Il sapere non è la saggezza, la saggezza non è la

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Il sapere non è la saggezza, la saggezza non è la sapienza
Sul “Viaggio nelle Regioni d’Italia” di Tommaso Cariati, Rubbettino 2013, pp. 230, 16€
di Pino Caminiti
Nel De finibus Cicerone ci dona un’interessante distinzione fra curiositas e sapienza, anzi “amore di
sapienza”, che non consiste nel desiderio di sapere tutto (“omnia scire”), ma nell’anelito alla
“contemplazione delle massime cose”. Più tardi, Seneca delinea con precisione ancora maggiore la
figura del sapiens con riferimento, appunto, alle “massime cose”, ossia alla divinità, al tempo ed
alla morte, e addita la via della profondità interiore come l’unica che il sapiens debba seguire.
Io credo che queste citazioni (fra le tante al riguardo possibili) non siano peregrine, perché proprio
l’amore di sapienza è alla radice del “Viaggio” di Tommaso Cariati, un viaggio attraverso le regioni
italiane che significa, per l’autore, il proposito di conoscenza fuori di sé, ma finalizzata
all’appagamento intellettuale e, sopra ogni cosa, all’arricchimento interiore. Ogni viaggio è un
percorso dentro noi stessi, una sorta di Anabasi che noi compiamo nel momento in cui i dati esterni
si riverberano sulla nostra coscienza e rafforzano l’essenza della nostra interiorità o ce ne svelano
aspetti a noi stessi ignoti. E questo vale ancor più per il “Viaggio” di Cariati, che è mirato alla
“contemplazione delle massime cose”, come è facile evincere già dalla totale assenza, nel libro, di
curiosità superficiale, fine a sé stessa. Ma l’erranza di Tommaso per i luoghi della nostra Penisola
ha qualcosa di più e di oltre, rispetto alle fatiche letterarie del suo genere. Ce lo dice l’autore stesso,
in una notazione davvero ardita e non a caso reiterata: “Il sapere non è la saggezza, la saggezza non
è la sapienza”. Confesso la mia sorpresa: ho la sensazione che il distinguo sia troppo sottile, non
sorretto da ragioni etimologiche o semantiche, ovvero dall’uso letterario dei due termini. Poi, alla
fine della lettura, e scorrendo a ritroso le pagine del libro, comprendo che l’ideale di “saggezza” di
cui si parla è il più elementare, in quanto il più umile, che si possa concepire. Esso coincide con la
verità del Vangelo, che esime l’autore dal professare ideologie di sorta e gli consente di osservare e
meditare nella condizione della libertà vera, che si carica di tensione civile ed etica, non di facili
moralismi o di integrismi religiosi. La libertà distintiva dell’unica Chiesa credibile, quella che
“soffre, combatte e prega”. E infatti il libro è gremito di riferimenti al Vangelo, che tutto riesce a
spiegare, che ogni evento semplifica o rende comprensibile. E l’autore, a seconda dei casi,
compatisce (cioè soffre insieme agli altri), combatte per la verità, assume le tappe del suo viaggio e
le pagine del libro come una preghiera che si leva a Dio dalle fragilità e dalle grandezze degli esseri
umani.
Con questa prospettiva, Tommaso Cariati ci propone il macrocosmo del nostro Paese, che si
spalanca nella sua trama intessuta di storia, di cultura, di tradizioni e di modernità: come un grande
affresco, in cui ogni regione contribuisce col suo colore, acceso o tenue, secondo i casi, ad un
insieme che risulta d’incancellabile bellezza. È il Belpaese, insomma, da amare ed ammirare nello
splendore dei paesaggi e delle città, da comprendere nelle contraddizioni e anche negli stridori della
vita quotidiana. Tommaso dà l’impressione di appartenere alla schiera degli italiani che sono fieri
della propria storia, della loro koinè di lingua e di cultura. Ma intendiamoci: nel “Viaggio” non
esistono tracce di idealizzazione o di rimpianto.
Cariati ha una struttura mentale pragmatica, che gli impedisce di essere laudator temporis acti.
Anche quando le sue riflessioni si fanno impietose o esprimono una forte delusione storica, egli non
si chiude nell’indignazione sterile che sembra ormai permeare tanti strati della nostra società. E se
in certi casi non trova risposte, rinuncia all’utopia, non al sogno, non alla speranza. Glielo
suggeriscono la fede e come ho detto, la sua stessa struttura mentale.
Il “Viaggio” comincia dalla Sicilia per un motivo geografico: si sviluppa infatti da Sud fino
all’estremo Nord. E all’autore del libro, che è anche il viaggiatore-pellegrino, si presenta subito una
terra complessa, contraddittoria, indefinibile. Certo la più sfuggente fra le regioni italiane, e quindi
la più esemplare e significativa di quell’ossimoro culturale ed antropologico che è l’Italia. Terra di
meravigliosa bellezza, la Sicilia, variegata nei paesaggi: con una natura brulla ed arsa in certe zone,
lussureggiante in altre, quasi una metafora del perenne fluttuare fra vita e morte che da sempre
attraversa la sicilianità, anzi la sicilitudine. Terra ricca di storia, crogiolo di razze e di popoli
diversissimi fra loro, che hanno determinato un DNA singolare e misterioso, con una vocazione alla
filosofia, all’arte, alla cultura assolutamente senza eguali, non soltanto in Italia. Si pensi solo al fatto
che oltre la metà degli scrittori italiani contemporanei sono siciliani, e si avrà un’idea dell’incidenza
di questa terra anche sull’attuale panorama della nostra letteratura. Ma la sicilianità non ha solo il
culto della Bellezza, ancorché intrisa di nostalgia e di inquietudine. Per contrasto, aspro e violento,
ha al suo interno una storia mai interrotta di ingiustizie, di sopraffazioni, di tragedie individuali e
sociali che chiamano in causa il Potere. E proprio il Potere è il Brutto, per Tommaso, l’oltraggio
perpetrato ai danni della Bellezza; il Brutto nelle sue forme varie e miserande. L’autore lo
rappresenta con tocchi rapidi, affidandosi alla forza disarmante della parola non urlata e ad una
scrittura quasi sempre paratattica, la cui chiarezza obbedisce senza tentennamenti alla lucidità delle
idee. Per altro la rapidità delle notazioni non è solo il segno di un’evidente propensione alla sintesi:
Tommaso non indugia più di tanto sui fatti narrati, su cose e nomi, perché avverte l’insidia di
muoversi sul terreno dell’ovvio, di incorrere in quegli stereotipi su cui tanti saggisti amano invece
esercitarsi. E la sua intenzione di sottrarsi all’ovvietà si atteggia in taluni giudizi, netti ed inequivoci
che potremmo definire “controcorrente”, se il termine non fosse abusato. Di Dacia Maraini, ad
esempio, dice che ha una “scrittura perfetta, ottima per educande”. E più in là quando accenna agli
esponenti della cosiddetta “scuola romana” e cita alcuni versi di Magrelli, incomprensibili e
involontariamente comici, l’autore ci dice che “questi benedetti poeti non ci sono di grande aiuto:
ne sono tanto bisognosi loro”.
Bene, abbiamo parlato dell’esemplarità della Sicilia. L’isola sembra infatti concentrare su di sé i
chiaroscuri che ogni regione italiana presenta, in varia misura e con peculiarità differenti.
Ed ecco, a proposito dei chiaroscuri, alcuni titoli introduttivi: “Calabria citeriore, terra dai mille
volti”; “Campania felix, Campania infelix”; “Emilia Romagna, dove si armonizzano gli opposti”.
Tommaso le percorre tutte, le nostre regioni, si potrebbe dire palmo a palmo, rammentandone le
storie e i tratti salienti con l’approccio che abbiamo definito. Un approccio che fa tuttavia registrare
una deroga, precisamente quando lo scrittore-pellegrino compie il viaggio in Umbria. Già il titolo
del capitolo dedicato alla regione (“Umbria, cuore vivo d’Italia”) lascia intuire la redundantia
cordis dell’autore, ce ne offre un ritratto quasi a tutto tondo, giustificando il titolo stesso con una
serie di ragioni significative e talora persuasive. La più pregnante riguarda la “fede genuina e spesso
eroica della sua gente”, la religiosità venata di misticismo e vissuta da personaggi che devono
considerarsi fra i più grandi della storia. L’empatia dell’autore diviene a tratti medesimezza con
questo lembo d’Italia, specie là dove egli ci dice che il passato (quello di Francesco, di Chiara, di
Benedetto) si proietta ancora nel presente, consegnando intatti i luoghi in cui “uomini e donne del
nostro tempo, affaticati e oppressi, scelgono, secondo l’invito del Vangelo, di ritirarsi ogni tanto per
«sedersi in disparte e riposarsi un po’»”. Ed è proprio tale empatia a proporci la spiritualità
dell’Umbria come una sorta di “dover essere” per tutti noi, e la regione come un’isola felice dove,
per servirci ancora del Nuovo Testamento, la plenitudo temporis è prefigurata e quasi a portata di
mano.
Ha scritto Seganen nel suo “Saggio sull’esotismo”: “Si è fatto, come sempre, un viaggio lontano /
da ciò che altro non era che un viaggio al fondo / nuovo di se stessi”. Ecco, Tommaso non si reca
certo in terre remote o favolose, ma nel suo “Viaggio” attua a volte una singolare forma di
esotismo, nel senso che molte cose, visitate e descritte, sono “altro” rispetto al suo vissuto. Ma il
senso dell’alterità, vorrei dire l’amore per l’alterità, fa parte del mondo interiore di Tommaso ed
attiva, come nel caso dell’Umbria, il senso dell’appartenenza.
Tommaso Cariati è comunque calabrese, pienamente calabrese. Alla Calabria lo legano
l’appartenenza territoriale e antropologica ed un amore senza condizioni. In Calabria egli è
cresciuto, si è strutturato, ha operato, nel lavoro e in molteplici attività culturali. E tuttavia questo
suo amore non fa velo allo scrittore del “Viaggio”. Il racconto della regione non si impone sugli atri
per ampiezza, per dovizia di particolari, per pathos narrativo. Lo sguardo di chi osserva, medita e
scrive è, come sempre, sospeso fra distacco e partecipazione. Le notizie fornite sono, come al solito,
perfettamente documentate, le conoscenze variano dalla storia alla geografia alla lingua alla
fonetica, con una sicurezza che proviene da studi rigorosi ed appassionati. Sopra ogni cosa,
mancano segni di lamentosità meridionalistica, e il meridionalismo che vi compare è sempre vigile,
teso ad un impegno concreto. E così non compaiono vacue rivendicazioni dell’orgoglio delle
proprie radici o accuse, rivolte ai politici, di aver dimenticato la Calabria. In questa regione che,
come è stato detto, “è più isolata della Sicilia, che però è un’isola”, si sono consumati sprechi
d’ogni genere, iniquità inaccettabili, e pochi hanno avuto il coraggio di non attribuire solo
all’“altro” le responsabilità del degrado. In questo senso (ma non soltanto in questo senso) si deve
dire che Tommaso Cariati è un calabrese d’eccezione. Non è un ingegnere che si diletta di
letteratura o – cosa di per sé lusinghiera – “un poeta prestato all’ingegneria”. Più propriamente, ai
nostri occhi egli è riuscito a incarnare il sogno di un filosofo calabrese, studioso di J. Dewey, che
tanti anni fa intitolò “Per un umanesimo scientifico” un suo libro. Con Tommaso, in Tommaso, la
scienza si salda con il patrimonio delle humanae literae e testimonia un profilo culturale non nuovo,
ma oggi indispensabile: quello dell’“uomo integrale”. Tommaso lo fa con i suoi scritti e con
l’interezza della sua persona, che conosce la fecondità della solitudine e sa metterla al servizio degli
altri. Con passione, ma soprattutto con umiltà, che è dote rara nella società attuale e praticamente
sconosciuta negli ambienti in cui egli opera.
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