È sotto gli occhi di tutti, e degli educatori in particolare, il graduale declino degli
standard formativi occidentali. È vero: non si fa altro che parlare di eccellenze, ma si
omette poi di definirne gli ambiti di riferimento, che – guarda caso – sono quasi
sempre tecnici. Si abbellisce una realtà, come accade nei media e nella moda, che ci
mostrano donne belle o comunque particolarmente attente all’immagine, negando il
reale mondo della quotidianità, sempre più grigia, sciatta, incapace di attenzione al
dettaglio e alle sfumature. Così non c’è insegnante di qualche esperienza che non
constati – a fronte delle altisonanti dichiarazioni di intenti e del proliferare di costosi
progetti – il progressivo venir meno delle condizioni stesse di educazione,
formazione, istruzione all’interno di classi, in Italia anche in relazione alla normativa
più recente, che per il numero elevato di allievi e le condizioni di lavoro in genere,
sempre più burocratizzato e spersonalizzato, sempre meno attento alla qualità del
singolo insegnamento e sempre più funzionalistico, non permettono più la
coltivazione del rapporto educativo.
La grande tradizione che la Storia dell’Occidente ha ereditato, quella della filosofia
classica e delle sue scuole, dall’Accademia al Liceo, dalla Stoa al Giardino, ma anche
quella medievale delle scuole abbaziali e cattedrali, e poi delle magnifiche
universitas studiorum, per non citare accademie e cenacoli rinascimentali o ambigue
ma prolifiche realtà di mecenatismo cortigiano, era radicata nel rapporto personale
fra individui e, soprattutto, fra docenti e allievi, che stabilivano un sottile equilibrio
fra rispetto accademico e scambio proficuo di vita intellettuale, ma anche sociale e in
certo qual modo affettiva.
È stupefacente vedere quanto di questo oggi non sia rimasto nulla, o almeno nulla di
ciò si dia come vincolante, essenziale, determinante del processo educativo, che
invece appare totalmente connesso alla oggettività (o presunta tale) della funzione,
ben esemplificata dalla perfetta interscambiabilità dei docenti (stabili o precari che
siano), le cui competenze devono essere sempre più piatte ed equivalenti, i cui
programmi devono sempre più assomigliarsi quando non identificarsi, le cui verifiche
dovrebbero risultare sempre più oggettive e comuni, i cui libri di testo, forse per
compiacere le potenti Case Editrici, dovrebbero essere adottati ab aeternum, e
possibilmente dall’intero gruppo dei docenti all’interno della medesima area
disciplinare. La tendenza è funzionalistica, dovrebbe cioè consentire una certa
omogeneità di intenti e di risultati, una maggior condivisione, ma nei fatti tende a
perseguire una formazione di tipo omologante, basata su presupposti estrinsecisti e
tecnicisti (l’educazione cioè come insieme di tecniche memorizzabili e riproducibili
da chiunque), paradossalmente non innesca nell’allievo il gusto della ricerca, il senso
della domanda, non promuove la nascita della meraviglia o l’azzardo della
interpretazione, ma al contrario induce l’idea che il sapere si acquisti come una merce
al supermercato, e consista in una serie di tecniche – linguistiche, scientifiche,
matematiche, operative – per gestire economicamente la realtà.
Ciò non stupisce di certo l’osservatore che sia attento all’evolvere del costume e dei
paradigmi sociali: è evidente che l’unico fattore aggregante della post-modernità
sinora esperito è proprio l’economia, da tempo sostituitasi al ruolo che fu una volta
della filosofia, della teologia o della stessa scienza, oggi ormai assimilata alle sue
applicazioni economiche. E se l’economia riesce a privare gli stati nazionali del
diritto di battere moneta (è il caso della Comunità europea), e cioè di un esercizio di
sovranità consolidato dalla prassi di secoli, figuriamoci se non riuscirà nell’intento di trasformare la pedagogia in una disciplina atta a coltivare individui ad
essa funzionali, tecnici iperspecializzati, o almeno specializzati quanto basta al buon
funzionamento dell’ingranaggio. Da anni vedo gli studenti che escono dai migliori
licei iscriversi a facoltà come ingegneria, economia, giurisprudenza, medicina,
psicologia e scienze umane in genere, o puntare anche in modo già fortemente
specialistico a fisioterapia, comunicazione sportiva, benessere animale… Mancano
ormai vocazioni – è il caso di definirle proprio così – alle Lettere, alla Filosofia, alla
Critica d’arte, alla Storia – nel senso più astratto, disinteressato, gratuito, ove la
disciplina non sia un semplice apprendistato all’esercizio di una remunerativa ed
efficiente professione, atta a generare e consolidare benessere, ma proprio desiderio e
volontà di mantenersi entro una situazione gnoseologica ed ontologica insieme di
pensiero, di apertura e di domanda sull’essere, sulla vita, sull’uomo, come stabile
condizione esistenziale e morale insieme. La Chiesa Cattolica ha supplito al declino
delle vocazioni religiose in Occidente attingendo al grande serbatoio dell’Africa, dell’America Latina e dell’Asia, verso cui il Cristianesimo tradizionale sembra ormai
migrare, in un passaggio epocale che ricorda la predicazione del cristianesimo ai
Gentili agli albori della nostra era. Ma chi raccoglierà le grandi rivelazioni della Filosofia e della Letteratura, dell’Arte e della Musica occidentali, se ne perderemo
la memoria storica, la stessa capacità di interiorizzarne lo spirito, il senso profondo, la
vitalità? Tale perdita segnalerebbe la fine di una civiltà, cosa che è forse nell’ordine
del destino e del tempo, ma che in realtà potrebbe essere traghettata nel nuovo, nel
futuro che si prepara, così come accadde per la cultura antica che Agostino di Ippona
e altri con lui vollero portare con sé nel Nuovo Mondo che nasceva.
E non si tratta – è importante coglierlo – di trasmettere qualche nozione in più di
esegesi dei testi, o di critica letteraria, o di competenze linguistico-filosofiche, ma di
recuperare quell’humus che, all’origine della nostra civiltà, e particolarmente
risplendente nell’età umanistico-rinascimentale, ci parla appunto di humanitas, di
repubblica delle lettere o di solidarietà degli spiriti etici, il cui significato profondo, la
cui cifra esplicativa, non è l’efficienza dello schiavo, ma la contemplazione
dell’uomo libero, uomo che esige tempo di interiorizzazione, misura nel pensare, nel
parlare, nell’agire, ordine nel relazionarsi a un contesto. L’ideale dell’uomo
vitruviano parla di completezza e interdisciplinarietà, di analisi e sintesi, di
contemplazione e azione, di sperimentazione e di interpretazione, e colloca queste
disposizioni in una condizione dell’animo, nella possibilità di degradarsi al rango di
bruti e in quella di elevarsi al cospetto degli angeli e di Dio, grazie ad una libera
scelta, ad una elezione che decide il proprio destino (Pico della Mirandola, De
hominis dignitate). Anche i monaci medievali avevano colto ciò: nel loro desiderio di
affrancarsi dalle cose del mondo e dalla schiavitù dei sensi era implicito il desiderio
di elevarsi al massimo grado di universalità possibile, al massimo livello di
comunione con Dio, o con l’essenza più profonda delle cose, che la condizione
umana permettesse. Non a caso la regola del monachesimo occidentale, l’ora et
labora di San Benedetto, comportava anche per i monaci dediti ad attività intellettuali
momenti di lavoro manuale che dovevano equilibrarne le forze e le facoltà,
generando armonia nell’anima, che si disponeva così a incontrare il suo Signore nella
preghiera, nella meditazione, nella adorazione. La vita comunitaria poi imponeva un
continuo adattamento, una esegesi del sé e della relazione, che portava gradualmente
il singolo verso le vette della carità e del servizio, in una continua rinuncia alle
seduzioni dell’ego e dell’ambizione personale. È evidente che l’ambito della
esperienza spirituale si configura come privilegiato nel cogliere il valore della
interiorità e della persona, per il carattere sacrale, riferibile a un principio o senso
delle cose, che la cultura laica per lo più non dichiara o non esplicita nello stesso
modo. E prova ne è che quanto riferito al Medioevo cristiano potrebbe benissimo
adattarsi all’esperienza dei monaci buddisti impegnati nella tutela dei diritti eppure
così attenti alla dimensione dell’interiorità, o ai mistici sufi nell’ambito dell’Islam, o
ai fedeli ebrei che perseguono la giustizia... e potremmo continuare. E tuttavia non è
difficile vedere che, in determinati momenti nella Storia delle civiltà, si è creata una
sinergia fra ambiti, spirituale e temporale, umanistico e scientifico, individuale e
sociale, per cui tutta la cultura è rimasta impregnata di attenzione per l’uomo e si è
adoperata nella promozione della sua condizione profonda: la Grecia di Pericle, il
Rinascimento italiano, gli Anni ’60 del ’900 in America ed Europa ove musica,
rivendicazioni, cinema e letteratura hanno raggiunto una perfetta sinergia con la
società ed hanno indotto al cambiamento…
Ma non c’è cultura dove non c’è desiderio, perché il desiderio, da Leopardi a
Marcuse, configura l’ambito dell’utopia e del sogno, della assenza e del suo
superamento, disponendo così alla ricerca, all’impegno, allo sforzo solidale per
accrescere le condizioni di umanità, “il dominio sul pratico-inerte”, come voleva
Sartre, che superava in tal modo l’originario pessimismo esistenziale a favore di
un’etica del travalicamento e delle “mani sporche”. E il desiderio pertiene alla
sensibilità, non alla tecnica che, semmai, lo trasforma in compulsione, cosa che
tuttavia questo sistema socio-economico va cercando di attuare, al fine di dirottarne
l’attenzione dall’oggetto che gli è proprio, trascendente l’opaca materialità delle cose,
alla immanenza delle merci e della loro fruibilità.
Vi accorgete di quanto il desiderio, nel senso più interiore, radicale, assoluto, sia
ormai assente dalla mentalità dei nostri alunni? Che certo desiderano le vacanze
all’estero, l’iPad ultimo modello, un accessorio griffato, una scuola esclusiva, il
successo personale, ma non sognano più l’infinito oltre la siepe, né lottano per diritti
che non siano i loro, e soprattutto non si innamorano più, come una volta, dei loro
maestri, poeti o professori che siano, perché sognano banche, villaggi turistici e
l’ultimo video-game. Il desiderio si è degradato a contatto con media sempre più
intrusivi e sempre meno etici, capaci di incidere radicalmente sul tessuto sociale e
persino sulla elaborazione di cultura, sul dibattito politico, sugli andamenti economici
e sulle tendenze religiose (la Chiesa cattolica ha scelto i media come moderno
agorà…), e ancora una volta, sia per ragioni economiche che per grettezza di tanti
operatori della comunicazione, si è deciso per una estetica del grossolano, della
sollecitazione, dell’impatto immediato, al di là di ogni possibile giustificazione etica.
La devastazione prodotta dalla sistematica esibizione di sesso (povero, meccanico,
volgare), violenza (inaudita), gossip (capace di uccidere la dignità di qualsiasi
soggetto pubblico), modelli sociali anti-sociali – e cioè esaltanti, nei fatti o nelle idee,
tutto ciò che è contrario a merito e valore, e magari connesso ad avvenenza,
spregiudicatezza e cinismo – è tale che la volontà di fascistizzazione degli italiani nel
famoso ventennio apparirebbe un gioco da ragazzi al confronto, non fosse per le
terribili conseguenze da esso prodotte. Ed è tuttavia certo che oggi non ci troviamo di
fronte a un fenomeno solo italiano, ma occidentale in genere e, se consideriamo la
planetarizzazione del nostro modello, praticamente mondiale.
È possibile recuperare un’antropologia che sembra destinata all’estinzione? Tornare –
che so – alla sobrietà degli anni ’50-’60-’70? Rivedere le piazze e i giardini pubblici
la domenica con bambini che giocano e famiglie a passeggiare? È possibile che
rinascano passioni politiche o civili? Che i ragazzi tornino a stupirsi per uno sguardo
o per un’idea? Io credo che la partita in gioco è grande, se la pensiamo in termini di
salvezza di un intero mondo di civiltà, di un intero ordine di valori, di una
configurazione di senso che deve passare nel futuro che si prepara, perché siamo noi a
prepararlo, e perciò dobbiamo farla passare: anche attraverso i compiti di ciascuno, e
i compiti educativi, quelli che l’Atene di Socrate attribuiva ad ogni cittadino, in
particolare.
Io credo che dobbiamo educare la soggettività, che dobbiamo passare dal modello
dell’oggettività e funzionalità a quello della soggettività e discrezione, quello
dell’abate medievale che ben conosceva i suoi monaci e applicava sempre la littera
accompagnandola con la discretio, che lo portava a capire e correggere, fortificare e
incoraggiare, persuadere e dissuadere con la parola e con l’esempio, a formare nel
senso più ampio i suoi uomini, ad accompagnarli in un cammino di vita, prima
ancora che di sapere. Ma è il modello, diversamente rappresentato e contestualizzato,
che John Locke, il grande maestro dell’empirismo anglosassone, perseguiva
nell’educazione del suo gentleman, che doveva non solo essere uomo di litterae, ma
sociale e solidale, capace di agire e interagire con i suoi simili in una condizione
collaborativa e benevola, aperta e serena. Gli stessi Gesuiti, che per secoli educarono
le classi dirigenti di mezza Europa, approntarono un modello educativo, già nel XVI
secolo, basato sulla dimensione performativa, ove si abituava l’allievo alla
recitazione, allo sport, alla disamina pubblica e alla responsabilità sociale, in nome
di compiti alti che attendevano l’educando al suo ingresso nella vita adulta. Mario
Draghi, Mario Monti, Emanuele Severino ne sono, in tempi recenti, una espressione
comunque significativa. E chi di noi non ricorda, posto che abbia almeno
cinquant’anni, l’attenzione paterna e discreta del proprio maestro unico alle scuole
elementari, negli anni ’60, il suo coraggio educativo e la sua libertà di scelta nel
selezionare letture, poesie, temi da trattare in classe e nelle ricerche a casa, chi non si
affidava ciecamente alla sua professionalità ma anche umanità, nel valutare ogni
situazione didattica, personale, relazionale, certo che alla fine egli era come un bravo
medico, una mamma, un angelo capace di scrutare la natura di ogni questione e
decidere per il meglio? Quanto lontani dalle petulanti richieste di attenzione delle
famiglie di oggi, che trattano i propri figli come piccoli principi e li abituano a ogni
tipo di capriccio cui le stesse maestre devono sottostare, in nome di un benessere
immediato, di una assenza di sforzo, di un appiattimento delle competenze cui si
costringono i migliori per un malinteso senso di democrazia che diventa invece
arbitrio e abuso...
No, non abbiamo di fronte semplicemente delle funzioni, o dei soggetti
interscambiabili, degli omini tutti uguali, dei piccoli robot che è sufficiente
programmare e caricare, ma dei soggetti unici, irripetibili, personali e, come tali,
attraversati dalle opzioni della volontà, dalle determinazioni delle loro libere scelte,
dalla capacità motivazionale variegata, articolata, suscitata anche dai diversi contesti
di provenienza o da un diverso Dna, abbiamo di fronte non un esercito di piccoli
schiavi pronti a esercitare le tecniche apprese, obbedienti al modello sociale, politico
o economico imposto, ma persone che dovranno prima di tutto vivere, e poi uomini
che saranno cittadini o, comunque li si voglia chiamare, membri di una comunità
umana (e questa è la formazione), poi futuri professionisti, medici, ingegneri,
educatori, tecnici (e questa è la didattica), ma anche artefici di mondi, di universi
semantici, e qui (seppur all’interno delle altre dimensioni, come collante di tutta
l’azione pedagogico – didattica, formativa e organizzativa insieme) entra in gioco, e
diventa determinante, la questione dei valori che una società, una scuola o un
docente vogliono proporre, e quindi attraverso quali modelli vogliono proporre tali
valori, e quindi quale docente è chiamato a farli passare in atto, a filtrarli e
interpretarli per i propri allievi. E l’unicità del docente va salvaguardata, garantita,
tutelata, valorizzata, ricercata, approfondita. Che ne sarebbe stato della filosofia, se
avessimo obbligato Socrate a filosofare come Parmenide, Democrito a pensare come
Aristotele, Hegel a ripetere Kant? E non mi si risponda che le attuali condizioni
storiche non permettono più l’emergere dei Socrate o dei Kant, perché certamente
non ne emergeranno fin che la scuola promuoverà una cultura da guide turistiche o
animatori di week-end, penalizzando qualsiasi originalità, creatività e intraprendenza
– teoretica, didattica o educativa in genere – come sospette. Ma tale unicità del
docente si accompagna specularmente alla unicità dell’allievo, che è quello lì e non
un altro, a cui si può parlare in quel modo, e non in quell’altro, a cui non ci si potrà
mai rivolgere come a un qualsiasi altro… Discretio, linguaggio non previsto dai
verbali preconfezionati della scuola informatizzata, che peraltro determinano gran
parte delle modalità di svolgimento degli attuali Consigli di Classe…
Educare alla soggettività, dunque. Ma come? Riconoscendo finalmente, come
accadeva in passato, che l’educazione intellettuale non è tutto. Occorrono anche
l’educazione della sensibilità e l’educazione della volontà.
Molti miei alunni di liceo riferiscono, per esempio, di non avere mai letto o studiato
poesie durante la scuola elementare – forse, poche, durante la scuola media. Ripenso
alle “mie” scuole elementari, quando il maestro unico Erminio Federici ci leggeva,
almeno ogni settimana, alcune poesie d’autore (Pascoli, D’Annunzio, Leopardi,
Ungaretti, Rodari…), ci chiedeva di esprimere le nostre preferenze, quindi ne dettava
due-tre, che dovevamo illustrare, imparare a memoria e, ovviamente, comprendere e
spiegare. Quell’esperienza, prolungata negli anni della mia infanzia, ha senz’altro
contribuito a plasmare la mia sensibilità, a formare il mio gusto, a permettermi di
“sentire” il mondo attorno e dentro di me, oltre che di “comprenderlo”
intellettualmente.
La cosa è poi continuata alla scuole medie e al liceo, dove la mia “educazione
estetica” proseguì attraverso impegno ma anche circostanze adeguate, fra cui una
splendida capacità di lettura e interpretazione del testo poetico della mia insegnante
di Lettere. Per non parlare del grande cinema d’autore che i cineforum dell’epoca
proponevano proprio a noi – giovani studenti – dei vari Antonioni, Pasolini, Cavani,
Kubrick... e – almeno fino alla metà degli anni ’70 – della sobrietà ed eleganza delle
regie televisive (show, fiction, monografie, Tv dei ragazzi, documentari)… La mia
sensibilità – quella generazionale intendo – ne è uscita rafforzata, integra, attenta al
dettaglio e alla sostanza. Bene formata. Così, ancora oggi, qualsiasi distonia,
stonatura, dissonanza, la cogliamo in modo quasi irriflesso e immediato. La grande
Tv idiota con le sue macellerie di corpi, cervelli e pruderie, ci risulta immediatamente
disgustosa ed anche un certo gretto, volgare, palestrato modello di uomo medio con la
sua tracotanza ci appare ridicolo, come le tante coppie che platealmente esibiscono il
loro capitale affettivo come si esibirebbe un orrendo Suv in carreggiata. Ma i nostri
giovani? Quale educazione alla sensibilità e, quindi, al pudore? Quale iniziazione
sentimentale? Quale gusto? Quali modelli in famiglia, nella società e, di nuovo, nei
media?
Quindi, ricominciamo a far leggere la grande letteratura (ce n’è anche per l’infanzia
e, molto più in generale, di comprensibile all’infanzia) ai ragazzi, anche delle
elementari, alle medie e, certamente, nelle scuole superiori. Ma soprattutto, in un
contesto ove la criticità, la riflessione, il pensiero subiscono minotaurici attacchi dai
media, dal mercato, dalle lobby, diamo ai giovani, esseri sommamente in formazione,
la possibilità di essere creativi rispetto agli ambiti dell’immaginazione e del sogno,
dell’espressione letteraria e artistica, più in generale, della propria esperienza
esistenziale in quanto tale.
Quando insegnavo Materie Letterarie, mi è capitato di invitare talvolta i miei alunni,
accanto a test e composizioni di tipo tradizionale, ad affrontare qualche esercitazione
meno abituale. Trovavo una di queste molto rivelativa. Proponevo più parole chiave
(una per volta) associate ad una musica di sottofondo ogni volta diversa e
imprevedibile. Le parole erano scelte per il loro valore simbolico e archetipico (neve,
luna, madre, cielo, fuoco, sasso, automobile, bicchiere…), le musiche erano spesso
distoniche, non scontate o convenzionali rispetto al tema dato, spaziando dalla classica
al pop, dalla techno alla canzone d’autore, dal jazz al rock… Gli studenti erano
richiesti di scrivere parole in base alla libera associazione di idee, senza alcuna
preclusione logico-culturale. I risultati erano sorprendenti, e rivelavano che i ragazzi
talvolta più inibiti di fronte al testo discorsivo o logico-argomentativo, erano invece
dei fuoriclasse per accostamenti estetici imprevedibili, struggenti o arditi, degni del
più consumato dei creativi oggi sul mercato. E gli altri, pian piano, imparavano a
superare rigidità e steccati concettuali, inibizioni e comodi cliché, per esprimere una
sensibilità più autentica e libera. È un piccolo, anzi piccolissimo esempio, senz’altro
praticabile solo in ambiti e momenti del tutto circoscritti. Ma segnala una direzione
trascurata, che si può estendere – affrontando altre metodologie – alla stesura di
recensioni a mostre o concerti, alla realizzazione di soluzioni grafiche o multimediali
rispetto a un tema o percorso, o ancora – come mi accade nelle lezioni-concerto che
tengo per un pubblico trasversale – alla possibilità di chiedere ai ragazzi che se la
sentono di suonare uno strumento, cantare, ballare, recitare, leggere una propria
poesia, ecc.
Togliamo i ragazzi dal banco, insegniamo loro che, mentre familiarizzano con i
classici e la tradizione (e cioè studiano, come vuole Confucio), devono anche riflettere
e agire (sempre come vuole Confucio) perché studiare senza riflettere (e aggiungerei,
senza “sentire”) spegne l’intelligenza e alimenta solo la ripetizione (e quindi la
perpetuazione di stereotipi e ruoli esistenti).
Ci vedo un disegno, eversivo e reazionario per usare cliché politici, che consiste nel
sottrarre ai ragazzi – ma ai cittadini più in generale – l’intelligenza delle cose, la
comprensione dei fenomeni, la domanda sul senso, allo scopo di impedire una
eventuale, pericolosa “riformulazione di senso”.
Li impegniamo a tal punto nell’acquisizione di tecniche e competenze (quindi nello
“studio”) da trasformarli in semplici automi che le eseguiranno ed applicheranno
entro una società predisegnata da altri o, meglio, da altro: il mercato e la finanza che
ormai sono i principali referenti dei nostri sistemi educativi. La scuola sforna ormai
solo “paté/ destinato agl’Iddii pestilenziali” (E. Montale, Il sogno del prigioniero).
Ma quando, come agli albori della civiltà occidentale, si ripropone la domanda del
perché, le menti si risvegliano all’orizzonte dei possibili, i desideri si riaccendono, le
passioni animano la vita che torna a sperare, e questo alimenta l’impegno, la
solidarietà, la partecipazione. Modalità dell’essere che oggi non sussistono più,
perché abbiamo insegnato ai ragazzi l’ordine della necessità (entrare nel mercato) e
non quello dell’utopia (un altro mondo è possibile).
Per questo, ogni volta che posso, favorisco fra gli alunni nelle mie classi il dibattito
critico-problematico: la questione aperta da un filosofo non viene cioè chiusa dalla
soluzione che egli ne ha dato (e men che meno da quella della storiografia postuma) –
formalizzata da una lezione-frontale – ma viene rimessa in gioco a confronto con
l’esistente degli alunni, del docente e, ovviamente, con le loro diverse competenze ed
esperienze storico-filosofiche. Non è una novità, lo facevano i maestri medievali nelle
disputationes scolastiche, ma oggi, alla luce di un pluralismo centrifugo diffuso, di un
pervasivo pensiero debole e di un prevalente approccio relativistico al sapere,
riprendere il metodo vuol dire – di necessità – adottarne una gestione – o soluzione –
ermeneutica. E cioè, non si tratta più di trovare una – unica – soluzione valida
(l’ultimo pensatore studiato? il pensiero del docente come auctoritas? quello della
maggioranza dei presenti? quello della ideologia o di una tradizione?), ma di produrre
la comprensione dei diversi mythos fondativi, e quindi di promuoverne la
decodificazione reciproca attraverso strumenti di traduzione e trasposizione,
giustificazione e avvallo dei diversi punti di vista, processo che comporta la
valorizzazione e, direi, la rivalutazione delle soggettività coinvolte, dei pensatori
affrontati ma anche degli allievi, questi ultimi abituati ad aspettarsi una soluzione
calata dall’alto, e qui richiesti di contribuire ad elaborarne una, sia pure con il ruolo di
indispensabile “sorveglianza didattica” del docente, che vigila perché il processo
avvenga nel rispetto e nella promozione plurale di tutte le soggettività coinvolte,
teoretiche ed esistenziali, e dei valori che esprimono, teoretici ed esistenziali...
Educare la sensibilità; educare alla riflessione; sempre, educare alla creatività che
travalica l’esistente a favore del possibile. Ma tutto questo non serve a niente, non si
concretizzerà mai in progetto e impegno se non si educa il carattere. Che in effetti
oggi non si educa, se non accidentalmente, indirettamente, di riflesso, e mai (è
aborrito come un vero e proprio sopruso) programmaticamente.
La modesta rivalutazione attuale del voto di condotta è il magro premio di
consolazione per docenti frustrati da una scuola che pensa ad allievi e maestri in
termini esclusivamente funzionali, operativi, tecnicistici. E dove pertanto la condotta
è solo il lubrificante della tecnica (c’è persino una tecnica del voto di condotta, una
rigorosa quantificazione dei comportamenti da valutare: quante note?, quante
assenze?, quanto valore?). Occorre tornare, come per i filosofi antichi, come nei
metodi di scuola attiva, a educare, programmaticamente (anche se in modo dinamico,
spontaneo e liberante) il carattere e, quindi, la volontà.
È sotto gli occhi di tutti quanto siano deboli le volontà, e fragili: nessuno oggi si
impegna a tempo indeterminato, i progetti naufragano alla prima tempesta, i
proponimenti si smentiscono e tradiscono con rapidità fulminante, i giovani non
hanno disciplina, le coppie vivono in una bolla di sapone che si dissolve nello scontro
degli ego, vulnerabili e narcisisti. Tutti tradiscono tutti, e se stessi in primis, per
mancanza di speranza, di energia, in ultimo di spina dorsale.
Come si educa la volontà? Educando alla fatica, all’impegno, alla continuità, alla
sofferenza. E anche alla “normalità”, alla quotidianità e alla “realtà”. La Cina di Mao
obbligava gli studenti a lavorare alcune ore alla settimana nelle fabbriche e nelle
campagne. I monaci medievali, anche quelli che si dedicavano ad attività intellettuali,
erano richiesti di svolgere alcuni lavori manuali “per non insuperbire”. Il disprezzo
che una parte della cultura occidentale ancora riserva alle attività manuali, cicliche e
ripetitive, che non si oggettivano in un’opera permanente (come nel caso di
architettura, arti figurative, ingegneria o tecnologia in genere), e quindi, ad esempio,
per i lavori un tempo tradizionalmente femminili, non è del tutto superato. E intanto
studenti gettano cartacce per terra e sporcano e deturpano l’ambiente perché poi
puliranno i bidelli… Ma educhiamo questi giovani a dare il loro contributo alla
pulizia degli spazi comuni e a tenere in ordine le aule; permettiamo loro di fare
un’esperienza di servizio, anche manuale, in una fabbrica, un’azienda agricola, una
bottega artigiana, o un ospedale… Censuriamo i comportamenti irrispettosi per l’ambiente, oltre che per le persone…
Chiediamo contegno. Posture corrette nei banchi, in classe. Obbligo di chiedere il
turno della parola, di ringraziare, salutare, scusarsi con un atteggiamento adeguato e
non con una ridicola formula verbale che traduce totale indifferenza! Chiediamo, in
primis, ai ragazzi, di essere collaborativi, solidali, rispettosi e cordiali. Educhiamo
alla benevolenza. Sproniamo alla costruzione di una sensibilità viva, attenta, tenace e
delicata, capace di cogliere la sostanza che è nel dettaglio.
Mostriamo la bellezza del volontariato e chiediamo ai giovani, nella fase più duttile e
in divenire della loro esistenza, quella della scuola, di praticare qualche attività
gratuita e libera di servizio al prossimo o all’ambiente, una specie di “servizio civile”,
ove ci si possa cimentare nella raccolta di carta e stracci da riciclare, nell’assistenza a
chi vive in strada, nell’affiancare gli immigrati che non conoscono la lingua, o i
bambini abbandonati, o gli anziani soli nelle grandi città come nelle case di ricovero,
nel ripulire le aiuole e le strade, le scritte sui muri, nel rinverdire aree abbandonate o
nell’accudimento degli animali maltrattati. I piccoli despoti e i grandi narcisi che
andiamo coltivando acquisteranno un volto ed esprimeranno gesti più umani, e il
mondo che si prepara sarà anch’esso più umano.
Tutto questo però non produrrà frutti duraturi, se l’allievo non avrà uno spazio per
interiorizzare e maturare, eleggere e assumere. E tale spazio è un ordine mentale, una
scansione dell’impegno che sia in accordo col tempo biologico e psicologico – quasi
direi “spirituale” – della vita umana. Un bimbo, un adolescente, un giovane che si
ritrova ad avere un’agenda fitta come quella di un top manager è un povero bimbo,
adolescente o giovane, che si prepara a una condizione adulta venale e ordinaria, fatta
di tecniche da riprodurre e di efficienza da dimostrare, l’efficienza dello schiavo. Per
anni non coltiverà immaginazione e fantasia, non avrà spazio mentale e biologico per
scegliere, non potrà accordarsi con la propria sensibilità né coltivare sentimenti di
dedizione e abnegazione. Ve ne fossero ancora, non potrebbe vedere le lucciole nelle
sere d’estate, prepararsi al temporale che arriva o godersi il primo sprazzo di sole,
non capirebbe Leopardi, mentre il Natale sarebbe per lui solo occasione di un nuovo
modello iPad… Diamo tempo ai giovani, il tempo vuoto che anche la tradizione zen
insegna, il tempo che la mia infanzia libera e studiosa mi ha permesso di riempire di
ricerche e viaggi della fantasia, grazie alla poesia e alla narrativa, ma anche alla
musica e ai misteri dello spirito, che potevo metabolizzare in uno spazio interiore che
oggi certamente non avrei.
C’è un fondo della vita, un alveo oscuro e luminoso, una energia recondita e
sovrabbondante che la attraversa, con cui dobbiamo sintonizzarci, che non possiamo
ignorare o considerare come una variabile irrilevante – che ne è l’origine, la
condizione o l’incognita per cui siamo, viviamo e agiamo. A partire da questa
esperienza così essenziale di ciò che ci costituisce nel profondo, e indissolubilmente
lega all’esistenza nella sua complessità e varietà, possiamo avvertire poi la chiamata,
la vocazione alla familiarità con l’universo mondo, e quindi alla cultura che esso va
sceverando e costituendo nella sua vicenda formativa ed evolutiva. E forse è il caso,
considerato quanto ancora il pianeta si strutturi in regioni o recinti che pretendono
alla totalità, e cioè all’esaustività – e quindi assumono letture integralistiche del reale
e del valore ad esso sotteso –, forse è il caso di parlare in termini plurali, di culture, di
saperi, di paradigmi, nel segno però di una integrazione possibile, di un compito
condivisibile, di un’armonia generatrice di speranza e di pace cui nonostante tutto è
possibile tendere…
Parole d’ordine, direzioni praticabili e percorsi percorribili: pensiero divergente e
prospettico, sapienza ermeneutica, ma anche assimilazione, laddove non basta
identificare la forma di una virtuale interpretazione, ma empaticamente occorre
coglierne il mythos di riferimento come degno e amabile, ancorché eventualmente
così lontano, così diverso dal nostro, perché abbia luogo un’esperienza di
condivisione, e quindi di tensione all’unità, che è poi aspirazione all’universalità, il
luogo, come voleva Kant, della perfetta proporzione tra virtù e felicità.
Bergamo, 2012
C. Sottocornola, Stella Polare, CLD-Marna, 2013, pp. 72-93