Il Cammino della Filosofia

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Hans-Georg Gadamer
Il Neokantismo
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Il rinnovamento della metafisica
La natura e la conoscenza
Un viaggio verso l'ignoto
Scienza e sapere pratico
Non più sogni metafisici
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La memoria
Tornare a Kant
Il sovrano di Marburgo
Il valore dei valori
Il fatto storico
L’Idealismo tedesco è al centro delle riflessioni che stiamo svolgendo; si deve sempre tener presente il significato che
esso assume nella storia europea e nella vicenda della filosofia. Non si tratta semplicemente di una serie di grandi
classici del pensiero che vengono a deporre la loro testimonianza sull’irraggiungibilità della verità. In un certo senso,
questo è il tratto distintivo della filosofia: formulare domande alle quali nessuno mai potrà dare una risposta definitiva;
ciò resta invece un privilegio della religione, almeno per i credenti. Per i filosofi non c’è una forma di dogmatismo della
ragione. La grande innovazione, cui diamo il nome di epoca moderna, sta nel fatto che le scienze divengono
consapevoli delle loro limitazioni, e intendono sfruttare la forza della propria volontà per imparare a comprendere e a
controllare la realtà, rimanendo nei limiti delle capacità umane di dominio della natura. È significativo che il grande
pensatore con cui inizia l’età moderna (e che si è confrontato con il carattere innovativo delle scienze sperimentali,
nonché con la fisica e la cosmologia fondate sulla matematica - cioè Cartesio) abbia dato alla luce il celebre Trattato sul
metodo, che inaugura un nuovo concetto del sapere, ispirato alla certezza: meglio una conoscenza limitata, ma esatta e
certa, piuttosto che vaghe supposizioni e teorie immaginifiche sull’universo, sull’origine delle acque e della terraferma e
su tutto ciò che il libro della Genesi e la tradizione mitica dei popoli presumono di sapere in merito. Ecco: “metodo” è la
nuova parola magica dei moderni; e con essa è subito posta anche l’irraggiungibilità di ciò che sfugge agli strumenti del
metodo, e che costituisce appunto il limite di ogni misurazione. Secondo me non è un caso che il grande pensatore che
ha formulato per la prima volta in modo radicale questo concetto, abbia poi scritto le Meditationes de prima
philosophia, cioè considerazioni sulla metafisica (e sul significato che questa ha avuto a partire dai Greci), ovvero sulla
natura, il cielo, l’anima umana, gli animali e le piante (questa totalità ordinata insomma, nella quale l’uomo si trova a
vivere, e la cui esperienza si riassume in un’immagine complessiva del mondo). Le moderne scienze sperimentali si
confrontano da un lato con il loro nuovo oggetto limitato, e dall’altro con un orizzonte illimitato di progresso ed
espansione delle possibilità di conoscenza. L’essenza del progresso trova espressione in un termine (così come tutte le
nostre conoscenze si sedimentano in forme del linguaggio): nell’epoca moderna si parla non tanto di “scienza” (cioè di
verità possedute) bensì, appunto, di “ricerca”. Questa è la nuova parola magica, che si impone nei decenni a cavallo fra
il Settecento e l’Ottocento, cioè nel periodo che va da Kant a Hegel.
Il nocciolo della Critica della ragion pura sembra essere il fatto che la pura ragione (ossia quella ragione che si affida
solo alle proprie forze spirituali, prescindendo dalle accidentalità dell’esperienza) possieda qualcosa di quella certezza,
di quella rigorosa chiarezza e apprendibilità che i Greci chiamarono: mathematikà, “matematica”. D’altro canto, la
filosofia non può parlare del reale con la certezza della matematica: questa è la nuova situazione, grazie alla quale ha
guadagnato popolarità il concetto di “ricerca”. Tale espressione deve la sua notorietà alle grandi esplorazioni, ai
cosiddetti “viaggi di ricerca”, come la circumnavigazione del misterioso continente africano o le prime rotte verso il
Polo Nord, e tutti gli altri viaggi avventurosi alla scoperta dell’ignoto.
L’epoca in cui ora ci troviamo, alla fine della grande tradizione della metafisica, è contrassegnata dall’opera kantiana.
Lo stesso Kant ammise che David Hume lo avrebbe “svegliato dal sonno dogmatico”; si tratta di una celebre
espressione, che allude al particolare peso assunto nel suo caso dal dogmatismo; è come se egli avesse dormito di fronte
al fatto che le nuove scienze non permettono più di conoscere il mondo affidandosi solo alla pura ragione, e che si deve
essere scettici nei confronti di quei pensieri che non si fondano sull’esperienza. La Critica della ragion pura è stata
commentata da un neokantiano, di cui parleremo fra poco, Hermann Cohen. Egli inizia dalla bella frase introduttiva alla
prima Critica kantiana: “l’esperienza è senza alcun dubbio la base di tutto il sapere”. Molto brillantemente Cohen ha
commentato: “è come quando un predicatore inizia il suo sermone con la parola “però””.… Il sonno dogmatico della
metafisica è stato dunque interrotto, e senza dubbio un ruolo importante in tal senso non è toccato solo a Hume (la cui
esortazione ha risvegliato Kant al pensiero scettico-critico, facendogli compiere una riflessione filosofica sulla nuova
epoca) bensì, appunto, allo stesso Kant, che tentò una conciliazione fra la grande eredità spirituale del mondo greco (e
di quello cristiano-medioevale) e le moderne scienze sperimentali, riguardanti gli oggetti “dati” nello spazio e nel tempo
(e quindi misurabili e determinabili), il cui ordine appartiene a un mondo del tutto fenomenico e calcolabile. Questa è la
mediazione compiuta da Kant nell’epoca moderna.
IL RINNOVAMENTO DELLA METAFISICA
Se si comprende pienamente tutto ciò, si coglierà l’incredibile audacia – per non dire temerarietà – dell’Idealismo
tedesco nell’affermare: “no, no! Lo spazio, il tempo e i dati dell’esperienza sono esclusiva espressione della nostra
attività spirituale; siamo noi a porre queste cose; esse sono i nostri strumenti spirituali di dominio del mondo,
esattamente come tutti gli altri pensieri”. Questo fu effettivamente l’inizio della filosofia dell’Idealismo tedesco. Lo
spazio, il tempo e i dati sensibili non devono più essere considerati come un ceppo della conoscenza, in quanto essi
fanno parte dell’autoesplicazione della coscienza e dell’autocoscienza. È stato Fichte il primo a compiere questo passo;
in tale direzione si è mosso anche Schelling (come abbiamo visto), accentuando però il ruolo della natura, intesa come
fondamento tanto della libertà che dell’autocoscienza. Tutto ciò si riassume nell’espressione “movimento tedesco”,
coniata da Dilthey e poi diffusa in tutto il mondo. Senza dubbio, si tratta in un certo senso di quella che potremmo
chiamare un’ardita ricaduta nella metafisica. Del resto la Logica hegeliana inizia affermando che una “nazione senza
metafisica è come un tempio senza altare”.… È una sorta di rinnovamento della metafisica, quello tentato
dall’Idealismo tedesco. Pertanto è chiaro che, laddove si esca dalla soglia ricostituita dall’Idealismo tedesco con il
sistema esposto nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche, il concetto di esperienza torna ad avere un ruolo dominante.
LA NATURA E LA CONOSCENZA
Chiunque sappia, anche solo un poco, di filosofia ricorderà immediatamente le famose espressioni kantiane, secondo le
quali ciò che sappiamo fin da principio, per mezzo del puro pensiero, è “a priori”,… cioè è indipendente da ogni
successiva esperienza: non è necessario contare tutti gli oggetti per stabilire che “due più due fa sempre quattro”; questo
è evidente a priori. L’esperienza, invece, è la conoscenza “a posteriori”; dunque ci chiediamo: “come è possibile – in
quest’ottica delle scienze empiriche, cioè delle scienze fondate sull’esperienza – acquisire propriamente conoscenza?”
La soluzione kantiana è questa: la conoscenza sensibile a posteriori viene mediata dalle categorie a priori dell’intelletto;
sulla base del presupposto che noi abbiamo già una conoscenza a priori quando vogliamo osservare e spiegare la natura;
in natura non accadono miracoli: ogni cosa ha la sua causa; altra questione è se poi noi la conosciamo davvero; per
conoscere le cause è sempre necessaria la “ricerca scientifica” e non si potranno mai accettare affermazioni del tipo:
“no! No! C’è una forza sovrannaturale che interviene nella natura”. Natura significa soltanto questo: il possibile oggetto
della ricerca e della spiegazione scientifica. Dev’essere chiaro che ora stiamo entrando nell’età che (come ho già detto)
inaugura una svolta epocale a partire dalla morte di Hegel e di Goethe. La questione è: se tutto il nostro sapere sia una
lenta accumulazione di esperienze, o se ci siano elementi a priori, strumenti concettuali dell’intelletto che, in
connessione con l’esperienza, possano svolgere una funzione ordinatrice: è un grande interrogativo, caratterizzato dal
conflitto e dall’opposizione fra l’empirismo e il cosiddetto “apriorismo”,… un problema che ha dominato il 19º secolo e
che rimane tuttora attuale. Anche i fisici contemporanei, quando parlano del “valore statistico” e del “valore
affermativo” delle leggi naturali, non intendono dire che in natura accadano miracoli. Anche il fisico si basa sulla legge
di causalità, supponendo che ogni cosa abbia la propria causa; (anche laddove si tratti di cause non accertabili con quei
procedimenti di misurazione che hanno finora permesso di rappresentare l’ordine causale dell’esperienza). La fisica dei
quanti ha insegnato che l’idea di una misurazione che non perturbi l’oggetto da misurare, è un’illusione: si genera uno
squilibrio di forze, laddove si cerchi di misurare un atomo. Questa breve anticipazione degli sviluppi più moderni della
fisica serve soltanto a illustrare la grande attualità della soluzione kantiana, per cui il concetto di causalità si connette
sempre a quello di esperienza; perciò, non è possibile affermare, come qualcuno fece quando la fisica quantistica
inaugurò una nuova fase con le teorie del Circolo di Copenhagen:… “ah! Adesso spiegheremo la libertà; adesso
potremo spiegare tutto ciò che finora è rimasto per noi inspiegabile”. Non potremo mai andare al di là di questo limite:
l’oggetto della nostra conoscenza è sempre sottoposto a un’articolazione categoriale che ci è offerta dal nostro intelletto.
UN VIAGGIO VERSO L’IGNOTO
Questa breve introduzione mi è sembrata necessaria per poter fare il punto su tutto quello che è accaduto nel corso del
19º secolo. Ho già sottolineato un aspetto ormai evidente, che cioè le moderne scienze sperimentali hanno dovuto
lentamente affermarsi lottando contro la tradizione della filosofia antica e medioevale, e contro le concezioni di tipo
scolastico. Il primo a inserire la prospettiva scientifica e di ricerca nell’educazione accademica e nelle scuole in Europa
è stato Wilhelm von Humboldt, con il suo famoso progetto dell’“università di ricerca”, secondo il quale lo studio e
l’insegnamento devono rappresentare un’unità indissolubile. Rimane ancora una questione aperta, e cioè fino a che
punto sia solo un pio desiderio valutare le nostre università in base a questo obiettivo; ci si chiede ancora se non sia
ormai necessario separare l’attività di ricerca dalla didattica, o se non sia, invece, tutt’ora giusto, pur con tutti i vizi e gli
errori di questo sistema, far rientrare il ruolo del ricercatore in quello dell’insegnante. Io stesso non riesco a immaginare
un filosofo che possa insegnare sensatamente e con successo credendo di sapere già ciò di cui parla. Il suo dev’essere un
viaggio verso l’ignoto, come quello dell’esploratore che intende raggiungere il cuore dell’Africa o il Polo Nord, deciso
a lasciare problemi aperti e a dischiudere nuovi orizzonti. Mi sembra in ogni caso importante riflettere su questo punto:
in effetti, i grandi pensatori si sono sempre più inseriti nella ricerca universitaria e nell’ambiente della indagine
scientifica, nel nostro mondo culturale. Da Kant a Hegel sono diventati tutti professori, proprio con questo nuovo
pathos. Humboldt ha poi dato vita a un’università che per un certo periodo è stata il modello della vita universitaria, non
solo in Germania, ma nel mondo intero. L’università tedesca è stata imitata da molti e adattata alle situazioni dei diversi
Paesi; non bisogna, infatti, applicare schematicamente un modello. Anche per noi la formazione, la didattica, ha costi
elevati, se pensiamo ai problemi sopraggiunti da quando le moderne democrazie hanno reso necessaria la diffusione su
vasta scala dell’insegnamento superiore e della formazione scientifica: le nostre università, e quelle di tutti i Paesi
industrialmente sviluppati, pullulano oltre misura di studenti.
Tutti conosciamo i problemi, e avvertiamo le esigenze dei giovani, messi nella situazione di sentirsi all’improvviso
come tanti granelli di sabbia, vedendo svanire la propria dignità di studenti. Mi ricordo che quando andai a studiare a
Marburgo si raccontava che il tremillesimo iscritto avrebbe ricevuto dall’amministrazione della città un orologio d’oro.
Oggi dovremmo dare un orologio a tanti “tremillesimi” fra gli studenti di Marburgo, che sono diventati ormai 50.000.
Nelle nostre grandi università – non parlo nemmeno di Roma, di Monaco, Berlino, o delle grandi strutture americane –
questa situazione ha avuto, chiaramente, effetti molto destabilizzanti sui giovani, ha inciso negativamente sull’esistenza,
sulla coscienza sociale e sull’ottimismo, che è andato scemando. Rammento questi problemi solo per dire che, anche se
niente è definitivo, non si trova ancora il modo di far andare di pari passo le nuove istanze della Rivoluzione industriale
e della formazione tecnica con un ordinamento umano e sociale in cui si possa vivere bene e a proprio agio. Questi sono
i compiti del futuro. Guardando agli ultimi due secoli, si comprende come la situazione critica di oggi si sia lentamente
delineata nel tempo.
SCIENZA E SAPERE PRATICO
È chiaro che, se ci troviamo di fronte a un tale compito, questo è il segno più evidente del fatto che noi pensiamo a
partire dalla scienza, e non da qualcosa di ignoto. “Siamo consapevoli di quali siano i confini del “metodo” e sappiamo
che, al di là di questi limiti, non è più possibile il sapere”. Ma è sufficiente una riflessione semplice e imparziale per
rendersi conto che questa è una conclusione troppo a buon mercato. Ci deve essere un sapere che la scienza non può
sostituire: la vita non è fatta in modo che possiamo esistere e prendere le nostre decisioni senza bisogno di
orientamento, ricorrendo solo alla ragione. Esiste un “sapere pratico”, una coscienza politica e sociale: e quindi non è
solo l’esperto o il potere legislativo, incarnato dal parlamento, a decidere di volta in volta ciò che si deve fare o non
fare. Direi dunque che esiste almeno un’articolazione di fondo del nostro sapere: da un lato c’è la scienza, con tutte le
leggi che regolano il progresso della ricerca, la sua differenziazione, il controllo e le direttive. Dall’altro c’è un sapere a
cui ciascuno necessariamente ricorre per prendere le proprie decisioni. Non si può sempre consultare gli esperti, quando
si tratta di decidere. Ci dev’essere in noi una forza che dobbiamo ammaestrare, e che è sempre esistita, anche prima che
ci fosse la scienza moderna (con la sua infallibile autorità). Pertanto, la prima fondamentale distinzione che vorrei
operare è fra “scienza” e “sapere pratico”; l’altra suddivisione – non meno importante, e che intendo ulteriormente
precisare nella sua portata filosofica – è quella fra le “scienze della natura”, che procedono misurando, e le cosiddette
“scienze umane”, che in Germania chiamiamo, per motivi che vedremo in seguito, “scienze dello spirito”. Fra questi
due tipi di scienza c’è naturalmente una notevole diversità, di cui sarà necessario dar conto.
29:18 C’è un cambio di inquadratura, che però non interrompe il parlato.
NON PIÙ SOGNI METAFISICI
Sono due i concetti che hanno dominato la vita della filosofia nei decenni e nei secoli successivi a Kant: uno è espresso
da una terminologia nuova che, pur esistendo da tempo, si è affermata solo quando le scienze sperimentali (e non
soltanto queste, ma anche le “scienze dello spirito”) trovarono spazio nel mondo accademico; si tratta dell’espressione:
“teoria della conoscenza” (“epistemology”, in inglese). Quando da studente frequentai per la prima volta un corso di
filosofia, sentii pronunciare una frase con lo stesso pathos di una predica in chiesa: “Teoria della conoscenza!…
L’intera filosofia scientifica inizia con la teoria della conoscenza. Amen!” (Più o meno così). Di che cosa si tratta, e
perché? È evidente che questo concetto di sapere, che le scienze hanno sviluppato grazie alla nozione di metodo
(applicando l’esperimento e la misurazione), non poteva che attrarre su di sè in primo luogo l’attenzione della
filosofia:… non più sogni metafisici, non più ideali di salvezza o immagini angosciose di sventura, bensì soltanto ciò
che – grazie alla scienza – si può considerare come conoscenza certa e acquisita. Ho già accennato al fatto che “la
scienza moderna” non può essere compresa utilizzando vecchi concetti; ed è per questo che si è affermata la nozione di
“ricerca”, di “indagine”, che poi nel nostro secolo è stata universalmente riconosciuta in una formulazione molto
semplice, ma assai efficace: il nostro processo conoscitivo procede per “trial and error”; quando un tentativo fallisce…
se ne fa uno di nuovo. Si tratta di una verità di tipo pragmatico, sostenuta, nel nostro secolo, soprattutto da Popper.
La teoria della conoscenza si trova di fronte alla domanda: quali caratteristiche ha la nostra conoscenza? L’empirismo,
ovvero la tradizione che proviene da Hume, ha lasciato per così dire il suo segno nella filosofia trascendentale. Si
racconta che a Marburgo (nella “scuola di Marburgo””) quando Hermann Cohen arrivò a parlare del pensiero di Hume,
affermò: “La causalità è ciò che costui chiama consuetudine!”… Consuetudine, abitudine, il susseguirsi di cose che si
ripetono sempre allo stesso modo. Invece noi chiamiamo “causa” ciò cui seguono sempre gli stessi effetti. È
un’affermazione che viene ribadita con alterigia e anche con la superiorità critica di uno spirito che conosce con
esattezza le cose e dichiara: “No! La conoscenza, come la intendiamo noi, non sarebbe affatto possibile senza il
presupposto della causalità, del rapporto causa-effetto; in natura ci sono le cause e gli effetti, e non accadono miracoli”.
LA MEMORIA
Si può dunque pensare la teoria della conoscenza anche partendo da presupposti empiristici. In seguito si è anche
sviluppata una sorta di logica, denominata “logica dell’induzione”. Il termine “induzione” deriva dal greco: è la
traduzione dell’espressione greca epagoghè, ma viene utilizzata in un senso molto diverso, anche se l’orizzonte comune
con l’accezione greca è chiaro: come accade che gli uomini siano in grado di sapere? È evidente, in primo luogo, che
essi hanno impressioni sensoriali, e, in second’ordine, che hanno la possibilità di fissarle. Questa capacità si chiama
“memoria”, “memoria”; A ciò si aggiunge che essi sono capaci di generalizzare, pervenendo a una grande quantità di
esperienze, dalle quali vengono ricavate “regole generali” (o qualunque altro nome si voglia dar loro: “leggi”, “norme”,
o altro ancora); in ogni caso vengono ricavati princìpi universali, la cui validità si fonda appunto su questo processo di
inferenza induttiva. L’“induzione” è appunto un’“inferenza logica”. Ma se questa è una teoria della conoscenza, allora
essa rientra immediatamente nell’ambito della psicologia. Ho qui descritto il modo in cui, dalle prime esperienze –
grazie alla memoria e alla generalizzazione, al processo di universalizzazione – si giunge infine alla conoscenza. Si è
persino tentato di intendere la logica e la matematica come il frutto di processi psicologici. L’apprendimento dei numeri
o il principio di contraddizione sono stati considerati il risultato di una lunga consuetudine. Si è visto che quando si cade
in contraddizione c’è qualcosa che non funziona. C’è dunque un principio di economia del pensiero che fa dire: laddove
nascono contraddizioni, bisogna rivedere i presupposti. Ma è proprio tutto qui? Ecco, nel bel mezzo di queste
considerazioni sul lavoro scientifico, emerge il “ritorno a Kant”. Alla metà dell’Ottocento fu pubblicato un libro che lo
annunciava; ma di solito gli slogan vengono formulati quando i tempi sono già maturi.
TORNARE A KANT
Ho parlato di uno slogan: le cosiddette proclamazioni ufficiali solitamente arrivano in ritardo rispetto alle idee decisive:
ciò vale anche per un libro che ha avuto una certa risonanza, anche se non era particolarmente importante; esso contiene
la critica all’intero Idealismo tedesco, e il programma di un “ritorno a Kant”. Otto Liebmann fece questo annuncio dopo
la metà dell’Ottocento, esprimendo così già l’atmosfera di quell’epoca. È vero: la metafisica dell’Idealismo tedesco non
è molto sostenibile, ma questo non significa che tutto derivi dall’abitudine o dall’accumulazione psicologica; ci sono
anche le strutture a priori. In questo contesto è nata anche l’espressione “teoria della conoscenza”. Il grande fisico e
oftalmologo Hermann Helmholtz, uno dei più grandi scienziati dell’Ottocento, è stato il primo a riconoscere –
nonostante il clima empiristico di quel tempo – che il concetto di causa è il fondamento di tutta la conoscenza. Esso non
è un “dato” dell’esperienza, bensì deve sempre essere presupposto, fin dall’inizio, altrimenti non è possibile fare alcuna
esperienza.… Hermann Helmholtz era a quel tempo professore a Heidelberg, e successivamente a Berlino; la cattedra
vacante di Heidelberg fu assegnata a un grande esperto di filosofia greca: Eduard Zeller, il quale tenne in quella città la
sua prolusione sul concetto di “teoria della conoscenza”; da allora è entrata in voga questa terminologia. Perciò, “teoria
della conoscenza” è sempre sinonimo di “kantismo”. Quest’ultimo afferma che non si deve parlare di psicologia della
conoscenza, bensì di quei presupposti che hanno valore ancor prima di ogni conoscenza psicologica, come ad esempio il
concetto di causalità.… Tutto ciò è ovviamente rilevante per la nostra mentalità scientifica nel suo complesso, e
vedremo subito che ha influito anche sugli altri aspetti della nostra tradizione culturale, rappresentati dall’arte e dalla
storia; ad esempio, la “scienza giuridica” ha conosciuto un capovolgimento decisivo: non si parla più, infatti, di
“giurisprudenza” – cioè di una consuetudine di studio orientata a reperire ciò che è più importante e più giusto nel
“giudizio” [giudizio] – si tratta infatti di una vera e propria “scienza”. A quel tempo il concetto di “giurisprudenza” fu
sostituito con quello di “scienza del diritto”. E così è stato per tutti gli altri ambiti: a eccezione della Francia, dove ad
esempio ancora per molto tempo le “scienze dello spirito” vengono chiamate “les belles lettres”, la “letteratura”!
IL SOVRANO DI MARBURGO
In ogni caso, è chiaro che, con la nascita di questo concetto (e con il ritorno dell’apriori nella considerazione scientifica
e nella teoria della scienza, vittoriosamente attuato da Helmholtz e da Eduard Zeller) fu compiuto un passo davvero
decisivo, che ebbe ben presto una vasta risonanza. Quando, nel 1918, nell’ultimo anno di guerra, giunsi all’università (e
fra l’altro frequentai anche le lezioni di filosofia) era del tutto ovvio che vi insegnasse un neokantiano: quello era in
realtà l’unico indirizzo filosofico rappresentato.
“Neokantismo” è un’espressione che vuole esplicitamente indicare la mediazione fra Kant e le scienze sperimentali. Il
principio supremo della filosofia neokantiana è il seguente: “dobbiamo imparare a comprendere e giustificare il “fatto”
della scienza; dobbiamo dire: “il presupposto inconfutabile, l’unico che consenta di pensare la verità, è che tutto il resto
deriva dal ‘fatto’ della scienza””. Ecco che cosa si asseriva, soprattutto a Marburgo. Che ciò avvenisse proprio a
Marburgo, peraltro, è un caso – o forse non è del tutto un caso, ma proprio la conseguenza di una determinata situazione
– il fatto, cioè, che la corrente dominante nel pensiero neokantiano era la cosiddetta “Scuola di Marburgo”, il cui
fondatore, Hermann Cohen, dal 1870 circa, grazie a una nuova interpretazione della filosofia di Kant, aveva riportato in
auge il concetto di apriori, rivalutandolo con grande autorità. Egli si era occupato anche di Platone, al quale dedicò
significativi e stimolanti saggi giovanili. Il suo collega e collaboratore a Marburgo, il mio primo professore, Paul
Natorp, pubblicò un libro assai fortunato, in cui considerava Platone come un precursore di Kant. È certamente un po’
esagerato interpretare tutta la filosofia greca e quella successiva solo come una preparazione al pensiero kantiano, come
se tutto questo avesse predisposto il compromesso kantiano fra le scienze sperimentali e la metafisica (fondato sul
concetto di libertà umana, e non sulle scienze empiriche); è un proposito davvero difficile, ma la Scuola di Marburgo vi
si è cimentata; essa ha anche cercato di mostrare non solo che i numeri sono datità a priori (cioè formati a partire dalla
pura ragione), ma che la stessa teoria dei numeri può essere utilizzata per spiegare la conoscenza della natura. In effetti,
c’è un modo per poter stabilire con mezzi matematici ciò che non è immediatamente evidente, ossia il prodigio del
movimento. Ciò che è fermo e immobile può essere misurato (è chiaro) ma come si può misurare il movimento? In
matematica è possibile grazie all’idea di numero-limite, altrimenti detto “numero infinitesimale”. Hermann Cohen
pubblicò la sua opera scientifica più significativa con il titolo Sul metodo infinitesimale, con la quale ha mostrato che in
questo orizzonte viene raggiunto un “punto di realtà”, in cui tutti i pensieri sono immediatamente uniti, e tutti gli
accertamenti metodologici confluiscono nel dominio di un unico processo. Con il metodo dei numeri infinitesimali si
possono calcolare movimenti. Tutta la matematica odierna, applicata alla fisica, si basa su questa conquista che si
andava preparando già da tempo, ma che solo nella filosofia neokantiana – a partire da Hermann Cohen e dai suoi
collaboratori – venne presentata come la giustificazione del tentativo kantiano di mediare fra “a priori” e “a posteriori”.
IL VALORE DEI VALORI
Il mio maestro, Paul Natorp, ha ulteriormente completato l’opera di Cohen, sottraendo anche la psicologia dalle mani
degli empiristi. Egli ha mostrato che anche nel concetto di psicologia c’è qualcosa di irriducibile al risultato
dell’esperienza, e che anzi è condizione della stessa esperienza scientifica in quanto tale. In questo campo egli ha
tracciato la differenza fra “coscienza” e “consapevolezza”, giungendo a risultati fecondi nella sua Psicologia generale,
le cui idee hanno preparato un’ulteriore grande evoluzione, compiuta dalla Scuola fenomenologica. Questa è una
prospettiva che per il momento posso solo limitarmi a richiamare. È chiaro, infatti, che nell’epoca dominata dal
Neokantismo la massima urgenza spettava a un’altra questione: in che rapporto sta l’intera tradizione culturale
metafisica, rispetto a quelle scienze che non sono scienze naturali? In che senso possiamo dire che queste cose sono
comprensibili ricorrendo agli strumenti della filosofia kantiana, come la sintesi a priori e i giudizi analitici? Questa è la
seconda tematica, cui dobbiamo dedicarci: “scienze della natura e scienze dello spirito”. Ha senso parlare di “scienze
dello spirito”, cioè discipline concernenti forme non rinvenibili nello spazio e nel tempo e non determinabili con gli
strumenti di misurazione? Possiamo dire che esse possiedano un valore di verità? Questa problematica ha attecchito ed
è maturata anche nel movimento neokantiano, sotto forma di “Filosofia dei valori”… soprattutto grazie ad alcuni grandi
pensatori, che hanno denunciato la parzialità di una teoria della conoscenza rivolta solo alla natura e alla sua
conoscibilità, sulla falsariga di Kant (in virtù della cooperazione dell’esperienza con le forme categoriali dell’intelletto).
La nostra potenzialità conoscitiva non si esaurisce nella sola natura. Ma come possiamo realmente isolare tale
ulteriorità? In quest’ottica è stata avanzata un’istanza, che è poi risultata vincente, e nella quale sopravvive una feconda
eredità di Hegel e dell’Idealismo tedesco, ossia il rifiuto “speculativo” della pretesa assolutezza del metodo della
verifica sperimentale e della controllabilità. Un allievo di Hermann Lotze cercò di avvicinare le scienze dello spirito al
loro nuovo oggetto, certificando così il concetto di “valore”. Hermann Lotze fu il primo a isolare la nozione di “valore”
in quanto tale. Senza dubbio, si tratta di un’espressione ricavata dal mondo economico (questo è un fatto assodato): il
valore equivale al prezzo, è qualcosa per cui si paga. Ma la novità è che si parla di valori (non del valore). Noi diciamo:
“si paga qualsiasi prezzo per una cosa di valore”. Qui “valore” è però al singolare; i prezzi possono essere molti; ma il
valore?… Nel mondo spirituale ci sono “valori”. Questo concetto ha assunto un ruolo così centrale da dominare, al
giorno d’oggi, non solo l’economia, ma anche tutte le scienze sociali e tutto ciò che ha a che fare con la storia: esso è
ormai diventato familiare ovunque, proprio nella sua forma plurale, in cui indica certe “datità”, quasi alla stregua di quei
dati empirici con cui la scienza della natura elabora i propri criteri di misurazione. La “datità” è implicita laddove si
parla di “coscienza dei valori”, cioè di certezza della diversità dei valori. Anche nel pensiero di Nietzsche incontriamo
la pluralità dei valori, soprattutto laddove egli parla di “trasvalutazione di tutti i valori”. In ogni caso, la nozione di
valore merita un esame particolare, con cui si dovrebbe stabilire fino a che punto essa sia in grado di assumersi l’intera
eredità del sapere umano (per quanto attiene alle tradizioni spirituali) o se invece non implichi una dipendenza così forte
dal modello della conoscenza scientifico-naturale da ridurre e sminuire ciò che per la scienza viene considerato
conoscibile.
IL FATTO STORICO
Su questo problema vorrei soffermarmi un po’ più diffusamente. Dopo la formulazione di Lotze,… il primo a
interessarsi di tale questione fu Wilhelm Windelband – un allievo di Lotze – il quale, nel famoso discorso tenuto a
Strasburgo (dopo la conquista del 1870, quando si chiamava già “Strassburg”) ha parlato della differenza fra le “scienze
della natura” e le “scienze dello spirito”. Si trattava di un discorso programmatico, in cui Windelband riconduceva le
scienze naturali al concetto di legge, interpretando i fatti come applicazioni della legge. Ma egli distinse, d’altro canto,
anche le cosiddette “scienze idiografiche”, vale a dire le “scienze storiche”, il cui oggetto non sono le verità della legge,
bensì le verità dei “fatti” (come egli stesso precisa). Il suo scopo è di offrire una giustificazione epistemologica della
scientificità della conoscenza storica. Questo intento rimane però problematico, se ne esaminiamo le implicazioni. È
chiaro che non tutto ciò che accade è un evento in cui si possa ravvisare la verità conoscitiva della scienza storica: se io
mi prendo un raffreddore, questo è indubbiamente un “evento” – nel senso che è ciò che mi accade – ma certamente non
è un evento per la storia universale. Però, che Napoleone, durante la battaglia di Wagram, a causa di un raffreddore,
perse la prima battaglia in tutta la sua carriera di stratega, questo sì, è un fatto storico! Pertanto è necessario offrire una
nuova definizione del concetto di “fatto”, se si vuole attribuire alle scienze storiche un valore di verità analogo a quello
delle scienze della natura, che possiedono nella “misurabilità” il “fatto” da cui prendere le mosse. Per spiegare il
significato di “fatto storico” la filosofia neokantiana ha appunto introdotto il concetto di valore. In esso c’è un
“riferimento al valore”: è proprio nel raffreddore di Napoleone che si ravvisa, per la prima volta, la possibilità che egli
venga sconfitto. Nel prepararci a intraprendere il passaggio successivo, dobbiamo certo renderci conto che dovremo far
affiorare molti altri aspetti a monte di questo primo superamento dell’ambito epistemologico: le scienze dello spirito
non riguardano solo le discipline storiche, bensì hanno a che fare anche con altri fattori: la morale, l’etica, e tutte le
questioni connesse al problema etico e relative alla prassi sociale e umana.
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