Morbo di Alzheimer
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Il morbo di Alzheimer (malattia di Alzheimer-Perusini) prende il nome
dal neurologo Alois Alzheimer (1864-1915), che descrisse per primo le
caratteristiche della malattia a partire dal 1907. Si tratta di una grave
degenerazione del tessuto cerebrale, processo lento, progressivo ma
inarrestabile che provoca la perdita delle capacità intellettive, con
conseguente grave menomazione della vita sociale e affettiva.
Costituisce il 60% di tutte le demenze, colpisce (tranne rari casi) dopo i
sessant'anni e la sua evoluzione fino agli stadi più gravi può durare dagli
8 ai 15 anni; ne è colpito il 5% dei sessantenni e circa la metà delle
persone oltre gli 85 anni. A partire dai 65 anni e fino agli 85 la possibilità di ammalarsi di
Alzheimer raddoppia ogni cinque anni. In Italia, si stimano circa 600.000 ammalati con una
previsione di crescita del 40% entro i primi anni del XXI secolo, mentre nel mondo i malati
sono circa 29 milioni. La malattia, i cui sintomi iniziali sono decadimento mnemonico, turbe
dell'orientamento e perdita delle capacità cognitive, è caratterizzata da una progressiva
necrotizzazione delle cellule cerebrali corticali, con lesione dei centri preposti al pensiero
(ippocampo) e al raziocinio (corteccia). Le cause non sono ancora state chiarite, mentre si sa
molto di più sul meccanismo del processo di degenerazione: nel cervello i neuroni iniziano a
produrre una proteina (beta-amiloide) con formazione delle tipiche placche all'interno della
cellula e di grovigli neurofibrillari. In corrispondenza di questa alterazione cellulare, il neurone
inizia una serie di eventi programmati che portano alla sua morte. Per indicare questo
meccanismo, spesso si usa l'espressione di "suicidio programmato" del neurone. L'App
(precursore della proteina amiloide) normalmente serve per il normale funzionamento dei
neuroni. Le secretasi (β e γ) sono enzimi che tagliano l'App in tanti frammenti che,
accumulandosi, formano le placche. In seguito a un taglio si producono proteine A-β che
vengono sospinte fuori dalla membrana cellulare; se non vengono eliminate o se c'è
un'iperproduzione si accumulano formando le fibrille e poi le placche che producono la perdita
delle sinapsi e la distruzione dei neuroni. I grovigli neurofibrillari nascono invece da una
degenerazione delle ramificazioni (neuriti) che partono dai neuroni; esse posseggono delle
strutture (microtubuli) rafforzate dalla proteina τ che le tiene unite come le traversine delle
rotaie. Se viene a mancare la proteina τ i microtubuli collassano, i neuriti si accorciano e il
neurone muore. Gli studi della malattia hanno evidenziato che il meccanismo potrebbe essere
legato a difetti genetici; infatti la proteina beta-amiloide viene prodotta in base ad alcuni
schemi genetici (indicati con sigle diverse, APP, ApoE, PS-1 e PS-2). Ad eccezione di alcune
rare forme familiari (FAD), che sono chiaramente ereditarie (attualmente si pensa che
l'ereditarietà sia responsabile solo nel 15-20% dei casi), non c'è però alcuna conferma che la
malattia si trasmetta ai figli. I sintomi sono molteplici, inizialmente anche sottovalutati; alcuni
infatti, come la perdita di memoria, di iniziative e di interesse, sono scambiati per un normale
effetto dell'invecchiamento. Invece la perdita della memoria, specie a breve periodo, diventa
nella malattia sempre più evidente e non può essere accettata come una condizione legata
all'età. In presenza di gravi deficit di memoria occorre quindi valutare se esistono concomitanti
gli altri sintomi della malattia, che compaiono via via che la demenza progredisce: in
particolare si hanno disturbi del linguaggio (afasia), perdita di orientamento nello spazio e nel
tempo, incapacità di riconoscere persone e luoghi (agnosia), confusione, fino alla perdita
completa della capacità di compiere le azioni quotidiane più semplici, con una completa
dipendenza dagli altri.
Le cure - Attualmente non esiste una cura della malattia. I farmaci (tacrina,
tetraidroaminoacridina, donepezil), se somministrati ai primi stadi, rallentano la progressione
(con trenta settimane di terapia si guadagna circa un anno). Nel 2003 ricercatori della New
York University hanno provato la memantina su 252 soggetti; il farmaco (20 mg al giorno) ha
ridotto il deterioramento mentale e ha rallentato la progressione della malattia nelle forme da
moderate a gravi.
Alcune scoperte di ricercatori giapponesi e italiani hanno recentemente attirato l'attenzione
sulla possibilità di bloccare il processo di suicidio dei neuroni. I ricercatori hanno infatti notato
che in un una piccola zona del cervelletto i neuroni sono immuni dal meccanismo. Si è scoperto
che in tale zona viene prodotta una sostanza, chiamata umanina, a cui viene quindi attribuita
la capacità di impedire il suicidio cellulare. Gli studi dei ricercatori italiani hanno permesso di
individuare il gene responsabile della produzione dell'umanina, della quale sono riusciti a
produrre una copia in laboratorio usando il tessuto del cervello dei ratti. Sulla base di questi
risultati preliminari, si pensa di studiare la possibilità di sviluppo di farmaci in grado di
stimolare la produzione di umanina o di sostanze attive capaci di replicare il meccanismo di
autodifesa. Si sta studiando un vaccino (An 1972, Betablock) capace di bloccare la proteina
beta-amiloide; è già stato sperimentato su topi geneticamente modificati e ha superato la fase
uno di non tossicità sull'uomo. La fase due dovrebbe durare due anni (dal 2002) e si spera
confermi i risultati sugli animali, cioè il blocco della malattia (più incerta è la prevenzione della
stessa). Il vaccino utilizza una parte della proteina beta-amiloide responsabile, con il suo
accumulo, del danneggiamento dei neuroni.