raggiungimento della capacità di
procreare. Non è detto, però, che la crisi adolescenziale si trovi a coincidere con le
modificazioni fisiche, infatti non sempre i cambiamenti somatici e fisiologici
coincidono con la ristrutturazione dell’immagine di sé, con le modificazioni cognitive
ed emotive e il raggiungimento del pensiero logico-formale e autoriflessivo
(D’Agostino, articolo).I tempi della crescita possono variare da individuo ad
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individuo per una complessità di fattori familiari, socio-culturali e personologici. La
crisi adolescenziale può arrivare anche in età adulta, o non arrivare mai. In questo
caso l’individuo non emergerà da quello stato di dipendenza che caratterizza il
periodo dell’infanzia.
L’adolescenza è una fase costruttiva contrassegnata dal bisogno di darsi coerenza,
unità, senso di sé. Oltre al cambiamento fisico e l’emergere della sessualità, nuove
forme di pensiero permettono una ristrutturazione dell’immagine di sè. Viene
raggiunto il pensiero formale prima, e riflessivo poi, che aprono nuovi orizzonti, si
possono formulare ipotesi, ragionare intorno ad esse e trarne conclusioni personali. L’
acquisizione del senso critico permette all’adolescente di mettere in discussione ciò
che in apparenza appariva come assoluto (Bara, 1996).
L’adolescenza va vista nell’accezione di processo di sviluppo, inteso come un
procedere per tappe (rappresenta un transito dall’infanzia all’età adulta) ma va anche
vista come un periodo che non termina, dove i problemi che si incontrano per la
prima volta (scelte, dilemmi, rapporti con i cambiamenti continui) non vengono
superati nell’adolescenza, ma iniziano di lì a far parte del panorama esistenziale di
ognuno.
2.3 Adolescenza come crisi “ per eccesso”
Bara e Mattei (1996) definiscono questo periodo della vita il periodo della “crisi per
eccesso”, vale a dire una percezione esagerata dei propri bisogni e della realtà. “Crisi
per eccesso” perché le situazioni che l’adolescente deve affrontare gli appaiono non
solo enormi, ma catastrofiche. La conflittualità nella fase evolutiva diventa per lui
l’unica strada privilegiata ai fini dell’acquisizione di una matura responsabilità.
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Sempre Bara (1996) afferma che per emergere dallo stato di dipendenza cui è
soggetto l’adolescente durante il periodo infantile, nel quale il sistema motivazionale
attivato è quello dell’attaccamento, si debba innescare il sistema motivazionale
agonistico. Attraverso il conflitto l’adolescente rompe un equilibrio per arrivare ad un
altro, potenzialmente più funzionale per lui.
2.4 I compiti evolutivi dell’adolescenza
Nell’intervento con l’adolescente dobbiamo tenere presente che egli nel suo percorso
evolutivo deve confrontarsi con molteplici sfide evolutive. Oggi si tende a descrivere
l’adolescenza come una fase del ciclo vitale, caratterizzata da compiti evolutivi e dal
modo dell’adolescente di farvi fronte (coping).
Secondo Charmet (1999) l’adolescente mette in atto meccanismi fase-specifici per far
fronte a compiti evolutivi che deve affrontare per poter passare dalla condizione di
bambino a quello di adulto. Questi compiti sono stati variamente definiti:
 Separarsi dalla famiglia e individuarsi, costruendo la propria immagine di sé;
 Integrazione della sessualità nell’immagine di sé;
 Avere padronanza dei nuovi processi cognitivi che permettono una migliore
introspezione;
 Sviluppo dell’identità sociale;
 Instaurare relazioni sentimentali o sessuali con l’altro sesso.
Ogni adolescente trova il proprio modo e i propri tempi per affrontare questi compiti.
Charmet (1996) parla di angosce che possono riguardare una di queste aree di
sviluppo, oppure più di una e sono angosce specifiche da scacco evolutivo.
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2.5 Genitori e figli adolescenti.
La ricerca di una nuova coerenza interna per l’adolescente ha inizio nella famiglia, è
lì infatti che sperimenta tutte le sfumature relazionali che poi vivrà all’esterno.
Quello della differenziazione dal genitore è il primo e forse il più difficile compito
evolutivo per l’adolescente, in quanto dovrà disinvestirlo da quell’onnipotenza e
onniscienza tipica dell’ età infantile. Gli stati dell’umore dell’adolescente sono
fluttuanti e discontinui e anche i comportamenti a volte appaiono incoerenti e
bizzarri. L’apatia, l’esaltazione, l’originalità, la svogliatezza, la confusione sono tra i
tratti tipici dell’adolescente, questo continuo processo di disinvestimento e
differenziazione possono mettere a dura prova il genitore, crisi peraltro necessaria e
indispensabile per l’evoluzione del bambino ( Telleschi, Torre, 1988).
Secondo Bara (1996) possiamo individuare tre tipologie di genitori che si rapportano
con l’adolescente:
1) Genitori democratici e autorevoli i quali esplicitano regole che vengono
spiegate, chiariscono le loro aspettative, dando ai figli la possibilità di
collaborare a stabilire insieme ciò che li riguarda. In questo modo favoriscono
una indipendenza responsabile.
2) Genitori autoritari e autocratici per i quali le regole non possono essere
discusse, né i figli possono partecipare attivamente alla definizione di ciò che li
riguarda. Spesso esigono un’obbedienza cieca che può indurre risentimento,
incapacità a valutare se stessi e poca autonomia.
3) Genitori egualitari e permissivi che non danno regole causando incertezze sui
ruoli e nell’agire, con conseguente evitamento di responsabilità e ambiguità.
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Sarebbe auspicabile che i genitori avessero un ruolo autorevole e assertivo e che nella
relazione con il figlio ci fosse reciprocità con la quale affrontare i conflitti più o meno
gravi che si possono presentare.
3. L’ADOLESCENTE E LO PSICOLOGO: CARATTERISTICHE E
REGOLE NELLA CONSULTAZIONE
3.1 Elementi del colloquio con l’adolescente in crisi.
A differenza di quanto accade nelle fasi evolutive precedenti, l’adolescente non può
essere “portato di peso” alla consultazione, non perché fisicamente più grande, ma
perché il non rispettare la sua motivazione significa schiacciare quel senso peculiare
di identità che caratterizza proprio il periodo adolescenziale. La segnalazione
comunque può avvenire sia attraverso i genitori che dal giovane stesso che chiede
aiuto (Lis,1993).
Secondo Charmet (1999) è molto importante che nell’organizzare l’incontro con
l’adolescente non si mortifichi la speranza che il lavoro con lo psicologo possa
servire a qualcosa. L’adolescente attende il primo colloquio con una trepidazione
elevatissima, nonostante finga il contrario, criticando e mortificando il suo bisogno.
Egli, spiega Charmet, “spera” di incontrare un adulto competente che riesca a capirci
qualcosa e lo aiuti ad uscire dallo scacco evolutivo. Nel primo colloquio l’adolescente
cerca qualcuno che sia capace di identificarsi con lui e avviare una buona relazione di
lavoro in un clima di serietà, lealtà e riservatezza. Con l’adolescente bisogna
riorganizzare la speranza che parlare possa servire a qualcosa, che c’è qualcuno che
dall’altra parte ascolta veramente. Quello che il terapeuta offre,infatti, è un tipo di
ascolto particolare, ed è un’esperienza insolita per l’adolescente in crisi. Ascoltare
bene, in modo competente, significa prolungare verso l’alto il discorso dell’altro,
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sostenerlo nel pensare pensieri difficili, garantire con la propria presenza partecipe
che ciò che sta dicendo non è terribile o mostruoso (Charmet, 1999).
A proposito dell’ascolto G. Lay (1985) scrive che “c’è ascolto e ascolto, nel corso di
una cura proprio come durante un qualsiasi altro dialogo ordinario. C’è l’ascolto
attento e l’ascolto distratto, l’ascolto diligente,preciso, pignolo e l’ascolto svagato…e
soprattutto l’ascolto filtrato dalle teorie e l’ascolto sganciato dalle teorie (che) è
quello che non usa griglie teoriche attraverso cui filtrare ciò che si ascolta”.
Anche Rogers preferisce astenersi, quando ascolta, dalle categorie del vero o falso e
ascoltare per lui significa riporre tutta l’attenzione, la cura e la sensibilità possibili,
secondo lui vale sempre la pena di ascoltare e cercare di capire un individuo che
parla, in questo modo, dice Rogers, si convalida la persona (Rogers, 1976).
E’ questo di cui ha bisogno un adolescente in crisi durante il primo colloquio, un
ascolto che non insegui le categorie diagnostiche, ma il bisogno che viene portato in
quel momento.
Secondo l’ottica di Charmet è importante quindi rinunciare alla formulazione di
diagnosi in quanto ciò interferisce con la prospettiva di costruire una relazione
significativa con il ragazzo e si oppone ad un esercizio mentale di segno opposto che
consiste nell’accettare di non capire, tutto ciò come premessa per mettersi nelle
condizioni mentali che consentono di identificarsi empaticamente con il giovane.
La diagnosi non può essere fatta anche perché i disturbi della crescita sono funzionali
e non hanno una base strutturale. E non è neanche nel passato che va ricercata la crisi
ma nel rapporto con il futuro.
L’obiettivo della consultazione quindi, è quella di fare assieme all’adolescente una
ricognizione degli accadimenti recenti legati alla realizzazione dei compiti evolutivi
fase-specifici, per individuare quale sia l’area dove emergono ritardi nello sviluppo di
competenze, rappresentazioni deformate, comportamenti difensivi, manifestazioni
sintomatiche. (Charmet,1999).
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3.2 Atteggiamenti del terapeuta
Abbiamo visto in precedenza come l’obiettivo del clinico che lavora con
l’adolescente non sia quello di ricostruire in quale fase dello sviluppo si siano
verificati traumi o deprivazioni, ma di capire quale sia l’area delle trasformazioni
adolescenziali che risulti più carica di conflitti e satura di angosce.
L’approccio all’adolescente richiede un atteggiamento piuttosto attivo da parte del
terapeuta. Innanzi tutto, affinché la relazione di consultazione sia efficace, deve
comportare comprensione senza interferenze o giudizi, poiché se si giudica non può
essere accolta l’altra persona (Bara, 1996). Durante il lavoro con l’adolescente il
terapeuta dovrà usare l’accoglienza e l’accettazione, favorendo quella base sicura di
cui parlava Bowlby (1988) . Anche Rogers parla di accettazione positiva
incondizionata da parte del terapeuta che insieme all’empatia e all’autenticità nella
relazione diventano condizioni necessarie affinché avvenga il cambiamento. E’ solo
attraverso la fiducia e la convalida emotiva che l’adolescente potrà ricostruire la
propria autostima e avviarsi verso l’indipendenza.
Durante i colloqui il terapeuta dovrà cercare di mantenere una distanza “critica” tra sé
e l’altro, ci vuole una grande disponibilità ma anche una grande capacità a porre dei
limiti. Rispetto al contratto anche con l’adolescente, come per l’adulto si applicano le
regole basilari del contratto terapeutico con qualche sfumatura in più, data dalla
conoscenza delle caratteristiche peculiari di questa fase della vita. Il contratto infatti,
ha la caratteristica di brevità, perché permette di proteggere l’indipendenza e offre al
ragazzo un “assaggio” di quello che può essere un eventuale lavoro su di sé.
L’obiettivo del lavoro sarà anche quello di mentalizzare le emozioni, quindi il
terapeuta dovrà stare sempre molto attento, non tanto a quello che il giovane “sente”
ma a quello che “fa” . E’ soprattutto in questi casi in cui possono essere agiti
comportamenti autolesivi (droga, alcol, guida spericolata, denutrizione…) che il
terapeuta dovrà essere il più congruente possibile e formulare contratti chiari dove si
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esplicitano i pericoli a cui il giovane va incontro. Una caratteristica che la
consultazione dovrà avere è la flessibilità e grande disponibilità a ricontrattualizzare
ciò che accade, in tutto questo il terapeuta dovrà essere accogliente e disponibile ma
anche avere fermezza. Può succedere, ad esempio, che durante la seduta l’adolescente
metta alla prova il terapeuta continuando a parlare quando l’ora è finita o alzandosi
prima del tempo, o ancora prendendosi delle libertà che non rientrano nel lavoro di
consultazione. Sarà compito del terapeuta analizzare volta per volta se si tratta di una
provocazione, un gioco di potere o un reale bisogno.
Nella relazione con l’adolescente il terapeuta è chiamato anche ad allearsi col
genitore senza però perdere di vista l’alleanza con il figlio. Anche in questo caso
appare chiaro che egli debba agire in modo consapevole, chiarendo attraverso il
contratto terapeutico, limiti e regole che serviranno a mantenere salda l’alleanza con
il giovane in difficoltà. Alcuni esempi possono essere quelli di garantire la
riservatezza
quando il genitore telefona per avere informazioni, o ancora non
accettare un colloquio con i genitori senza il permesso del figlio, si può invece
chiedere al ragazzo di invitare lui i genitori a colloquio. Nel caso in cui avvenga
un’incontro con i genitori, essi dovranno avere informazioni e spiegazioni che non
siano delle valutazioni del ragazzo, o delle critiche rispetto al loro ruolo genitoriale,
l’incontro dovrà servire semmai per avviare un lavoro di collaborazione.
Un’altra questione molto importante riguarda il pagamento delle sedute, sia che si
tratti di un servizio pubblico che privato, anche se tra le due situazioni le aspettative
spesso sono diverse. Non sono certo i ragazzi che pagano la seduta, la pagano i
genitori o i contribuenti, in ogni caso questo genera conseguenze e fantasie, sia in chi
usufruisce del servizio che in chi lo sovvenziona. I ragazzi possono essere indotti a
pensare che la consultazione per loro sia gratuita, nei genitori ci può essere la
richiesta implicita che lo psicologo consulente si allei con le loro esigenze educative e
sia quindi al servizio del loro progetto educativo. Spesso l’aspettativa dei genitori è
che sopraggiunga un aiuto dall’esterno per “rimettere le cose a posto” visto che le
loro competenze genitoriali sono in crisi. Quello che invece spesso avviene, è che lo
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psicologo che lavora nel pubblico si allea col giovane, non con le sue trasgressioni
ma con il suo bisogno di sperimentarsi e mettersi alla prova ( Chernet,1996). Ecco
che risulta necessario trovare un modo di trasformare tali richieste in risorse per
avviare una buona consultazione. Nell’ambito privato le cose non sono più semplici, i
genitori si sentono completamente falliti nel loro compito e quindi delegano
(pagando) completamente il professionista a “consolare” il figlio e a insegnargli
finalmente a godersi la vita. Mentre quindi al consulente non pagato dai genitori
viene richiesto di fare da precettore del figlio, quello che lavora privatamente si sente
simbolicamente convocato a fare da rieducatore dei genitori. Ambedue le fantasie
interferiscono profondamente con la conduzione della consultazione e vanno
elaborate in modo consapevole.
Grande importanza va riposta anche durante la restituzione dopo una consultazione, il
terapeuta deve fare in modo che rappresenti per l’adolescente una esperienza
formativa, che lo aiuti a capire come potrebbe essere aiutato. La misura dell’efficacia
della consultazione si effettua in termini di marcia evolutiva, cioè di verifica della
ripresa del processo di separazione individuazione, di mentalizzazione della
corporeità e della sessualità, dello sviluppo e integrazione di sé (Charmet, 1996).
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CONCLUSIONI
Cosa sia l’adolescenza o quali siano gli aspetti peculiari degli adolescenti è un
problema assai complesso che dipende dai vari modelli interpretativi. L’orientamento
che a mio avviso rispecchia il mio modo di pensare e la mia esperienza di tirocinio
presso una struttura per adolescenti a rischio, è quello che ho ritrovato leggendo
autori come Charmet ed altri che trattano i fenomeni dell’adolescenza non come
manifestazioni psicopatologiche, ma come un momento di crisi evolutiva. Chi vuole
lavorare in modo proficuo e preventivo con l’adolescente , sarà chiamato a
sgomberare la mente da esigenze classificatorie e diagnostiche per far spazio alla
necessità di capire, guardando il mondo con gli occhi dell’adolescente. Tutto ciò lo
trovo molto vicino al concetto di empatia di Rogers. Il tentativo è proprio quello di
percepire come l’adolescente vive in quel momento, ciò che lo ostacola, lo turba o lo
impaurisce, cosa invece lo rende felice o euforico. Tutto questo tenendo presente le
sue caratteristiche, i suoi bisogni, le sue tendenze, senza perdere la qualità del “come
sé” che può aiutare ad accogliere, raccogliere e restituire senso, contesto,
intenzionalità, progettualità, memoria, in modo autentico.
L’ascolto, la presenza, la disponibilità, l’empatia, sono tutti elementi che servono per
affacciarsi nel mondo dell’adolescente fatto di mille colori e sfumature. La
“consultazione” diventa quindi il campo dove si svolge la dura lotta dell’adolescente
verso la ripresa della crescita o il restare per sempre intrappolato nel passato , con
conseguenze spesso devastanti nella vita adulta.
Le regole e le caratteristiche del setting di consultazione con l’adolescente si pongono
con grande serietà a chi decide di lavorare con questi tipi di clienti, perché la posta in
gioco è molto alta e il tempo a disposizione rispetto al lavoro con l’adulto è ridotto.
Ecco che contrattualità e congruenza definiscono e chiariscono la cornice in cui
l’adulto e l’adolescente si incontrano su un terreno neutrale, dove l’adulto si offre
come potenziale risorsa, come un alleato che non giudica e lo accompagna in questo
delicato cammino. Charmet(1999) parla di adolescenti “culturalmente” disponibili a
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consultarsi con gli adulti a patto che essi rispondano all’aspettativa di
rispecchiamento intenso, selettivo e tenero, un po’ come fa il genitore con il bambino
piccolo, convalidandoli come persone e differenziandoli dalla massa del gruppo.
Lavorare con l’adolescente è come creare un’opera incompiuta, ma ciò non toglie che
sia meno soddisfacente o meno importante di un lavoro svolto secondo i canoni
classici (Bara, 1996).
Vorrei concludere con un’affermazione di Rogers (1970), in riferimento al concetto
di tendenza attualizzante “… ogni organismo è animato da una tendenza intrinseca a
sviluppare tutte le sue potenzialità e a svilupparle in modo da favorire la sua
conservazione e il suo arricchimento…l’operazione della tendenza attualizzante ha
per effetto il dirigere lo sviluppo dell’organismo verso l’autonomia e l’unità…”.E’ in
base a questo concetto che credo che tutti coloro che si accostano all’adolescente
dovrebbero non mortificare mai la speranza che si annida in ognuno di loro di
riprendere il volo.
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