Morbo di Alzheimer Copyright by THEA 2003 Il morbo di Alzheimer (malattia di Alzheimer-Perusini) prende il nome dal neurologo Alois Alzheimer (1864-1915), che descrisse per primo le caratteristiche della malattia a partire dal 1907. Si tratta di una grave degenerazione del tessuto cerebrale, processo lento, progressivo ma inarrestabile che provoca la perdita delle capacità intellettive, con conseguente grave menomazione della vita sociale e affettiva. Costituisce il 60% di tutte le demenze, colpisce (tranne rari casi) dopo i sessant'anni e la sua evoluzione fino agli stadi più gravi può durare dagli 8 ai 15 anni; ne è colpito il 5% dei sessantenni e circa la metà delle persone oltre gli 85 anni. A partire dai 65 anni e fino agli 85 la possibilità di ammalarsi di Alzheimer raddoppia ogni cinque anni. In Italia, si stimano circa 600.000 ammalati con una previsione di crescita del 40% entro i primi anni del XXI secolo, mentre nel mondo i malati sono circa 29 milioni. La malattia, i cui sintomi iniziali sono decadimento mnemonico, turbe dell'orientamento e perdita delle capacità cognitive, è caratterizzata da una progressiva necrotizzazione delle cellule cerebrali corticali, con lesione dei centri preposti al pensiero (ippocampo) e al raziocinio (corteccia). Le cause non sono ancora state chiarite, mentre si sa molto di più sul meccanismo del processo di degenerazione: nel cervello i neuroni iniziano a produrre una proteina (beta-amiloide) con formazione delle tipiche placche all'interno della cellula e di grovigli neurofibrillari. In corrispondenza di questa alterazione cellulare, il neurone inizia una serie di eventi programmati che portano alla sua morte. Per indicare questo meccanismo, spesso si usa l'espressione di "suicidio programmato" del neurone. L'App (precursore della proteina amiloide) normalmente serve per il normale funzionamento dei neuroni. Le secretasi (β e γ) sono enzimi che tagliano l'App in tanti frammenti che, accumulandosi, formano le placche. In seguito a un taglio si producono proteine A-β che vengono sospinte fuori dalla membrana cellulare; se non vengono eliminate o se c'è un'iperproduzione si accumulano formando le fibrille e poi le placche che producono la perdita delle sinapsi e la distruzione dei neuroni. I grovigli neurofibrillari nascono invece da una degenerazione delle ramificazioni (neuriti) che partono dai neuroni; esse posseggono delle strutture (microtubuli) rafforzate dalla proteina τ che le tiene unite come le traversine delle rotaie. Se viene a mancare la proteina τ i microtubuli collassano, i neuriti si accorciano e il neurone muore. Gli studi della malattia hanno evidenziato che il meccanismo potrebbe essere legato a difetti genetici; infatti la proteina beta-amiloide viene prodotta in base ad alcuni schemi genetici (indicati con sigle diverse, APP, ApoE, PS-1 e PS-2). Ad eccezione di alcune rare forme familiari (FAD), che sono chiaramente ereditarie (attualmente si pensa che l'ereditarietà sia responsabile solo nel 15-20% dei casi), non c'è però alcuna conferma che la malattia si trasmetta ai figli. I sintomi sono molteplici, inizialmente anche sottovalutati; alcuni infatti, come la perdita di memoria, di iniziative e di interesse, sono scambiati per un normale effetto dell'invecchiamento. Invece la perdita della memoria, specie a breve periodo, diventa nella malattia sempre più evidente e non può essere accettata come una condizione legata all'età. In presenza di gravi deficit di memoria occorre quindi valutare se esistono concomitanti gli altri sintomi della malattia, che compaiono via via che la demenza progredisce: in particolare si hanno disturbi del linguaggio (afasia), perdita di orientamento nello spazio e nel tempo, incapacità di riconoscere persone e luoghi (agnosia), confusione, fino alla perdita completa della capacità di compiere le azioni quotidiane più semplici, con una completa dipendenza dagli altri. Le cure - Attualmente non esiste una cura della malattia. I farmaci (tacrina, tetraidroaminoacridina, donepezil), se somministrati ai primi stadi, rallentano la progressione (con trenta settimane di terapia si guadagna circa un anno). Nel 2003 ricercatori della New York University hanno provato la memantina su 252 soggetti; il farmaco (20 mg al giorno) ha ridotto il deterioramento mentale e ha rallentato la progressione della malattia nelle forme da moderate a gravi. Alcune scoperte di ricercatori giapponesi e italiani hanno recentemente attirato l'attenzione sulla possibilità di bloccare il processo di suicidio dei neuroni. I ricercatori hanno infatti notato che in un una piccola zona del cervelletto i neuroni sono immuni dal meccanismo. Si è scoperto che in tale zona viene prodotta una sostanza, chiamata umanina, a cui viene quindi attribuita la capacità di impedire il suicidio cellulare. Gli studi dei ricercatori italiani hanno permesso di individuare il gene responsabile della produzione dell'umanina, della quale sono riusciti a produrre una copia in laboratorio usando il tessuto del cervello dei ratti. Sulla base di questi risultati preliminari, si pensa di studiare la possibilità di sviluppo di farmaci in grado di stimolare la produzione di umanina o di sostanze attive capaci di replicare il meccanismo di autodifesa. Si sta studiando un vaccino (An 1972, Betablock) capace di bloccare la proteina beta-amiloide; è già stato sperimentato su topi geneticamente modificati e ha superato la fase uno di non tossicità sull'uomo. La fase due dovrebbe durare due anni (dal 2002) e si spera confermi i risultati sugli animali, cioè il blocco della malattia (più incerta è la prevenzione della stessa). Il vaccino utilizza una parte della proteina beta-amiloide responsabile, con il suo accumulo, del danneggiamento dei neuroni.