introduzione

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INTRODUZIONE
Gli anni che vanno tra la fine della II guerra mondiale e la metà degli anni '50 furono
anni di scelte e d’interventi radicali a favore del Mezzogiorno, che dettero vita a
profondi cambiamenti non solo dal punto di vista sociale ma anche in quello
economico e che hanno modificato la fisionomia e il ruolo nell’ambito dello sviluppo
del paese. In questo periodo, di cui vi è una vasta letteratura d’autori e di testi
classici, si riorganizzò il movimento sindacale e i partiti politici, ci fu la fioritura di
giornale, il fenomeno del separatismo siciliano, la ripresa di lotta contadina.
Riaffiorava il volto del Mezzogiorno, cioè un volto che per 20 anni sotto il Fascismo
era stato ufficialmente disconosciuto perché si andava ripetendo che la Questione
Meridionale non esisteva più. Allora il Sud mostrava, di nuovo, la sua malattia, la sua
febbre alta iniziando a combattere il latifondo, si chiese la distribuzione della terra ai
contadini, una volta dei baroni ed ora dei latifondisti che ne possedevano tanta e non
la coltivavano. Non era una rivoluzione ma un’esigenza di giustizia e di democrazia.
Con il sorgere di queste problematiche, si andò delineando un Meridionalismo
Cattolico, fatto di grande sensibilità civile e profondi valori cristiani. Un
Meridionalismo che individua nell’istanza regionalista, nelle riforme dei contratti
agrari, nello scorporo del latifondismo, nelle opere di bonifica, nel ruolo assegnato
all’intervento pubblico i punti d’attacco alla realtà economica meridionale. Data la
vastità della problematica si è pensato di dare unitarietà alla trattazione dei temi,
allora al centro delle riflessioni dei primi meridionalisti cattolici di quel II
dopoguerra. Temi che riguardavano l’urgenza di dare nuovi contenuti alla proposta
politica circa le problematiche che travagliavano la realtà economica e sociale del
meridione ed il dovere di salvaguardare lo Stato, rifacendosi in ciò alla tradizione di
pensiero propria del Meridionalismo Classico. Il Meridionalismo Cattolico respinse
anche il cosiddetto Realismo Meridionale del II dopoguerra che si richiamava alla
tradizione veristica di fine ‘800, che professava riguardo alle ragioni e ai temi un
forte impegno politico – culturale e populista. Era questo a parere di Leone
PICCIONI,
un
meridionalismo
di
scrittori
meridionali
e
meridionalisti,
strumentalizzati nel programma e che ripescavano fasi anteriori o peggio ancora fasi
1
del tradizionale mondo mitico del Sud, terra immobile, fatalistica, bruciata dal sole,
tradita dal Risorgimentalismo Continentale sabaudo e borghese, maledetta e ingrata
negli uomini. Con questo studio si è inteso delineare i contenuti di questo
Meridionalismo Cattolico che, oltre a chiedere una nuova conoscenza della realtà,
con statistiche e indagini che arrivano al cuore dei problemi, consiste anche
sull’urgenza di elevare le condizioni civili ed economiche delle popolazioni, sui
miglioramenti dell’agricoltura e di mentalità. Tutti questi fattori facevano vedere in
un’ottica diversa la Questione Meridionale. In altri termini bisognava far assumere al
Mezzogiorno un ruolo attivo e dinamico nello sviluppo economico del Paese, fino
allora condizionato da uno schema dualistico tra Nord e Sud. Di qui la Riforma
Agraria, investimenti industriali, la formazione di un nuovo ceto di piccoli e medi
proprietari, un’economia che s’integrasse in quella nazionale, un associazionismo
operaio e contadino di ispirazione cattolica, pacifico e tollerante, come ad esempio la
Comunità dei braccianti in Puglia e in Lucania. In questo senso i cattolici meridionali
si organizzarono in associazioni, vedi la Federazione Universitaria Cattolica Italiana
(F.U.C.I.), l’Associazione Laureati Cattolici, l’Unione Giuristi Cattolici ed altre che
si fecero carico di queste proposte, dapprima con incontri, dibattiti e articoli
pubblicati sui periodici, successivamente con una proposta articolata e globale che fu
discussa e presentata al II Congresso della Democrazia Cristiana a Napoli al Teatro
San Carlo dal 15 al 20 Novembre del 1947. Infatti, in quel congresso, con la relazione
di CARLO PETRONE e successivamente l’impegno di ANTONIO SEGNI
nell’attuare la Riforma Agraria, di ALCIDE DE GASPERIS nel promuovere la
costituzione della Cassa del Mezzogiorno e di PASQUALE SARACENO con le sue
proposte di industrializzazione, si fece della Questione Meridionale un impegno
d’onore. Questo significava che in quel secondo incontro del Mezzogiorno con
l’Italia, il primo c’era stato nel corso dell’età giolittiana, con le denunce di DON
STURZO, SALVEMINI, NITTI e le successive leggi speciali a favore della
Campania, Calabria e della Basilicata, non ci sarebbero state latitanze verso gli
impegni che nell’incontro sarebbero stati assunti, come furono, dalla stessa classe
dirigente, così come si era verificato anche se in modo superficiale, nel corso dei
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decenni dall’Unità al Fascismo. Si diede luogo a quel risorgimento del Mezzogiorno
come scrisse GIORGIO TUPINI nell’articolo di presentazione della rivista
“Prospettiva Meridionale” del Maggio 1955, che soprattutto imparando a scrivere e
uscendo dal proprio analfabetismo, anche teorico, avrebbe favorito la crescita
democratica delle popolazioni meridionali. Quindi la ricerca ha studiato la stagione
prestigiosa delle grandi scelte politiche, economiche e sociali che portarono
all’approvazione delle leggi sulla bonifica, sulla riforma agraria e all’istituzione della
Cassa del Mezzogiorno, al fine di accertare, una volta affermata che il Sud era
diventato soggetto di pensiero, di quali contenuti si fosse riempito l’impegno di quel
colto ed autorevole gruppo dirigente di formazione cattolica liberale, che non solo
reagì in modo corretto alle rivendicazioni municipalistiche, che tentava di resistere
alle vecchie posizioni fondate sul privilegio politico e sulla rendita agraria, che faceva
delle agitazioni, dei disordini e della lotta sociale l’unica ragione di lotta politica, ma
diede anche impulso al processo di sviluppo economico e civile del Mezzogiorno. In
una parola si è cercato di capire perché la situazione economica e le condizioni
sociali del Mezzogiorno cominciarono a cambiare a partire dagli anni ’50, poi perché
in questo periodo anche la letteratura diede i suoi capolavori, vedi CRISTO SI E’
FERMATO A EBOLI di C. Levi, UN POPOLO DI FORMICHE di Tommaso
FIORE, CONTADINI DEL SUD di Rocco SCODELLARO, a LE TERRE DEL
SACRAMENTO di IOVINE, perché iniziarono a manifestare esigenze nascoste per
circa un secolo e mezzo, infine perché si iniziò a studiare e a dividere in rami il
vecchio mondo meridionale e si crearono le basi dei primi importanti progetti. Così i
fiumi deviati dai loro corsi, vedi il Flumendosa in Sardegna per sconfiggere la sete,
portavano alla civiltà dell’acqua, i laghi artificiali costruiti con le dighe di Ancipa e di
Sueri in Sicilia, rappresentavano una vittoria sull’antica fatalità del Sud; gli acquitrini
malarici trasformati in agrumeti e frutteti in Sila, Calabria e nella Piana del Sele,
erano il presente e il futuro di quelle terre una volta regno di briganti e di feudatari,
dei bufali, di cinghiali e di pastori erranti; le riforme del Fucino in Abruzzo dove i
contadini, stanchi di non lavorare e non di riuscire a vivere quella breve vita, non
s’accontentavano più come ha scritto Mario POMILIO con una mangiata di more; il
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piano B per la lotta all’alfabetismo nei paesi e nei borghi della Puglia significava,
come disse CASSIERI, una moneta da far circolare a tutto vantaggio del Sud. Un
vasto programma d’iniziative economiche, sociali e culturali, che rappresentavano i
simboli di un Mezzogiorno che si era messo in cammino con una rivoluzione vera.
Rivoluzione che i cattolici eletti nella DC nell’elezioni politiche per l’Assemblea
Costituente e del 18 Aprile del ’48 stavano facendo nel Mezzogiorno con una
legislazione speciale, con un trasferimento ingente di risorse, mobilitando la classe
dirigente locale e nazionale attenta ed intelligente che intendeva realizzare ciò che
non erano riusciti a fare né i borboni, nel Regno di Napoli né i governi post-unitaria
da Cavour a De Pretis, da Giolitti a Mussolini. È certo allora che i cattolici, impegnati
in politica, il pensiero meridionalista del dopoguerra fu soprattutto un pensiero
economico, questo significava indicare una cifra accanto ai tanti problemi che da
secoli esistevano e che allora si andavano denunciando. La strada che fu indicata
all’Assemblea Costituente per il nuovo patto, tra il Mezzogiorno e la DC, si fondava
sulle Regioni, destinate in quella logica a rappresentare il punto di saldatura tra
politica ed economia. Non a caso gli interventi dell’assemblea costituente di Mortati e
di Fiorentino Sullo, sul legame strettissimo, Mezzogiorno, Democrazia e Regione,
fecero comprendere fino a qual punto il Regionalismo di cui si trovano continui
riferimenti nelle discussioni, in quegli anni di dibattiti, fatti dalla CISL, dalle ACLI,
dalla DC, fosse considerato fondamentale ai fini di un nuovo sviluppo della
democrazia del Mezzogiorno. Ecco a grandi linee il programma di questo libro che
discute una problematica attuale: le condizioni in cui versa ancora oggi il
Mezzogiorno.
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CAPITOLO I
I PROTAGONISTI
CARLO PETRONE E LA QUESTIONE MERIDIONALE
Nella storia della DC, quando si parla di Petrone, si pensa al II Congresso di Napoli e
all’impegno d’onore di Alcide De Gasperis nei riguardi del Mezzogiorno. Petrone,
dopo il 1° Congresso di Roma dell’Aprile del ’46, fu eletto componente della
direzione dal Consiglio Nazionale della DC e incaricato di costituire un comitato
economico, articolato in varie commissioni di studio. Queste commissioni di studio
furono organismi rappresentativi delle diverse categorie produttrici di un determinato
settore economico e dovevano preparare la piattaforma delle risposte che la DC,
candidata al governo del paese, doveva dare ai problemi del Mezzogiorno, questo
scriveva sul periodico della DC “Popolo e Libertà”. L’iniziativa affidata dalla DC a
Petrone nasceva anche dall’interessamento che quasi tutti partiti manifestavano per la
cosiddetta Questione Meridionale. Infatti, il partito d’azione aveva tenuto due
convegni: a Bari e a Napoli con uomini politici e intellettuali. Il Partito Comunista si
era reso promotore per iniziativa di Amendola del Centro Economico Italiano del
Mezzogiorno con sedi a Napoli, Bari e Palermo ed aveva organizzato due convegni:
uno per i trasporti e l’altro per le trasformazioni fondiarie; il partito socialista aveva
fondato la società per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno dopo il discorso di
Nenni a Caserta per il referendum istituzionale. Petrone seguiva con grande
attenzione le attività che gli altri partiti svolgevano per dare le soluzioni adeguate al
Mezzogiorno d’Italia. Infatti, il 19 Aprile inviava al Presidente del Consiglio De
Gasperis una serie di appunti escludendo la costituzione di un altro ente simile a
quelli degli altri partiti e proponeva di controllare qualcuno già esistente, vedi
l’Associazione per gli interessi del Mezzogiorno. Ente questo che oggi, per mancanza
di fondi, ha una vita grama, nonché per la sua antica impostazione non risponde alle
esigenze attuali. Il disegno di Petrone era quello di affiancare alle attività di studio e
di consultazione, svolte fino allora dalla vecchia associazione di Bonomi presidente e
Zanotti vicepresidente, quella dell’iniziativa di tipo economico sociale, intesa a
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promuovere l’istituzione nel Mezzogiorno di enti di risparmio e credito in modo che
le eccedenze del reddito agrario locale, che erano imboscate, fossero adoperate per la
razionalizzazione dell’agricoltura e finanziano anche le nuove imprese industriali che
nell’agricoltura debbono trovare le basi del rifornimento. I Comitati Economici
ebbero vita breve in quanto la DC preferì la Commissione Campilli che svolse lo
stesso lavoro di analisi e di studio, anche se limitato all’impegno personale di alcuni
volenterosi e non ad un lavoro di gruppo. Tuttavia, essi furono, per Petrone, un’utile
esperienza perché gli consentirono una preparazione e una conoscenza dei problemi
economici, riguardanti il Mezzogiorno, che tenne una relazione sui provvedimenti
legislativi a favore del Mezzogiorno al secondo Congresso Nazionale della DC.
Bisogna ricordare che nel Giungo del ’45, Petrone aveva indetto una riunione presso
la Direzione Centrale della DC con alcuni amici meridionali ed insulari che
risiedevano a Roma occasionalmente, per avere uno scambio d’idee sulla crisi
politica che toccava gli interessi morali e materiali delle regioni meridionali ed
insulari. Alla riunione presieduta da SEGNI, relatore Petrone, parteciparono tra gli
altri
SPATARO, RUBINACCI, ALDISIO ed
altri
che
fissarono
alcune
considerazioni, visto che le regioni meridionali ed insulari erano state estranee al
sorgere e all’affermarsi del Fascismo, considerato che le regioni meridionali, fedeli
all’unità nazionale, iniziarono l’opera di ricostruzione dello Stato, ricordato che
queste regioni hanno dato un gran contributo alla liberazione dell’Italia dal NaziFascismo, affermando la necessità di un assoluto equilibrio nei rapporti spirituali ed
economici fra tutte le regioni, chiedono che il nuovo governo sia espressione degli
interessi solidali della nazione. Viene nominata una Commissione per studiare quali
delle proposte fatte potevano essere attuate. La relazione che Petrone lesse al 2°
Congresso rappresenta una tra le cose sue migliori per la linearità del programma ed
in accordo con tutta la tradizione meridionalista dei cattolici impegnati in politica.
Petrone ricorda non solo quanto Don STURZO aveva affermato a Napoli nel Gennaio
del ’23, ma anche l’introduzione che scrisse per il volume Mezzogiorno: impegno
d’onore della DC. Relazione approvata dalla Commissione di Studi del comitato
regionale campano; l’articolo “Napoli e il problema del Mezzogiorno” che pubblicò
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nel Risorgimento nel ’47; ma soprattutto il messaggio che vi era appena arrivato e
dove il prete calatino lo invitava calorosamente a prendere a cuore Napoli e le
popolazioni del Mezzogiorno e le isole che aspirano alla rinascita, nonché gli auguri
per tutti i democratici cristiani convenuti nel momento in cui incombe loro la
responsabilità di condurre il Paese al consolidamento della Repubblica nell’ordine e
nella libertà, conciliando gli interessi locali con quelli nazionali e subordinando gli
interessi del partito al bene supremo della nazione. La discussione che si svolse al
congresso sulla relazione Petrone, rappresentò un fatto rivoluzionario nella storia del
Mezzogiorno. Infatti, mai prima di allora, la classe dirigente era andata oltre, mai vi
era stato una volontà politica nel prospettare interventi concreti per modificare le
strutture arcaiche della realtà meridionale, mai, infine, un impegno di partito era stato
tanto sensibile verso la gente del Sud. Non a caso il congresso approvò la seguente
mozione: Compito del congresso è di determinare la linea politica del partito in
ordine alla Questione Meridionale, impegnandosi alla risoluzione di essa, creare le
condizione di una solidarietà interclassista sulla base dell’elevazione dei ceti più
umili e dell’attuazione di una più piena giustizia distributiva, così lo stesso compito
compete per giungere nel più breve termine alla cancellazione di questa vergogna
che grava sul primo ottantennio di vita dello stato unitario e cioè al mantenimento di
una differenza tra Nord e Sud discriminante. Il congresso deliberò che l’inferiorità
del Mezzogiorno, derivante da fattori geografici, climatologici, geologici e storici, ha
potuto perpetuarsi in conseguenza di tre elementi fra loro interdipendenti: la povertà
della struttura economica nella produzione e nello scambio, l’inesistenza di un’idonea
classe politica, infine la diversa consistenza demografica (poco più di 1/3 dell’intera
popolazione contro 2/3 nella parte centro – settentrionale della penisola) e la
conseguente insufficienza del peso politico del Mezzogiorno. Questa situazione è
l’unione in cui si trova i primi due elementi fra loro, esigono una duplice azione del
partito, una sul piano della politica nazionale per migliorare le condizioni del
Mezzogiorno, la seconda diretta a potenziare la sua influenza sull’attività dello Stato
rinnovando la classe dirigente. Si ha bisogno di un’educazione politica e di una
solidarietà degli interessi del lavoro che vanno sollecitati dal partito. Ancora l’azione
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del partito deve mirare alla valorizzazione economica del Mezzogiorno,
determinando condizioni propizie al sorgere di una classe progressista di liberi
produttori. Bisogna operare grandi opere di sistemazione dei corsi d’acqua che
appaiono condizione prima per la riforma fondiaria ed il rinnovamento economico del
Sud. Il problema politico è di non tralasciare nella graduazione delle opere di
bonifica, in una posizione d’inferiorità, intere regioni – vedi Calabria – per le quali
più lungo complesso e costoso si presenta il risanamento, predisponendo fin d’ora un
piano analitico di tutto il complesso lavoro da compiere alternando le varie regioni.
Riguardo al finanziamento bisogna assicurarlo nel tempo per dare esecuzione ai
lavori, evitando la beffa delle leggi speciali per il Mezzogiorno, rimaste inapplicate,
per mancanza di stanziamenti di bilancio. Delibera l’impegno del partito di fronte al
paese per la risoluzione della Questione Meridionale con tutti i mezzi idonei. Silvio
GAVA, in un articolo pubblicato, sul “Domani d’Italia”, così scrisse: il quarto
ministero De Gasperis, ha annunciato un piano organico per promuovere
l’industrializzazione del Mezzogiorno. Quindi gli intenti del ministero, sono in
accordo con quelli del congresso sul problema meridionale. Siamo dunque sulla
buona strada per la rinascita delle nostre contrade. Il congresso dovrà ora indicare le
linee portanti dell’azione economica e sociale destinate a rilanciare l’ambiente
meridionale, anche del settore industriale. Il dottor TOSANA pose rilievo, come la
legislazione centralizzata riserva sempre delle sorprese sgradite del Mezzogiorno a
causa delle sue condizioni radicalmente diverse da quelle del Nord. Molti esempi
possono essere citati a riprova di ciò: accordi sui prestiti sull’Import – Export Bank,
che furono conclusi per finanziare industrie che fossero in piena efficienza produttiva
e non a quelle che dovessero ricostruire la propria attrezzatura; in questa ultima
categoria si trova quasi tutta l’industria meridionale, devastata dalla guerra. Così,
quasi tutti i prestiti, finora concessi, si sono diretti verso il Nord.
1. Bisogna affinché altre leggi non contengano disposizioni analoghe, anzi
concedere facilitazioni speciali per gli investimenti nel Mezzogiorno, povero di
capitale.
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2. FIM (Fondo di finanziamento di industria meccanica), istituito col D.L. del 8
Settembre del ’47 n°899, per facilitare le imprese industriali italiane, nel
campo meccanico, nella loro liquidità finanziaria, l’incremento della
produzione anche ai fini dell’occupazione operaia e dell’esportazioni. La legge
perfetta, ma non favorì le nostre industrie meridionali, per le condizioni che
regolano le sovvenzioni e che le nostre industrie non avevano, ad esempio
costituzione sociale dell’impresa, produzione destinata all’esportazione.
3. LEGGE DEL SESTO, lo Stato, in questa legge, riservava all’Italia
Meridionale ed isole 1/6 dell’ammontare globale delle forniture e lavorazioni
occorrenti alle diverse amministrazioni statali. La legge è un’effettiva
conquista del Sud, tuttavia non può esplicare la propria efficacia perché priva
di un regolamento aggiornato, sopravvive ancora quello imperfetto del 1906,
che definisce sottili controversie. Il Sesto delle forniture, ad esempio, deve
essere calcolato sulle distinte lavorazioni o sul suo complesso. Se si dovesse
interpretare nel primo senso, come talune amministrazioni pensano, il
Mezzogiorno riceverebbe danno non lieve, perché non sempre le industrie sono
in condizioni di eseguire talune richieste.
4. LEGGE SULLA DISCIPLINA DELLE INIZIATIVE INDUSTRIALI.
Anche questa legge dettava norme uguali per tutta l’Italia, tanto per il Nord
saturo di industrie, quanto per il Sud che lamentava assenze. Questo era una
grande ingiustizia. Oggi, invece il piano industriale annunciato dal governo De
Gasperis pone riparo a quest’ingiustizia, liberando le iniziative meridionali
dall’ostacolo, insormontabile della preventiva autorizzazione amministrativa.
L’insegnamento che si può ricavare è che la legislazione generale non deve ignorare
le particolari condizioni del Sud e che deve essere istituito un organo che abbia il
compito di rappresentare le ragioni e le esigenze del Sud. L’amico CASSIANI
propone un Ministero per il Mezzogiorno, però diffida per il moltiplicarsi degli
organismi burocratici, anche perché sono causa d’interferenze e per questioni di
competenza ritarderebbero le iniziative. La maggior parte della stampa nazionale
comprese in pieno il problema Meridionale che la DC aveva posto all’attenzione
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dell’opinione pubblica e alla classe politica, eccetto LA STAMPA di Torino, ma non
stupisce il suo atteggiamento, infatti, GORRESIO scrisse il 15 Novembre del ’47 che
sulla relazione dell’avvocato Petrone e dalla scialba discussione seguita, non c’è
molto da dire perché si è rimasto nel generico. Noi rileggendo ancora oggi la
relazione, possiamo dire che non si poteva attendere di più in quel momento storico.
Non a caso la DC a Napoli cercava di sottrarre il Mezzogiorno all’egemonia
economica del Nord modificando la dinamica degli investimenti produttivi. Così LA
NAZIONE ITALIANA, LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO, IL GIORNALE
DELL’EMILIA,
commentarono
favorevolmente
la
relazione
di
Petrone,
sottolineando lo sforzo della DC nell’indicare le soluzione per il problema del Sud. A
riguardo, significativo fu quando scrisse IL ROMA affermando che per molte ore ci
fu un interessante dibattito sulla relazione di Petrone con l’intervento a turno di molti
oratori che animarono la discussione. IL DOMANI D’ITALIA parlò di giustizia
sociale per tutto quanto Petrone aveva detto a Napoli, mentre IL POPOLO, riportò
tutta la relazione. Quando il sipario si chiuse sul congresso, i politici, l’opinione
pubblica, la stampa, gli economisti erano sicuri che si fosse aperta una nuova pagina
della storia del Sud.
2. GIULIO PASTORE: L’ELEVAZIONE SOCIALE DELLE REGIONI DEL
SUD
Nel 1960 apparve lo scritto “L’ELEVAZIONE SOCIALE DELLE REGIONI DEL
SUD”. Pastore era presidente del Comitato dei Ministri del Mezzogiorno del governo
Segni. Era stato un protagonista di primo piano dell’antifascismo, ed un padre
fondatore del sindacalismo cattolico, l’esperienza governativa fu un’ennesima sfida
che visse con il consueto rigore e la tradizionale dedizione alla causa, con la
coscienza che gli interessi generali dovevano essere sempre e comunque anteposti a
quelli di parte. Pastore, prima di essere stato sindacalista e ministro, era un maestro,
forse severo ma certo capace di educare e motivare, e in un’epoca tra gli anni ’50 e
’60 di grandi trasformazioni, una guida era indispensabile per aiutare a capire i
cambiamenti in atto, a gestirli, coinvolgendo i soggetti che ai vari livelli sarebbero
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stati coinvolti. Per Pastore due erano i nodi gordiani da sciogliere, onde rimuovere le
cause strutturali del nostro sottosviluppo: il distacco tra paese reale e quello legale,
l’incomunicabilità tra la classe dirigente e la popolazione. Il governo, le
amministrazioni periferiche, la società civile dovevano moltiplicare gli sforzi e
cercare di colmare questo gaps, per rendere operativa nel paese quella forma di
democrazia diretta introdotta con la nuova carta costituzionale. Pastore fu risoluto su
questo punto non risparmiando nemmeno gli intellettuali, richiamandoli più volte ai
loro doveri, rimboccarsi le maniche e mettere al servizio del paese il loro sapere.
Pastore invitava a fare qualcosa che non gli era estraneo, lui stesso giornalista, uomo
colto, intellettuale preparato e militante dell’azione cattolica, in una parola l’uomo
giusto in un momento particolare della storia del nostro paese, che sapeva come e
quando la classe intellettuale poteva contribuire allo sviluppo della vita democratica.
Partecipazione e motivazione dovevano essere dei veri imperativi categorici e
attraverso questi si sarebbe riusciti, pur tra tante difficoltà, ad attivare un processo di
espansione sostenuta dell’attività economica, del reddito e dell’occupazione. Questa,
la lezione non solo morale ma anche pratica di Pastore, che essendo uomo d’azione,
alle parole avrebbe fatto seguire i fatti. Nel ’60 Pastore rese manifesto, ad un vasto
pubblico, il resoconto del suo viaggio fatto nelle province meridionali dell’anno
precedente, in regioni maledette, toccate solo di recente dalla riforma agraria e da
interventi straordinari. Il suo non è stato un viaggio ufficiale ma un esplorazione 360°
per toccare con mano la realtà urbana e contadina di quel Sud spesso dimenticato e
che chiedeva un definitivo riscatto. Affermò che i massicci interventi finanziari nel
campo dell’industria non sarebbero stati capaci di risolvere l’arretratezza del Sud, ma
che ad essi doveva unire una presa di coscienza delle popolazioni, ossia la
consapevolezza di poter diventare artefici e protagonisti del proprio destino. Per
Pastore giustizia sociale, solidarietà e sviluppo non avevano confini né fra Nord e né
Sud, né fra settori produttivi diversi, infatti, una rivendicazione sindacale
dell’industria del Nord meritava la stessa attenzione di una lotta a favore dei
braccianti del Sud. Lo stile di Pastore non era altro che questo, ossia essere fedeli ad
un’idea. Storici, politici, economisti di oggi e di ieri devono molto alla sua lezione.
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Nei suoi viaggi, con gli incontri avuti, ha toccato con mano la realtà meridionale e
voleva che la popolazione doveva abbandonare la rassegnazione ed il pessimismo,
facendo capire loro che il problema non si risolve in termini assistenziali, né con
interventi massicci, il Sud non si eleva se sarà estranea la volontà delle popolazioni
interessate. Affermò, infatti, che vi era un distacco tra le classi dirigenti e le
popolazioni, quindi bisogna compiere ogni sforzo per saldare questo distacco.
Altrimenti, tutto il processo in corso è destinato al fallimento, questo tipo di discorso,
fatto nei convegni e nelle piazze è stato accolto perché è più semplice costruire strade
e mettere su fabbriche che modificare realtà sociali arretrate da secoli d’abbandono.
Bisogna non elaborare piani o programmi complessi, prima e con quest’ultimi
operare ogni sforzo a ricucire questo distacco, favorendo la crescita umana. Questo è
l’unico modo concreto di sostanziare quella democrazia italiana a cui va dato il
merito di aver posto il problema del Sud per prima, intorno al quale, per decenni, ci si
è limitati a parole senza far seguire fatti concreti.
3. MEDICI, LA COLDIRETTI E LE ACLI – TERRA
Giuseppe Medici, economista agrario, nel suo studio “L’agricoltura e la Riforma
Agraria” s’interrogava sull’opportunità di promulgare i provvedimenti eccezionali,
atti a quotizzare la proprietà rurale in zone dove il monopolio terriero esisteva ed era
attivo. Riteneva possibile questa riforma, anche se in molte zone, un frazionamento
delle grandi proprietà spesso presupponeva un complesso di opere pubbliche, di
bonifica onde assicurare al contadino il costruire un’impresa agricola. Anche se certe
volte i latifondi si sono ricostituiti sotto gli occhi del contadino impotente, ma in
molti casi ha dato vita alla piccola e media proprietà. Infatti, dove i latifondi erano
composti da nuda argilla, vedi zone della Sicilia, Lucania, Calabria, i contadini per
necessità o convenienza cedevano la quota ed i latifondo, se non si ricomponeva,
dava origine a grandi proprietà; ma dove, i latifondi erano formati da terre idonee a
colture come vite, ulive, mandorlo, la quotizzazione ha creato numerose aziende
contadine vitali. Questo dimostrava che il passaggio della proprietà nelle mani dei
contadini era, dunque, possibile, ma presupponeva interventi differenziati. Nel
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Mezzogiorno e nella Scilla occorrevano due tipi d’interventi: nella zona a coltura
intensiva bisognava operare una riforma dei contratti agrari, riforma che non poteva
essere il risultato di un lavoro legislativo, ma una conseguenza di trattative sindacali.
Viceversa nelle zone ad agricoltura estensiva dove l’economia era talmente povera da
non permettere un miglioramento della retribuzione del lavoratore, bisognava
promuovere un miglioramento dell’organizzazione aziendale, che consiste nel dare ai
contadini un solo pezzo di terra e non spezzoni sparsi nel contado. Comune per
comune s’impone la determinazione delle quantità massime di grano da
corrispondere per unità di superficie. Commissione comunale dovevano fare le
operazioni estimali. In questo modo si poteva moralizzare il mercato che interessava
milioni di contadini. Una riforma fondiaria poteva rappresentare il fatto nuovo che
rompe il ciclo chiuso degli egoismi locali. Medici sosteneva la necessità di una
riforma dell’agricoltura meridionale anche per motivi logistici. Infatti, al contrario di
quanto è avvenuto in altre parti d’Italia dove il frazionamento della proprietà era
accompagnato dal formarsi della piccola proprietà coltivatrice, in molte contrade del
Sud e della Sicilia la proprietà era stata conquistata da piccoli commercianti o
professionisti che si erano dimostrati incapaci di esercitare con successo l’agricoltura.
Le modalità, attraverso cui garantiva le terre ai contadini, erano le stesse di Segni, per
il quale una volta stabilito il limite delle proprietà, c’erano 2 soluzioni: 1) espropriare
la parte eccedente, pagando la giusta indennità e ripartire la terra ai contadini; 2)
fissare un termine entro il quale i proprietari avrebbero dovuto vendere o cedere in
enfiteusi la parte eccedente, pena l’esproprio. La prima strada, secondo Medici,
avrebbe portato al fallimento, la seconda era più agile e meno pericolosa anche se non
priva di inconvenienti. Quotizzare i latifondi, sottraendo terra e potere ai baroni
terrieri, ripristinare un libero mercato, promuovere la formazione di una nuova
piccola proprietà, erano questi gli obiettivi fondamentali sui quali Medici richiamava
l’attenzione. La sua posizione risultò essere espressione dell’indirizzo presente nel
mondo cattolico. Un altro contributo fu dato da Romolo VASELLI, grande
proprietario terriero romano, in uno studio sulla riforma agraria redatto nel ’49 e
indirizzato a Medici, Segni e De Gasperis. Il suo sistema non si basava sugli
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imponibili catastali e sull’ampiezza della proprietà, ma sul grado di attività
dell’azienda, cioè un rapporto in giornate di lavoro – uomo di 8 ore e la superficie
agrariamente utile. In una parola il grado d’attività di un’azienda era espresso dal
carico unitario di lavoro per ogni ettaro di quell’azienda. Pertanto tutte le proprietà
venivano suddivise in 10 classi. Per i terreni che superavano le 100 giornate – uomo
per ettaro, vi era l’esenzione dallo scorporo, a riconoscimento della fatica delle
proprietà che avevano lavorato e prodotto. Entro 3 anni dalla legge, il proprietario
doveva essere autorizzato a porre in essere le opere necessarie per passare alle classi
superiori. Il sacrificio che si chiede ai proprietari è graduato in relazione alla
funzionalità sociale. Questo sistema avrebbe tolto i proprietari dallo stato d’inattività
nel quale si erano rifugiati dallo Stato per paura di una riforma, spronandoli ad avere
più manodopera per far giungere la propria azienda alle classi superiori. Il sistema
offriva il vantaggio di far risparmiare l’onere dello Stato per l’esproprio delle terre.
Un altro documento di Vaselli affermava che bisognava avere un certo riguardo per le
zone a coltivazione specializzate, vedi i complessi agricoli vinicoli, aziende che
fornivano prodotti caseari da esportazione. Del problema della riforma agraria si
occupò anche l’Accademia Economico – Agraria dei Georgofili, che a Firenze nel
’48 tenne un importante convegno di studio della riforma agraria, presieduto da
Medici. La mozione conclusiva del convegno ribadiva l’idea dello stesso Medici,
definendo le circostanze e i settori per i quali era auspicata una riforma, individuando
3 linee di azione: 1) negli ambienti estensivi erano necessari sia una riforma
produttiva che fondiaria; 2) l’obbligo dei miglioramenti fondiari; 3) attivazione del
mercato nelle zone ad alta concentrazione della proprietà con l’intensificazione della
pressione fiscale in modo da soddisfare le domande di terra a prezzo equo.
Schierandosi dalla parte dei contadini, l’accademia riteneva agevolare in ogni modo il
libero acquisto di terre. La Confederazione Nazionale dei Coltivatori Diretti, nata
nell’Ottobre del ’44, da una scissione del sindacato unitario CGIL sotto la guida di
Paolo Bonomi, agevolò Medici. L’associazione di ispirazione cristiana apolitica,
raggruppava piccole proprietà, enfiteusi, coloni. La Coldiretti rivendicava i diritti dei
suoi associati, difendendo i loro interessi ed esigenze. La Coldiretti restò assente dalle
14
lotte per la terra II dopoguerra, approvando senza riserve, la riforma agraria da Segni
e da Medici, fondate sulla formazione della piccola proprietà contadina. Alla
Coldiretti si aggiunse nel ’47 la costituzione dell’Associazione Cristiana Lavoratori
Italiana, detta ACLI – Terra, che fu vista come un elemento di disturbo dalla
Coldiretti, perché questa nuova associazione cercò di unire verso il sindacato unitario,
braccianti, mezzadri, affittuari e così via. Le ACLI – Terra s’interessò del problema
soprattutto del bracciantato, sul tema centrale della riforma agraria espresse il favore
verso una soluzione che maturasse nel sindacato unitario. L’elezione del ’48 e la
rottura dell’unità sindacale, determinò l’impegno delle ACLI – Terra sul piano
sindacale che portò verso un processo di politicizzazione che culminerà negli anni
’50 verso la DC. Le ACLI – Terra, infatti, in materia di Riforma Agraria,
sollecitarono il carattere urgente di questi provvedimenti presi dal governo e dal
Parlamento, invitandoli ad abbreviare i tempi e a superare i tempi e le resistenze delle
forze che si opponevano. S’interessarono sempre ai lavoratori, dicendo che tutte le
riforme sociali dovevano avere come fine la partecipazione del lavoratore alla
progressiva gestione del possesso fondiario. Monsignor Civardi, in una lettera inviata
a De Gasperis, nel ’49, invitava lo statista a far si che si provvedesse (alla luce dei
dolorosi episodi di violenza che diffondono un profondo malessere e contrasto
sociale) a dare esito positivo ai provvedimenti legislativi connessi alla riforma
agraria. Civardi, mentre riconosceva che qualche passo in avanti era stato compiuto,
ammoniva a fare molto di più, anche sotto la spinta degli appelli dei pontefici che
richiamavano l’obbligo di dare una proprietà possibilmente a tutti, perché quella
stabilità che si radica in un proprio podere, fa della famiglia la cellula più feconda
della società. Si auspicava un nuovo ordine sociale segnato alla luce del messaggio
evangelico. Le ACLI – Terra dedicarono un’attenzione particolare ai problemi del
bracciantato e della riforma, per migliorare le condizioni di vita dei contadini. Anche
la mozione del Convegno degli assistenti ecclesiastici della provincia di Salerno, del
Gennaio del ’50, faceva riferimento alla lettera dell’episcopato dell’Italia
Meridionale, dove si parlava di un nuovo ordine economico del Mezzogiorno e si
richiedeva la sollecita presentazione del progetto di riforma agraria.
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4. ANTONIO SEGNI UN POSSIDENTE RIFORMISTA
La figura e l’opera di Segni non hanno avuto dalla ricerca storica una grande
attenzione, anche se da più parti è stata segnalata un’opportunità di approfondire la
volontà riformatrice di questo uomo politico che cercò di dare una forma organica
alle linee di politica agraria del governo, attraverso difficoltà e opposizioni che
provenivano da ogni parte, compreso il suo stesso partito. Amava definirsi uomo di
centro il cui centrismo che era quello di De Gasperis, era desiderio di giustizia
sociale, accompagnato alla difesa di ogni libertà politica. Allo stesso modo il
cattolicesimo era sentito come autentica fede. Ebbe senso sociale, rispetto e amore
per i poveri e per gli oppressi, voleva costruire uno Stato che non fosse strumento di
privilegi, ma fonte di civiltà e di democrazia. De Gasperis ebbe verso Segni sempre
deferenza discreta, quasi riservata, diversa dalle clamorose manifestazioni di fedeltà
di altri leader. Di De Gasperis, in Segni, rivivevano l’amore verso i popoli ed
oppressi, lo slancio per l’affermazione della giustizia sociale che lo porterà
all’impopolarità della riforma agraria, la capacità di semplificare i problemi e
cogliere gli aspetti essenziali di ogni questione, dote quest’ultima che ne fece un buon
ministro dell’agricoltura, un ottimo ministro della pubblica istruzione, un Presidente
del Consiglio e un celebre Presidente della Repubblica. Tra De Gasperis e Segni ci fu
sempre unità d’intenti e di punti di vista, con poche eccezioni, dovute alla delicata
funzione di De Gasperis, Presidente del Consiglio che dovette mediare per cercare di
smorzare i toni polemici che provenivano dagli ambienti che si sentivano minacciati e
danneggiati dalle scelte del ministro. Il nobile sardo, di discendenza ligure, partiva da
una visione dei problemi sociali che aveva in sé una naturale inclinazione per i ceti
sociali più deboli, una forte avversione verso i latifondisti, una fedeltà ai valori della
terra, che non era immobilismo, ma aderenza ai bisogni di chi lavora, la concezione
di uno Stato che non poteva difendere gli interessi di parte, ma promuovere civiltà e
benessere. Riformismo sociale e autentico il suo, che non tollerò lo sperpero del
denaro pubblico, né lo strapotere di enti pubblici e privati, riformismo che lo portò a
promuovere la riforma agraria e a correggerne gli errori, difese sempre la piccola
proprietà contadina. Segni non fu mai un tecnocrate, convinto che le scienze, quella
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economica in primis, non potevano imporsi al politico, ma essere riassunte da questo
in una sintesi unitaria per raggiungere i fini che solo la politica, vera scienza delle
scienze, poteva e doveva proporre a se stessa. Nella sua fede religiosa e politica c’era
un liberalismo che era senso concreto della misura, del limite, diceva di lui “io sono
molto sobrio, perché ho assunto il principio di dire il meno possibile per poter
mantenere il più possibile ed è questo l’unico pregio che gli amici mi riconoscono”. Il
settimanale “Time” ha scritto una volta “Segni, ovvero una vita pulita come uno
specchio”, definizione questa sottoscritta dai comunisti ai missini. Una vita pulita,
che Segni ha costruito con pazienza e senza stanchezza. Il suo carattere con si è mai
smentito nei momenti decisivi, dimostrando con la forza e con la volontà, sensibilità e
fierezza, che provenivano da un atteggiamento onesto e cristallino, nei confronti della
politica, nei lunghi anni trascorsi nella vita politica attiva. Nato a Sassari nel Febbraio
del 1891 da famiglia benestante, divenne nella I guerra mondiale, osservatore
d’artiglieria e contrasse una passione per il volo, che sembrerà più tardi inspiegabile
in lui, uomo titubante, ma pronti ai continui voli tra Roma e Cagliari. Finita la guerra,
fece le scelte importanti alle quali restò sempre fedele. Nel ’20 vinse la cattedra di
diritto processuale a Perugia. Il cattolicesimo, con la pratica devota dei sacramenti, fu
convinzione una morale profonda. Iscritto al Partito Popolare, fin dalla sua
fondazione, nel ’23 divenne consigliere nazionale e nel ’24 fu candidato alla Camera
nel collegio di Sassari. Mentre se ne parlava di una stella nascente, Segni collocò la
sua vita politica sui binari della coerenza e della dignità. Il delitto Matteotti, il colpo
di stato di Mussolini, lo rigettarono nell’ombra della vita privata anche se lui avversò
decisamente il regime fascista, tanto che nel ’32, non venne chiamato all’Università
di Napoli. Si ritirò nella sua Sassari, della cui università fu rettore dal ’46 al ’51,
dedicandosi agli studi giuridici e a quelli tecnici ed agrari, a cui si sentiva portato per
il suo amore alla terra, e alla cura delle sue proprietà, che più tardi non esitò a farsi
espropriare dalla riforma agraria da lui voluta. Gli anni di meditazione, di assenza
dalle battaglie politiche, maturarono nel futuro statista cattolico una profonda
riflessione sulle condizioni della sua Sardegna e del Mezzogiorno in generale. Per cui
una volta riconquistate le libertà democratiche in Italia, diventò un assertore del
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regionalismo e fu uno dei principali artefici della legge 28 Dicembre del ’44
sull’autonomia regionale della Sardegna sia di una riforma agraria, che sviluppasse la
piccola proprietà coltivatrice colpendo il latifondo. Nel ’42 riprese la sua vita politica,
contribuendo all’elaborazione dei documenti agrari per il partito. Dal ’46 al ’51, nel II
al VI governo De Gasperis fu ministro dell’agricoltura e foreste e con la riforma
agraria dette le sue prime prove della sensibilità verso i contadini ed il mondo rurale.
Fondamentale resta la relazione al Consiglio dei Ministri nel 2 Agosto del 49,
riguardo alla riforma agraria, affermando che il progetto parte da considerazioni
sociali ed economiche. Gli addetti all’agricoltura, in Italia, sono in numero maggiore
rispetto ai paesi europei (oltre 8 milioni), superiori alla stessa Inghilterra e Francia
(circa 7 milioni e mezzo). La distribuzione dei lavoratori dipendenti è oltre 4 milioni,
maggiore che non in Francia, circa 2 milioni. Ora la distribuzione degli addetti
all’agricoltura non corrisponde alla distribuzione della proprietà, perché quella
coltivatrice raggiunge in Italia solo Ha (ettari) 6.750.000, su una superficie agraria di
ettari 27.500.000. E’ vero che la piccola proprietà coltivatrice è aumentata, però
questo non basta. Le linee di una riforma dovrebbero seguire la strada degli altri
paesi, mettere a disposizione dei lavoratori che cercano terra, una massa di terreni da
proprietà pubblica o privata che possono formare una sana proprietà coltivatrice
riducendo il bracciantato, e stabilizzando economicamente il campo del lavoro e della
produzione agricola. Questa politica di sviluppo della proprietà coltivatrice è
storicamente avvenuto con successo già da tempo in Francia, Germania ed in
Inghilterra. Per mettere a disposizione la quantità di terra occorrente per creare la
proprietà contadina sufficiente a ridurre il numero dei braccianti, per effetto diretto e
indiretto della riforma, si dovrà ricorrere alla proprietà di enti pubblici ed anche alla
proprietà privata. Questo prelievo è da attuarsi secondo criteri semplici, impedendone
applicazioni arbitrarie. Si propone di applicare, data la diversità della nostra terra, un
criterio misto, che consideri superficie e reddito seguendo criteri che evitino dubbi e
che rena possibile ai proprietari di sapere quanto e cosa dovranno dare, su che cosa
concentrare la loro attività. Inoltre il problema della riforma fondiaria non s’identifica
con quello della bonifica, perché c’erano zone nelle quali non è necessaria la bonifica
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e può operare la riforma. Tuttavia vi sono zone in cui i due problemi sono di fatto
legati e vanno considerati insieme. La riforma non può essere una semplice
distribuzione di terra ma creazione di proprietà coltivatrice produttiva, unita a forma
particolare di credito, di qualificazione professionale. In relazione a queste esigenze,
la meta da raggiungere era il collocamento di 250 – 300 mila famiglie di coltivatori
su 1.200 – 1.500 milioni di ettari. Bisogna iniziare l’opera della riforma nelle zone
tecnicamente più indicate e dove il bracciante più diffuso, in prima linea nel
meridione dove la bonifica è già avanzata, o zone fuori bonifica dove migliori siano
le condizioni. Lo scorporo della proprietà privata deve effettuarsi contro un equa
indennità. Sarà consentito un periodo nel quale i trapassi potranno effettuarsi
direttamente da parte dei vecchi proprietari ai nuovi con il controllo di uffici
particolari. È da facilitare, oltre alla vendita, la concessione in enfiteusi (è il diritto di
godere di un fondo altrui e l’obbligo di apportarvi migliorie e corrispondere
periodicamente un canone) sia da parte di privati che di enti pubblici, introducendo
norme che rendano conveniente reciprocamente tale forma. Lo scorporo da effettuarsi
dovrà lasciare sempre esente una base che varia da 40 mila a 60 mila lire di reddito
secondo l’estimo catastale accertato in relazione al numero dei figli del proprietario e
applicato con criterio progressivo. Si potranno concedere abbuoni ai proprietari che
entro un certo periodo eseguiranno trasformazioni. La legge di riforma non ha
applicazione retroattiva. Secondo i dati statistici posseduti, il numero delle ditte
catastali, soggette allo scorporo, non dovrebbe superare di molto le 8 mila con
prevalenza nelle zone a coltura estensiva. Un ente speciale si dovrà creare per le
operazioni della riforma, ente distinto da quelli della bonifica e sarà articolato
regionalmente. Determinerà in concreto le quote da scorporare, provvederà alla
ripartizione, determinerà le opere di trasformazione, assistendo tecnicamente le nuove
proprietà che si vengono a formare, infine le modalità della cessazione agli
assegnatari che non sarà gratuita ma dovrà essere a pagamento, dilazionata e a mite
interesse. Un istituto speciale di credito dovrà assistere la proprietà coltivatrice.
Questa, antica e recente, trova la sua sede specificatamente più adatta dovunque è alto
l’impiego di manodopera, opportunamente integrata con forme corporative, potrà
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sulla nuova superficie, intensificare la nuova produzione che è destinata al consumo
del mercato anche al mercato estero. L’uomo Segni, dalla personalità inconfondibile,
dalla matrice cristiana, si delineò nella sua battaglia per la riforma fondiaria che
rappresentò uno dei capitoli essenziali della storia della Questione Meridionale. In
questa prospettiva, nel suo impegno meridionalistica, derivante dalla conoscenza
approfondita dei problemi immensi che andavano affrontati, nei suoi obiettivi intesi a
realizzare quel tipo di società rurale che Don Sturzo aveva a cuore, si collocano la
Riforma Fondiaria e l’azione politica di Segni che ad essa fu e resterà sempre legata.
I provvedimenti governativi di politica agraria di quegli anni rivelano 2
caratteristiche: innanzitutto la volontà di riassorbire le lotte contadine in ambito
legalitario, attraverso una serie di garanzie sulla formazione della piccola proprietà
contadina, sul credito agrario, sul collocamento, in secondo luogo lo sforzo di
trasformare in consenso allo Stato, ma soprattutto alla DC, la gestione esclusiva della
questione contadina. Segni sollecitò una riforma agraria con riferimento alla
questione del Mezzogiorno e che non si risolvesse in una semplice ridistribuzione
della proprietà, ma che introducesse un nuovo equilibrio tra produzione e lavoro,
spezzando i monopoli terrieri. Infatti, la legge agraria di Segni si pose come un fatto
dirompente rispetto a strutture fondate su vecchie mentalità, nella difesa d’interessi
che, nel Mezzogiorno, s’identificavano nella classe latifondistica. Contro quella
classe e i loro interessi, si schierò con ferma decisione, né si curò degli attacchi anche
personali. Nonostante le destre lo ingiuriassero come il Sovietico Bianco e i
comunisti lo accusarono di scaltrezza, Segni si batté per la riforma agraria che
comportò l’esproprio di 114 ettari di sua proprietà, rispondendo con i fatti alle accuse
di favorire i grossi proprietari terrieri che aiutavano la DC. La Riforma Agraria fu il
fatto basilare e qualificante della politica dei cattolici negli anni della maggioranza
assoluta. La DC pagò lo scotto della politica rinnovatrice del centrismo De
Gasperiano alle elezioni politiche del ’53 che videro un’affermazione soprattutto nel
Mezzogiorno nei partiti di destra, sostenuti dagli agrari che dalla riforma erano stati
sconfitti. Questa sconfitta elettorale, però qualificò l’azione politica dei cattolici che
abbandonarono una politica conservatrice e avevano sostenuto le fasce sociali più
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deboli. Varata la riforma agraria, Segni nel ’51, passò al Ministero della Pubblica
Istruzione, promuovendo la legge che estese l’istruzione obbligatoria fino all’età 14
anni. Nel ’55 Segni divenne Presidente del Consiglio e dopo l’esperienza di politico e
Ministro iniziava quello dello statista. Ebbe massima attenzione verso i problemi del
Mezzogiorno tanto che intervenendo all’apertura della XIX fiera del levante, del
Settembre del ’55 ebbe a dire che percorrendo queste zone dove era stato già nel ’47
e dove aveva visto abbandono e desolazione, doveva riconoscere che in fondo non
avevano sbagliato. Il problema centrale italiano è il problema del Mezzogiorno,
affrontato da molti governi e regimi fallendo, di fronte alla complessità del problema.
Avevano sbagliato perché non si era riusciti nell’opera di trasformazione di una zona
dove l’abbandono era stato plurisecolare. Questo governo ha iniziato quest’opera, e
oggi si può dire che lo Stato, grazie alla Cassa del Mezzogiorno, ha compiuto passi
giganteschi e decisivi in questa trasformazione. Il miglioramento del Mezzogiorno è
il miglioramento di tutta l’economia italiana. Concludeva che gli italiani volevano
lavorare, e lo volevano soprattutto quelli senza casa e senza terra. Questo è il compito
di un governo democratico, a cui non possono mancare il vostro aiuto e della
Provvidenza. Segni, pur avendo altri incarichi di governo, continuò a seguire la legge
di riforma fondiaria a cui aveva lavorato tanto. Riteneva che soprattutto in Italia ci
doveva essere un’azione diretta dello Stato rivolta a modificare la struttura giuridica
ed economica della proprietà fondiaria e si auspicava un deciso intervento legislativo
in quelle zone in cui non si erano applicate le leggi di riforma.
5. AMINTORE FANFANI E IL MEZZOGIORNO
Per Fanfani la depressione meridionale investiva lo stato d’animo, la psicologia del
mondo rurale, in quanto molti contadini erano rassegnati alle loro condizioni e i loro
animi chiusi ad ogni fiducia di miglioramento. Un esempio di tale stato psicologico
fu offerto dai contadini dei Sassi di Matera, delle capanne delle montagne Lucane e di
alcuni Comuni Calabresi, i quali non volevano trasferirsi nelle accoglienti case dei
nuovi villaggi costruiti con i finanziamenti delle varie leggi vigenti. L’azione di
rottura delle vecchie strutture feudali della riforma agraria, l’utilizzo delle forze di
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lavoro, il miglioramento delle attrezzature civili, gli acquisti di terre, una volta
baronali e poi signorili, per effetto degli investimenti della Cassa del Mezzogiorno,
avevano contribuito a scuotere la popolazione meridionale a ridare coscienza a larghe
schiere di bracciantati che andavano sempre più acquistando capacità e responsabilità
imprenditoriali. Fanfani, in qualità di segretario della DC, diede vita ad un’iniziativa
politica a favore del Sud che chiamò “Assemblea delle rappresentanze popolari del
Mezzogiorno e delle Isole”. Infatti, ogni anno, a partire dal 1954 organizzò questa
assemblea per fare un bilancio di un anno di lavoro in Parlamento e nel Governo per
lo sviluppo economico, sociale e politico del Mezzogiorno, indicando azioni ed
obiettivi da perseguire nel nuovo anno. Questa iniziativa significò anche
un’occasione per ribadire che il Mezzogiorno doveva essere collocato sempre al
centro del dibattito e delle riflessioni della classe dirigente cattolica. Il che significava
ribadire “l’impegno d’onore” di fare della questione Meridionale un problema
nazionale da risolvere nell’interesse di tutto il paese e con la partecipazione di tutti i
cittadini. Infatti, nel II° consuntivo dell’azione della DC nel Mezzogiorno, affermò,
che l’azione dei governi presieduti da uomini politici di formazione cattolica (194555) si era concretizzata nell’autonomia regionale alla Sicilia e alla Sardegna; degli
enti d’irrigazione della Puglia; nei provvedimenti della riforma agraria in Sila, nel
Molise e in Campania. Di questa vasta azione d’intervento per il Sud, era stata
protagonista, secondo Fanfani, la DC, non a caso il Congresso di Napoli del 1947 ed
altri congressi, erano stati momenti ispiratori dei programmi di governo e delle azioni
di partito. La DC non avrebbe dovuto mai rinunciare alla preferenza della povera
gente. Il suo compito era quello di recuperare quest’ultima a dimensione di vita
civile, attraverso l’attuazione di riforme sociali ed economiche, e soprattutto di creare
le premesse per la collaborazione di tutti i ceti al lavoro comune al fine di svolgere
una specifica funzione nel processo di sviluppo del Mezzogiorno. Quello che Fanfani
affermò nella IIª assemblea a Bari, fu un fermento nuovo di vita politica che doveva
accompagnare un processo di trasformazione delle vecchie strutture economiche
meridionali per inserire nuovi strati sociali per il bene del paese. Il che, significava
educare alla dignità di cittadino le giovani generazioni e combattere le vecchie idee
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con le nuove per arrivare a diversi obiettivi. A Bari Fanfani riaffermò con chiarezza
la capacità democratica e politica della DC, che aveva programmato il riscatto della
gente del Sud. Infatti, alla fine della IIª assemblea fu approvata la nozione scritta
dallo stesso Fanfani. La nozione, dopo l’ampio dibattito che ha messo in luce
l’importanza delle realizzazioni attuate grazie anche alla spinta del movimento
democratico cristiano, esprime la sua piena soddisfazione per quanto è stato fatto a
vantaggio del Mezzogiorno anche sul terreno della valorizzazione della dignità
umana, del progresso sociale, della difesa della libertà e dà atto con gratitudine ai
governi di coalizione democratica e alla DC, riafferma l’impegno del Partito
Democratico Cristiano e per suo tramite dei governi da esso sostenuti. In particolare
indica per la futura azione del partito e del governo alcune linee di sviluppo, la
proroga del termine di attività della Cassa del Mezzogiorno, per completare i
programmi in corso d’attuazione nel settore della bonifica, riforma fondiaria,
irrigazione e, in secondo luogo, completare la Riforma Agraria con le ultime
assegnazioni dei terreni espropriati; aumento delle cooperative agricole, sviluppo
della ricerca scientifica nel campo agronomico e altre iniziative atte a sollevare le
condizioni del Mezzogiorno. Infine l’assemblea, conscia che nessuna conquista nel
senso del progresso, può essere ottenuta senza la collaborazione stretta tra l’azione
politica ed il popolo, impegna la DC a continuare nel suo lavoro costruttivo per
meritare un mandato politico ancora più imponente e convinto, che lo metta a guidare
in modo efficace la nazione verso mete di progresso, dignità e di pace.
6. MARIO POMILIO “SVINCOLIAMOCI DAL PROVINCIALISMO”
Mario Pomilio, pubblicò questo scritto nel volume dal titolo “La narrativa
meridionale”. L’idea di questo testo nacque con l’ambizione di riuscire a diffondere
un’idea del Mezzogiorno d’Italia il più possibile conforme alla realtà. Il Mezzogiorno
era, infatti, negli anni ’50 poco conosciuto, non erano molti i viaggiatori che
arrivavano a visitare le bellezze naturali, paesaggi, uomini e povertà e i quei pochi
che venivano, si limitavano alla visita turistica di qualche zona ed erano spinti da
indagini polemiche. Lo stesso, se non minore, era il movimento delle genti
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meridionali da zona a zona. È il caso di dire che l’idea dominante relativa al
Mezzogiorno, in una certa narrativa prima, da una certa letteratura specificatamente
meridionalistica poi, era un’idea letteraria. Lo scritto di Pomilio voleva offrire
un’altra idea, di radice letteraria ma con un contenuto di verità, poiché era data da
uno scrittore meridionale che conosceva da ormai lungo tempo il Sud. In quegli anni
scrittori e poeti critici e narratori come Bartolini, Caproni, Domenico Rea, Pomilio,
Prisco e tanti altri, solo per citarne alcuni, partirono verso la Sicilia, la Calabria,
l’Abruzzo, la Lucania, per toccare con mano qual era la situazione e cosa stava
accadendo nella vita di quelle popolazioni, se qualcosa si era messo in moto o tutto
continuava ad essere fermo. Si precisa che, parlando di narrativa meridionale, il
discorso verterà solo sulla cosiddetta ripresa meridionalista del II° dopoguerra e non
su scrittori di altra generazione, vedi Alvaro ad esempio, o Vittorini che si farebbe
fatica a inquadrarli nei nostri schemi, ma anche perché, nonostante certi loro ritorni
alla provincia, ritorni distaccati e quasi mitizzati, si tratta di scrittori di respiro
nettamente europeo, con interessi complessi (tranne che per Alvaro non si voglia
citare gente in Aspromonte) con la tradizione regionalista e verista. Invece,
guardando i nomi venuti alla ribalta, in quest’ultimo decennio non si può fare a meno
di riflettere alle sorti di Silone ed osservare che i suoi libri sono giunti in Italia con 15
– 20 anni di ritardo, troppo tardi cioè per far sentire la loro influenza sulla nostra
narrativa meridionale. Le opere di Silone, sono troppo calate (eccetto Fontamara) in
valori extra - artistici e tali da tenere a battesimo una nuova narrativa. Esse
presentano molti degli elementi della crisi della letteratura del ventennio che solo
dopo la fine del Fascismo dovevano divenire attuali. Se vogliamo una narrativa
ispirata al Sud, e che si caratterizzi politicamente meglio di quanto sia avvenuto
finora, bisogna considerare il Mezzogiorno un’entità definibile perché chi pensa di
accostarsi, e coglierlo in termine di rappresentazione, puntando su elementi esterni,
vedi l’ambiente, il costume, rischia di fare bozzettismo. Per l’appunto come non è
successo a Silone che dai suoi cafoni risaliva a mettere in luce una vera condizione
umana, come pure a Jovine, per citare un’altra eccezione, che in “Le Terre del
Sacramento” ci ha lasciato un romanzo di quella che potrebbe essere una narrativa
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meridionale; come, invece, è accaduto a molti scrittori partiti all’avventura, alla
riscoperta del Sud, parlando di un ambiente solo di nome meridionale, ma in realtà
fittizio. È mancato anche il ricambio tra cultura meridionalista e narrativa di
ispirazione meridionale. Infatti, l’esempio di Levi non è stato inteso, è mancato anche
una sutura tra la tradizione realista fra la fine del secolo e la ripresa neo - realista di
questi anni. Quindi, più che di ripresa, c’è stata una ripetizione stanca che ha reso
arretrata e provinciale la nostra letteratura. Il Verismo di Verga, s’inseriva in un
fenomeno europeo e la stessa poetica dell’impersonalità con tutti gli equivoci, era
stato un valido strumento di ricerca. Oggi alla poetica dell’impersonalità si è
sostituita quella del documento che è superficialità. Si ha insomma l’impressione che,
dopo le violente negazioni, nei primi momenti, sia mancata alla narrativa
meridionale, lo slancio per rinnovarsi, dal piano della denuncia, non ci pare che
finora abbia mostrato la forza per ricostruire. Un discorso a parte merita le sue
eccezioni, vedi di certi scrittori come Prisco che è passato in sordina, per difetto di
certa nostra critica distratta. Non a caso, dopo le pagine disinteressate dei primi due
libri con “Figli Difficili”, fa un’indagine severa e penosa di quella piccola e media
borghesia che seppur collocata nella sua provincia, rispecchia le problematiche,
l’immobilismo, la mediocrità di tanta della nostra borghesia non solo Meridionale.
Un libro, “Figli Difficili”, che nei suoi intenti, nella sua segreta moralità fa pensare a
quelle che potrebbero essere e non sono le vie di una vera, nuova narrativa ispirata al
Mezzogiorno.
7. IL NUOVO MERIDIONALISMO DI PASQUALE SARACENO
Pasquale Saraceno scrive: “con il 1948 si è delineata una nuova fase del dibattito del
nostro paese, i problemi dello sviluppo della nuova società formatasi con la fine della
guerra hanno assunto un peso prevalente sui problemi a breve termine della
ricostruzione. A questi cambiamenti hanno contribuito 4 eventi importanti:
1. l’attuazione degli ordinamenti previsti dalla nuova Costituzione;
2. la stabilizzazione dei rapporti internazionali;
3. il risanamento monetario;
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4. l’assegnazione del piano Marshall che garantisce la copertura del fabbisogno
dei mezzi di pagamento sull’estero e pone fine all’incertezza sulla nostra
economia”.
In questo dibattito s’inserirono i cosiddetti “nuovi meridionalisti” che ritenevano
impossibile un reale decollo dell’economia italiana senza la risoluzione della
questione meridionale, per cui l’unica via era l’industrializzazione. Significativa fu la
posizione del Morandi, il quale nel “Manifesto” riteneva che occorresse attività vitali
e creative. Egli diceva che lo Stato non doveva concedere solo accordi e facilitazioni,
ma di promuovere industrie che abbiano ragioni economiche di sorgere o possibilità
di svilupparsi. Nettamente contrari erano gli industriali settentrionali, timorosi che si
potesse creare nel Mezzogiorno doppioni di industrie del Nord, oppure che la stessa
industrializzazione potesse essere favorita da condizioni di vantaggio rispetto al
Nord. Le motivazioni principali erano 2:
1. mantenere intatte le condizioni di sviluppo dell’Italia economicamente più
avanzata;
2. far funzionare le leggi del mercato.
La soluzione di questa volontà finiva per essere un appello alla ripresa di una
emigrazione verso il Nord o verso l’estero. L’alternativa agrarista non riuscì mai a
decollare come tale. L’alternativa migliore fu quella che il Mezzogiorno diventasse
un’area di servizi. Saraceno trattò il caso del Mezzogiorno nell’ambito della
problematica delle “aree depresse”. La sua diagnosi partiva dalla considerazione che
nel Mezzogiorno c’era una forte riserva di mano d’opera disoccupata, ora dato che
nel 1949 sarebbero affluiti capitali per gli aiuti americani, c’erano le condizioni per
un decollo industriale. La sua analisi parte dal fatto che c’era molta disoccupazione.
L’area depressa è l’area in cui ci sono fattori produttivi inutilizzati. In essa, c’è uno
squilibrio di risorse naturali e popolazione, quindi gli aumenti di reddito è da
ricercarsi nell’industria manifatturiera. In un’area depressa c’è un’alta propensione al
consumo, in particolare alimentare, e una propensione all’importazione. Il tutto è in
mano dei grandi proprietari terrieri, che non hanno le capacità di intraprendere una
politica di sviluppo economico. La preoccupazione del Saraceno era quella di fare in
26
modo che l’iniziativa pubblica fosse tale da utilizzare i meccanismi del mercato. Egli
sosteneva che “l’azione statale” doveva essere immaginata sotto forma di
investimento, che da un lato migliorino le condizioni di vita e dall’altro creino un
aumento di potere d’acquisto per uno sblocco di produzione dell’imprese future.
Compito dell’iniziativa pubblica doveva essere quello di guidare l’iniziativa privata.
La prima avrebbe dovuto tendere a sommarsi alla seconda ogni qual volta essa fosse
stata di per sé insufficiente. Era preoccupazione costante del Saraceno mostrare che le
due fonti di iniziativa economica non fossero tra loro contrastanti, ma si integravano
a vicenda. La sua concezione rientrava nel quadro di un’economia mista. Un quadro
industriale nazionale dove un’industria meridionale, essenzialmente statale, si fosse
contrapposta ad un’industria settentrionale in prevalenza privata, avrebbe determinato
un equilibrio innaturale nel sistema economico. Protagonisti di quegli anni sono
concordi nel riconoscere al Saraceno un ruolo di spicco nel dibattito sul Mezzogiorno
per la sua capacità di promuovere effetti diretti tanto da incidere nell’ambito delle
decisioni pubbliche. Bisogna dire che almeno dal punto di vista teorico, Saraceno
possa essere considerato uno dei promotori della futura Cassa del Mezzogiorno. Nel
1949 Saraceno scriveva che con la spesa pubblica ci si propone di aumentare la
disponibilità di alcune dotazioni economiche e sociali di grande interesse per le
regioni meridionali; bonifiche, case, porti, scuole, ospedali e unitamente a questo
aumento di dotazione, si ottiene un incremento di consumi. In fatto di politica di
sviluppo del Mezzogiorno si può dire che alla vigilia dell’istituzione della cassa del
Mezzogiorno, due idee potevano ritenersi acquisite: che tale politica doveva fondarsi
sui lavori pubblici; la seconda che la proposta di istituire un ente capace di
“progettare, dirigere, amministrare le imprese”, oltre che mettere a disposizione
capitali pubblici per quei privati che trovano conveniente investire. Il dibattito
politico – culturale acquisisce 3 conclusioni:
1. bisognava organizzare una politica coordinata di interventi, diffusa nel tempo
ed unificata con un piano;
2. bisognava mettere a disposizione delle risorse
finanziarie anche per le
iniziative industriali già esistenti nel Mezzogiorno;
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3. si doveva creare un ente capace di dar luogo ad un’agile politica della spesa e
di costituire un progetto unificante.
La cassa venne istituita come struttura operativa di fonti e di autorizzazioni di
intervento. Questi compiti erano finalizzati a cambiare un habitat sia con attività
infrastrutturali, sia con il sostegno delle iniziative per l’ammodernamento produttivo
dell’economia meridionale dall’agricoltura a quelli industriali e turistico. Per quanto
riguarda la discussione in sede parlamentare, dai banchi della maggioranza se si
eccettua una replica del relatore Angelo Raffaele Iervolino alla Camera dei Deputati
ebbero solo interventi sbiaditi, le critiche dell’opposizione, invece vivissime, da parte
dei partiti di sinistra, ricordiamo tra tutti l’intervento di Amendola, che osservava che
la via per la soluzione della questione meridionale non era quella dell’intervento
esterno o dall’alto, per mezzo di un ente speciale, ma quella di permettere alle stesse
popolazioni meridionali di operare il rinnovamento ed il progresso per quelle regioni
rimuovendo con una svolta della politica dello Stato verso il Mezzogiorno e non solo
con l’esecuzione di determinate opere pubbliche, le cause di carattere politico e
sociale che dal 1862 in poi hanno determinato il formarsi di una questione
meridionale. Il limite di questo intervento, come tutti gli altri della sinistra, era che il
disegno di legge alternativo restava solo di carattere politico. Viceversa ci voleva una
linea di politica economica, con obiettivi chiari, alla definizione dei quali Saraceno
dette un contributo fondamentale, favorendo una saldatura fra le diverse correnti del
pensiero meridionale, grazie alla quale l’unica soluzione al duplice problema della
disoccupazione e dello sviluppo del Mezzogiorno era quello dell’accumulazione del
capitale fisso. La filosofia della Cassa per il Mezzogiorno si fondava sull’ipotesi che
l’economia avesse bisogno di massicci investimenti, per il “capitale fisso sociale” in
modo che, una volta realizzate alcune “infrastrutture”, lo sviluppo si sarebbe
realizzato ad opera delle imprese private, agevolato dalla riduzione dei costi di
produzione. Infatti, Saraceno era convinto che questi investimenti avrebbero
determinato il big – push, capace di modificare l’ambiente sociale da agricolo in
industriale. La preoccupazione del Saraceno era che la nuova industria sorgesse per
iniziativa privata e che quest’ultima creasse condizioni di convenienza. Egli
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sosteneva anche la necessità di promuovere un’azione conoscitiva per migliorare e
definire le situazioni locali, valutando le possibilità industriali e turistiche. Tutto
questo avrebbe reso maggiore la produttività e facilitato gli investimenti pubblici e
privati. Saraceno ha scritto: “Un italiano inascoltato, Saraceno, la Svimez e il
Mezzogiorno”. Se il “vecchio meridionalismo” aveva visto nella politica dello Stato
unitario una delle cause primarie dell’arretratezza del Mezzogiorno, il “nuovo
meridionalismo” riteneva che la questione meridionale andasse risolta con la scelta di
strumenti tecnici ed appropriati, attraverso un intervento programmato dello Stato,
che puntasse sull’industrializzazione, attraverso una politica che modificasse le
convenienze dei privati, rendendo profittevole gli investimenti al Sud, creando
un’area di risparmio dei privati per la produzione industriale. In questa prospettiva
nacque l’idea dell’intervento straordinario, visto come uno strumento di promozione
e finanziamento d’iniziative imprenditoriali, rispetto all’intervento ordinario che
continuava su tutto il territorio nazionale. La grande lezione del Saraceno è ancora
attuale e il suo saggio riapre nel panorama un interesse per l’analisi dei ritardi
economici e sociali del Mezzogiorno.
LA STAMPA
Il Domani Sociale, fu l’organo dei collaboratori cristiani, diretto da Colasanto, uscito
nel Marzo del ’44 come edizione per la Campania. S’ispirò alla dottrina sociale della
chiesa (Rerum Novarum, enciclica di Leone XIII che condannava l’industrialismo,
difendendo i diritti di lavoro, ridava dignità e dimensione umana ai lavoratori per
realizzare la giustizia sociale). Due erano i filoni d’interesse del settimanale: l’uno
storico dottrinale (che sosteneva la necessità di organizzare sindacati operai liberi
cristiani e rilanciava le tematiche della Rerum Novarum), l’altro politico
organizzativo (che rivalutava il sindacalismo cattolico, ridava slancio al problema
agrario, al movimento cooperativistico). La rivista s’interessò anche di temi
riguardanti il Mezzogiorno, affermando che dare un pezzo di terra ai contadini,
significava assicurare loro il pane e con esso serenità e benessere. Individuava
nell’agricoltura, il settore cardine per la trasformazione e lo sviluppo dell’economia
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meridionale. L’unità sindacale fu uno dei temi centrali del periodico, anche se non
condivideva le scelte fatte dai sindacalisti della CGIL non erano d’accordo nel voler
realizzare un’unità sindacale attraverso battaglie sindacali; mentre il periodico dava
importanza al significato cristiano del lavoro, della pace e della giustizia cristiana. La
storia del quotidiano salutò, a Salerno nel Consiglio Nazionale della CIL l’unità
sindacale con un ordine del giorno di fiducia dell’unità dei lavoratori. La storia del
quotidiano è legata alla nascita del nuovo meridionalismo cattolico, secondo le
intuizioni di Don Sturzo. Un meridionalismo, che si proponeva di fare del
Mezzogiorno una questione nazionale, e poggiava la rinascita della nuova Italia su
due capisaldi: libertà e giustizia sociale. Un posto di primo piano ebbe la Riforma
Agraria, la terra ai contadini, le autonomie locali per ridurre lo squilibrio tra Nord e
Sud. Il “Domani d’Italia” diventa un giornale di lotta politica che assolve il compito
di propaganda a favore della DC e al tempo stesso è impegnato a dare al Sud un ruolo
centrale nell’ambito dello sviluppo economico e della crescita del paese.
LA QUESTIONE MERIDIONALE NELLA PUBBLICISTICA CATTOLICA
Nel periodo che va dalla liberazione al II Congresso della DC a Napoli nel ’47,
l’atteggiamento dei cattolici verso la questione meridionale, viaggia verso
problematiche che si basano sulla questione agraria. Non a caso con la fine della
guerra e la ripresa del dibattito politico, gli interessi di classe si andarono sviluppando
lungo la linea di scontro tra condizioni sociali diverse, da una parte la borghesia
proprietaria e i notabili, che cercavano di difendere il loro status sociale, con i
privilegi connessi, al contrario le masse contadine spingevano per la spartizione delle
terre. Per queste problematiche, iniziava a farsi strada, tra le forze cattoliche una
concezione riformista verso il Sud con un programma che si basava non solo
dall’interesse dei cattolici verso questo mondo rurale, ma anche per il timore che le
campagne meridionali diventassero luoghi di scontro sociale. Francesco Vito,
economista e docente del Sacro Cuore, parla che la soluzione del problema,
presupponeva il superamento della concezione liberista dell’economia, sulle cause di
disagio dei lavoratori, evidenziò un duplice principio, affermando che se si pretende
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di trovare rimedi con la politica agraria e con la riforma ai problemi pur connessi
all’agricoltura, deve tener presente che hanno radice più profonde che investono
l’economia nazionale. A suo dire, l’esigenza della giustizia e dell’efficienza erano la
ricetta efficace. La Questione Meridionale si avvia a soluzione nella misura in cui si
supera la deludente polemica Nord – Sud per diventare problema di portata nazionale.
Le concezioni di Vito trovano conferma nei tanti articoli apparsi nei periodici
cattolici che si diffondono nel Mezzogiorno. Da una lettura attenta emergono 3
fattori:
evitare
i
vizi
delle
rivendicazioni
municipalistiche
del
vecchio
meridionalismo; respingere le intolleranze del conflitto esasperato; fare del riscatto
del Mezzogiorno una questione nazionale. Il problema meridionale andava
assumendo un ruolo centrale nell’ambito del programma politico dei cattolici
meridionali che andavano affrontando, ne sono prova saggi, opuscoli diffusi dalle
case nel meridione.
POPOLO E LIBERTÀ
Quest’organo di stampa, uscito nel ’46, di ispirazione democratica cristiana
rappresentava il mutamento di tendenza verso le problematiche meridionali,
contribuendo al nuovo corso della politica. Fin dal primo numero il settimanale si
mise su questa linea, al riguardo Palmieri scriveva che la questione meridionale h
bisogno di soluzioni a ciclo produttivo, non servono le rivendicazioni né incolpare i
cafoni, i briganti, ma globalità di proposte e far diventare il Mezzogiorno problema
nazionale. Palmieri attribuisce all’attività commerciale e a quella industriale, assieme
all’agricoltura, il compito d’inserire il Mezzogiorno nel circuito produttivo nazionale.
Accenna alla costruzione di una società per lo sviluppo industriale del Sud, la futura
cassa del Mezzogiorno, invitando coloro che possedevano capitali liquidi ad inserirlo
nel circuito produttivo della nazione.
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CIVITAS
La rivista mensile “Civitas”, fondata nel ’19 da Meda, fu soppressa nel ’26 dal
Fascismo, riprese poi nel ’50. Rivista questa che s’interessava di saggi, di storia e di
politica, trattò anche della questione meridionale, mettendo al centro la questione
agraria, facendo proprio il pensiero di Sturzo, per il quale era fondamentale la
necessità dell’emancipazione rurale, la valorizzazione delle autonomie locali,
istituendo le regioni onde favorire la partecipazione delle masse contadine alla vita
pubblica. Il problema della questione meridionale diventava un problema di giustizia
sociale e non poteva essere separato dalla politica generale del paese. Necessitava una
politica d’intervento programmata, e questo, da parte dello Stato, è sentito come
dovere morale e politico. Per Saraceno il miglioramento che l’economia del paese
manifestava dopo il II° conflitto, si mostrò insufficiente ad attenuare il divario Nord –
Sud, nonostante i massicci provvedimenti verso il Sud dopo il ’47. Parlava che la
questione
dell’unificazione
economica
dell’Italia
fosse
una
questione
dell’unificazione politica e vi era la responsabilità dello Stato, perché il perdurare di
questo divario poteva riflettersi negativamente sull’Unità nazionale.
CASSA DEL MEZZOGIORNO
Il vero mutamento della politica, come nell’economia, si ebbe nel ’50 con la Cassa
del Mezzogiorno. Infatti, una volta che furono ripresi i rapporti con l’estero, reinserita
l’economia italiana nel giro internazionale, assicurati i rifornimenti di materie prime,
ridotto il deficit del bilancio dello Stato, l’azione del governo si rivolse alle regioni e
alle aree depresse del Sud. Gli obiettivi della Cassa prevedevano un programma
pluriennale a favore di aree abbandonate da secoli, nelle quali l’intervento
straordinario doveva mirare a conseguire condizioni uguali alle regioni più
progredite, aumentando l’occupazione e la produzione. Taviani parlò, a proposito
della Cassa, di un organismo distinto dallo Stato, come di una persona giuridica
diversificata, che doveva rompere la situazione ambientale e solo dopo doveva
intervenire la normale amministrazione.
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LA DISCUSSIONE
Agli inizi degli anni ’50, grazie ai governi presieduti da De Gasperis, molte cose
mutarono nel profondo Sud. Gli enti di bonifica, la Cassa del Mezzogiorno, i processi
d’industrializzazione, l’impegno dei cattolici, per i quali il Mezzogiorno doveva
essere considerato problema nazionale, e su cui si giocava l’avvenire del Paese. Si
dava inizio ad un nuovo Meridionalismo che non era più sterile denuncia, ma
programmi fattivi. In quegli anni Fanfani, Segni, Moro, Saraceno ed altri trovarono
nel settimanale “La Discussione”, il loro punto di riferimento. Il periodico divenne
punto di forza del Meridionalismo Cattolico nel proporre misure di politica
economica e d’intervento da parte dello Stato, capaci di portare alla riunificazione
sociale ed economica del paese. Il Sud non era più un area irrimediabilmente
depressa, il potenziamento del Sud era visto come operazione urgente e necessaria
per colmare il dislivello del paese. Il settimanale s’interessò anche della letteratura
meridionalista.
PROSPETTIVE MERIDIONALI
La ripresa del dibattito meridionalistica, nei primi anni del dopoguerra, si distinse tra
i partiti democratici e personaggi più rappresentativi dell’anti – Fascismo, sicché la
discussione sulla questione meridionale rischiava di restare su due opposti filoni
culturali: quello marxista, basato sulle rivendicazioni delle masse contadine e quello
liberal – democratico con il richiamo alla storia e all’impegno civile. La fine della
guerra e la ripresa del dibattito politico portò interesse di categorie ad organizzarsi su
due linee: da una parte la borghesia proprietaria e i notabili, che cercavano di
difendere il loro status sociale, con i privilegi connessi, al contrario le masse
contadine spingevano per la spartizione delle terre. Per queste problematiche, iniziava
a farsi strada, tra le forze cattoliche una concezione riformista verso il Sud con un
programma che si basava non solo dall’interesse dei cattolici verso questo mondo
rurale, ma anche per il timore che le campagne meridionali diventassero luoghi di
scontro sociale. Si discuteva quindi su un terreno d’incontro tra studiosi di problemi
meridionali, uomini di cultura che si ponevano il problema dello sviluppo
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democratico del Mezzogiorno. Prospettive Meridionali si occupò anche della
polemica coi comunisti di Cronache Meridionali, la rivista d’Amendola, ossia
contrastare la penetrazione social – comunista nelle campagna e fra gli intellettuali
meridionali, sia una politica d’alleanza con ceti a loro affini. La rivista s’occupò dei
problemi del Mezzogiorno, discutendone gli aspetti di sviluppo, prospettando attività
d’intervento pubblico, invitando comuni e province meridionali a partecipare con
maggior impegno alla rinascita. Infine ribadiva la necessità di creare un capitale fisso
sociale per favorire lo sviluppo industriale, facendo leva sulla questione che lo
sviluppo del Mezzogiorno diventasse fattore essenziale dell’intero processo di
sviluppo dell’economia.
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