MARX e ENGELS A cura di Diego Fusaro I filosofi hanno solo

MARX e ENGELS
A cura di Diego Fusaro
I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi
diversi; si tratta però di mutarlo.
Marx ed Engels sono passati alla storia
come coppia indisgiungibile, come
rivoluzionari di professione inseparabili;
eppure ebbero una formazione molto
differente, quasi antitetica. Infatti,
Engels, nato a Barmen nel 1820, era
figlio di un industriale bigotto e
reazionario della classe capitalista ed è
proprio in virtù di questa sua
collocazione sociale che ha modo di
venire a contatto con la classe operaia.
Infatti, inviato dal padre in Inghilterra per affari, può osservare con
particolare attenzione la condizione del proletariato inglese e trarne spunto
per riflessioni che segneranno decisivamente la sua filosofia; in
quest'occasione Engels scrive Le condizioni della classe operaia in
Inghilterra (1845), una sorta di diario di bordo in cui raccoglie dati e
annotazioni di rilievo. Al contrario, Marx, nato a Treviri nel 1818, ha una
formazione più classicamente filosofica e muove i suoi primi passi nel
contesto della Sinistra hegeliana, pubblicando articoli sulle varie testate
politiche. I due futuri filosofi e compagni si incontrano a Parigi e stringono
un'amicizia imperitura, a tal punto che anche quando Marx si troverà in
difficilissime condizioni economiche (tanto da dover impegnare i propri
vestiti), Engels lo aiuterà mantenendolo. Frutto della loro collaborazione è,
ad esempio, il celebre Manifesto del partito comunista , redatto alla vigilia
del rivoluzionario 1848 su richiesta di una piccola organizzazione operaia
che aveva loro richiesto la stesura di un programma politico; e proprio per
far sì che sia comprensibile a tutti gli operai, Marx ed Engels danno al
Manifesto un taglio semplice e leggero. I due compagni negli anni Sessanta e
Settanta vivono l'indimenticabile esperienza della Prima internazionale: tra
gli organizzatori vi è Marx stesso, che polemizza aspramente sia contro la
Sinistra borghese (di cui critica il rifiuto della lotta di classe) sia contro
l'anarchismo alla Bakunin (a cui rimprovera il fatto di voler passare troppo
bruscamente dallo Stato all'anarchia). Marx termina la propria esistenza nel
1883, ed Engels gli sopravvive fino al 1895, portando avanti l'attività
filosofica e politica: già nel 1875 era nata la Socialdemocrazia Tedesca (SPD)
dalla fusione di due partiti, uno di ispirazione marxiana, l'altro di
ascendenza lassalliana. Dalla fusione, però, avvenuta con il congresso di
Gotha, affiorarono problematiche apparentemente irrisolvibili: infatti, se
Marx prospettava l'abbattimento del regime capitalistico attraverso la
rivoluzione, Lasalle, dal canto suo, vedeva nel socialismo uno strumento
riformista, in grado di ottenere pacificamente dei riconoscimenti a favore
degli operai senza imboccare la via rivoluzionaria, ed è per questo che
Lasalle tentò anche il dialogo con Bismarck, l'antidemocratico cancelliere
tedesco. Ora, una volta nata la Socialdemocrazia sorgeva anche il problema
riguardante quale prassi adottare (quella marxista della rivoluzione o quella
lasalliana della riforma?), problema che resterà irrisolto per parecchio
tempo fino alla scissione tra socialisti, favorevoli al riformismo, e
comunisti, sostenitori della rivoluzione. Certo è che Marx non rimase
soddisfatto del congresso di Gotha, poichè aveva già fiutato il rischio di una
svolta riformistica che poteva far passare in secondo piano la rivoluzione e
pertanto compose la Critica al Programma di Gotha (1875). Come
accennavamo, Engels sopravvive a Marx e diventa una sorta di padre
spirituale della SPD e della Seconda internazionale e le modifiche che egli
apporta al marxismo prefigurano quella svolta riformista e democratica della
SPD che esploderà in tutta la sua violenza nel celebre "dibattito sul
riformismo", con cui i comunisti rivoluzionari si distaccheranno dal partito.
Tornando alla vita dei due filosofi, Marx, dopo aver frequentato il Liceoginnasio della sua città natale (Treviri), si era iscritto all'università
laureandosi con la tesi Differenza tra la filosofia della natura di Democrito
e quella di Epicuro (1839-41): quest'opera mette in luce come Marx, ancora
giovanissimo, nutrisse già particolare interesse per il materialismo
(rappresentato dalle filosofie di Democrito e Epicuro), interesse che non
abbandonerà mai e che anzi lo porterà a dar vita ad una filosofia passata alla
storia sotto il nome di "materialismo storico"; curioso è il fatto che Marx per
primo soffermi insistentemente la propria attenzione sulla teoria epicurea
del clinamen , ovvero della deviazione che gli atomi subiscono nella loro
caduta e che permette ad Epicuro di lasciare un margine di libertà all'agire
umano. Al giovane Marx interessa ogni forma di materialismo, da quello
greco di Democrito ed Epicuro a quello tedesco allora in auge di Feuerbach;
nello stesso tempo, però, com'egli stesso afferma, non riesce a passare
indenne dalle ammalianti sirene dell'hegelismo. E la sfera materialistica
convive in Marx con quella idealistica, tant'è che egli si propone come
sintesi delle due tradizioni: dalla concezione materialistica desume la
convinzione che l'elemento di base della realtà sia la materia, da quella
idealistica, invece, mutua il procedimento dialettico elaborato da Hegel.
Marx nota infatti, con straordinaria acutezza, come il limite di ogni
materialismo sia sempre stata la scarsa attenzione rivolta alla storia,
attenzione che invece è centrale nella filosofia hegeliana: ed è per questo
che il pensatore di Treviri intende prendere il meglio dal materialismo e
dall'hegelismo, scartando invece quegli aspetti ritenuti inadeguati. E
mettendo insieme le due teorie, così diverse tra loro, nasce un ibrido
esplosivo: un materialismo letto in chiave storica e dialettica , con il quale
Marx dà una giusta sistemazione alla dialettica hegeliana, facendola
poggiare dove è giusto che poggi. Hegel ha infatti avuto il merito di
elaborare il celebre procedimento dialettico, ma la dialettica da lui intesa è
una dialettica capovolta, che poggia sulla testa, ovvero sulle idee: e Marx,
mantenendola invariata ma basandola sulla materia, la fa poggiare sui piedi,
ponendo fine al suo stare a testa in giù. Al di là dell'influenza hegeliana sulla
concezione filosofica, si può anche notare come le fonti a cui Marx si è
ispirato coinvolgono anche sfere extra-filosofiche: Lenin, fervente marxista
oltre che eroe della Rivoluzione russa, ha infatti notato che il marxismo si
articola in tre ambiti (filosofia, politica ed economia) e per l'elaborazione di
ciascuno di essi Marx ha tratto ispirazione da pensatori diversi. Per quel che
riguarda la sfera filosofica, egli si è apertamente ispirato alla filosofia
classica tedesca, quella cioè che da Kant giunge fino alla Sinistra hegeliana;
per quel che invece concerne l'economia, ha preso spunto dall' "economia
classica inglese", la quale trova il suo eroe in Adam Smith, acceso
sostenitore del liberismo più sfrenato; oltre a Smith, Marx guarda anche a
Davide Ricardo, che nei primi anni dell'Ottocento aveva sfatato il mito
smithiano del capitalismo senza regole, facendo notare che gli interessi dei
vari gruppi sociali sono inevitabilmente contrastanti tra loro e che,
pertanto, non esiste quella mano invisibile ipotizzata da Smith che
dovrebbe, dietro agli interessi personali perseguiti da ciascuno, aiutare in
ultima istanza tutti. Per quel che riguarda la sfera politica, infine, Marx si
ispira al socialismo francese, da lui bollato sarcasticamente come
"utopistico" poichè si limita a tratteggiare società ideali sulla scia di quanto
aveva fatto Platone. In questa lucida analisi condotta da Lenin si tende a
mettere in evidenza la completezza del discorso marxista, nel senso che
esso coinvolge tre diverse sfere fondamentali (filosofia, economia, politica) e
attinge da tre diverse nazioni centrali nella cultura europea (la Germania per
la filosofia, l'Inghilterra per l'economia, la Francia per la politica): infatti, la
Francia aveva realizzato la sua rivoluzione politica, elaborando il socialismo
e gettando le basi per ogni futura rivoluzione; l'Inghilterra si era
avventurata, sul piano economico, nella rivoluzione industriale e, infine, la
Germania aveva attuato con Kant una vera e propria rivoluzione filosofica.
Queste tre rivoluzioni, così lontane tra loro, trovano in Marx la loro sintesi,
spiega Lenin come corollario dell'intera sua riflessione. E può essere curioso
rintracciare il primo tentativo di Marx di applicare la filosofia hegeliana
all'economia e, in ultima istanza, alla politica: Marx ci prova per la prima
volta nel 1844, in quel cospicuo gruppo di scritti pubblicati postumi con il
titolo di Manoscritti economico-filosofici del 1844 , detti appunto
"economico-filosofici" per via del tentativo di applicare le categorie della
filosofia hegeliana all'economia. Marx è stato uno scrittore molto prolifico,
che si è scatenato nella stesura di tantissimi libri, di cui meritano di essere
menzionati le Tesi su Feuerbach (pubblicate nel 1888 da Engels), con cui
Marx lancia il suo programma di materialismo storico, concependo la
filosofia come un qualcosa volto a cambiare la realtà; in Critica alla
filosofia hegeliana del diritto pubblico (1844) tuona contro la religione, in
Critica dell'economia politica classica e in Per la critica dell'economia
politica (1859) critica le concezioni di Smith e di Ricardo; in La guerra
civile in Francia disserta dell'esperienza della Comune di Parigi, primo
governo socialista: la frase conclusiva dell'opera è esemplare: " Parigi
operaia, con la sua Comune, sarà celebrata in eterno, come l'araldo
glorioso di una nuova società. I suoi martiri sterminatori, la storia li ha
già inchiodati a quella gogna eterna dalla quale non riusciranno a
riscattarli tutte le preghiere dei loro preti. " In Il 18 Brumaio di Luigi
Bonaparte analizza il colpo di stato del 2 dicembre 1851, vedendolo come
una banale ripetizione del 18 Brumaio di Napoleone I e precisando
ironicamente che " Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi
fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano per, così
dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere la prima volta come
tragedia, la seconda volta come farsa." Un posto a parte in questa rapida
carrellata di opere marxiane merita Il Capitale (1867), la grande opera di
economia di Marx, un'opera che curiosamente verte non sulla società
comunista, ma sul capitale, l'acerrimo nemico del marxismo. E del resto lo
stesso Manifesto è in gran parte un'opera volta all'analisi del sistema
capitalistico e non della futura società comunistica. Tutto ciò dimostra
come Marx non voglia fare il profeta e sbizzarrirsi in fantasmagoriche
previsioni del futuro, delineando società perfette, sulle orme dei socialisti
utopisti. In questo egli resta fedele ad Hegel: la ragione può riflettere su se
stessa solo in quelle realtà in cui è presente e tali realtà sono il passato e il
presente. Ecco perchè Marx analizza la situazione passata e, soprattutto,
presente per coglierne le contraddizioni di fondo e per far vedere dall'analisi
di esse come il sistema in atto debba essere dialetticamente superato. In
termini hegeliani, il futuro altro non è se non negazione del presente:
l'attuale sistema capitalistico è destinato a "saltare" e a capovolgersi
dialetticamente nel suo contrario, ovvero nel socialismo, in cui
scompariranno le lotte di classe, lo stato e la proprietà privata. Marx non ci
dice dunque che cosa sarà il socialismo, proprio perchè la ragione non può
indagare su ciò che non si è ancora attuato; ma può dirci cosa non sarà, e
visto che sarà la negazione dialettica del capitalismo, avrà tutte le
caratteristiche ad esso opposte. In un certo senso, Marx si discosta da Hegel
e apre qualche spiraglio verso il futuro, potendo dire ciò che in definitiva
esso non sarà, ma non per questo egli arriva ai livelli dei socialisti utopisti,
che con le loro aberrazioni mentali illustravano minuziosamente la società
futura in tutti i suoi particolari (Fourier arrivando perfino a dire quanti
individui ci sarebbero stati nelle costruzioni abitative). L'atteggiamento
assunto da Marx è critico in ogni istante, prende e supera le tradizioni
precedenti con il modello dialettico: e così, sul piano politico, accetta la
critica al capitalismo ma ne critica il carattere utopistico che finora l'ha
contraddistinta, precisando che dal socialismo utopistico si deve passare al
socialismo scientifico , ovvero il socialismo va inteso non come
delineamento mentale di una società ideale, bensì come necessaria
conseguenza del tramonto imminente del capitalismo. Studiando in modo
approfondito il capitalismo, infatti, è impossibile non vedere come esso si
ribalterà, prima o poi, nel suo opposto: è un'analisi scientifica, una
constatazione che si basa su dati di fatto e che porta a prevedere ciò che
necessariamente sarà. La stessa considerazione di natura scientifica vale sul
versante filosofico: l'hegelismo e il materialismo vengono dialetticamente
superati dal materialismo storico; qualcosa di molto simile si può, infine,
affermare anche per quel che riguarda l'economia: Marx riconosce che
l'analisi dell'economia condotta da Smith e Ricardo è corretta, ma non
accetta l'idea, da loro propugnata, che le leggi del capitalismo siano le leggi
dell'economia in generale. Se lasciamo andare naturalmente l'economia,
senza manipolarla, essa non potrà che comportarsi secondo le leggi
dell'economia capitalistica, dicono Smith e Ricardo; Marx non è d'accordo e
dà un'interpretazione più dinamica: quelle individuate giustamente da
Smith e Ricardo sono sì le leggi del capitalismo, ma sono leggi storicamente
determinate, ovvero in altre epoche le leggi dell'economia sono state e
saranno altre, nettamente distinte da quelle del capitalismo. Il che vuol
dire, in altri termini, che le stesse leggi che fanno funzionare il capitalismo
lo porteranno anche al tramonto e al superamento: e Marx (ma soprattutto
Lenin) ha in mente la concorrenza, su cui fa leva il capitalismo; se si lascia
libera concorrenza, il capitalismo procede nel migliore dei modi, poichè si
tende a vendere al prezzo più basso, ma presto nasce la concorrenza
sfrenata che fa sì che si creino l'oligopolio e il monopolio e, in ultima
istanza, l'eliminazione della concorrenza, causata paradossalmente dalla
stessa concorrenza. Dunque, se per Smith e Ricardo le leggi dell'economia
sono leggi eterne alla stregua delle leggi fisiche, per Marx, invece, cambiano,
anzi sono esse stesse che si cambiano, con la conseguenza che il capitalismo
porterà se stesso alla fine con un capovolgimento dialettico. In questo
senso, Marx può presentare la sua teoria come scientifica, in antitesi alle
teorie borghesi, da lui qualificate come "ideologie" in quanto cercano di
dimostrare che le cose vanno bene così come sono: il caso più eclatante di
ideologia, è senz'altro quello di Smith e della sua "mano invisibile", con cui
provava a dimostrare come le leggi del capitalismo, essendo leggi di natura,
sono eterne e quindi giuste. Marx ritiene riprovevole questo atteggiamento,
questa "falsa coscienza" con cui si tenta in tutti i modi di giustificare le
posizioni dei ceti dominanti. Tuttavia, il dibattito storiografico e filosofico
si è domandato fino a che punto il marxismo sia una scienza. A negare
radicalmente ogni validità scientifica al marxismo è stato il filosofo liberale
novecentesco Karl Popper, che in La società aperta e i suoi nemici presenta
la società liberale, pluralista e dinamica culturalmente, e i suoi nemici: oltre
a Platone (per via della sua "società ideale") e ad Hegel (per via dello "stato
etico"), Popper inserisce nelle sue "liste di proscrizione" anche Marx. Per
Popper una teoria è scientifica non quando è verificabile, ovvero quando può
appellarsi a dati di fatto che la avvalorino, poichè altrimenti anche la teoria
secondo la quale Dio esiste potrebbe essere scientifica, in quanto provata da
molteplici dati di fatto (le cose vanno bene perchè c'è un Dio, le cose vanno
male perchè Dio vuole mettermi alla prova, ecc). Viceversa, una teoria può
dirsi scientifica, prosegue Popper, se è falsicabile, ovvero se vi sono dati di
fatto che possono smentirla: la teoria galileiana della caduta dei gravi è
scientifica perchè sarebbe potuta essere smentita dai dati di fatto; al
contrario, "Dio esiste" è una teoria priva di validità scientifica, poichè non
c'è alcun dato di fatto che falsifichi la teoria: se anche tutto va storto, si
può sempre dire che è nei progetti di Dio e perciò l'esistenza di Dio non sarà
mai negabile. Allo stesso modo la teoria di Hegel non è scientifica, poichè
non c'è dato empirico alcuno che possa smentirla; e lo stesso vale, secondo
Popper, per il marxismo: esso non è scientifico poichè non può essere
smentito da dati di fatto, tant'è che quando non si sono realizzate le
previsioni di Marx secondo le quali la società si sarebbe sempre più
polarizzata, i marxisti son riusciti in qualche modo ad aggiustare le loro
teorie, spiegando ad esempio che il divario tra padrone e servo è comunque
accresciuto o che le previsioni di Marx si sono avverate nei Paesi più poveri.
Secondo molti altri pensatori di ispirazione marxista, invece, il marxismo è
una dottrina scientifica, a tal punto che nella storia vi sono stati pensatori
che hanno letto Marx in chiave più filosofica e altri che ne hanno dato
invece una lettura più scientifica. Secondo questi ultimi (Althusser e
Geymonat in primis), Marx sarebbe partito da confuse concezioni hegeliane
per poi approdare, con Il Capitale , ad una vera e propria scienza del
capitalismo, quasi come se nel Marx giovane prevalesse la filosofia e nel
Marx anziano la scienza. C'è ovviamente anche stato chi ha letto Marx in
termini più unitari, facendo notare come in realtà Marx non abbandoni mai
del tutto la filosofia, tant'è che Il Capitale affonda le sue radici nel pensiero
hegeliano, visto che Marx in esso fa vedere come siano le stesse leggi che
governano il capitalismo a farlo tramontare. In molti hanno poi avanzato
un'altra obiezione al marxismo: in Marx si sovrappongono, suo malgrado,
due dimensioni eterogenee e apparentemente inconciliabili. Da un lato, egli
diagnostica, con il piglio di uno scienziato, che il socialismo dovrà
necessariamente esserci a seguito del crollo del capitalismo; dall'altro lato,
poi, egli si spoglia della veste scientifica e si lascia trasportare dalla
passione politica e dall'afflato morale, farcendo i suoi scritti di affermazioni
moraleggianti, inneggiando alla rivoluzione e proclamando ingiusta, e
pertanto da superare, la società capitalistica, ponendosi così in contrasto
con la futura tesi di Weber secondo cui la scienza deve essere " avalutativa
". La sfera scientifica (il capitalismo cade necessariamente) si sovrappone
bruscamente a quella morale (il capitalismo è ingiusto e va abbattuto), quasi
come se in Marx vi fosse una certa confusione della parola "dovere" nella
duplice accezione di dovere morale e dovere come necessità fisica: è come
se Marx dicesse che il capitalismo crollerà necessariamente ed è giusto
moralmente che crolli. Questa contraddizione che serpeggia nella filosofia
marxiana affiora anche quando egli dice che il capitalismo deve
necessariamente crollare e poi invita ad organizzare il proletariato perchè si
adoperi per abbattere il capitalismo: se il capitalismo deve necessariamente
cadere, perchè allora bisogna lavorare per farlo cadere? Una spiegazione a
ciò è possibile: dare agli operai la convinzione che il capitalismo crollerà
necessariamente equivale a dar loro la certezza di lottare per una giusta
causa, di stare dalla parte della storia, infondendo loro fiducia. E' come dire
che è giusto lottare per l'abbattimento del capitalismo perchè la storia
stessa spinge in quella direzione; allo stesso modo, del resto, i Crociati
combattevano gli "infedeli" con grande impeto poichè convinti di aver Dio
dalla loro. Ritornando alla formazione di Marx, egli muove i suoi primi passi
nel contesto della Sinistra hegeliana, costituita da quei sostenitori di Hegel
che del suo pensiero privilegiavano il "tutto ciò che è razionale è reale",
convinti cioè che fosse opportuno realizzare anche in modo rivoluzionario
ciò che si configurava come giusto e frutto di una certa razionalità. Ed è per
questo che il giovane Marx, durante la sua provvisoria adesione alla Sinistra
hegeliana, vede nell'hegelismo uno sforzo per cambiare la realtà verso un
ampliamento dei diritti politici in senso democratico-borghese. Ma anche in
questa fase giovanile affiorano delle novità contrastanti con il pensiero
hegeliano e destinate a portare Marx a prenderne le distanze: nell'analisi che
egli conduce hegelianamente sul rapporto tra Stato e società civile accentua
radicalmente la contrapposizione tra i due "momenti", mettendo in evidenza
che lo Stato così come si configura nei regimi liberali è caratterizzato
dall'uguaglianza giuridica e, tutt'al più, politica. Ed è sempre da quest'analisi
che si possono evincere le differenze inconciliabili tra Marx e il socialismo
in generale di stampo riformista: quest'ultimo, infatti, intendeva il
socialismo come tappa ulteriore sulla strada che parte dal liberalismo e
passa dalla democrazia, quasi come se con l'Inghilterra del Seicento si fosse
giunti al liberalismo e all'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e con
la Francia rivoluzionaria si fosse aggiunta la democrazia, ovvero
l'uguaglianza dei diritti politici; si trattava ora, per i socialisti riformisti, di
passare alla tappa successiva, il socialismo, ovvero l'uguaglianza dei diritti
socio-economici, nella convinzione che una differenziazione sul livello
socio-economico mettesse in crisi anche l'uguaglianza giuridica (se uno è
più ricco può permettersi avvocati migliori) e quella politica (se uno è più
ricco può comprare i voti corrompendo i più poveri). Il socialismo così
inteso altro non è se non quella tappa che aggiunge all'uguaglianza giuridica
(liberalismo) e politica (democrazia) quella socio-economica, con l'inevitabile
conseguenza che liberalismo e democrazia non vanno abbattute ma
integrate con il socialismo e anzi sono beni necessari poichè senza di essi
non si potrebbe mai giungere al socialismo; tanto più che il socialismo,
mirando agli interessi della stragrande maggioranza dei cittadini, può
vincere attraverso il sistema democratico, dove ha la meglio chi prende più
voti. La posizione di Marx è agli antipodi rispetto a quella appena illustrata:
certo, anch'egli accetta l'idea di una democrazia socialista, pur restando
sempre molto vago sul futuro del socialismo, ma comunque sui regimi
liberal-democratici ha un'idea molto chiara, di netta ispirazione dialettica. Il
processo evolutivo non è lineare, non si passa cioè dal liberalismo alla
democrazia e, infine, al socialismo; al contrario, si tratta di un vero e
proprio processo, in cui vi è una tesi, un'antitesi e una sintesi, sicchè il
socialismo non può essere concepito come una tranquilla trasformazione del
liberalismo e della democrazia, ma come drastico e violento capovolgimento
di essi. Ne consegue che se per un socialista riformista malgrado ci sia la
democrazia il socialismo, come tappa successiva, non c'è ancora, per Marx
invece il socialismo non c'è proprio grazie al fatto che c'è il regime liberaldemocratico, condizione politica dell'esistenza del capitalismo: fin tanto che
ci saranno la democrazia e il liberalismo non potrà esserci il socialismo, dice
Marx, il quale arriverà solo in seguito all'abbattimento di entrambi; il regime
liberal-democratico, infatti, è la negazione stessa di ogni socialismo e anzi,
in quanto condizione di esistenza del capitalismo, rappresenta una delle
svariate forme in cui si è manifestato nel corso della storia lo sfruttamento
dell'uomo sull'uomo. La storia stessa, dice Marx nel Manifesto del partito
comunista , " è stata finora la storia di lotte di classe ", anche se tale lotta
si è presentata sempre sotto forme diverse pur mantenendo la caratteristica
di essere una rottura netta con il comunismo primitivo in cui tutto era di
tutti. E quando Marx dice che la storia è lotta di classe intende dire che vi è
sempre stata lotta tra chi detiene i mezzi di produzione (terre, fabbriche,
ecc) e chi non li possiede; come dicevamo, nella storia tale lotta si è
nascosta dietro maschere diverse ma ciononostante " oppressore e oppresso
si sono sempre reciprocamente contrapposti, hanno combattuto una
battaglia ininterrotta, aperta o nascosta " . Se nelle società
precapitalistiche questa differenza economica, legata al fatto che qualcuno
possiede i mezzi di produzione e qualcun altro no, è stata mascherata da
forme di dominio extra-economiche: ad esempio, nell'antichità alla
differenza economica di fondo si sovrapponeva, e anzi la offuscava, la
differenza giuridica che faceva sì che per legge vi fossero padroni e schiavi,
sicchè la differenza vera (ovvero il possesso dei mezzi di produzione) era
nascosta; con il capitalismo moderno, invece, non vi sono più
sovrapposizioni extra-economiche: con il liberalismo è invalsa l'uguaglianza
di fronte alla legge e pertanto il capitalista in tribunale vale quanto
l'operaio; con la democrazia è subentrata l'uguaglianza politica che fa sì che
il voto del capitalista valga quanto quello dell'operaio. Ed è in questo
contesto che emerge in tutta la sua tragicità e nella sua purezza la vera
distinzione economica tra padrone e servo: tale distinzione, affiorata nella
storia sotto diverse maschere che ne offuscavano la vera natura, può ora
scaturire nella sua nudità, come meramente economica. Con la Rivoluzione
francese è stata sancita l'uguaglianza degli uomini di fronte alla legge e nelle
decisioni politiche: ed essendo i cittadini tutti uguali, ora le differenze
perdono la loro giustificazione giuridica e si presentano nella loro realtà più
profonda, ovvero come differenze economiche, tra chi detiene i mezzi di
produzione e chi, sprovvisto di essi, non può far altro che vendere la propria
forza-lavoro a chi li possiede. Proprio per questo lo studio della società
capitalistica, come già aveva notato Hegel, è il metodo migliore per studiare
anche tutte le altre società precedenti: infatti è in essa che si manifesta
nella sua purezza quello scontro tra le classi sociali che nelle società
precedenti era offuscato da differenze di altro genere; infatti, in un regime
liberal-democratico che garantisce l'uguaglianza giuridica e politica si è, per
dirla con Hegel, uguali nello Stato ma diversi nella società civile: si è cioè
formalmente uguali (giuridicamente e politicamente), ma sostanzialmente
diversi. Proprio per questo motivo il capitalista come citoyen ha gli stessi
diritti dell'operaio, ma come bourgeois vale molto di più. E il regime liberaldemocratico, in cui le differenze si estrinsecano nella loro purezza
economica, è la condizione d'esistenza dello sfruttamento, poichè non è più,
com'era nelle società antiche, che un uomo, essendo giuridicamente
schiavo, è obbligato dalla legge a servire il padrone, ma al contrario si è tutti
liberi ed è perciò la situazione in cui i rapporti di lavoro sono determinati da
contratti: il capitalista ha i mezzi e l'operaio ha la forza-lavoro da vendere e
si accordano in piena libertà giuridica. Il che significa che l'uguaglianza di
diritti è per Marx la condizione formale per lo sviluppo dei meccanismi di
sfruttamento tipici del capitalismo, vale a dire che se non ci fosse la libertà
della repubblica borghese non potrebbe nemmeno svilupparsi il libero
contratto tra capitalista e operaio. E' come se il capitalismo si desse la
repubblica borghese come forma politica in cui potersi sviluppare, per cui lo
sfruttamento capitalistico non esiste malgrado l'uguaglianza sociale e
politica, ma anzi esiste in virtù di esse, che permettono che il capitalista
possa sfruttare l'operaio liberamente. Ne consegue che la repubblica
borghese, nella prospettiva marxiana, non è un primo passo verso il
socialismo, ma è, al contrario, l'habitat naturale dello sfruttamento
capitalistico e proprio per questo non si tratta di aggiungere all'uguaglianza
giuridica e politica quella economica riformando la repubblica borghese in
direzione dell'equità sociale; viceversa, per Marx la repubblica borghese non
va cambiata, va abbattuta . Ecco dunque che si delineano le differenze
insormontabili tra la Sinistra hegeliana, pronta a far diventare reale ciò che
è razionale, e Marx, convinto che si debba mutare la realtà per far sì che
mutino anche le idee: la dialettica non deve poggiare sulle idee (come
credeva invece Hegel), ma sui fatti materiali ed è proprio in questo che
consiste il capovolgimento marxiano della dialettica hegeliana; non si tratta
cioè di mutare idee per cambiare la realtà ma si tratta di mutare la realtà
per cambiare idee: " Il comunismo, per noi, non è uno stato di cose che
debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà debba conformarsi.
Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose
presenti [...] Le posizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto su
idee, su princìpi inventati o scoperti da qualche apostolo salvatore del
mondo. Esse sono soltanto espressioni generali dei rapporti effettivi di una
lotta di classe già in atto, di un movimento storico che si sta svolgendo
sotto i nostri occhi ". Le divergenze che andavano acuendosi tra il pensiero
marxiano e quello della Sinistra storica vengono a galla anche in uno scritto
del 1844 Sulla questione ebraica : in quegli anni in cui divampavano i moti
rivoluzionari del dopo restaurazione, sorge il problema dell'emancipazione
degli Ebrei, fino ad allora privi di diritti pari agli altri cittadini. Se la
Sinistra hegeliana si era scatenata in scritti a favore dell'emancipazione
ebraica, Marx, interessato direttamente in quanto ebreo, interviene in modo
piuttosto originale, sostenendo che il vero problema da porsi è la
trasformazione radicale e rivoluzionaria della realtà in modo tale che perda
di significato ogni differenza basata sulla religione, tanto odiata da
Feuerbach. Le considerazioni religiose di Feuerbach si intrecciavano con
quelle politiche in quanto egli sottolineava il carattere pericolosamente
conservatore della religione, poichè in essa l'uomo tende a diventare
schiavo, a sentirsi dipendente da un'entità superiore, e uno schiavo
incatenato nel "mondo delle idee" diventa inevitabilmente anche schiavo
nella realtà materiale, quasi come se oltre ad essere schiavo di Dio
diventasse anche schiavo di un padrone materiale. Ne consegue che la
liberazione politica dell'uomo dovrà per Feuerbach passare per
l'eliminazione della religione: infatti, solo dopo la scomparsa della religione
l'uomo cesserà di essere schiavo di Dio e, successivamente, dei padroni
materiali. Diametralmente opposta è la concezione di Marx, ateo dichiarato,
secondo la quale " la religione è l'oppio del popolo " : secondo Marx, infatti,
l'uomo ricorre alla religione perchè materialmente insoddisfatto e trova in
essa, quasi come in una droga ("oppio"), una condizione artificiale per poter
meglio sopportare la situazione materiale in cui vive. Per Marx, dunque, non
è la religione che fa sì che si attui lo sfruttamento sul piano materiale (come
invece credeva Feuerbach), ma, al contrario, è lo sfruttamento capitalistico
sul piano materiale che fa sì che l'uomo si crei, nella religione, una
dimensione materiale migliore, nella quale poter continuare a vivere e a
sperare. Ne consegue che se per Feuerbach per far sì che cessi l'oppressione
materiale occorre abolire la religione, per Marx, invece, una volta eliminata
l'oppressione, crollerà anche la religione, poichè l'uomo non avrà più
bisogno di "drogarsi" per far fronte ad una situazione materiale invivibile.
Con queste considerazioni sullo sfondo, Marx si distacca irreversibilmente
dalla Sinistra hegeliana, la quale aveva dato una lettura progressista di
Hegel ed era convinta che si potesse mirare al progresso attraverso una
critica ideologica della religione e della società; Marx, invece, ipotizza un
vero e proprio capovolgimento dialettico, poichè è convinto che con una
semplice trasformazione dialettica di idee non si possa cambiare la realtà
(come invece credeva la Sinistra), ma al contrario è cambiando
dialetticamente la realtà, ovvero passando dalle " armi della critica " alla "
critica delle armi ", che cambiano anche le idee ed è proprio questo il succo
del materialismo marxiano: " per sopprimere il pensiero della proprietà
privata è del tutto sufficiente il comunismo pensato; per sopprimere la
proprietà privata effettiva, reale, occorre una effettiva, reale azione
comunista. " Ma, come abbiamo già detto, " le idee non cascano dal cielo "
(come dirà Antonio Labriola): " ci vuole forse una particolare perspicacia
per comprendere che, cambiando le condizioni di vita degli uomini, i loro
rapporti sociali e la loro esistenza sociale, cambiano anche le loro
concezioni, i loro modi di vedere e le loro idee, in una parola anche la loro
coscienza? Che cos'altro dimostra la storia delle idee, se non il fatto che la
produzione spirituale si trasforma insieme a quella materiale? (Manifesto
del partito comunista). Come già accennato, si tratta di un materialismo
storico, ovvero di una sintesi tra il materialismo di Feuerbach e la storicità
di Hegel. Ciò implica che per Marx la realtà fondamentale sia quella
materiale, rispetto alla quale tutte le altre sono derivate: le idee esistono,
ma sono derivate dalla materia. Di grande importanza nella formazione
culturale di Marx sono anche i Manoscritti economico-filosofici del 1844
(pubblicati postumi): come recita il titolo, si tratta di manoscritti precedenti
al Manifesto rimasti inediti e la coppia di aggettivi economico-filosofico
rende bene l'idea dell'argomento che in essi si tratta. Con questi scritti,
infatti, Marx analizza alcune questioni economiche avvalendosi, in modo
molto originale, delle categorie della dialettica hegeliana: centrale è il
concetto di alienazione , desunto da Hegel ma già presente nella filosofia
politica del Seicento. Ripercorrendo a grandi linee il significato di tale
termine, si può notare come da un significato prettamente giuridico, in cui
"alienazione" era il cedere qualcosa a qualcuno, sia passato ad un significato
più ampio nel Seicento, quando per "alienazione" si è inteso il cedere i
propri diritti fondamentali al sovrano per poter così costituire la società
civile. Infine, con Hegel il termine si era colorato di nuovi significati fino ad
allora sconosciuti: "alienazione" è quella tappa in cui la coscienza si
smarrisce nella materialità, quando cioè perde se stessa; ed Hegel ha
soprattutto in mente il lavoro, con il quale lo spirito dell'uomo rimane
catturato dalla materia e pertanto ne consegue che il lavoro è di per sè
alienante. In altri termini, "alienazione" per Hegel vuol dire cedere parte
della propria essenza, quasi come se il lavoro facesse smarrire nella materia
una parte della spiritualità dell'uomo. Ecco perchè per Hegel il lavoro è
intrinsecamente alienante e significa porre spiritualità nella materia; per
Marx, invece, il lavoro non è alienante intrinsecamente, anzi, in una
prospettiva in cui a contare per davvero è la materia, esso è considerato
come la massima realizzazione dell'uomo, una sorta di umanizzazione della
natura in cui si supera la distinzione tra soggetto e oggetto coi fatti e non
con le idee: trasformare la natura col lavoro vuol dire, infatti, ricondurla al
soggetto, antropizzarla. L'uomo, secondo Hegel, è per natura homo sapiens e
dunque il lavoro è alienante perchè gli provoca la perdita di spiritualità; per
Marx, invece, l'uomo è homo faber e pertanto il lavoro si colora di positivo,
ed è anzi il miglior modo che l'uomo ha per realizzarsi. Ma il lavoro diventa
alienante quando è sfruttamento, quando cioè il suo frutto è strappato al
lavoratore tramite i rapporti di sfruttamento della produzione capitalistica,
come se l'elemento di umanità posto nella materia venisse brutalmente
strappato via. Il lavoro è oggettivazione dell’uomo rispetto alla natura sia
per Hegel sia per Marx, ma per Hegel lo è intrinsecamente (l’oggettivazione
stessa è alienazione) mentre per Marx lo è nella misura in cui si configura
come sfruttamento. Dunque per Marx il lavoro di per sè non è alienato, ma
lo è in determinate condizioni, ovvero nel caso dello sfruttamento tipico
delle società divise in classi e, soprattutto, nella società capitalistica. Ed è
con Marx che il significato del termine "alienazione" termina il suo percorso,
dal momento che accanto al significato filosofico convive quello giuridico: il
motivo per cui il lavoro è alienato dipende dal fatto che il prodotto del
lavoro degli operai viene espropriato, vale a dire che l'operaio produce ma il
frutto del suo lavoro gli viene brutalmente strappato cosicchè egli " non si
afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato, ma infelice,
non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, ma mortifica il suo
corpo e rovina il suo spirito ". Dunque Marx si pone in antitesi con la
tradizione ebraico-cristiana, secondo cui il lavoro è una condanna inflitta da
Dio agli uomini in seguito al peccato originale; al contrario, per il filosofo di
Treviri esso è la massima realizzazione dell'uomo, in quanto lavorare
significa cambiare la natura, imporle il proprio suggello, estendere ad essa il
proprio dominio, quasi come se lavorando, per dirla con Locke, la natura
diventasse un'estensione del nostro corpo. Marx procede nella sua analisi
mettendo in luce come l'alienazione investa molti altri aspetti dell'uomo: se
in prima analisi l'uomo è alienato rispetto al prodotto del suo lavoro, è
anche vero che egli si aliena anche dalla propria essenza. Infatti, in una
realtà non alienata l'uomo dovrebbe trovare la propria essenza più compiuta
nel lavoro e solo a margine dovrebbe adempiere alle sue funzioni più
propriamente animali (il bere, il cibarsi, il riprodursi, ecc); ma quando il
lavoro è alienato succede invece che l'operaio, non potendo più trovare
soddisfazione nel lavoro, in quanto gli viene strappato via dal capitalista,
allora ripiega esclusivamente sulle soddisfazioni extra-lavorative, ovvero su
quelle più propriamente animali, sicchè nel proprio tempo libero si sfoga in
piaceri meramente materiali (l'alcol e la prostituzione, ad esempio),
trovando in essi gli unici momenti di libertà. E così, con un tipico
capovolgimento hegeliano, Marx spiega come l'uomo diventi animale, in
quanto perde completamente la propria essenza (che risiederebbe in quel
lavoro, se non fosse alienato) e la ritrova solamente in quei piaceri ferini di
cui abbiam detto: ecco dunque che l'operaio " si sente libero ormai solo
nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare, nel bere e nel generare, tutt'al più
nell'avere una casa, nella sua cura corporale, ecc. e che nelle sue funzioni
umane si sente solo più una bestia. Il bestiale diventa l'umano e l'umano il
bestiale. " Ed è questo il contesto in cui matura l'astio fra gli uomini, ovvero
quella che Marx definisce "lotta di classe", in cui l'uomo vede i suoi simili
come nemici. Il lavoro alienato, ricapitolando, " aliena all'uomo la natura;
aliena all'uomo se stesso " e aliena all'uomo i suoi simili. Si può poi notare,
come aveva fatto Adam Smith, che con la meccanizzazione del lavoro
scaturita dalla rivoluzione industriale scompare anche l'elemento di
creatività insito nell'attività degli operai, che si ritrovano così a dover
compiere sempre e solo, come automi, le stesse operazioni. E' bene ora
entrare nel merito di uno dei capisaldi della dottrina marxiana, ovvero il
materialismo storico, che abbiamo prima definito come materializzazione
della dialettica hegeliana. Il presupposto di tale dottrina consiste nel fatto
che la storia sia governata essenzialmente da fattori materiali e che questi
fattori siano di carattere economico, cosicchè la storia è basata
sull'economia, mentre tutto il resto (rapporti politici, giuridici, arte,
religione, ecc) costituisce elementi sovrastrutturali. La struttura della
realtà, pertanto, è la materialità economico-sociale e tutto il resto è una
sovrastruttura ideologica: a tal proposito Marx può affermare, in opposizione
alle idee di Hegel e della Sinistra, che " non è la coscienza che determina la
vita, ma la vita che determina la coscienza "; non sono cioè le idee a
cambiare la realtà, ma è la realtà stessa a cambiare le idee. In questa
prospettiva occorre affrontare il problema del rapporto tra struttura e
sovrastruttura: alcuni interpreti del marxismo hanno letto, forzando un pò il
pensiero marxiano, tale rapporto come meccanico, per cui la struttura
dovrebbe determinare in modo meccanico e deterministico la
sovrastruttura; ne consegue l'inevitabilità di ciò che avviene e questo servì a
molti marxisti (tra cui Engels) per dilazionare nel tempo il momento dello
scoppio della rivoluzione, come a dire che il capitalismo dovrà
inevitabilmente cadere prima o poi perchè le condizioni economicomateriali portano inevitabilmente in quella direzione e pertanto non bisogna
scendere in piazza a fare la rivoluzione. Questa interpretazione, che,
propugnando un rigido meccanicismo, nega ogni forma di libertà all'uomo,
fu adottata soprattutto dalla II Internazionale, ma in realtà è molto
sganciata dal pensiero di Marx: infatti, egli è convinto che, accanto al
rapporto fondamentale struttura-sovrastruttura, vi sia anche un effetto di
rimbalzo per cui se è vero che la vita determina le idee è anche vero che le
idee non sono stagnanti, ma, al contrario, possono trasformarsi in prassi ( "
la forza materiale deve essere abbattuta per mezzo della forza materiale,
ma la teoria diventa, essa pure, una forza materiale, quando si
impadronisce delle masse ", Tesi su Feuerbach). In altre parole, il fatto che
il proletariato maturi una coscienza di classe è sì dato dalle condizioni
materiali in cui vive, ma è poi necessario per far sì che esso scenda in
piazza a fare la rivoluzione: è necessario che il proletariato diventi in sè e
per sè , ovvero oltre a costituire un movimento (in sè) deve anche avere
coscienza di costituirlo (per sè). Il fatto di esserlo è un elemento strutturale,
ma il fatto di sapere di esserlo è sovrastrutturale, ossia ideologico: se lo
fosse senza sapere di esserlo (ovvero se ci fosse la struttura senza la
sovrastruttura) non potrebbe mai fare la rivoluzione. Dunque, è senz'altro
vero e scientificamente provato, dice Marx, che il capitalismo crollerà, ma è
altrettanto vero che non ci si deve limitare ad attendere inerti quel
momento, bensì bisogna maturare una coscienza di classe che porti il
movimento proletario a decidere di abbattere il capitalismo. Come per
Hegel, anche per Marx la storia è un processo dialettico, ma si tratta di una
dialettica materiale: nel suo complesso, la storia si articola in tre grandi
tappe; 1) comunismo primitivo; 2)lotta di classe; 3) comunismo maturo.
All'inizio della storia esisteva un comunismo primitivo (come già ipotizzava
l'antropologia contemporanea a Marx) dovuto al fatto che non vi era ancora
la divisione del lavoro e la lotta di classe che da essa scaturisce. La
negazione di questo comunismo primitivo è data dalla nascita della
divisione del lavoro, prima tra tutte quella paleolitica in cui al maschio
spettava la caccia e alla donna la raccolta. La divisione del lavoro nasce
perchè i bisogni umani tendono a non essere naturali: infatti, sebbene molti
di essi si configurino come assolutamente biologici (bere e mangiare, ad
esempio), tra uomo e natura si instaura un rapporto molto complesso, tant'
che, dice Marx, la natura che conosciamo è solo formalmente allo stato
puro; essa, infatti, è sempre modificata dall'uomo e dalle sue realizzazioni.
Ne consegue che l'uomo e la natura sono indissolubilmente congiunti fra
loro e tendono a modificarsi reciprocamente: pertanto, sbaglia il
materialismo di Feuerbach a trascurare la dimensione umana e sbaglia lo
"spiritualismo" di Hegel a trascurare quella materiale; ecco perchè il
materialismo storico di Marx si presenta come sintesi dei due, poichè egli è
convinto che l'uomo abbia sì una sua base materiale per cui egli " è ciò che
mangia " ma che allo stesso tempo anche il mondo sia il risultato delle
realizzazioni e dei cambiamenti attuati dall'uomo stesso. In altri termini,
l'uomo è ciò che mangia, ma egli non si accontenta di mangiare
esclusivamente ciò che gli offre la natura e così la modifica per mangiare ciò
che egli stesso produce. Ecco perchè man mano che si procede nella storia,
per via del crescere della cultura, i bisogni umani diventano sempre più
complessi e per poterli soddisfare occorre un lavoro sempre più complesso,
che può essere attuato solo attraverso la divisione del lavoro. Essa genera
ricchezza e progresso ma nello stesso tempo provoca divisioni di classe e
disuguaglianze, suddivide gli uomini in sfruttati e sfruttatori, il lavoro in
lavoro intellettuale e lavoro manuale. La divisione del lavoro è, in prima
analisi, dannosa, poichè fa nascere lo sfruttamento: ma, molto
hegelianamente, " il negativo è sempre insieme anche positivo "; infatti, se è
un male perchè ha generato disuguaglianza, è comunque un bene che ci sia
stata perchè così può essere dialetticamente superata con la rivoluzione.
Ecco dunque che la storia si prospetta come lotta di classe e il suo obiettivo
è il ritorno al comunismo, ma non al comunismo rozzo e primitivo in cui
regnava la povertà, bensì al comunismo della ricchezza, sintesi del
comunismo originario e della divisione in classi: si tratterà infatti di un
comunismo che manterrà l'apparato produttivo delle fabbriche, ma non
sfrutterà nessuno. Quello appena tratteggiato è lo schema generale, ma,
entrando nel dettaglio, a far muovere la storia è, come abbiamo ribadito, un
procedimento dialettico di tipo economico-materiale e, in modo specifico, si
tratta di ravvisare le contraddizioni che fanno scattare quel superamento
che permette il passaggio da una tappa all'altra. A questo punto Marx
introduce i concetti di forze produttive e rapporti di produzione : ogni
società è caratterizzata da un insieme di capacità umane (conoscenze,
abilità, ecc) con le quali può sfruttare la natura e tali capacità vanno
appunto sotto il nome di forze produttive. Le forze produttive, aggiunge
Marx, si sviluppano sempre nell'ambito di rapporti di produzione, ovvero in
determinati rapporti sociali (nell'ambito dei quali rientrano anche le
ideologie e, più in generale, le sovrastrutture): vi sono così state età in cui le
forze produttive si sono sviluppate nell'ambito dello schiavismo e del
servilismo, fino a giungere all'era capitalistica. E i rapporti di produzione
vengono determinati dalla forza di produzione caratteristica di quello
specifico momento storico: nell'antichità regnava lo schiavismo perchè in
quel momento tale rapporto di produzione era il migliore che ci potesse
essere per sfruttare in modo ottimale le forze produttive. Ogni forza
produttiva, dunque, si dà il suo rapporto di produzione, sicchè questi ultimi
rispecchiano e sono sempre funzionali alle forze produttive. Tuttavia, può
succedere che all'interno di questo schema generale lo sviluppo vada avanti
con eccessiva rapidità e ci si trovi in una condizione in cui i livelli di
rapporti produttivi si trovano indietro rispetto alle nuove forze produttive
emerse a tal punto da rivelarsi inadeguati: come se le forze produttive si
trovassero ingabbiate in rapporti produttivi che impediscono loro di
svilupparsi al meglio. Infatti, le forze produttive, proprio perchè hanno
generarato esse stesse i rapporti produttivi per potersi sviluppare al meglio,
funzionano fin troppo bene e progrediscono con gran rapidità mentre i
rapporti restano immutati e si rivelano pertanto inadatti per il giusto
sviluppo delle nuove forze sviluppatesi. Un'immagine che può chiarire cosa
intendesse Marx può essere quella, di forte sapore hegeliano, del guscio: è
quasi come se i rapporti produttivi fossero il guscio sociale dentro al quale
si sviluppano le forze produttive; quando però si sono sviluppate, arriva il
momento di spaccare il guscio e di prorompere all'esterno e per far ciò
occorre la rivoluzione, intesa come capovolgimento dialettico in chiave
materialistica. Quando i rapporti produttivi si rivelano ormai inadeguati alle
nuove forze produttive, giunge il momento di far saltare tali rapporti con la
rivoluzione: ed è quel che è accaduto in Francia, quando la borghesia, che si
sentiva ingabbiata da rapporti sociali e ideologici che ne frenavano lo
sviluppo, è scesa in piazza a fare la rivoluzione. Di rivoluzioni nella storia ce
ne sono state tante: più precisamente, ve ne sono state ogni qual volta si è
aperta la forbice forze produttive-rapporti produttivi; e ogni volta che vi è
stata una rivoluzione, la classe dominante che traeva maggior vantaggio dai
rapporti di produzione presenti è stata spodestata da una nuova classe
dominante. Infatti, da quando la società si è frantumata in classi, la storia è
sempre stata storia di lotte di classe e ciascuna rivoluzione attuatasi non ha
abolito tale frantumazione, ma ha semplicemente cambiato la classe
dominante: così con la Rivoluzione francese è stata spodestata l'aristocrazia
ed è salita al potere la borghesia, dando vita a nuove lotte di classi, in
particolare a quella tipica del mondo moderno, tra borghesi e proletari. Marx
fa notare che tutte le rivoluzioni della storia sono sempre state rivoluzioni
di una minoranza in favore di una minoranza: la borghesia della Rivoluzione
francese, ad esempio, era in netta minoranza e ha tutelato esclusivamente i
propri interessi, tant'è che anche il decreto apparentemente più socialista (i
decreti di Ventoso), che prevedeva la spartizione delle terre, rientrava
comunque in un'ottica pienamente borghese, che confermava la sacralità
della proprietà privata. Le cose cambieranno del tutto nel momento in cui ci
sarà la rivoluzione comunista, terza tappa della storia: essa sarà attuata
dalla stragrande maggioranza degli uomini in favore della stragrande
maggioranza degli uomini e anch'essa nascerà in modo ineluttabile dalle
contraddizioni della situazione precedente (ovvero il capitalismo). E Marx di
contraddizioni nel capitalismo ne riscontra a bizzeffe e, per il momento,
possiamo notare quella forse più lampante: il capitalismo più va avanti e più
la forma del lavoro tende ad essere cooperativistica, produrre qualcosa cioè
vuol sempre più dire lavorare insieme agli altri; tuttavia, se le forze
produttive tendono sempre più ad essere cooperativistiche, i rapporti di
produzione spingono in direzione opposta, dal momento che la ricchezza
prodotta dal lavoro compiuto in cooperazione tende sempre più ad
accentrarsi nelle mani di pochi. In altre parole, la contraddizione
insormontabile del capitalismo è che più tutti lavorano insieme e più il
frutto del lavoro va in mano a pochi. Il capitalismo è destinato a saltare
inevitabilmente per via di questa contraddizione e di molte altre e non
perchè è un sistema iniquo, come invece credevano ingenuamente i
socialisti utopisti: sono le contraddizioni stesse che lo erodono dall'interno
che lo faranno, prima o poi, crollare, con la stessa inellutabilità con cui un
grave lasciato cade al suolo. La questione dei socialisti utopisti merita
attenzione: Marx, nel Manifesto , si sofferma accuratamente a smontarne le
tesi e suddivide il socialismo che non è scientifico (come invece è il suo) in
conservatore, reazionario e utopistico. Classico esempio di socialismo
reazionario è quello di Lasalle, convinto che i proletari, nella loro battaglia
contro i borghesi, debbano schierarsi al fianco di tutti coloro che avversano
la borghesia, aristocratici compresi, tant'è che Lasalle tentò un rapporto
privilegiato con Bismarck; Marx è però del parere che non si possa creare il
progresso alleandosi con i reazionari. La storia, infatti, insegna che, con la
Rivoluzione francese, borghesi e proletari, coalizzatisi, sono riusciti a
cacciare il nemico comune, ovvero l'aristocrazia; con tale impresa, hanno
aperto il campo allo scontro di classe moderno, tra borghesi e proletari, per
cui allearsi con l'aristocrazia per vincere i borghesi vorrebbe dire tornare
indietro nella storia, ai foschi anni del feudalesimo. Non a caso, nel
Manifesto campeggia una vera e propria esaltazione della borghesia, di cui
Marx tesse le lodi e che presenta come classe sociale rivoluzionaria che, con
la Rivoluzione francese, ha saputo cambiare il mondo; ma ora essa va
abbattuta perchè, preso il potere, ha perso le sue istanze rivoluzionarie e si
è impantanata nel conservatorismo più totale, cercando esclusivamente di
mantenere la realtà così com'è. Altrettanto aspramente, Marx critica anche
il socialismo conservatore di Proudhon, personaggio per il quale nutriva una
cordiale antipatia personale e al quale indirizzerà Miseria della filosofia
(1847) in cui trapela un' acredine personale per quest'uomo tale da lasciare
sgomento il lettore e nella cui impietosa premessa bolla l'autore francese in
quanto dilettante sia di filosofia sia di economia. L'idea centrale nella
filosofia di Proudhon era quella di realizzare una società basata sulla
cooperazione tra i piccoli produttori, con la scomparsa sia dei capitalisti sia
dei proletari; e, pur essendo la proprietà privata per Proudhon un furto, essa
starebbe alla base di tale cooperazione. Marx tuona contro questa
prospettiva: una delle tante altre contraddizioni del capitalismo, infatti, è la
polarizzazione della società, causata dal meccanismo capitalistico della
concorrenza. Essa fa sì che ciascuno cerchi di produrre sempre di più e a
costi sempre più bassi per non soccombere alla concorrenza, con la
conseguenza che scompaiono gli elementi deboli e la concorrenza tende a
negare se stessa portando all'oligopolismo e, in ultima analisi, al
monopolismo. Il paradosso, dunque, consiste nel fatto che è la stessa logica
del capitalismo a negarlo, in quanto un capitalismo senza concorrenza non è
un capitalismo; la conseguenza di ciò, sul piano sociale, è che chi resta
tagliato fuori dalla concorrenza finisce nei ranghi del proletariato, cosicchè i
capitalisti sono sempre in meno, i proletari sono sempre in più e i borghesi
sono pochissimi: la società assume così la forma di una piramide al cui
vertice vi sono pochi ricchi e alla cui base vi sono caterve di masse
diseredate. E una teoria come quella di Proudhon, che mira ad una società
di piccoli produttori senza ricchi e poveri, è una società ideale sganciata
dalla realtà e dalla scientificità (non c'è nessun dato di fatto che spinga in
quella direzione): non si tratta di attenuare le contraddizioni del
capitalismo, ma, al contrario, di far leva su di esse per farlo saltare; la
proposta di Proudhon, del resto, vorrebbe trasformare tutti in borghesi,
mentre Marx ha in mente una situazione in cui la borghesia sparisce e, con
essa, anche il proletariato, poichè la ricchezza della borghesia si fonda sullo
sfruttamento del proletariato. La società comunista si caratterizzerà,
pertanto, per l'essere priva di classi, anche se, appena fatta la rivoluzione,
per un certo periodo si dovrà instaurare una dittatura del proletariato;
quando essa sarà terminata, si estinguerà lo Stato, in quanto altro non è se
non lo strumento con cui una classe domina le altre. Ma in un contesto in
cui non vi son più classi, lo Stato perde ogni significato e si sgretola,
aprendo le porte all'anarchia (il grande errore dell'Unione Sovietica può
essere letto nel fatto che non si è mai riusciti a superare la fase di dittatura
del proletariato e, con essa, lo Stato). La proposta di Proudhon, conclude
Marx, va respinta perchè va in direzione opposta alla realtà (che tende ad
eliminare sempre più, con la concorrenza, i piccoli produttori) e perchè
vorrebbe dire trasformare tutti in borghesi. Infine, l'ultima forma di
socialismo che Marx analizza e critica è quello francese "utopistico", di
Saint Simon e di Fourier, socialismo nei confronti del quale si rivela più
generoso e benigno rispetto agli altri due: a questi pensatori spetta il merito
di aver denunciato le contraddizioni e la brutalità del sistema capitalistico,
anche se, invece di costruire su queste considerazioni una dottrina
scientifica, si sono messi a tavolino, come Platone, a delineare
fantasmagoriche società ideali, per di più appellandosi non agli operai
perchè imbracciassero i fucili per far la rivoluzione, ma ai capitalisti,
affinchè umanamente accettasero di attuare le società giuste da loro
tratteggiate. Ma Marx, pur criticandone questo aspetto, riconosce che i
limiti degli "utopisti" sono giustificabili dal fatto che ai loro tempi il
proletariato non aveva ancora acquisito coscienza di sè e dunque non ci si
poteva rivolgere ad esso; è solo ai tempi di Marx che " lo spettro del
comunismo " si aggira per l'Europa e ha piena coscienza di sè. Con il senno
di poi, si può essere indotti a pensare che l'analisi marxiana, secondo la
quale la società sarebbe andata sempre più polarizzandosi, non si sia
avverata: infatti, dopo la morte di Marx, si è affermata una sempre più
variegata composizione sociale, tant'è che la società si è dimostrata
rappresentabile non già a forma piramidale (come credeva Marx), ma a forma
romboidale. Non è vero, cioè, che ci sono pochissimi ricchi al vertice, pochi
borghesi nel mezzo e una miriade di poveracci alla base; al contrario, vi
sono pochi ricchi al vertice, pochi poveri al fondo, e una caterva di borghesi
nel mezzo. La teoria marxiana sembra dunque aver clamorosamente fallito,
ma in realtà, i marxisti più ferventi, sono riusciti a correre ai ripari,
cercando di sostenere che la polarizzazione, contrariamente a quel che
sembrerebbe, c'è stata. Si fa infatti notare che gli operai di oggi vivono
senz'altro meglio rispetto a quelli di duecento anni fa, ma ciononostante il
reddito medio dell'operaio di oggi è di gran lunga più distante da quello del
capitalista rispetto a quanto non fosse per gli operai del passato. In altri
termini, l'operaio oggi sta meglio di duecento anni fa, ma in sostanza il
divario con il capitalista si è accentuato. E bisogna poi tenere in
considerazione il fatto che, nell'ottica marxiana, il capitalismo è un
fenomeno mondiale, che con l'età dell'imperialismo si spinge ad invadere
l'intero pianeta. Dunque, se ragioniamo sul piano mondiale, la distanza tra
ricchi e poveri è cresciuta, come aveva previsto Marx; semmai, si può notare
che è cambiato il fronte della lotta di classe, ovvero il confine tra sfruttati e
sfruttatori non è più tra operai e capitalisti dell'evoluta società europea, ma
fra abitanti dei Paesi ricchi (operai compresi) e abitanti dei Paesi poveri, il
che significa che oggi anche l'operaio europeo sta dalla parte di coloro che
sfruttano il terzo mondo, giacchè acquista e vive grazie al benessere
acquisito sulle spalle dei Paesi poveri. Ne consegue un progressivo
depotenziamento della spinta rivoluzionaria del proletariato europeo, in
quanto anch'esso siede al tavolo degli sfruttatori del "mondo civile", pur
accontentandosi delle sole briciole. Dunque la carica rivoluzionaria in
ambito europeo si è attenuata nella misura in cui i proletari prendono parte
alla spartizione dei beni del terzo mondo, sentendosi appagati e
dimenticandosi della rivoluzione. Naturalmente questo tentativo di
difendere il marxismo dall'accusa che, almeno in apparenza, la
polarizzazione profetizzata da Marx non c'è stata, spiegando che in realtà c'è
stata ma in modo diverso dal previsto, poteva costituire per Popper un
fulgido esempio di teoria non scientifica perchè non falsificabile. Infatti, la
teoria della polarizzazione è il classico esempio di teoria non falsificabile,
poichè si può sempre trovare il modo di rispondere a qualsiasi obiezione le
venga mossa. Marx sembra dunque, entro certi limiti, aver sbagliato, anche
se egli sapeva benissimo che la società tende sempre a generare nuovi ceti
medi: tuttavia, era convinto che il processo ai suoi tempi in atto creasse sì
nuovi ceti medi, ma ne smantellasse, in misura notevolmente maggiore, di
vecchi, sicchè sarebbero stati più i ceti medi a sparire che non a nascere. E
Marx aveva soprattutto in mente i contadini e gli operai, che, di fronte alla
tecnologia pulsante delle fabbriche, erano costretti a soccombere e a finire
nelle compagini del proletariato. E qui si può effettivamente sostenere che
le convinzioni marxiane fossero sbagliate: il ceto medio è cresciuto
esponenzialmente; certo, i vecchi ceti medi sono, per lo più, spariti, ma
quelli nuovi sono cresciuti in modo ragguardevole, contro ogni aspettativa
marxiana. L’errore di Marx nasce dal fatto che egli, nella foga del suo
materialismo storico, ha finito per dare troppo peso all’economia (che infatti
spingeva verso la scomparsa dei piccoli borghesi) e non ha preventivato che
la politica potesse frenare l’inarrestabile crisi dei ceti medi: e infatti nel
Novecento, soprattutto negli anni successivi alla grande crisi del ’29,
saranno sempre più frequenti le scelte politiche che tenderanno ad evitare il
decadimento dei ceti medi; il fascismo e il nazismo, ad esempio, faranno di
tutto per salvarli, proprio perché ne erano espressione politica. La politica
prevalente negli anni ’30 del Novecento sarà dunque, in generale, volta a
mantenere in vita i ceti medi perché essi costituivano un irrinunciabile
serbatoio di consensi. Detto questo, passiamo ad esaminare il metodo di
indagine marxiano della realtà: ridotto all'osso, esso consiste nel partire dal
concreto e, passando per l'astratto, tornare al concreto ; vale a dire che le
categorie interpretative da applicare alla realtà devono essere desunte dalla
realtà stessa, rifiutando in tal modo l'elaborazione di categorie astratte
entro le quali ingabbiare la realtà. Si parte dunque dal concreto della realtà,
se ne desumono le categorie astratte di interpretazione e ci si reimmerge
nella realtà concreta per interpretarla tramite quelle categorie. Ed è
seguendo questa logica che Marx si addentra nello studio della realtà
economica, studio che trova la sua massima espressione in Il capitale . In
tale opera, l'economia viene sapientemente coniugata con la dialettica
hegeliana, tant'è che Lenin potè affermare che " non si può comprendere
perfettamente il Capitale se non si è compresa e studiata attentamente
tutta la logica di Hegel. Di conseguenza, mezzo secolo dopo nessun
marxista ha compreso Marx ". Sullo sfondo delle riflessioni marxiane
troviamo il pensiero degli economisti politici classici, in primis Simith. E
Marx si avvale dei concetti elaborati dall'economia politica classica in modo
originale, servendosi della dialettica hegeliana: gli economisti inglesi hanno
magistralmente ravvisato le leggi di funzionamento del capitalismo,
convinti che il capitalismo sia la forma naturale (e dunque giusta) di
economia: come a dire che l'economia, lasciata a sè stessa, segue
necessariamente le leggi capitalistiche; tale forma naturale di economia,
dicevano gli economisti, è stata tenuta a freno, nel corso della storia, da
fenomeni giuridici e solo oggi, nella società liberale, può emergere
liberamente nella sua purezza . Ma Marx fa, hegelianamente, notare che tali
leggi, oltre a far funzionare il capitalismo, fanno anche sì che esso venga
superato dialetticamente, in quanto ne fanno emergere le contraddizioni
insanabili (prima tra tutti quella della concorrenza). Perché, allora, gli
economisti inglesi non sono arrivati a capire ciò che Marx ha colto, ovvero
che il capitalismo sarà superato? Marx risponde che, poiché la coscienza è
riflesso della vita, è evidente che tali pensatori, maturati in un contesto
tipicamente borghese, elaborino tesi filo-borghesi; la loro è un’ ideologia ,
ovvero una falsa coscienza della realtà e Marx contrappone l’ideologia
(ovvero l’interpretazione della realtà in modo non corrispondente alla verità,
ma funzionale al dominio di una classe) alla scienza, che è invece
interpretazione vera della realtà così come essa è effettivamente. Certo, non
è che gli economisti inglesi abbiano voluto imbrogliare la gente
propugnando la “bontà” del capitalismo; è il fatto stesso di vivere in quel
contesto che li ha indotti e anzi li ha costretti a vedere la realtà come
borghese, impedendo loro di scorgere le contraddizioni e l’ingiustizia tipiche
di essa. In altre parole, la loro stessa vita borghese ne influenza in modo
necessario la coscienza. Hegel stesso, dice Marx, fa poggiare la dialettica
sulla testa (ovvero sulle idee) perché nel contesto in cui è vissuto il lavoro
intellettuale era nettamente disgiunto da quello manuale ed Hegel, vivendo
solo di idee, non poteva non credere che tutto dipendesse da esse. Sorge
spontaneo chiedersi: e a che titolo Marx può bollare le teorie altrui come
“ideologie” e riconoscere solo la propria come scienza? La questione si
risolve tenendo presente che la società capitalistica, nella prospettiva
marxiana, è sbagliata e ingiusta, quindi capovolta; e se la società in cui
viviamo è capovolta, in essa sta a proprio agio la borghesia capitalistica, che
ha solo da guadagnarci; il proletariato, dal canto suo, è in essa un pesce fuor
d’acqua, sicchè è capovolto in una società capovolta e, pertanto, chi è
capovolto in una società capovolta sta dritto; in altri termini, chi (il
proletariato) vede le ingiustizie della società ingiusta, allora vede le cose
come effettivamente sono. Ma il proletariato, da solo, non è in grado di
produrre quelle teorie comuniste che pure ne rispecchiano le posizioni; ecco
che, proprio in virtù della polarizzazione della società, fette consistenti
della borghesia vengono respinte verso il basso, ovvero verso il proletariato,
e questo fenomeno fornisce al proletariato stesso i quadri concettuali, dal
momento che i borghesi piombati nel proletariato sono in grado di formulare
teorie avanzate in difesa del proletariato stesso (di cui sono entrati a far
parte). Sono, dunque, questi frammenti della borghesia che, scacciati
dall’alto della borghesia o sganciatisi per loro volontà in quanto in
disaccordo con le idee capitalistiche, che elaborano le idee di liberazione del
proletariato. Soffermando la nostra attenzione sul Capitale , è bene notare
come il titolo dell’opera suggerisca che Marx non intende studiare le
posizioni individuali e soggettive dei singoli capitalisti, ma, al contrario,
come oggettivamente agisca questo demone capitalistico che infesta la
società: l’analisi marxiana prende il via dal concetto basilare di merce ( “ La
ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione
capitalistico si presenta come una immane raccolta di merci e la merce
singola si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra indagine
comincia con l'analisi della merce. “ egli dice in apertura dell’opera) . La
merce ha due caratteristiche fondamentali: soddisfa determinati bisogni e
ha un suo determinato valore. Sul fatto che soddisfi bisogni e su quali siano
tali bisogni, Marx scrive: “ La merce è in primo luogo un oggetto esterno,
una cosa che mediante le sue qualità soddisfa bisogni umani di un
qualsiasi tipo. La natura di questi bisogni, p. es. il fatto che essi
provengano dallo stomaco o che provengano dalla fantasia, non cambia
nulla “ Merce è, in generale, qualcosa che viene scambiato, ovvero che si
compra e si vende poiché è in grado di soddisfare bisogni, ossia non è
inutile. Tuttavia, il fatto che soddisfi bisogni non basta a qualificare un
oggetto come merce: ad esempio, l’aria soddisfa un bisogno fondamentale,
ma ciononostante non ha un valore monetario, non è merce. Perché
l’oggetto in questione sia merce deve, in altri termini, soddisfare bisogni e,
al contempo, avere un valore (mancante nel caso dell’aria). A questo punto,
Marx introduce un gioco di qualità e quantità che riecheggia la dialettica
hegeliana: le merci si scambiano tra loro e anche il denaro, di per sé, serve a
favorire gli scambi tra merci; infatti, se io produttore di patate ho bisogno di
scarpe, non è detto che il produttore di scarpe abbia anch’egli, in quel
momento, bisogno di patate e dunque potrebbe non accettare lo scambio
merci; con il denaro, invece, io ho subito le scarpe ed egli può acquistare,
quando gli fa comodo, le patate. Ma perché due merci possano essere
scambiate devono essere uguali e contrarie, più precisamente, uguali
quantitativamente ma diverse qualitativamente: diverse qualitativamente,
perché nessuno scambierebbe mai delle patate con delle altre patate (si
scambiano sempre merci tra loro diverse), ma uguali quantitativamente
perché, per effettuare lo scambio, si deve essere d’accordo sul fatto che il
valore delle due merci sia uguale. Si tratta dunque di capire che cosa ci
possa essere di uguale tra due merci tanto diverse quali possono essere le
patate e le scarpe: di uguale vi è, dice Marx, il lavoro necessario per
produrle, ovvero il lavoro cristallizzato in esse; si tratta di lavori
qualitativamente diversi, è vero, ma quantitativamente uguali, nel senso
che ci si mette lo stesso tempo per realizzarli. Pertanto, una merce vale in
relazione al tempo impiegato per produrla; per riprendere l’esempio
dell’aria, non è una merce perché, pur appagando dei bisogni, in essa non è
cristallizzato alcun lavoro. Marx, poi, sottolinea come prezzo e valore siano
due concetti diversi, poiché i prezzi possono oscillare (a seconda della
maggiore o minore richiesta sul mercato) intorno al valore effettivo della
merce, valore che, come abbiamo visto, è il lavoro cristallizzato in quella
merce; le oscillazioni dei prezzi, in realtà, sono contingenti rispetto al
valore intrinseco ed immutato della merce. Addentrandoci nella
terminologia marxiana, viene definito valore di scambio quell’elemento di
lavoro utilizzato per realizzare la merce, mentre è designato col nome di
valore d’uso il fatto che serva per soddisfare bisogni (“ L'utilità di una cosa
ne fa un valore d'uso. Ma questa utilità non aleggia nell'aria. E' un portato
delle qualità del corpo della merce e non esiste senza di esso “ ). L’aria ha
un valore d’uso immenso, ma è del tutto priva di valore di scambio. Si può
notare come il valore d’uso sia un concetto relativo, che varia da persona a
persona: una merce può soddisfarmi bisogni che ad un altro non
soddisferebbe, ad esempio bisogni spirituali o estetici. Ad esempio, il
diamante ha senz’ombra di dubbio un valore d’uso nettamente inferiore
rispetto a quello dell’acqua, ma il suo valore di scambio è
incommensurabilmente superiore, per cui costa molto di più. Da notare,
anche, che quando Marx parla di “ tempo di lavoro”, alludendo al fatto che
più ore di lavoro ci sono in un oggetto e maggiore è il suo valore, si riferisce
al tempo socialmente necessario in media: non vuol dire, infatti, che il
prodotto dell’operaio pigro, realizzato in dieci ore, vale di più di quello
dell’operaio solerte, portato a termine in un’ora, perché vi è cristallizzato
più lavoro; al contrario, Marx allude al tempo necessario in media in quella
determinata società. E il valore varia da società a società: se una società ci
impiega più tempo, in essa la merce avrà un valore maggiore rispetto ad
un’altra società in cui viene prodotta in minor tempo. Entrando nello
specifico, nella società capitalistica impera la trasformazione della forzalavoro in merce: nei sistemi pre-capitalistici, ad esempio nell’era
medioevale, la terra e il lavoro non erano merci, poiché vincolati da legami
giuridici che ne impedivano il libero scambio; nella società di stampo
capitalistico, invece, dove il lavoro è “libero”, il datore di lavoro è libero di
assumere un operaio, ma quest’ultimo, invece, non è libero di effettuare una
scelta; o meglio, è libero di scegliere se accettare quel lavoro o morir di
fame, ma non è una scelta definibile come libera. Si tratta ora di analizzare
il funzionamento dello sfruttamento nei sistemi capitalistici: già nei
Manoscritti Marx ha chiarito il concetto di alienazione, spiegando come il
proletario che vende la sua forza-lavoro venda anche il frutto del proprio
lavoro (che gli viene brutalmente strappato); ora Marx porta avanti il
ragionamento e dice che nell’ambito di un lavoro non-alienato, il prodotto
del lavoro sarebbe estrinsecazione in positivo dell’essenza umana, ma in una
condizione alienata di tipo capitalistico l’oggetto del lavoro tende a
diventare ostile nei confronti del lavoratore stesso, gli si presenta
addirittura come simbolo della sua oppressione, quasi come se il proletario
catapultasse fuori di sé se stesso nell’oggetto prodotto, che gli si presenta
pertanto come un qualcosa di autonomo e di divinizzato (proprio come il Dio
di Feuerbach); e così la merce diventa un feticcio ( feticismo delle merci ),
ovvero è divinizzata, l’operaio non la vede più come una sua produzione, ma
come un qualcosa di estraneo. In termini meno mistici, lo sfruttamento
avviene perché l’operaio produce ma il prodotto del suo lavoro gli viene
strappato, diceva Marx nei Manoscritti ; ora il discorso è più profondo e più
strettamente economico: il perno dello sfruttamento è che la forza-lavoro è
diventata una merce, e da un lato è una merce come tutte le altre, ovvero si
compra e si vende ad un valore determinato dal lavoro cristallizzato in essa;
dall’altro lato, è diversa da ogni altra merce perché è in grado di produrre, a
sua volta, lavoro e, con esso, valore. Tutte le altre merci (il cibo, ad
esempio), infatti, son fatte per essere consumate nel soddisfacimento di
bisogni; la forza-lavoro, invece, si consuma anch’essa, ovvero le forze
dell’operaio si “scaricano” nelle otto ore di lavoro in fabbrica, ma nel
consumarsi producono valore. Quale è, dunque, il valore della forza-lavoro?
A che prezzo viene retribuita? I socialisti di allora (nonché il Marx dei
Manoscritti ) sostenevano che il lavoratore produce un oggetto che gli viene
sottratto in cambio di un salario inferiore rispetto all’oggetto prodotto,
altrimenti non potrebbe esserci il profitto per il capitalista: quest’ultimo, si
diceva, gli pagherà il lavoro 50 e venderà il prodotto di tale lavoro a 100,
commettendo un vero e proprio furto ai danni dell’operaio. Il problema, dice
ora Marx, è che, se accettiamo la logica capitalistica, questo non è ingiusto
né è un furto, poiché il valore della forza-lavoro non può essere uguale al
valore della merce prodotta: se infatti il lavoro è merce, allora non è
corretto attribuire ad essa il valore delle merci che produce, ma le si dovrà
attribuire il valore in essa cristallizzato. In altri termini, come per tutte le
merci, anche per produrre la forza-lavoro è stato necessario lavorare e la
vita stessa del lavoratore altro non è se non un caricare continuo la sua
forza-lavoro per far sì che egli produca ancora; e per caricare la forza-lavoro
occorrerà darle da mangiare, da bere e, in generale, da vivere, tutte cose che
hanno un valore (il cibo, le bevande, ecc) e quindi, indirettamente, la forzalavoro è essa stessa prodotta da una quantità di lavoro (il cibo, le bevande) e
dunque il valore della forza-lavoro sarà dato dal valore delle merci che
l’operaio consuma per sopravvivere, non dal valore delle merci che egli
produce. Naturalmente, non rientrano nelle merci che il capitalista deve
dare all’operaio per sopravvivere i bisogni di piacere, mentre invece
rientrano i mezzi per il sostentamento della prole necessaria per il ricambio
della forza-lavoro e che contraddistingue il proletario (così chiamato proprio
perché tutto ciò che possiede, accanto alla propria forza-lavoro, è la prole).
E lo sfruttamento avviene proprio in quest’ottica: il lavoratore lavora per
dieci ore della giornata, ma quante gliene vengono retribuite? Supponendo
che 1 sia il valore di un’ora lavorativa, l’operaio che lavora 10 ore produce
un valore 10, ma in busta paga non si trova il valore che egli ha prodotto
(10), bensì si trova solo quanto è necessario per mantenerlo in vita, ovvero
per mantenere la forza-lavoro, per far sì che mangi e viva, non in base al
valore che produce, ma in base al lavoro che serve per conservarlo in vita.
Supponendo che tale valore di sussistenza sia 5, il lavoratore è pagato 5 ma
produce 10, dunque le prime 5 ore di lavoro gli vengono retribuite, mentre
le restanti 5 sono un lavoro in più che non gli è pagato: tale lavoro in più è,
nella terminologia marxiana, un pluslavoro che genera un plusvalore e
quest’ultimo va nelle tasche del capitalista sotto forma di profitto. Infatti,
egli paga solo 5 delle 10 ore lavorative all’operaio, sicchè si trova in tasca 5
ore di lavoro regalate, a cui però dobbiamo sottrarre qualcosa per le materie
prime e i macchinari che egli acquista; di tale profitto, infatti, una parte gli
serve per vivere, un’altra per effettuare investimenti, come ad esempio
l’acquisto di macchine sempre più sofisticate e di mille altre cose che gli
servono per non soccombere al turbine della concorrenza. E in questo
quadro si realizza il tipico meccanismo del profitto: investe denaro (D) per
comprare “fattori di produzione” (forza-lavoro, macchinari, materie prime),
ottiene una merce (M) come risultato e la rivende ad un prezzo maggiore
(D1), trovandosi così in tasca più denaro di quanto ne avesse in partenza ed
avendo dunque un profitto (D1 - D = P):
D-M-D1
E il profitto, ovviamente, deriva da un meccanismo in cui l’operaio viene
sfruttato; infatti, se da un certo punto di vista è giusto pagare il lavoratore
in tal modo, giacchè il prezzo della forza-lavoro è necessariamente quello, da
un altro punto di vista è un’azione ingiusta, poiché la forza-lavoro produce
10 e andrebbe retribuita 10. Se nel 2° caso si bada al lato umano, ovvero al
porre nel prodotto parte di sé, nel 1° caso, invece, si guarda ad una forza
lavoro “reificata”, ovvero diventata una cosa puramente materiale, senza
nulla di umano. Dunque, riassumendo, la domanda "dove nasce il capitale?"
può essere letta come "dove nasce lo sfruttamento?" , visto che il capitale
affonda le sue radici nello sfruttamento dell'operaio da parte del capitalista,
e la risposta, in breve, che Marx dà nel Capitale è la seguente: " prendiamo
l'esempio del nostro filatore. Per ricostruire ogni giorno la sua forza-lavoro,
egli deve produrre un valore giornaliero di tre scellini, cosa che egli fa
lavorando sei ore al giorno. Pagando il valore giornaliero o settimanale
della forza-lavoro del filatore, il capitalista ha acquistato il diritto di
usare questa forza-lavoro per tutto il giorno o per tutta la settimana.
Perciò egli lo farà lavorare, supponiamo, dodici ore al giorno. Oltre le sei
ore che gli sono necessarie per produrre l'equivalente del suo salario, cioè
del valore della sua forza lavoro, il filatore dovrà, dunque, lavorare altre
sei ore, che io chiamerò ore di pluslavoro e questo sopralavoro si
incorporerà in un plusvalore e in un sopraprodotto. " Detto questo, Marx
analizza dettagliatamente i meccanismi di contraddizione che porteranno
inevitabilmente al superamento del capitalismo: in primis, il fatto stesso
che la produzione si configuri come sempre più cooperativistica ma i
meccanismi di redistribuzione delle ricchezze che ne derivano siano
destinati a sempre meno uomini è un elemento che non può non portare
all’inceppamento e al superamento del sistema. Anche la crescente
polarizzazione della società spinge in quella direzione: e Marx nota, con
un’analisi lucida e brillante, che borghesia e proletariato si generano a
vicenda (il capitalismo genera il proletariato e il proletariato genera il
capitale) ma si disintegrano anche a vicenda (la borghesia annulla il
proletariato sfruttandolo e il proletariato spazza via la borghesia facendo la
rivoluzione); e quando uno dei due poli della contrapposizione sparisce,
anche l’altro si sgretola, per cui il proletariato, annientando la borghesia
attraverso la rivoluzione, annulla anche se stesso e, pertanto, il comunismo
sarà caratterizzato dall’assenza di classi e dall’assenza dello strumento del
dominio di classe (lo Stato). Altra contraddizione insuperabile destinata a far
crollare il sistema capitalistico consiste nel fatto che la concorrenza,
ossigeno del capitalismo, tende essa stessa a negarsi, per i motivi
evidenziati in precedenza. Fatta questa carrellata di contraddizioni del
sistema capitalistico, Marx dà il meglio di sé nell’individuazione della
contraddizione capitalistica forse più tipica della filosofia marxista: la legge
della caduta tendenziale del saggio di profitto , dove il saggio di profitto è il
rapporto tra il capitale investito e il profitto ricavato, e risponde
essenzialmente alla domanda “quanto profitto ottengo con quel dato
investimento?” . Quando si investe il capitale, nota Marx, lo si investe in
parte in capitale costante (macchinari, che restano invariati nel tempo e
dunque vengono pagati una volta per tutte) e in parte in capitale variabile
(salari, che variano nel tempo). Nella somma totale del capitale investito
(variabile + costante) può prevalere, a seconda dei casi, il capitale costante o
quello variabile e il rapporto percentuale tra i due tipi di capitale prende il
nome di composizione organica del capitale . Solitamente, però, la
variazione avviene in favore del capitale costante, poiché nel tempo la
meccanizzazione aumenta sempre più; tale capitale costante, dunque, sarà
sempre maggiore, mentre quello variabile sarà sempre minore. Ma il
meccanismo dello sfruttamento, come abbiamo visto, si verifica nell’ambito
del salario, ovvero del capitale variabile, dal momento che l’operaio, invece
di essere retribuito in base a quel che produce, riceve uno stipendio che gli
permetta di sopravvivere. E dire che lo sfruttamento dell’operaio avviene
nell’ambito del capitale variabile equivale naturalmente a dire che il profitto
per il capitalista si realizza nel capitale variabile, che però ogni giorno che
passa perde terreno rispetto al capitale costante. In altre parole, più passa il
tempo e più scende il capitale variabile cristallizzato nella produzione di x,
con la conseguenza che anche il profitto del capitalista cala in
continuazione. Se però il profitto tende a calare di continuo perché cala il
capitale variabile, è anche vero che è in atto una controtendenza: con la
meccanizzazione, infatti, la produttività cresce sempre di più, per cui è vero
che avrò sempre meno capitale variabile, ma è altrettanto vero che il
profitto che ne verrà fuori sarà sempre maggiore in virtù della produttività
accresciuta grazie alle macchine. Se prima avevo bisogno di 10 lavoratori da
sfruttare, con le macchine me ne servono solo più 5 e dunque ne tirerò fuori
un plusvalore che non sarà più 10, ma 5. Tuttavia, in virtù della
meccanizzazione che fa crescere vertiginosamente la produttività, non
pagherò più a ciascun operaio 5, ma solo 3, perchè occorrono meno soldi di
prima per mantenerlo in vita; l'operaio produce sempre di più, ma viene
retribuito sempre meno, in quanto il suo salario dipende non da ciò che egli
produce, ma da quanto costa ciò che serve per mantenerlo in vita (e con le
macchine costa sempre meno) . Infatti, grazie alle macchine, non accade più
che l’operaio lavori 7 ore per sé e 3 ore le regali al padrone; al contrario, al
lavoratore (che si trova a produrre più ricchezza) il capitalista pagherà 5 ore
per sé e 5 se le terrà come “regalo”. Riassumendo, se la tendenza spinge
verso la diminuzione della base di sfruttamento e dunque verso la riduzione
del profitto, al contrario la controtendenza spinge verso una sempre
maggiore intensità dello sfruttamento, giacchè il singolo operaio è sfruttato
sempre di più. Però, dice Marx, la tendenza prevale sulla controtendenza: la
diminuzione del saggio di profitto prevale sull’intensità di sfruttamento e,
dunque, esiste una legge tendenziale della caduta del saggio di profitto,
ovvero in proporzione al capitale investito il profitto ricavato è sempre
minore; si tratta di una caduta “tendenziale” e non repentina perché è
rallentata dalla controtendenza, ovvero dall’aumentare dell’intensità dello
sfruttamento. Infatti, se di per sé il calo di profitto porterebbe
immediatamente alla caduta, a frenarla e dilazionarla nel tempo è il sempre
maggiore sfruttamento che il capitalista fa dei singoli operai. Tutto questo
ragionamento porta Marx a concludere che il capitalismo si sta esaurendo,
poiché gli sta venendo gradualmente a mancare il suo ingrediente portante:
il profitto. E caduto il capitalismo, grazie alla rivoluzione finale, fiorirà il
socialismo, nella cui descrizione Marx non si sbilancia troppo, visto che,
hegelianamente, la ragione può solo tratteggiare ciò che è stato o, tutt’al
più, ciò che è. Una cosa è però certa: il socialismo sarà agli antipodi del
capitalismo, dal momento che si pone come superamento di esso. La
produzione della ricchezza, per dirne una, sarà messa in comune e non si
addenserà nelle mani di pochi; la proprietà dei mezzi di produzione verrà
abolita, in quanto sta alla base dello sfruttamento e della lotta di classe (la
distinzione tra borghesi e proletari risiede appunto nel possesso o meno dei
mezzi di produzione).; certo Marx non ipotizza una collettività di ogni cosa
(come invece aveva fatto Platone), per cui verrebbe a sciogliersi ogni forma
di proprietà e si tornerebbe al comunismo primitivo. Conquistato lo Stato, il
proletariato deve instaurare la propria dittatura ed espropriare ai borghesi i
mezzi di produzione, facendo così venir meno la borghesia come classe e
dunque la distinzione tra proletari e borghesi, tipica della società moderna.
E venuta meno la distinzione in classe, anche la dittatura del proletariato si
sgretolerà e con ciò lo Stato si avvierà al tramonto, cedendo il passo
all’anarchia. Pesanti sono sempre state le critiche di dittatura mosse al
marxismo: ciò perde di significato se teniamo presente che per Marx ogni
forma di governo è una dittatura, in quanto ogni forma di governo è la
dittatura di una determinata classe che si trova al potere; la stessa
democrazia di stampo borghese è una dittatura, più precisamente è la
dittatura ordita dalla borghesia. Non c’è dunque da stupirsi se anche il
proletariato instaurerà una propria dittatura, tanto più se consideriamo che
essa è destinata a dissolversi: si può poi notare (e ci penserà soprattutto
Lenin a farlo) come, a differenza delle altre, la dittatura del proletariato non
può neanche, propriamente, essere bollata come dittatura, poiché è una
“dittatura” in favore della stragrande maggioranza degli uomini. In uno dei
pochi passi in cui Marx si sofferma a delineare la futura società socialistica,
egli vagheggia una forma di democrazia diretta, sul modello di quella che
verrà attuata con i Soviet nella Rivoluzione Russa (Marx aveva in mente la
comune di Parigi). Una delle altre contestazioni mosse al marxismo è di non
rispettare la libertà umana: infatti, sostenendo che è la vita a determinare la
coscienza, ovvero che il comportamento umano è influenzato dalle
condizioni materiali e che, luteranamente, l’arbitrio dell’uomo è servo,
viene meno la libertà umana. In realtà, è bene ricordare come per Marx la
storia che arriva fino all’epoca del capitalismo non è la vera storia, ma è una
sorta di lunga preistoria in cui l’uomo è stato soggetto alle forze
economiche senza riuscire a dominarle ( il feticismo delle merci ne è la più
fulgida espressione: il prodotto si erge a dominare l’operaio); una volta che
questa fase verrà superata, anche il rigido materialismo potrà in qualche
misura risultare sorpassato e sarà, finalmente, l’uomo a dominare
l’economia (e non viceversa). Oggetto di aspre critiche sono anche state le
connotazioni eccessivamente utopistiche del marxismo: Marx stesso ha
condotto un’analisi impeccabile del capitalismo, ma di per sé non era affatto
convinto che la meccanizzazione tipica del sistema capitalistico fosse un
male; anzi, essa, avulsa dal contesto dello sfruttamento capitalistico, è un
gran vantaggio e non solo perché produce tanto accontentandosi di poco,
ma anche perché conduce all’interscambiabilità dei mestieri. Infatti, poiché
la macchina fa tutto, ciascuno può cambiare continuamente attività senza
annoiarsi mai. Tuttavia, questo non è mai avvenuto nella pratica: e del resto
Marx stesso si trova in imbarazzo quando deve descrivere la poliedricità
dell’uomo nella società moderna, tant’è che ricorre sempre ad esempi
arcadici e molto poco moderni (pescare di mattina e cacciare di pomeriggio).
Con l'avvento della nuova società, pertanto, si espanderà il dominio
dell'uomo sulla natura (e cesserà quello dell'uomo sull'uomo): con
l'estinguersi dello Stato, inoltre, sparisce anche la politica come gioco della
lotta di classe e si passa al regno dell'anarchia, in cui manca lo Stato, ma
non il governo; è infatti impensabile una società in cui ciascuno faccia ciò
che gli pare, tanto più che anche solo per produrre del cibo che possa
sfamare i componenti di tale società è necessario prendere decisioni.
Tuttavia, esse non saranno decisioni politiche, poichè la politica
implicherebbe un confronto di interessi diversi a seconda della classe
sociale in questione (cosa impossibile in una società senza classi), ma, al
contrario, non saranno a favore di certi gruppi sociali e a discapito di altri,
bensì saranno decisioni meramente tecniche, alla stregua di quelle che
vengono prese nelle aziende, in vista non di una classe sociale ma del
funzionamento ottimale dell'azienda stessa. Si tratterà, in altri termini, di
scelte collettive volte al bene della collettività stessa: ne consegue che
dall'amministrazione politica si passa a quella tecnica. Occorre poi ricordare
che nel dibattito sviluppatosi in seguito alla morte di Marx si è sempre stati
più propensi a distinguere due diverse fasi in quella che sarà la futura
società postcapitalistica: in un passo della Critica al programma di Gotha ,
infatti, Marx fa notare che, crollato il capitalismo, vi sarà una prima fase di
"socialismo" seguita da una seconda fase di "comunismo"; nella fase del
"socialismo" vigerà il motto " a ciascuno secondo il suo lavoro ", ovvero,
ridotto all'osso, il socialismo che scaturirà nell'immediato post-capitalismo
realizzerà ciò che il sistema capitalistico si era sempre proposto di fare
senza però mai riuscirci: ciascuno prenderà in base a quanto avrà
effettivamente lavorato; non come nel sistema capitalistico, dove all'operaio
che produce 10 viene dato in busta paga 3. Il socialismo della prima fase si
configurerà dunque come piena realizzazione di quella meritocrazia per cui
ciascuno guadagna in base a quanto produce; meritocrazia che nel
capitalismo era esaltata ma, con immensa ipocrisia, non veniva applicata.
Naturalmente poi una società, per essere davvero socialista, dovrà
comunque soddisfare i bisogni elementari di tutti, indipendentemente dal
lavoro compiuto da ciascuno, ma ciò non toglie che il merito dei singoli
verrà premiato secondo giustizia; ecco dunque che per Marx la società non
deve essere egualitaria, ma giusta e una società in cui tutti prendessero le
stesse cose pur producendo chi più e chi meno sarebbe ingiusta. Questa
prima fase in cui imperererà il socialismo verrà superata da quella del
"comunismo", il cui motto sarà " ciascuno secondo le sue capacità, a
ciascuno secondo i suoi bisogni ": in tale società ciascuno dà per quello che
può e riceve in base a ciò di cui ha bisogno, il che implica che una persona
possa ricevere di meno rispetto a ciò che produce. Se nel socialismo si dava
a seconda dei meriti, nel comunismo, invece, si dà a seconda dei bisogni,
ma, ciononostante, neanche quella comunistica è una società egualitaria,
poichè, essendo intesa la ricchezza come un bene comune, ciascuno darà
alla società il proprio massimo, sapendo che a sua volta la società gli darà
tutto ciò di cui ha bisogno. Ci sarà chi darà di più e chi darà di meno, ma
ciascuno riceverà non in proporzione a ciò che ha dato (come avveniva nel
socialismo), ma in proporzione a ciò di cui ha bisogno. Viene però spontaneo
chiedersi che cosa può mai indurre una persona ad essere disponibile a dare
di più di quel che poi riceve: la risposta sta nel fatto che la nuova società
sarà senza classi e, pertanto, l'interesse dei singoli o delle parti sarà
indisgiungibile da quello della collettività. Altra domanda che potrebbe
sorgere spontanea: perchè mai Marx suddivide la società futura in due
tappe, socialismo e comunismo? In realtà è il suo stesso materialismo
storico a spingerlo in quella direzione: dopo anni e anni che si è vissuti nella
società borghese, è evidente che le coscienze di tutti (operai compresi) ne
saranno influenzati, quasi come se avessero assimilato in cuor loro il
sistema capitalistico e la sua concezione di fondo secondo cui a ciascuno
bisogno dare a seconda dei meriti. Sarebbe dunque troppo brusco il
passaggio diretto al comunismo, dove non si dà più in base ai meriti, ma in
base ai bisogni: ecco allora che Marx pone come tappa centrale il socialismo,
che del capitalismo mantiene i princìpi (a ciascuno secondo i suoi meriti) e
anzi li realizza concretamente; solo con il passare degli anni potrà sempre
più affermarsi, gradualmente, il comunismo, basato sulla piena solidarietà.
Ovviamente sono state innumerevoli le critiche e le obiezioni mosse alla
concezione marxiana: al di là dell'obiezione secondo la quale è impossibile
che l'uomo cessi di badare, egoisticamente, al proprio interesse (obiezione
alla quale Marx rispondeva fieramente che l'uomo di cui stava parlando era
l'uomo del futuro), si è criticato il fatto che Marx, come tutti i pionieri che
scoprono qualcosa di importante, finisce per dare alla sua scoperta più peso
di quel che in realtà ne avesse. La grande scoperta marxiana in questione
consiste nell'aver colto l'importanza dell'economia per capire la storia
(merito riconosciutogli perfino da un liberale moderato come Croce), ma
tuttavia Marx si è lasciato troppo prendere dalla sua scoperta e non si è
accorto che il comportamento umano non è solamente governato da fattori
economici. Marxianamente, infatti, la gelosia (ed in generale tutti gli altri
sentimenti) deve essere letta in senso economico, riconducendosi all'idea
che il matrimonio sia un contratto e che dunque il tenere legato a sè il
coniuge rientri nella sfera economica; però pensare che tutti i sentimenti
siano riconducibili ad un livello economico è, francamente, molto riduttivo,
come ha fatto notare Freud; ed è anche molto riduttivo pensare che
l'eliminazione dei conflitti economici, avvenuta grazie all'abolizione delle
classi, porti all'eliminazione di ogni tipo di conflitto. Quando Marx muore,
nel 1883, a portare avanti il discorso filosofico è Engels, il quale, però, dà ad
esso nuove sfumature: Engels, riconosciuto da molti come ingegno meno
vivace rispetto a Marx, nutre maggior interesse per le scienze della natura
rispetto al compagno ormai scomparso. Tali scienze, infatti, sono agli occhi
di Engels un modello di scientificità universale ed è dunque necessario
dedicarsi allo studio di esse se si vuole dare al marxismo una veste
scientifica (cosa che gli interessa più di quanto interessasse a Marx stesso).
Queste riflessioni sullo sfondo, portano Engels ad interessarsi
particolarmente alle dottrine evoluzionistiche (soprattutto darwiniane) che
andavano sviluppandosi in quegli anni. L'idea stessa di trasformazione
proposta dall'evoluzionismo a livello della natura pare ad Engels molto
prossima alla trasformazione su cui si concentra, a livello di storia, il
marxismo: per di più, l'evoluzionismo presenta un rapporto dialettico per
cui l'animale è continuamente modificato dal confronto con l'ambiente
circostante. Tuttavia vi è una forte differenza (non colta da Engels) tra
marxismo ed evoluzionismo: infatti, essi ipotizzano due forme diverse di
trasformazione della realtà; la trasformazione tratteggiata
dall'evoluzionismo è graduale e unidirezionale, un qualcosa di simile all'idea
di progresso storico che avevano gli illuministi. La trasformazione della
realtà ravvisata dal marxismo, invece, è quella dialettica, in cui si supera,
ovvero si toglie e si ripropone ad un livello più alto. Quest'osservazione,
contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, non è marginale ma, al
contrario, ha un suo peso politico: se infatti si prende a modello
l'evoluzionismo darwiniano, si finisce per accettare, anche
inconsapevolmente, l'idea del progresso gradualistico e, non a caso, Engels è
considerato il padre del "revisionismo", ovvero di quella corrente politica
che tende ad eliminare dal socialismo la fase rivoluzionaria. In realtà, Engels
è del parere che, in ultima istanza, una spallata rivoluzionaria al capitalismo
andrà assestata, tuttavia tende ad insistere sempre più sul fatto che a
contare per davvero non è la rivoluzione, ma la prassi democratica volta al
miglioramento progressivo della società e destinata a far crollare il
capitalismo, concepito quasi come un muro vacillante a cui basta dare un
pugno finale per farlo franare. E' evidente che in una concezione del genere
si afferma sempre di più il riformismo che sarà tipico della Socialdemocrazia
tedesca e che prevede che non si debba scendere in piazza a fare rivoluzioni
ma, al contrario, che si debba lavorare riformando la società in senso
democratico. La distinzione tra socialisti e comunisti nascerà proprio su
questi presupposti: per i comunisti bisogna abbattere con la rivoluzione il
sistema capitalistico, per i socialisti invece si tratta di renderlo più vivibile.
Non c'è dunque da stupirsi che Engels arrivi ad elaborare una dialettica della
natura : egli infatti è convinto, da buon hegeliano, che non solo la storia, ma
anche la natura sia permeata dalla dialettica; Marx non si era mai sognato di
fondare una dialettica della natura, anche perchè sapeva benissimo che
essa, già nel sistema hegeliano, era il punto debole, una sorta di tallone
d'Achille. Engels invece si lascia trasportare in questo progetto, che gli
costerà molte critiche; e, non a caso, il materialismo dialettico sarà la
dottrina ufficiale dei Sovietici (da loro ribattezzata col nome di "diamat"), i
quali tenderanno ad ingabbiare perfino la conoscenza scientifica nella
dialettica della natura. In conclusione, bisogna riconoscere ad Engels il
merito, oltre a quello di aver mantenuto Marx, di aver analizzato in
profondità le tre leggi dialettiche che reggono la natura: 1) la conversione
della quantità in qualità e viceversa , con cui Engels intende dire che certi
processi quantitativi tendono irresistibilmente a trasformarsi in qualitativi
(il capitalismo, ad esempio, oltre a mutare la quantità di produzione muta
anche la qualità della società); 2)la compenetrazione degli opposti, per cui in
una totalità a un elemento se ne trova opposto un altro che lo implica ed é,
a sua volta, implicato dal primo: ; 3) la negazione della negazione, per cui
ogni realtà é negata per dar luogo ad una formazione più alta.