Gabriella SEVESO, Come ombre leggere. Gesti, spazi, silenzi nella

Gabriella SEVESO, Come ombre leggere. Gesti, spazi, silenzi nella storia dell’educazione
delle bambine
Introduzione
Le bambine rispetto al passato sono figure più sfaccettate, complesse, numerose e rilevanti. Mentre l’immagine delle
bambine reali è intrisa di dubbi, il mondo occidentale si riempie di bambine letterarie (Heidi, Anna dai capelli rossi,
Pollyanna – fino alle pagine di orgoglio e coraggio al femminile), cinematografiche (Leon, Aliens, Lezioni di piano,
Schindler’s list), televisive. L’educazione femminile rimane terreno opaco, ricco di domande confuse che tacitamente
accettano la realtà di una parità conquistata ma poco definita. Vi è disappunto e sorpresa quando si cerca di
discutere dell’educazione delle bambine, quasi fosse un capitolo chiuso o da non aprire perché troppo carico di
significati e ideologie. Le recenti trasformazioni dell’identità femminile hanno dato l’illusione di una parità risolutrice di
ogni problema, ma hanno dato anche luogo a contraddizioni marcate. Si scopre quanto alcuni stereotipi siano
straordinariamente persistenti.
Capitolo 1. Tanto gentile e tanto onesta pare. Bambine del passato
1. Le ombre leggere delle bambine. Tracciare una storia delle bambine nella società occidentale è arduo, perché
sono rimaste nascoste nelle pieghe delle trattazioni storiche; ci si rifà a metodologie che rivalutano la storia orale, il
pensiero biografico e le interviste. I discorsi sulle bambine e per le bambine sono stati trascurati dagli storici: la
differenza di genere è uno dei più vistosi occultamenti nelle teorie pedagogiche (CAMBI). Le bambine sono state
assorbite da idealizzazioni basate su discorsi prescrittivi e normativi astratti; si presentano difficoltà semantiche e
filologiche per chi voglia studiarle. Solo dopo il XVIII secolo si fanno strada immagini di bambine: per loro c’è un
“modello pedagogico minor, privato e quotidiano”, contrapposto a quello elevato, pubblico, superiore e più complesso
maschile. Sono destinate a ruoli ornamentali e di secondo piano, esigue e trasparenti. Comenio apre la porta delle
scuole anche alle bambine, mentre Rousseau studia un modello orientato in senso strumentale, complementare e
ornamentale rispetto a quello maschile: la piccola Sophie è casta, sottomessa, dolce, modesta, costruita sui sogni e
desideri altrui, consolata dall’attribuzione di un impero quanto mai inesistente (“di dolcezza e compiacenza”). Altri
dissolvono la figura della bambina in un’ideale donna adulta (Pestalozzi, Fröbel) che abbia un ruolo centrale
nell’educazione dei figli.
2. Gesti e silenzi nell’educazione delle bambine. È importante il fenomeno dell’abbandono delle bambine stesse,
dall’antichità fino a due o tre secoli fa: le bimbe sono viste come fragili e delicate, dispendio di ricchezza per la dote.
Si impone una “selezione culturale” e le commedie abbondano di figure femminili orfane. Il destino delle bambine
non è solo taciuto, ma anche tacito: le origini del mutismo sono da ricercarsi nella mitologia (CANTARELLA, mito
della ninfa Lara, poi divenuta Tacita). Il mito ha un forte valore pedagogico di ammonimento al silenzio e alla
domesticità per tutte le ragazzine. L’infanzia al femminile nell’antichità è basata sull’interdetto della parola; la loro
educazione è fondata sul dispositivo del gesto (BECCHI): nella mancanza di significazione verbale, apprendono per
imitazione dai gesti delle donne adulte, eloquenti per il richiamo ad un’arte (cucito, cucina) e alla modestia, alla
dedizione, alla sottomissione. Il gesto è più seduttivo, minaccioso e penetrante. La trasmissione dei saperi femminili
avviene soltanto nella concretezza degli oggetti, in un ininterrotto passaggio silenzioso e latente di oggetti e saperi
come unica modalità possibile di memoria e di sopravvivenza per le genealogie femminili. Le narrazioni delle donne
passano attraverso le ninne nanne, le litanie, i canti, le formule erboristiche che rimandano ad un uso prelogico,
fascinoso e apotropaico della parola e della musica. Tali modalità divengono forse implicite strategie di resistenza e
di sopravvivenza di saperi e di relazioni. Alle bambine e alle donne resta precluso l’universo della nominazione del
mondo attraverso la parola. Questa formazione è utile a far sì che le bambine si dedichino ai lavori di casa e vi si
abituino, dall’altra viene vista come unica possibilità di salvaguardia morale in un mondo che si crede popolato da
malvagi. Le bambine sono percepite come più difficili da educare, sempre sull’orlo del capriccio: vanno controllate e
tutelate. Sono vittime del rigoroso controllo sociale di madri, istitutrici, balie, maestre. L’apprendimento per imitazione
implica gesti rigorosamente codificati: educate a un destino totalmente eteronomo, le bambine divengono prive di
una propria gestualità e corporeità, in un percorso di annullamento della materialità corporea dopo il Medioevo
sempre più vistoso ed assillante. Alle bambine sono presentati come modelli le vite di martiri e sante: la conquista
della purezza avviene solo a prezzo dell’annientamento del corpo. I sensi scompaiono, tranne la vista, che diventa
peccato e tentazione. L’educazione delle bambine diventa apoteosi del corpo imbalsamato, illusione che si rivela
nell’abbigliamento dal XV secolo. I movimenti connessi sono limitati, così come gli spazi e i tempi dati alle bambine
sono esigui. Lo spazio è limitato alle mura domestiche, mentre lo spazio pubblico rimane maschile. Anche i tempi
delle bambine sono particolari: si tratta di tempi iterativi e lenti per apprendere gesti e condotte, ma anche un tempo
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infinito, eterno, per il compimento di una formazione singolare. Non esiste un fine all’educazione stessa: la donna è
bisognosa di controllo per tutta la vita ed è affidata alla giurisdizione e alla responsabilità del marito. Lo stato di
minorità perenne e pericoloso fa sì che l’educazione femminile sia caratterizzata da una mancanza di profondità ed
evoluzione (ROMANELLO). La mancata percezione dell’infanzia femminile è data anche dall’abbigliamento: i
bambini sono i primi a differenziarsi dagli adulti, mentre alla bimbe restano riservate le vesti delle donne.
3. Alla ricerca della parola scritta. Altra caratteristica dell’educazione delle bambine è la mancanza di formazione
culturale e intellettuale, inutile perché avrebbero dovuto occuparsi della casa e addirittura perniciosa. Le uniche
narrazioni concesse sono quelle agiografiche. La donna deve identificarsi con una figura svalutata. I libri e la scuola
sono vietati fino al XVIII e XIX secolo, caratteristica comune sia a donne di ceti elevati che umili. L’unica apertura
possibile all’universo della parola scritta sta nell’appello di Lutero all’alfabetizzazione, anche se i fini rimangono
differenziati a seconda dei generi: le donne devono apprendere per educare i propri figli e “dirigere” la casa. Dal
Rinascimento si diffondono trattati sull’educazione delle bambine che invitano a contenere il loro desiderio di sapere
(Fénelon); anche Leon Battista Alberti ricorda di tenere lontane le donne dai libri e dalle scritture. Lo scrittoio resta a
lungo precluso, così come diari e autobiografie. Nel XV secolo rompe l’interdetto Christine de Pizan, istruita dal
padre, che, vedova, decide di mantenersi e mantenere i figli con i proventi delle sue opere e non con un matrimonio
facoltoso. L’esaltazione della donna che si emancipa diventa uno dei motivi caratteristici dell’età umanistica e
moderna, anche se è un’esaltazione ambigua e contraddittoria, spaventata più che ammirata (Ariosto). L’unico
spazio dell’istruzione femminile resta il convento, tanto che alcune figure di poetesse, filosofe e narratrici operano
all’interno del chiostro.
4. Le ambiguità del Settecento. Per le ragazze più povere si aprono le porte di alcune botteghe artigiane, per le
abbienti c’è uno scampolo di cultura scritta. Cominciano a comparire anche nei documenti storici: il manoscritto che
Pietro Verri indirizza alla figlia Teresina è prova dell’affetto rivolto anche alle figlie femmine e rende meno oscura
l’infanzia delle bambine. Si moltiplicano trattati sull’educazione delle bambine e gli interrogativi sulla necessità o la
possibilità di un’istruzione femminile, sulle quali il secolo darà risposte apparentemente audaci e sottilmente
discriminatorie. Le disposizioni legislative sulla posizione delle donne si fanno più aspre, ribadendone la
subordinazione. L’Illuminismo, nonostante i proclami di uguaglianza, favorisce l’affermazione di dottrine
discriminatorie sull’educazione. I resoconti di alcuni esploratori rivelano che si cono situazioni sociali in cui le donne
hanno ruoli ben diversi: esistono molteplici culture con codificazioni multiformi e complesse della differenza sessuale.
Lafitau (1724) in viaggio tra gli indiani irochesi sottolinea la discendenza matrilineare e il potere sociale delle donne,
ritenendo ciò però tipico di culture selvagge. I médecins philosophes condannano la donna ad uno stato di inferiorità
mentale direttamente ricavato dal dato biologico. Le bambine sono fragili vittime degli istinti, quindi vanno calibrate
occasioni formative differenti. Per De Laclos l’educazione delle ragazze è importante, ma ornamentale, serve a
dilettare il futuro marito. Le ragazze emancipate e colte diventano una preoccupazione del secolo, come dimostrato
dai ritratti sarcastici di femmes savantes (Molière, Les précieuses ridicules). Badinter sostiene che proprio le
“preziose” riescono ad essere elementi attivi di una cultura d’élite e di una nuova civiltà, proponendo un modello di
civiltà che sovverte i valori del tempo e sarà censurato. Le ragazze cominciano comunque a conquistare la parola
scritta e a strappare qualche titolo di studio. Nascono pubblicazioni periodiche, riviste e riduzioni letterarie per
ragazze e le prime biblioteche per ragazze nelle case dei nobili: sono letture censurate e pensate ad hoc. Nelle case
gli spazi abitativi riservano alcune stanze alle ragazze, dove leggere e conversare: l’esito è la diffusione di scritture
private delle donne più abbienti, memorie di una coscienza di sé, con un pubblico ristretto dovuto ai timori di una
condanna da parte dei contemporanei. L’arte della scrittura per una donna può essere solo un passatempo privato. Il
matrimonio e la maternità restano l’unico destino femminile, la preparazione culturale può generare solo “madri
snaturate”. Qualche filosofo si interroga sulla loro felicità, ma finisce per considerarle vittime di se stesse (per De
Laclos hanno scelto di essere schiave dell’uomo, possono solo consolarsi nel potere di seduzione e nella capacità di
apparire). In modo contraddittorio, le bambine vengono educate per essere padrone di casa, ma tali non saranno mai
a patto di non contraddire il marito. Devono essere modeste, ma diventano donne con vestiti sfarzosi nel matrimonio,
perché il lusso della moglie è motivo di orgoglio per il marito. Sono educate al linguaggio dei gesti e devono
imprigionare i corpi in abiti costrittivi, sottostando a pratiche e divieti estremamente formalizzati. Il Settecento celebra
l’epifania del corpo imbalsamato. L’esito è spesso tragico: si moltiplicano malattie nervose femminili. Le
contraddizioni più vistose restano nell’accesso all’istruzione: il numero di bambine alfabetizzate cresce molto, ma le
letture sono censurate e i percorsi formativi differenziati. Il secolo si chiude con la tragica morte di una autrice
audace nel reclamare la parità: Olimpia De Gouges, ghigliottinata nel 1793.
Capitolo secondo. L’Ottocento: un secolo di contraddizioni
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1. Quale destino per l’educazione delle bambine? Siamo nel secolo “del femminismo”: si affermano
progressivamente associazioni femminili (sindacali, politiche e sociali) e il vento di cambiamento coinvolge anche la
vita delle bambine. L’affermarsi dei movimenti femministi suscita paure verso un ruolo femminile che sta mutando: il
dibattito sul matriarcato lo colloca in un periodo storico primitivo, barbaro e spaventoso. Il campo delle possibilità per
le donne tende ad allargarsi: la maternità è un destino, ma le nascite si contraggono e rendono possibili altri sogni e
desideri. Il tasso di natalità si abbassa in Occidente e le bambine hanno il diritto ad un’istruzione più completa, ma
sempre in un percorso formativo differenziato. Anche il destino di moglie muta: è una compagna con un ruolo più
attivo nelle decisioni relative ai figli e si accosta anche alla carta stampata. Si afferma un modello di matrimonio
come scelta di entrambi i coniugi, fenomeno che compare nei diari delle ragazze, che cominciano a scrivere e a
pensare il proprio destino, a percepirsi in maniera mutata. Compaiono relazioni tra coniugi improntate sull’affetto e
sulla complicità: marito e moglie cominciano a darsi del “tu” e si riduce la distanza di età tra i due. Gli itinerari
formativi al femminile sono forgiati sull’aderenza ad un ruolo materno contraddittorio: più complesso, ma più
imbrigliato in un ruolo idealizzato e retorico. La Gertrude pestalozziana è un esempio di mamma-maestra,
responsabile della crescita etica ma anche dell’istruzione formalizzata dei figli. Ciò presuppone un’educazione delle
bambine meno ridotta ai lavori donneschi. La funzione salvifica della madre e quella sacrale della famiglia però
possono diventare una gabbia: si diffonde una retorica della figura femminile che ne riconduce il destino alla
domesticità. I movimenti verso l’emancipazione generano reazioni contraddittorie. Le donne affermano una identità
pubblica, suscitando paure: si diffonde il “mito” dell’amore materno, si consiglia di educare le bambine ad essere
buone madri. Si insiste sulla necessità che l’istruzione femminile abbia comunque come unico scopo la realizzazione
domestica (Dialoghi per le scuole femminili di Guglielmina Del Buono). Le madri devono trasmettere alle figlie le gioie
e i doveri della maternità, che diventa un vero e proprio imperativo pedagogico. Paradossalmente però il sapere
femminile sul parto e sulla maternità viene cancellato dalla progressiva medicalizzazione e dalla mistificazione dei
racconti sull’origine. Si diffonde la figura del medico, che sottrae alle ostetriche potere e sapere. Nelle campagne è
vietato mostrare alle bambine il parto degli animali: si compie un’opera di falsificazione e di nascondimento del
mistero della nascita. Alcune madri iniziano a nutrire dubbi su cosa insegnare alle figlie: Clemence Royer, donna di
scienza, vuole che sua figlia segua le sue orme. Alcune madri rappresentano per le bambine modelli da criticare, alla
ricerca dell’indipendenza: Fernanda de Amici esorta a togliere “l’eterno miraggio del matrimonio agli occhi delle
fanciulle”. Per le bambine da un lato si affermano opere di divulgazione che le propongono come exempla: lo studio
da parte loro è manifestazione di virtù, ma viene condannato come motivo di vanità e inammissibile superbia. Per
altre autrici l’istruzione femminile diventa la possibilità per le ragazze di conquistarsi un salario, occasione per il
riscatto sociale: la maternità non è più un destino. Altre madri coniugano maternità e scrittura, proponendo manuali e
galatei: la funzione assegnata loro si rivela uno strumento, ambiguo, di conquista ed emancipazione.
2. La difficile conquista di un’intimità. L’Ottocento propone un ritratto di madre quasi professionale e relazioni mutate
tra madri e figlie, che prima erano legami taciuti, mentre ora danno avvio a riflessioni. L’educazione materna è
raccomandata soprattutto per le bambine, per la trasmissione di un modello etico concreto. Il legame tra madre e
figlia si fa più affettuoso. La spia è rappresentata dal linguaggio: il “tu” tra le due si diffonde, anche se deprecato.
Anche questo ha effetti contraddittori sulle bambine: crea un effetto di simbiosi e totale identificazione con la madre,
cosa che permette il più completo controllo sulla vita delle bambine. L’imperativo del secolo è quello di “raccontare
tutto alla mamma”, in un periodo che scopre con scandalo i turbamenti dell’adolescenza. Esempio della libertà
vigilata loro concessa è il diario quotidiano: conquistano lo scrittoio, ma si trasforma in strumento di controllo; il diario
nasce per educare le bambine ad annotare i peccati e i buoni propositi, i destinatari sono Gesù, i santi e la madre. Il
diario significativamente viene interrotto al momento del matrimonio. Per alcune diviene possibilità di riscatto: pagine
nascoste, diari non interrotti dopo il matrimonio. Alcune scoprono il talento per la narrazione: nasce l’autobiografia
femminile. Il cammino verso la conquista dell’intimità passa attraverso le pagine dei diari e attraverso un’ulteriore
piccola rivoluzione ottocentesca: le bambine desiderano una propria stanza, uno spazio per sé, concessa nelle case
dei ceti elevati e borghesi. La stanza è un rifugio che suscita un’iniziale coscienza di sé e delle proprie aspirazioni.
3. Bambine e banchi di scuola. La rivoluzione più consistente rimane l’accesso delle bambine all’istruzione
formalizzata. I dibattiti sul tema sono accesi, prima in Francia. In Italia con l’unità si pongono interrogativi sulla
scolarizzazione delle bambine, che frequentano la scuola in modo discontinuo e meno a lungo dei maschi. I
programmi ministeriali sono rigorosamente differenziati, così come gli sbocchi professionali. Si afferma la rigorosa
separazione fra insegnanti donne e uomini: le prime insegnano solo alle bambine e hanno stipendi molto più bassi.
Le differenze formative emergono nei libri di testo: quelli delle bambine esaltano il modello della perfetta padrona di
casa (Commissione centrale per i libri di testo: “l’educazione dei maschi e quella delle femmine non possono
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naturalmente confondersi”). Si moltiplica il numero delle piccole lettrici e arrivano i primi richiami affinché l’eccesso di
studio non logori i fragili corpi femminili; le ragazze aristocratiche riescono a ritagliarsi un percorso di istruzione molto
elevato entro le mura domestiche. Si anima a fine secolo il dibattito tra le sostenitrici della coeducazione e quelle
delle classi separate: le voci alla ribalta sono quelle di donne, scrittrici, letterate, pedagogiste, che conquistano uno
spazio pubblico di parola, pur in un ambito circoscritto. Emilia Mariani accende il dibattito nel 1888, denunciando il
ghetto delle scuole femminili e mettendo a nudo il progetto segregante. Le fa eco la Mozzoni, deplorando che i
contenuti e i metodi insegnati alle bambine siano svalorizzanti e svalorizzati. Nonostante ciò, da una concezione
fondata sulla differenziazione degli sbocchi nasce la Scula normale, destinata a formare schiere di future maestre: è
occasione di segregazione, ma costituisce in alcuni casi possibilità di emancipazione e di riscatto sociale. La maestra
è implicitamente definita quale duplicato della madre e di lei si pretende persino di misurare la moralità: inizia qui la
femminilizzazione dell’insegnamento in Italia. I corsi preparatori all’insegnamento negli asili diventano riservati solo
alle ragazze, quelli elementari anche ai maschi. La maestra è vista come una professione alternativa alla formazione
di una regolare famiglia e per questo richiede continui controlli sulla moralità. Le prime insegnanti sono vittime di
persecutori trasferimenti e inveterati pregiudizi, di condanne sociali. Si moltiplicano a fine secolo le figure di figlie
poco docili, che si ribellano per accedere agli studi superiori, gesto di ribellione più grave di quello matrimoniale, che
avvicinerà molte ragazze alle scienze e alla medicina. Solo nel 1874 (università) e nel 1883 (licei e tecnici)
l’istruzione superiore si apre per le ragazze. I percorsi restano privi di sbocchi professionali per l’ostilità e i pregiudizi
dell’epoca: Lydia Poet si laurea in giurisprudenza, ma nel 1884 non la fanno iscrivere all’ordine degli avvocati.
4. I corpi delle bambine. L’Ottocento è secolo di ambiguità per il corpo femminile: da un lato è imprigionato in severe
prescrizioni e abbigliamenti rigidi, poco pratici, dall’altro conosce aperture impensate, soprattutto per le bambine.
L’abbigliamento diviene specchio della rispettabilità della famiglia e del censo del marito: gli abiti diventano opere
architettoniche, richiedendo l’ausilio della cameriera per i gesti quotidiani. Abiti e drappeggi sottolineano le forme
fisiche, ma le rendono anche umoristiche e ridondanti. Si accentua il divario tra città e campagna e si manifestano le
differenze di ceto. Sorgono però anche le prime possibilità di complicità tra donne, con la nascita della biancheria
intima (cura del corpo, complicità con sartine, ricamatrici e corsettaie). L’industria della moda crea una rivoluzione
nelle professioni al femminile: molte ragazze aprono piccole sartorie artigianali, fanno le indossatrici e le curatrici di
sfilate, rischiando lo sfruttamento, ma conquistando una fonte di indipendenza economica. Si discute
dell’abbigliamento delle bambine, evidenziando la necessità di praticità. Si vestono quasi sempre di bianco, simbolo
della purezza. Si rappresentano le differenze di sviluppo con differenti standard di comportamento da richiedere,
dando inizio ad una minima libertà di movimento per le bambine, da lasciare libere da orpelli, cinture strette e colletti
alti. L’appello alla leggerezza si afferma: si balla sulle punte, il corpo femminile da opulento si fa incorporeo, segno di
fragilità. All’inizio del 1900 Isadora Duncan balla a piedi nudi indossando tuniche ampie. La liberazione dei corpi delle
bambine suscita nuovi interrogativi: possono fare sport, equitazione, bagni al mare? Si raccomanda l’attività fisica
(Oberman), fugando ogni perplessità sulla liceità dello sport per fanciulle. Resta comunque inattaccabile il principio
che sancisce l’inferiorità della donna, sia morale sia biologica. Dal 1912 sono ammesse alle olimpiadi. Questi temi
inducono a ripensare l’educazione delle bambine, con effetti liberatori: si diffondono, anche se in maniera sibillina, le
prime informazioni di educazione sessuale. In contraddizione con questo, fioriscono i galatei per bambine e ragazze,
che guadagnano qualche spazio di autonomia al prezzo di malattie nervose e mentali, esplorate dalla psicologia.
L’isteria è riconosciuta come la malattia del sesso debole, come l’emicrania, e sorgono cliniche che si occupano
quasi esclusivamente delle malate (Salpêtrière parigina, Charcot immortala le isteriche in foto che spettacolarizzano
il dolore femminile e Freud, assistendo alle sfilate, ne comprende i messaggi muti del corpo, classificati come
sintomi). Freud fonda una nuova scienza basata sui discorsi delle donne e sulle fantasie delle bambine, definendole
però ancora come devianza rispetto al maschile, tanto che restano nelle sue opere come maschi mancati. Lo
schema riproposto anche da Freud vede il femminile come devianza, alterità e disordine. Nell’analisi delle bambine,
restano celebri i Cahiers de bêtises di Marie de Bonaparte.
5. La “nascita” delle bambine. Emerge finalmente la figura della bambina autonoma. Compaiono piccole eroine nella
letteratura: Cosette, piccole fiammiferaie, orfanelle. Dopo la metà del secolo alcune piccole protagoniste si stagliano
con personalità differente dal comune e quasi mascolina, come la Jo di Piccole donne o Mary di Il giardino segreto.
Compare infine Alice, prototipo della bambina impertinente, ribelle e curiosa.
Capitolo terzo. Il Novecento e la scoperta della differenza.
1. Bambine fra le due guerre. Luce Irigaray definisce il XX sec come l’epoca che si trova a pensare alla tematica
della differenza sessuale come problema più urgente e rilevante. La più importante rivoluzione del Novecento è la
possibilità per le donne di affacciarsi alla vita pubblica. Woolf denuncia che sulle donne siano stati scritti studi solo da
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uomini. Si moltiplicano manifestazioni di donne, le aggregazioni, le associazioni sindacali, politiche, filantropiche, che
testimoniano una presenza collettiva fondata sulla ricerca di condivisione. L’universo della moda rappresenta i
mutamenti: abbigliamenti, atteggiamenti, sport e passatempi più vicini a quelli degli uomini. Le gonne si accorciano,
le donne si dedicano al tennis e al golf. Il cinema diffonde il modello della ragazza garçonne, più mascolina.
L’abbigliamento perde progressivamente censure e rigidità. A Londra Elsa Schiaparelli disegna pantaloni per tutte. Si
verifica un boom della biancheria intima, che invade le vetrine dei negozi popolari, e dei prodotti di bellezza. Si
afferma un’identità femminile vogliosa di esibirsi e di conquistare. Al cinema nascono le femmes fatales o le ragazze
intrepide e mascoline alla Hepburn: i rapporti tra i sessi subiscono una notevole metamorfosi e la donna non è più
succube, ma ironica, determinata, disinibita. Il rischio è che si passi da angelo del focolare a angelo del male. Con la
guerra il processo accelera: le donne entrano in fabbrica, in ruoli e atteggiamenti emancipatori e meno controllati,
fiancheggiano e sostituiscono gli uomini, combattono nella Resistenza. Altre fanno le infermiere al fronte e riflettono
sulla propria identità. Al temine dei conflitti i ruoli sessuali ritornano quali erano prima. Il fenomeno si ripercuote
anche sulle bambine: quelle dei ceti popolari entrano precocemente nel mondo del lavoro, per le qualità femminili e
perché sono meno costose; sono collocate nell’industria alimentare e serica, di giocattoli, prodotti per la casa,
calzature. Le più povere mendicano sulla strada, vittime di abusi e maltrattamenti. Si diffonde la consuetudine di
mandare le bambine e le ragazzine “a servizio” presso le famiglie più abbienti. Dagli anni ’30 le ragazzine della
borghesia fanno le impiegate e le segretarie negli uffici postali, con orari massacranti, lavori meccanici e mal pagati.
Fra ’30 e ’40 si libera il corpo e si diffonde la cultura fisica, che dà l’illusione di una parvenza di parità. Le pratiche di
socializzazione tra bambine e bambini si mantengono comunque differenziate, soprattutto per le aspettative: alle
bambine sono richiesti standard di comportamento più elevati e lo scopo della loro educazione rimane il matrimonio
con la maternità. Rare figure di bambine ribelli sfuggono a questi destini, come Rita Levi Montalcini. La persistenza di
stereotipi tradizionali emerge dalle raffigurazioni culturali: l’immagine della bambina rimane sempre leziosa e
cristallizzata anche ai giorni nostri. In questi anni si diffonde il culto per “Riccioli d’oro”, bimba vittima di una serie di
angherie che, sotto la parvenza di piccola ribelle, incarna il classico modello di eroina prima perseguitata e poi
baciata dalla sorte. Con il regime fascista l’immagine della donna tramandata è tradizionale, connessa alla funzione
materna e ai doveri domestici e familiari. Le bambine sono irreggimentate in associazioni femminili con minore
prestigio di quelle maschili. Nel ’29 si adegua l’abbigliamento di alunne e insegnanti a serietà morale e disciplina, con
grembiuli lunghi e accollati, scuri e maniche lunghe. Nel ’33 viene vietata la costituzione di una squadra di calcio
femminile. Con la guerra le differenze di genere si fanno più rilevanti: le bimbe sono le prime vittime di migrazioni. I
bimbi londinesi sono mandati in campagna, dove scoprono un mondo dai ritmi differenti e soffrono per la drammatica
separazione dalle famiglie. Le persecuzioni sugli ebrei vedono le donne e le bambine come destinatarie perché
capaci di procreare, possibili madri di una razza indesiderata. Nel conflitto spagnolo intervengono ragazzine durante i
combattimenti. Solo alla fine della guerra torneranno a giocare.
2. Bambine d’oggi. Negli ultimi tre decenni si attua una ridefinizione dell’identità femminile, con l’ingresso nel mondo
del lavoro e l’affermarsi di gruppi femministi. Vivere in un’area del nostro Paese o in un’altra, in campagna o in città,
costituisce una variabile considerevole nelle scelte di vita della singola donna. Indubbio è che attualmente l’identità
femminile ha ricoperto ruoli prima tradizionalmente maschili, sia nel mondo del lavoro che della famiglia. L’esito è
stato contraddittorio: da una parte ha dato alla donna più possibilità dal pdv decisionale, dall’altra ha reso più difficile
conciliare impegni extrafamiliari e domestici, dato che il lavoro familiare ricade sulle donne, che non hanno rinunciato
al loro tradizionale ruolo di moglie e di madre. L’emancipazione femminile ha avuto un prezzo elevato per le donne,
causando una percezione di sé non sempre facile e serena: le madri di oggi propongono un’identificazione alle figlie
contraddittoria e lacerata. Esempio evidente è la maternità, divenuta sempre più una scelta pensata e intenzionale,
ma spesso le donne sono costrette a posporre questa scelta per la difficoltà a vedersi come madri o per le necessità
professionali: si diventa madri quando si può disporre di una rete di supporto. La mutata identità femminile ha
causato dolorosi e complessi fenomeni di ricontrattazione dei ruoli all’interno della coppia e difficoltà nella relazione
con l’altro sesso: spesso le donne scelgono l’allontanamento dal maschile e la tentazione all’autodefinizione.
L’immagine delle bambine è stata in parte modificata da quella del femminile: permane una raffigurazione
tradizionale, ma i movimenti femministi hanno imposto fenomeni di ripensamento delle pratiche educative
(abbigliamento e sport prima maschili), sebbene condizionati dai contesti socioculturali. Risultano più contraddittori
gli scopi dell’educazione femminile: la madre è ormai per loro modello di realizzazione in differenti ambiti e
nell’adolescenza l’apprendistato del ruolo materno scompare. Anche la maternità cambia, professionalizzata, oggetto
di prescrizioni e raccomandazioni. I messaggi inviati alle bambine sono contraddittorima non riescono a ricomporre
un modello d’identità femminile ben definita e realistica.
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3. La “scoperta” delle bambine. Le bambine diventano in questo secolo oggetto di studio e di ricerca, inizialmente
nella rappresentazione dell’infanzia (senza differenze di genere), in un modello neutro ricalcato sui valori
tradizionalmente maschili. Negli ultimi decenni la ricerca scopre però la differenza di genere. L’antropologia è la
prima a mettere in crisi alcune certezze del mondo occidentale: mostra come la differenza di genere strutturi tutte le
manifestazioni simboliche, artistiche, linguistiche e come l’appartenenza sessuale sia frutto anche di stereotipi che
ogni cultura trasmette ai bambini e alle bambine (M. MEAD). In campo psicoanalitico nei primi decenni del ‘900 la
bambina si delinea come maschio mancato, il cui superamento del complesso di Edipo non sarà mai del tutto
completo. Sono alcune allieve di Freud a restituire alle bambine un modello di sviluppo diverso da quello dei maschi:
sottolineano come lo sviluppo sia fortemente condizionato dal fatto che la figura di accadimento sia femminile. La
bambina si rapporta alla madre in un legame tra simili, che causa una minore capacità di distacco, ma una maggiore
attenzione e sensibilità alle relazioni. L’identità femminile si struttura in un percorso più tortuoso rispetto a quella
maschile. Anche la psicologia scopre la specificità dell’immagine femminile: Gilligan mostra come le bambine
abbiano una moralità differente, basata sulla relazione con l’altro, sulla cura, sulla ricerca dell’intimità (ricerca sui
“dilemmi morali”, che le donne risolvono con una logica non legalistica, ma relazionale). Nella psiche femminile si
sviluppa una perdita della voce circa l’espressione dei sentimenti in età adolescenziale, per l’imperativo sociale che
le obbliga a non esprimere forti sentimenti. Si scopre poi che le bambine parlano di più e meglio, ma nelle istituzioni
educative ricevono minori attenzioni e minori tempi di intervento. I giochi connessi alle bambine rimangono
nell’ambito dell’affettività e dell’espressività, atteggiamenti scomposti sono meno tollerati che nei maschi. I giocattoli
sono differenziati per sesso, rispondendo a stereotipi molto tradizionali che soddisfano le ansie dei genitori
compratori, i quali vogliono proporre modelli di identità sessuale chiari e connotati. I bambini dimostrano di preferire i
giochi connessi al loro sesso solo in presenza degli adulti, segno della consapevolezza di quanto gli stereotipi
sessuali siano una convenzione adulta alla quale è opportuno conformarsi. L’identità sessuale è acquisita già a 4-5
anni. Negli stereotipi adulti, la bambina è tradizionale, quelle trasgressive sono oggetto di ansia, ma meno dei
maschi trasgressivi circa l’identità sessuale. Anche gli spazi nei contesti educativi influiscono: la predisposizione di
angoli favorisce l’aggregazione distinta in base al sesso. Manca la riflessione di genere negli educatori.
4. Bambine a scuola, donne e maestre. Nel ‘900 si attua la conquista dell’istruzione formalizzata delle ragazze.
L’accesso alla scuola delle bambine è percepito con ansia e letto come foriero di una competitività fra i due sessi nel
mondo del lavoro. Soltanto negli ultimi tre decenni avviene la conquista degli studi superiori: prima le famiglie povere
investivano solo nello studio dei maschi, quello delle bambine era ritenuto esornativo. La femminilizzazione della
scuola riguarda più quella dell’obbligo che le superiori, soprattutto al Sud. Anche se il campo dell’istruzione si popola
di studentesse motivate e diligenti, i percorsi formativi risultano ancora molto differenziati per sesso, soprattutto in un
mondo in cui le tradizionali gerarchie tra i saperi si sono ribaltate (lettere meno prestigiose delle scienze, ma più
scelte dalle ragazze, anche per una diversa percezione di sé nel futuro professionale). Anche i percorsi formativi
impliciti sono differenziati: i ragazzi a casa usano più il pc, mentre le ragazze leggono e conversano, accumulando
un gap informatico penalizzante a livello professionale. Resta ambigua la percezione delle bambine in relazione al
futuro di donne, perché percepiscono la ricerca o professioni molto coinvolgenti come inconciliabili con il desiderio di
una famiglia, che non concede largo spazio alla carriera. Solo di recente alcuni sbocchi professionali sono stati
raggiunti anche dalle ragazze, come la medicina e la giurisprudenza. È significativo il fenomeno della
femminilizzazione dell’insegnamento, a dimostrazione della diversificazione degli sbocchi professionali tra ragazzi e
ragazze. La figura della maestra era percepita inizialmente come deviante, troppo ambiziosa e indipendente, ma nel
corso del secolo è scelta dalle ragazze perché compatibile con la formazione di una famiglia. Qui si colloca la
parabola relativa alla remuneratività di questa professione, con minore considerazione sociale e trattamento
economico non elevato, che diventa di pertinenza femminile. L’esito di questo percorso è rappresentato da vissuti di
esclusione degli insegnanti, mentre a volte la presenza femminile diventa occasione di riflessione sulla differenza.
Per gli allievi non è un bene: crescere senza un modello maschile di educatore genera il rifiuto di quello femminile da
parte dei maschi e la riproposizione di un modello di femminilità con scarso status sociale sulle ragazze.
5. Piccole donne crescono: verso un’adolescenza indifferenziata? L’immagine più mutata è quella dell’adolescente,
che dimostra omogeneità rispetto ai coetanei maschi, dato che gli interessi sono identificati per età e in
contrapposizione al mondo adulto, anche se le ragazze sono meno coinvolte in attività sportive e informatiche, ma
sono molto competenti e predisposte nella cura del corpo (anche i maschi ora lo stanno diventando). Accanto ai
fenomeni di indifferenziazione, permangono stereotipi molto tradizionali: le ragazze si percepiscono più deboli e più
esposte a pericoli, sono più responsabili e mature, hanno un ruolo più passivo nelle relazioni di coppia e puntano
sull’aspetto fisico, rimandando a un’identità femminile tradizionalissima, antecedente a qualsiasi rappresentazione
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emancipata e liberatoria proposta dai movimenti femministi degli anni ’70. Le ragazze da un lato rivendicherebbero
una indifferenziazione rispetto ai coetanei, dall’altro ricercherebbero le sicurezze dei copioni più tradizionali,
dimostrando una marcata oscillazione tra tendenze aggressive e persecutorie e identificazioni con il codice materno.
Ciò è connesso alla ricontrattazione dei ruoli parentali presente nelle famiglie, con eccedenza di valori materni e
incapacità del padre di trovare una propria modalità peculiare. Questi mutamenti consentono di sperimentare nuove
strategie affettive, ma causano ansie e disagi che nei maschi sono manifestati con comportamenti devianti, nelle
adolescenti femmine con un collasso tra identità fisica e psichica. Le ragazze scelgono l’indeterminatezza sessuale
invece della celebrazione del legame tra donne e si trovano però irretite nella persistenza di stereotipi molto
tradizionali. Spesso si manifestano l’anoressia e la bulimia, corrispettivi dell’isteria dell’Ottocento, che era legata alle
passioni erotiche conflittuali rispetto al consenso sociale, mentre le malattie del ‘900 sono legate alle pulsioni
materne. È significativo che il disagio femminile si concreti ancora una volta nella materialità del corpo. La televisione
percorre l’itinerario della letteratura: prima presenta solo eroi maschi, poi orfanelle, infine modelli liberatori di un
femminile indipendente e ribelle (Pippi Calzelunghe). Seguono altre protagoniste: Lady Oscar ripropone in chiave
storica l’eterno dilemma dei ruoli sessuali nella società occidentale, paga la propria autonomia con la rinuncia a
palesare un’identità femminile, con un amore contrastato e un tragico epilogo; le sorelle di Occhi di gatto solo di notte
si trasformano in abili ladre di opere d’arte, con un comportamento illegale al fine di obbedire all’autorità paterna.
L’assenza più eloquente è quella materna. Nella cinematografia per ragazze le bambine della Archibugi sono
complesse e ricche di iniziativa. Nella letteratura per ragazze le opere della Pitzorno ribaltano lo stereotipo di
bambina tradizionale, presentando identità femminili molto realistiche. Più inquietante il mondo del fumetto, dove le
donne presentano identità femminili forti e androgine, inserite in atmosfere horror e sole, dopo aver sperimentato
storie sentimentali fallimentari.
6. La pedagogia della differenza. Le pensatrici che originano questo filone evidenziano come la cultura occidentale
sia fondata sull’assolutizzazione del maschile e sulla negazione delle differenze di genere, secondo un paradigma
estremamente normativo anche a livello educativo, che ha tratteggiato l’identità dell’individuo da formare come
maschile e rappresentato il femminile come scarto e alterità. Viene messa in discussione anche la trasmissione del
sapere: la scuola priva le bambine di significazione e di espressione. La pedagogia della differenza ricorda la
necessità di valorizzare le bambine e di approdare a un uso del linguaggio che metta in discussione la struttura di
genere, proponendo un trattamento educativo in parte differenziato per valorizzare le bambine, pur avendo il limite di
non considerare le variabili economiche, storiche, sociali (cosa che invece fa il filone delle pari opportunità),
ritenendo la differenza come problematica da risolvere solo sul piano relazionale e simbolico. Rivaluta il rapporto
madre-figlia e la potenza simbolica della figura materna, imprigionata in una dinamica riduttiva di identificazione in
una figura svilita. Ricorda come le pratiche di socializzazione differenziata penalizzino anche i maschi, privati di
esperienze emozionali. L’educazione femminile è ancora un percorso fatto di interdetti, ma ha la possibilità di
coltivare emozioni e sentimenti: dovrebbe riuscire a proporsi come modello per i bambini.
7. E i maschi? Un effetto della recente riflessione sull’educazione delle bambine è costituito dall’aver sollevato fertili
dubbi anche sulle pratiche riservate ai maschi e agli stereotipi sottesi. La ricontrattazione dei ruoli nella famiglia ha
coinvolto anche l’identità maschile, costretta a ripensarsi come individualità e in rapporto all’altro sesso. I padri
odierni non si riconoscono nell’ideale rappresentato dai loro padri, sono più coinvolti nella cura dei figli, ma non nella
condivisione dei lavori domestici o nell’organizzazione della casa. L’identità maschile si ridefinisce nell’ambito della
paternità, ma in misura minore nella relazione con la partner o nell’individualità. A ciò si aggiunge che il legame
madre-figlio rimane vischioso: il bambino rimane dipendente dalla madre (mammismo) molto più a lungo della
bambina, educata ad essere indipendente. L’identità maschile è così lacerata dal tentativo di imitazione di codici
femminili e dalla reviviscenza di modelli maschili tradizionali. Ciò è bene incarnato dalla politica (linguaggio e simboli
femminili, ma si afferma Haider). Questa oscillazione riguarda anche i bambini, sui quali si riversano le
preoccupazioni principali dei genitori nei confronti di una socializzazione tra maschi segnata da censure e paure.
Ripensare l’educazione delle bambine significa anche proporre ai maschi modelli di identità maschili specifici e validi.
Capitolo quarto. Conclusioni
1. Pari opportunità o pedagogia della differenza? È difficile inviare alle bambine messaggi chiari e non contraddittori.
La pedagogia della differenza può aiutare nella rivalutazione della relazione con le bambine, per la valorizzazione
della differenza. Le variabili legate al contesto sono meglio affrontate dalle pari opportunità, che incidono sugli aspetti
socioculturali nel perpetuare la differenza di genere (conciliare lavoro e maternità, modificare gli stereotipi sex).
2. Differenza e differenze. In contesti sociali differenti, si propone il problema dell’esclusione, della raffigurazione di
un mondo già strutturato dagli adulti in funzione dell’identità sessuale, nell’Occidente di ieri ma anche di oggi e nelle
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altre culture. Ogni bambina è unica e intreccia in sé un sistema di differenze che si intersecano e si sommano,
soprattutto nel mondo odierno, segnato da fenomeni migratori importanti. Non si può risolvere il problema della
differenza rifugiandosi in illusorie soluzioni che la cancellano. Bisogna sapere in quale misura siamo pronti ad
affrontare non solo la differenza sessuale, ma la pluralità di differenze che attraversano la nostra quotidianità, vera
sfida per il futuro.
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