INTRODUZIONE Gli anni che vanno tra la fine della II guerra mondiale e la metà degli anni '50 furono anni di scelte e d’interventi radicali a favore del Mezzogiorno, che dettero vita a profondi cambiamenti non solo dal punto di vista sociale ma anche in quello economico e che hanno modificato la fisionomia e il ruolo nell’ambito dello sviluppo del paese. In questo periodo, di cui vi è una vasta letteratura d’autori e di testi classici, si riorganizzò il movimento sindacale e i partiti politici, ci fu la fioritura di giornale, il fenomeno del separatismo siciliano, la ripresa di lotta contadina. Riaffiorava il volto del Mezzogiorno, cioè un volto che per 20 anni sotto il Fascismo era stato ufficialmente disconosciuto perché si andava ripetendo che la Questione Meridionale non esisteva più. Allora il Sud mostrava, di nuovo, la sua malattia, la sua febbre alta iniziando a combattere il latifondo, si chiese la distribuzione della terra ai contadini, una volta dei baroni ed ora dei latifondisti che ne possedevano tanta e non la coltivavano. Non era una rivoluzione ma un’esigenza di giustizia e di democrazia. Con il sorgere di queste problematiche, si andò delineando un Meridionalismo Cattolico, fatto di grande sensibilità civile e profondi valori cristiani. Un Meridionalismo che individua nell’istanza regionalista, nelle riforme dei contratti agrari, nello scorporo del latifondismo, nelle opere di bonifica, nel ruolo assegnato all’intervento pubblico i punti d’attacco alla realtà economica meridionale. Data la vastità della problematica si è pensato di dare unitarietà alla trattazione dei temi, allora al centro delle riflessioni dei primi meridionalisti cattolici di quel II dopoguerra. Temi che riguardavano l’urgenza di dare nuovi contenuti alla proposta politica circa le problematiche che travagliavano la realtà economica e sociale del meridione ed il dovere di salvaguardare lo Stato, rifacendosi in ciò alla tradizione di pensiero propria del Meridionalismo Classico. Il Meridionalismo Cattolico respinse anche il cosiddetto Realismo Meridionale del II dopoguerra che si richiamava alla tradizione veristica di fine ‘800, che professava riguardo alle ragioni e ai temi un forte impegno politico – culturale e populista. Era questo a parere di Leone PICCIONI, un meridionalismo di scrittori meridionali e meridionalisti, strumentalizzati nel programma e che ripescavano fasi anteriori o peggio ancora fasi 1 del tradizionale mondo mitico del Sud, terra immobile, fatalistica, bruciata dal sole, tradita dal Risorgimentalismo Continentale sabaudo e borghese, maledetta e ingrata negli uomini. Con questo studio si è inteso delineare i contenuti di questo Meridionalismo Cattolico che, oltre a chiedere una nuova conoscenza della realtà, con statistiche e indagini che arrivano al cuore dei problemi, consiste anche sull’urgenza di elevare le condizioni civili ed economiche delle popolazioni, sui miglioramenti dell’agricoltura e di mentalità. Tutti questi fattori facevano vedere in un’ottica diversa la Questione Meridionale. In altri termini bisognava far assumere al Mezzogiorno un ruolo attivo e dinamico nello sviluppo economico del Paese, fino allora condizionato da uno schema dualistico tra Nord e Sud. Di qui la Riforma Agraria, investimenti industriali, la formazione di un nuovo ceto di piccoli e medi proprietari, un’economia che s’integrasse in quella nazionale, un associazionismo operaio e contadino di ispirazione cattolica, pacifico e tollerante, come ad esempio la Comunità dei braccianti in Puglia e in Lucania. In questo senso i cattolici meridionali si organizzarono in associazioni, vedi la Federazione Universitaria Cattolica Italiana (F.U.C.I.), l’Associazione Laureati Cattolici, l’Unione Giuristi Cattolici ed altre che si fecero carico di queste proposte, dapprima con incontri, dibattiti e articoli pubblicati sui periodici, successivamente con una proposta articolata e globale che fu discussa e presentata al II Congresso della Democrazia Cristiana a Napoli al Teatro San Carlo dal 15 al 20 Novembre del 1947. Infatti, in quel congresso, con la relazione di CARLO PETRONE e successivamente l’impegno di ANTONIO SEGNI nell’attuare la Riforma Agraria, di ALCIDE DE GASPERIS nel promuovere la costituzione della Cassa del Mezzogiorno e di PASQUALE SARACENO con le sue proposte di industrializzazione, si fece della Questione Meridionale un impegno d’onore. Questo significava che in quel secondo incontro del Mezzogiorno con l’Italia, il primo c’era stato nel corso dell’età giolittiana, con le denunce di DON STURZO, SALVEMINI, NITTI e le successive leggi speciali a favore della Campania, Calabria e della Basilicata, non ci sarebbero state latitanze verso gli impegni che nell’incontro sarebbero stati assunti, come furono, dalla stessa classe dirigente, così come si era verificato anche se in modo superficiale, nel corso dei 2 decenni dall’Unità al Fascismo. Si diede luogo a quel risorgimento del Mezzogiorno come scrisse GIORGIO TUPINI nell’articolo di presentazione della rivista “Prospettiva Meridionale” del Maggio 1955, che soprattutto imparando a scrivere e uscendo dal proprio analfabetismo, anche teorico, avrebbe favorito la crescita democratica delle popolazioni meridionali. Quindi la ricerca ha studiato la stagione prestigiosa delle grandi scelte politiche, economiche e sociali che portarono all’approvazione delle leggi sulla bonifica, sulla riforma agraria e all’istituzione della Cassa del Mezzogiorno, al fine di accertare, una volta affermata che il Sud era diventato soggetto di pensiero, di quali contenuti si fosse riempito l’impegno di quel colto ed autorevole gruppo dirigente di formazione cattolica liberale, che non solo reagì in modo corretto alle rivendicazioni municipalistiche, che tentava di resistere alle vecchie posizioni fondate sul privilegio politico e sulla rendita agraria, che faceva delle agitazioni, dei disordini e della lotta sociale l’unica ragione di lotta politica, ma diede anche impulso al processo di sviluppo economico e civile del Mezzogiorno. In una parola si è cercato di capire perché la situazione economica e le condizioni sociali del Mezzogiorno cominciarono a cambiare a partire dagli anni ’50, poi perché in questo periodo anche la letteratura diede i suoi capolavori, vedi CRISTO SI E’ FERMATO A EBOLI di C. Levi, UN POPOLO DI FORMICHE di Tommaso FIORE, CONTADINI DEL SUD di Rocco SCODELLARO, a LE TERRE DEL SACRAMENTO di IOVINE, perché iniziarono a manifestare esigenze nascoste per circa un secolo e mezzo, infine perché si iniziò a studiare e a dividere in rami il vecchio mondo meridionale e si crearono le basi dei primi importanti progetti. Così i fiumi deviati dai loro corsi, vedi il Flumendosa in Sardegna per sconfiggere la sete, portavano alla civiltà dell’acqua, i laghi artificiali costruiti con le dighe di Ancipa e di Sueri in Sicilia, rappresentavano una vittoria sull’antica fatalità del Sud; gli acquitrini malarici trasformati in agrumeti e frutteti in Sila, Calabria e nella Piana del Sele, erano il presente e il futuro di quelle terre una volta regno di briganti e di feudatari, dei bufali, di cinghiali e di pastori erranti; le riforme del Fucino in Abruzzo dove i contadini, stanchi di non lavorare e non di riuscire a vivere quella breve vita, non s’accontentavano più come ha scritto Mario POMILIO con una mangiata di more; il 3 piano B per la lotta all’alfabetismo nei paesi e nei borghi della Puglia significava, come disse CASSIERI, una moneta da far circolare a tutto vantaggio del Sud. Un vasto programma d’iniziative economiche, sociali e culturali, che rappresentavano i simboli di un Mezzogiorno che si era messo in cammino con una rivoluzione vera. Rivoluzione che i cattolici eletti nella DC nell’elezioni politiche per l’Assemblea Costituente e del 18 Aprile del ’48 stavano facendo nel Mezzogiorno con una legislazione speciale, con un trasferimento ingente di risorse, mobilitando la classe dirigente locale e nazionale attenta ed intelligente che intendeva realizzare ciò che non erano riusciti a fare né i borboni, nel Regno di Napoli né i governi post-unitaria da Cavour a De Pretis, da Giolitti a Mussolini. È certo allora che i cattolici, impegnati in politica, il pensiero meridionalista del dopoguerra fu soprattutto un pensiero economico, questo significava indicare una cifra accanto ai tanti problemi che da secoli esistevano e che allora si andavano denunciando. La strada che fu indicata all’Assemblea Costituente per il nuovo patto, tra il Mezzogiorno e la DC, si fondava sulle Regioni, destinate in quella logica a rappresentare il punto di saldatura tra politica ed economia. Non a caso gli interventi dell’assemblea costituente di Mortati e di Fiorentino Sullo, sul legame strettissimo, Mezzogiorno, Democrazia e Regione, fecero comprendere fino a qual punto il Regionalismo di cui si trovano continui riferimenti nelle discussioni, in quegli anni di dibattiti, fatti dalla CISL, dalle ACLI, dalla DC, fosse considerato fondamentale ai fini di un nuovo sviluppo della democrazia del Mezzogiorno. Ecco a grandi linee il programma di questo libro che discute una problematica attuale: le condizioni in cui versa ancora oggi il Mezzogiorno. 4 CAPITOLO I I PROTAGONISTI CARLO PETRONE E LA QUESTIONE MERIDIONALE Nella storia della DC, quando si parla di Petrone, si pensa al II Congresso di Napoli e all’impegno d’onore di Alcide De Gasperis nei riguardi del Mezzogiorno. Petrone, dopo il 1° Congresso di Roma dell’Aprile del ’46, fu eletto componente della direzione dal Consiglio Nazionale della DC e incaricato di costituire un comitato economico, articolato in varie commissioni di studio. Queste commissioni di studio furono organismi rappresentativi delle diverse categorie produttrici di un determinato settore economico e dovevano preparare la piattaforma delle risposte che la DC, candidata al governo del paese, doveva dare ai problemi del Mezzogiorno, questo scriveva sul periodico della DC “Popolo e Libertà”. L’iniziativa affidata dalla DC a Petrone nasceva anche dall’interessamento che quasi tutti partiti manifestavano per la cosiddetta Questione Meridionale. Infatti, il partito d’azione aveva tenuto due convegni: a Bari e a Napoli con uomini politici e intellettuali. Il Partito Comunista si era reso promotore per iniziativa di Amendola del Centro Economico Italiano del Mezzogiorno con sedi a Napoli, Bari e Palermo ed aveva organizzato due convegni: uno per i trasporti e l’altro per le trasformazioni fondiarie; il partito socialista aveva fondato la società per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno dopo il discorso di Nenni a Caserta per il referendum istituzionale. Petrone seguiva con grande attenzione le attività che gli altri partiti svolgevano per dare le soluzioni adeguate al Mezzogiorno d’Italia. Infatti, il 19 Aprile inviava al Presidente del Consiglio De Gasperis una serie di appunti escludendo la costituzione di un altro ente simile a quelli degli altri partiti e proponeva di controllare qualcuno già esistente, vedi l’Associazione per gli interessi del Mezzogiorno. Ente questo che oggi, per mancanza di fondi, ha una vita grama, nonché per la sua antica impostazione non risponde alle esigenze attuali. Il disegno di Petrone era quello di affiancare alle attività di studio e di consultazione, svolte fino allora dalla vecchia associazione di Bonomi presidente e Zanotti vicepresidente, quella dell’iniziativa di tipo economico sociale, intesa a 5 promuovere l’istituzione nel Mezzogiorno di enti di risparmio e credito in modo che le eccedenze del reddito agrario locale, che erano imboscate, fossero adoperate per la razionalizzazione dell’agricoltura e finanziano anche le nuove imprese industriali che nell’agricoltura debbono trovare le basi del rifornimento. I Comitati Economici ebbero vita breve in quanto la DC preferì la Commissione Campilli che svolse lo stesso lavoro di analisi e di studio, anche se limitato all’impegno personale di alcuni volenterosi e non ad un lavoro di gruppo. Tuttavia, essi furono, per Petrone, un’utile esperienza perché gli consentirono una preparazione e una conoscenza dei problemi economici, riguardanti il Mezzogiorno, che tenne una relazione sui provvedimenti legislativi a favore del Mezzogiorno al secondo Congresso Nazionale della DC. Bisogna ricordare che nel Giungo del ’45, Petrone aveva indetto una riunione presso la Direzione Centrale della DC con alcuni amici meridionali ed insulari che risiedevano a Roma occasionalmente, per avere uno scambio d’idee sulla crisi politica che toccava gli interessi morali e materiali delle regioni meridionali ed insulari. Alla riunione presieduta da SEGNI, relatore Petrone, parteciparono tra gli altri SPATARO, RUBINACCI, ALDISIO ed altri che fissarono alcune considerazioni, visto che le regioni meridionali ed insulari erano state estranee al sorgere e all’affermarsi del Fascismo, considerato che le regioni meridionali, fedeli all’unità nazionale, iniziarono l’opera di ricostruzione dello Stato, ricordato che queste regioni hanno dato un gran contributo alla liberazione dell’Italia dal NaziFascismo, affermando la necessità di un assoluto equilibrio nei rapporti spirituali ed economici fra tutte le regioni, chiedono che il nuovo governo sia espressione degli interessi solidali della nazione. Viene nominata una Commissione per studiare quali delle proposte fatte potevano essere attuate. La relazione che Petrone lesse al 2° Congresso rappresenta una tra le cose sue migliori per la linearità del programma ed in accordo con tutta la tradizione meridionalista dei cattolici impegnati in politica. Petrone ricorda non solo quanto Don STURZO aveva affermato a Napoli nel Gennaio del ’23, ma anche l’introduzione che scrisse per il volume Mezzogiorno: impegno d’onore della DC. Relazione approvata dalla Commissione di Studi del comitato regionale campano; l’articolo “Napoli e il problema del Mezzogiorno” che pubblicò 6 nel Risorgimento nel ’47; ma soprattutto il messaggio che vi era appena arrivato e dove il prete calatino lo invitava calorosamente a prendere a cuore Napoli e le popolazioni del Mezzogiorno e le isole che aspirano alla rinascita, nonché gli auguri per tutti i democratici cristiani convenuti nel momento in cui incombe loro la responsabilità di condurre il Paese al consolidamento della Repubblica nell’ordine e nella libertà, conciliando gli interessi locali con quelli nazionali e subordinando gli interessi del partito al bene supremo della nazione. La discussione che si svolse al congresso sulla relazione Petrone, rappresentò un fatto rivoluzionario nella storia del Mezzogiorno. Infatti, mai prima di allora, la classe dirigente era andata oltre, mai vi era stato una volontà politica nel prospettare interventi concreti per modificare le strutture arcaiche della realtà meridionale, mai, infine, un impegno di partito era stato tanto sensibile verso la gente del Sud. Non a caso il congresso approvò la seguente mozione: Compito del congresso è di determinare la linea politica del partito in ordine alla Questione Meridionale, impegnandosi alla risoluzione di essa, creare le condizione di una solidarietà interclassista sulla base dell’elevazione dei ceti più umili e dell’attuazione di una più piena giustizia distributiva, così lo stesso compito compete per giungere nel più breve termine alla cancellazione di questa vergogna che grava sul primo ottantennio di vita dello stato unitario e cioè al mantenimento di una differenza tra Nord e Sud discriminante. Il congresso deliberò che l’inferiorità del Mezzogiorno, derivante da fattori geografici, climatologici, geologici e storici, ha potuto perpetuarsi in conseguenza di tre elementi fra loro interdipendenti: la povertà della struttura economica nella produzione e nello scambio, l’inesistenza di un’idonea classe politica, infine la diversa consistenza demografica (poco più di 1/3 dell’intera popolazione contro 2/3 nella parte centro – settentrionale della penisola) e la conseguente insufficienza del peso politico del Mezzogiorno. Questa situazione è l’unione in cui si trova i primi due elementi fra loro, esigono una duplice azione del partito, una sul piano della politica nazionale per migliorare le condizioni del Mezzogiorno, la seconda diretta a potenziare la sua influenza sull’attività dello Stato rinnovando la classe dirigente. Si ha bisogno di un’educazione politica e di una solidarietà degli interessi del lavoro che vanno sollecitati dal partito. Ancora l’azione 7 del partito deve mirare alla valorizzazione economica del Mezzogiorno, determinando condizioni propizie al sorgere di una classe progressista di liberi produttori. Bisogna operare grandi opere di sistemazione dei corsi d’acqua che appaiono condizione prima per la riforma fondiaria ed il rinnovamento economico del Sud. Il problema politico è di non tralasciare nella graduazione delle opere di bonifica, in una posizione d’inferiorità, intere regioni – vedi Calabria – per le quali più lungo complesso e costoso si presenta il risanamento, predisponendo fin d’ora un piano analitico di tutto il complesso lavoro da compiere alternando le varie regioni. Riguardo al finanziamento bisogna assicurarlo nel tempo per dare esecuzione ai lavori, evitando la beffa delle leggi speciali per il Mezzogiorno, rimaste inapplicate, per mancanza di stanziamenti di bilancio. Delibera l’impegno del partito di fronte al paese per la risoluzione della Questione Meridionale con tutti i mezzi idonei. Silvio GAVA, in un articolo pubblicato, sul “Domani d’Italia”, così scrisse: il quarto ministero De Gasperis, ha annunciato un piano organico per promuovere l’industrializzazione del Mezzogiorno. Quindi gli intenti del ministero, sono in accordo con quelli del congresso sul problema meridionale. Siamo dunque sulla buona strada per la rinascita delle nostre contrade. Il congresso dovrà ora indicare le linee portanti dell’azione economica e sociale destinate a rilanciare l’ambiente meridionale, anche del settore industriale. Il dottor TOSANA pose rilievo, come la legislazione centralizzata riserva sempre delle sorprese sgradite del Mezzogiorno a causa delle sue condizioni radicalmente diverse da quelle del Nord. Molti esempi possono essere citati a riprova di ciò: accordi sui prestiti sull’Import – Export Bank, che furono conclusi per finanziare industrie che fossero in piena efficienza produttiva e non a quelle che dovessero ricostruire la propria attrezzatura; in questa ultima categoria si trova quasi tutta l’industria meridionale, devastata dalla guerra. Così, quasi tutti i prestiti, finora concessi, si sono diretti verso il Nord. 1. Bisogna affinché altre leggi non contengano disposizioni analoghe, anzi concedere facilitazioni speciali per gli investimenti nel Mezzogiorno, povero di capitale. 8 2. FIM (Fondo di finanziamento di industria meccanica), istituito col D.L. del 8 Settembre del ’47 n°899, per facilitare le imprese industriali italiane, nel campo meccanico, nella loro liquidità finanziaria, l’incremento della produzione anche ai fini dell’occupazione operaia e dell’esportazioni. La legge perfetta, ma non favorì le nostre industrie meridionali, per le condizioni che regolano le sovvenzioni e che le nostre industrie non avevano, ad esempio costituzione sociale dell’impresa, produzione destinata all’esportazione. 3. LEGGE DEL SESTO, lo Stato, in questa legge, riservava all’Italia Meridionale ed isole 1/6 dell’ammontare globale delle forniture e lavorazioni occorrenti alle diverse amministrazioni statali. La legge è un’effettiva conquista del Sud, tuttavia non può esplicare la propria efficacia perché priva di un regolamento aggiornato, sopravvive ancora quello imperfetto del 1906, che definisce sottili controversie. Il Sesto delle forniture, ad esempio, deve essere calcolato sulle distinte lavorazioni o sul suo complesso. Se si dovesse interpretare nel primo senso, come talune amministrazioni pensano, il Mezzogiorno riceverebbe danno non lieve, perché non sempre le industrie sono in condizioni di eseguire talune richieste. 4. LEGGE SULLA DISCIPLINA DELLE INIZIATIVE INDUSTRIALI. Anche questa legge dettava norme uguali per tutta l’Italia, tanto per il Nord saturo di industrie, quanto per il Sud che lamentava assenze. Questo era una grande ingiustizia. Oggi, invece il piano industriale annunciato dal governo De Gasperis pone riparo a quest’ingiustizia, liberando le iniziative meridionali dall’ostacolo, insormontabile della preventiva autorizzazione amministrativa. L’insegnamento che si può ricavare è che la legislazione generale non deve ignorare le particolari condizioni del Sud e che deve essere istituito un organo che abbia il compito di rappresentare le ragioni e le esigenze del Sud. L’amico CASSIANI propone un Ministero per il Mezzogiorno, però diffida per il moltiplicarsi degli organismi burocratici, anche perché sono causa d’interferenze e per questioni di competenza ritarderebbero le iniziative. La maggior parte della stampa nazionale comprese in pieno il problema Meridionale che la DC aveva posto all’attenzione 9 dell’opinione pubblica e alla classe politica, eccetto LA STAMPA di Torino, ma non stupisce il suo atteggiamento, infatti, GORRESIO scrisse il 15 Novembre del ’47 che sulla relazione dell’avvocato Petrone e dalla scialba discussione seguita, non c’è molto da dire perché si è rimasto nel generico. Noi rileggendo ancora oggi la relazione, possiamo dire che non si poteva attendere di più in quel momento storico. Non a caso la DC a Napoli cercava di sottrarre il Mezzogiorno all’egemonia economica del Nord modificando la dinamica degli investimenti produttivi. Così LA NAZIONE ITALIANA, LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO, IL GIORNALE DELL’EMILIA, commentarono favorevolmente la relazione di Petrone, sottolineando lo sforzo della DC nell’indicare le soluzione per il problema del Sud. A riguardo, significativo fu quando scrisse IL ROMA affermando che per molte ore ci fu un interessante dibattito sulla relazione di Petrone con l’intervento a turno di molti oratori che animarono la discussione. IL DOMANI D’ITALIA parlò di giustizia sociale per tutto quanto Petrone aveva detto a Napoli, mentre IL POPOLO, riportò tutta la relazione. Quando il sipario si chiuse sul congresso, i politici, l’opinione pubblica, la stampa, gli economisti erano sicuri che si fosse aperta una nuova pagina della storia del Sud. 2. GIULIO PASTORE: L’ELEVAZIONE SOCIALE DELLE REGIONI DEL SUD Nel 1960 apparve lo scritto “L’ELEVAZIONE SOCIALE DELLE REGIONI DEL SUD”. Pastore era presidente del Comitato dei Ministri del Mezzogiorno del governo Segni. Era stato un protagonista di primo piano dell’antifascismo, ed un padre fondatore del sindacalismo cattolico, l’esperienza governativa fu un’ennesima sfida che visse con il consueto rigore e la tradizionale dedizione alla causa, con la coscienza che gli interessi generali dovevano essere sempre e comunque anteposti a quelli di parte. Pastore, prima di essere stato sindacalista e ministro, era un maestro, forse severo ma certo capace di educare e motivare, e in un’epoca tra gli anni ’50 e ’60 di grandi trasformazioni, una guida era indispensabile per aiutare a capire i cambiamenti in atto, a gestirli, coinvolgendo i soggetti che ai vari livelli sarebbero 10 stati coinvolti. Per Pastore due erano i nodi gordiani da sciogliere, onde rimuovere le cause strutturali del nostro sottosviluppo: il distacco tra paese reale e quello legale, l’incomunicabilità tra la classe dirigente e la popolazione. Il governo, le amministrazioni periferiche, la società civile dovevano moltiplicare gli sforzi e cercare di colmare questo gaps, per rendere operativa nel paese quella forma di democrazia diretta introdotta con la nuova carta costituzionale. Pastore fu risoluto su questo punto non risparmiando nemmeno gli intellettuali, richiamandoli più volte ai loro doveri, rimboccarsi le maniche e mettere al servizio del paese il loro sapere. Pastore invitava a fare qualcosa che non gli era estraneo, lui stesso giornalista, uomo colto, intellettuale preparato e militante dell’azione cattolica, in una parola l’uomo giusto in un momento particolare della storia del nostro paese, che sapeva come e quando la classe intellettuale poteva contribuire allo sviluppo della vita democratica. Partecipazione e motivazione dovevano essere dei veri imperativi categorici e attraverso questi si sarebbe riusciti, pur tra tante difficoltà, ad attivare un processo di espansione sostenuta dell’attività economica, del reddito e dell’occupazione. Questa, la lezione non solo morale ma anche pratica di Pastore, che essendo uomo d’azione, alle parole avrebbe fatto seguire i fatti. Nel ’60 Pastore rese manifesto, ad un vasto pubblico, il resoconto del suo viaggio fatto nelle province meridionali dell’anno precedente, in regioni maledette, toccate solo di recente dalla riforma agraria e da interventi straordinari. Il suo non è stato un viaggio ufficiale ma un esplorazione 360° per toccare con mano la realtà urbana e contadina di quel Sud spesso dimenticato e che chiedeva un definitivo riscatto. Affermò che i massicci interventi finanziari nel campo dell’industria non sarebbero stati capaci di risolvere l’arretratezza del Sud, ma che ad essi doveva unire una presa di coscienza delle popolazioni, ossia la consapevolezza di poter diventare artefici e protagonisti del proprio destino. Per Pastore giustizia sociale, solidarietà e sviluppo non avevano confini né fra Nord e né Sud, né fra settori produttivi diversi, infatti, una rivendicazione sindacale dell’industria del Nord meritava la stessa attenzione di una lotta a favore dei braccianti del Sud. Lo stile di Pastore non era altro che questo, ossia essere fedeli ad un’idea. Storici, politici, economisti di oggi e di ieri devono molto alla sua lezione. 11 Nei suoi viaggi, con gli incontri avuti, ha toccato con mano la realtà meridionale e voleva che la popolazione doveva abbandonare la rassegnazione ed il pessimismo, facendo capire loro che il problema non si risolve in termini assistenziali, né con interventi massicci, il Sud non si eleva se sarà estranea la volontà delle popolazioni interessate. Affermò, infatti, che vi era un distacco tra le classi dirigenti e le popolazioni, quindi bisogna compiere ogni sforzo per saldare questo distacco. Altrimenti, tutto il processo in corso è destinato al fallimento, questo tipo di discorso, fatto nei convegni e nelle piazze è stato accolto perché è più semplice costruire strade e mettere su fabbriche che modificare realtà sociali arretrate da secoli d’abbandono. Bisogna non elaborare piani o programmi complessi, prima e con quest’ultimi operare ogni sforzo a ricucire questo distacco, favorendo la crescita umana. Questo è l’unico modo concreto di sostanziare quella democrazia italiana a cui va dato il merito di aver posto il problema del Sud per prima, intorno al quale, per decenni, ci si è limitati a parole senza far seguire fatti concreti. 3. MEDICI, LA COLDIRETTI E LE ACLI – TERRA Giuseppe Medici, economista agrario, nel suo studio “L’agricoltura e la Riforma Agraria” s’interrogava sull’opportunità di promulgare i provvedimenti eccezionali, atti a quotizzare la proprietà rurale in zone dove il monopolio terriero esisteva ed era attivo. Riteneva possibile questa riforma, anche se in molte zone, un frazionamento delle grandi proprietà spesso presupponeva un complesso di opere pubbliche, di bonifica onde assicurare al contadino il costruire un’impresa agricola. Anche se certe volte i latifondi si sono ricostituiti sotto gli occhi del contadino impotente, ma in molti casi ha dato vita alla piccola e media proprietà. Infatti, dove i latifondi erano composti da nuda argilla, vedi zone della Sicilia, Lucania, Calabria, i contadini per necessità o convenienza cedevano la quota ed i latifondo, se non si ricomponeva, dava origine a grandi proprietà; ma dove, i latifondi erano formati da terre idonee a colture come vite, ulive, mandorlo, la quotizzazione ha creato numerose aziende contadine vitali. Questo dimostrava che il passaggio della proprietà nelle mani dei contadini era, dunque, possibile, ma presupponeva interventi differenziati. Nel 12 Mezzogiorno e nella Scilla occorrevano due tipi d’interventi: nella zona a coltura intensiva bisognava operare una riforma dei contratti agrari, riforma che non poteva essere il risultato di un lavoro legislativo, ma una conseguenza di trattative sindacali. Viceversa nelle zone ad agricoltura estensiva dove l’economia era talmente povera da non permettere un miglioramento della retribuzione del lavoratore, bisognava promuovere un miglioramento dell’organizzazione aziendale, che consiste nel dare ai contadini un solo pezzo di terra e non spezzoni sparsi nel contado. Comune per comune s’impone la determinazione delle quantità massime di grano da corrispondere per unità di superficie. Commissione comunale dovevano fare le operazioni estimali. In questo modo si poteva moralizzare il mercato che interessava milioni di contadini. Una riforma fondiaria poteva rappresentare il fatto nuovo che rompe il ciclo chiuso degli egoismi locali. Medici sosteneva la necessità di una riforma dell’agricoltura meridionale anche per motivi logistici. Infatti, al contrario di quanto è avvenuto in altre parti d’Italia dove il frazionamento della proprietà era accompagnato dal formarsi della piccola proprietà coltivatrice, in molte contrade del Sud e della Sicilia la proprietà era stata conquistata da piccoli commercianti o professionisti che si erano dimostrati incapaci di esercitare con successo l’agricoltura. Le modalità, attraverso cui garantiva le terre ai contadini, erano le stesse di Segni, per il quale una volta stabilito il limite delle proprietà, c’erano 2 soluzioni: 1) espropriare la parte eccedente, pagando la giusta indennità e ripartire la terra ai contadini; 2) fissare un termine entro il quale i proprietari avrebbero dovuto vendere o cedere in enfiteusi la parte eccedente, pena l’esproprio. La prima strada, secondo Medici, avrebbe portato al fallimento, la seconda era più agile e meno pericolosa anche se non priva di inconvenienti. Quotizzare i latifondi, sottraendo terra e potere ai baroni terrieri, ripristinare un libero mercato, promuovere la formazione di una nuova piccola proprietà, erano questi gli obiettivi fondamentali sui quali Medici richiamava l’attenzione. La sua posizione risultò essere espressione dell’indirizzo presente nel mondo cattolico. Un altro contributo fu dato da Romolo VASELLI, grande proprietario terriero romano, in uno studio sulla riforma agraria redatto nel ’49 e indirizzato a Medici, Segni e De Gasperis. Il suo sistema non si basava sugli 13 imponibili catastali e sull’ampiezza della proprietà, ma sul grado di attività dell’azienda, cioè un rapporto in giornate di lavoro – uomo di 8 ore e la superficie agrariamente utile. In una parola il grado d’attività di un’azienda era espresso dal carico unitario di lavoro per ogni ettaro di quell’azienda. Pertanto tutte le proprietà venivano suddivise in 10 classi. Per i terreni che superavano le 100 giornate – uomo per ettaro, vi era l’esenzione dallo scorporo, a riconoscimento della fatica delle proprietà che avevano lavorato e prodotto. Entro 3 anni dalla legge, il proprietario doveva essere autorizzato a porre in essere le opere necessarie per passare alle classi superiori. Il sacrificio che si chiede ai proprietari è graduato in relazione alla funzionalità sociale. Questo sistema avrebbe tolto i proprietari dallo stato d’inattività nel quale si erano rifugiati dallo Stato per paura di una riforma, spronandoli ad avere più manodopera per far giungere la propria azienda alle classi superiori. Il sistema offriva il vantaggio di far risparmiare l’onere dello Stato per l’esproprio delle terre. Un altro documento di Vaselli affermava che bisognava avere un certo riguardo per le zone a coltivazione specializzate, vedi i complessi agricoli vinicoli, aziende che fornivano prodotti caseari da esportazione. Del problema della riforma agraria si occupò anche l’Accademia Economico – Agraria dei Georgofili, che a Firenze nel ’48 tenne un importante convegno di studio della riforma agraria, presieduto da Medici. La mozione conclusiva del convegno ribadiva l’idea dello stesso Medici, definendo le circostanze e i settori per i quali era auspicata una riforma, individuando 3 linee di azione: 1) negli ambienti estensivi erano necessari sia una riforma produttiva che fondiaria; 2) l’obbligo dei miglioramenti fondiari; 3) attivazione del mercato nelle zone ad alta concentrazione della proprietà con l’intensificazione della pressione fiscale in modo da soddisfare le domande di terra a prezzo equo. Schierandosi dalla parte dei contadini, l’accademia riteneva agevolare in ogni modo il libero acquisto di terre. La Confederazione Nazionale dei Coltivatori Diretti, nata nell’Ottobre del ’44, da una scissione del sindacato unitario CGIL sotto la guida di Paolo Bonomi, agevolò Medici. L’associazione di ispirazione cristiana apolitica, raggruppava piccole proprietà, enfiteusi, coloni. La Coldiretti rivendicava i diritti dei suoi associati, difendendo i loro interessi ed esigenze. La Coldiretti restò assente dalle 14 lotte per la terra II dopoguerra, approvando senza riserve, la riforma agraria da Segni e da Medici, fondate sulla formazione della piccola proprietà contadina. Alla Coldiretti si aggiunse nel ’47 la costituzione dell’Associazione Cristiana Lavoratori Italiana, detta ACLI – Terra, che fu vista come un elemento di disturbo dalla Coldiretti, perché questa nuova associazione cercò di unire verso il sindacato unitario, braccianti, mezzadri, affittuari e così via. Le ACLI – Terra s’interessò del problema soprattutto del bracciantato, sul tema centrale della riforma agraria espresse il favore verso una soluzione che maturasse nel sindacato unitario. L’elezione del ’48 e la rottura dell’unità sindacale, determinò l’impegno delle ACLI – Terra sul piano sindacale che portò verso un processo di politicizzazione che culminerà negli anni ’50 verso la DC. Le ACLI – Terra, infatti, in materia di Riforma Agraria, sollecitarono il carattere urgente di questi provvedimenti presi dal governo e dal Parlamento, invitandoli ad abbreviare i tempi e a superare i tempi e le resistenze delle forze che si opponevano. S’interessarono sempre ai lavoratori, dicendo che tutte le riforme sociali dovevano avere come fine la partecipazione del lavoratore alla progressiva gestione del possesso fondiario. Monsignor Civardi, in una lettera inviata a De Gasperis, nel ’49, invitava lo statista a far si che si provvedesse (alla luce dei dolorosi episodi di violenza che diffondono un profondo malessere e contrasto sociale) a dare esito positivo ai provvedimenti legislativi connessi alla riforma agraria. Civardi, mentre riconosceva che qualche passo in avanti era stato compiuto, ammoniva a fare molto di più, anche sotto la spinta degli appelli dei pontefici che richiamavano l’obbligo di dare una proprietà possibilmente a tutti, perché quella stabilità che si radica in un proprio podere, fa della famiglia la cellula più feconda della società. Si auspicava un nuovo ordine sociale segnato alla luce del messaggio evangelico. Le ACLI – Terra dedicarono un’attenzione particolare ai problemi del bracciantato e della riforma, per migliorare le condizioni di vita dei contadini. Anche la mozione del Convegno degli assistenti ecclesiastici della provincia di Salerno, del Gennaio del ’50, faceva riferimento alla lettera dell’episcopato dell’Italia Meridionale, dove si parlava di un nuovo ordine economico del Mezzogiorno e si richiedeva la sollecita presentazione del progetto di riforma agraria. 15 4. ANTONIO SEGNI UN POSSIDENTE RIFORMISTA La figura e l’opera di Segni non hanno avuto dalla ricerca storica una grande attenzione, anche se da più parti è stata segnalata un’opportunità di approfondire la volontà riformatrice di questo uomo politico che cercò di dare una forma organica alle linee di politica agraria del governo, attraverso difficoltà e opposizioni che provenivano da ogni parte, compreso il suo stesso partito. Amava definirsi uomo di centro il cui centrismo che era quello di De Gasperis, era desiderio di giustizia sociale, accompagnato alla difesa di ogni libertà politica. Allo stesso modo il cattolicesimo era sentito come autentica fede. Ebbe senso sociale, rispetto e amore per i poveri e per gli oppressi, voleva costruire uno Stato che non fosse strumento di privilegi, ma fonte di civiltà e di democrazia. De Gasperis ebbe verso Segni sempre deferenza discreta, quasi riservata, diversa dalle clamorose manifestazioni di fedeltà di altri leader. Di De Gasperis, in Segni, rivivevano l’amore verso i popoli ed oppressi, lo slancio per l’affermazione della giustizia sociale che lo porterà all’impopolarità della riforma agraria, la capacità di semplificare i problemi e cogliere gli aspetti essenziali di ogni questione, dote quest’ultima che ne fece un buon ministro dell’agricoltura, un ottimo ministro della pubblica istruzione, un Presidente del Consiglio e un celebre Presidente della Repubblica. Tra De Gasperis e Segni ci fu sempre unità d’intenti e di punti di vista, con poche eccezioni, dovute alla delicata funzione di De Gasperis, Presidente del Consiglio che dovette mediare per cercare di smorzare i toni polemici che provenivano dagli ambienti che si sentivano minacciati e danneggiati dalle scelte del ministro. Il nobile sardo, di discendenza ligure, partiva da una visione dei problemi sociali che aveva in sé una naturale inclinazione per i ceti sociali più deboli, una forte avversione verso i latifondisti, una fedeltà ai valori della terra, che non era immobilismo, ma aderenza ai bisogni di chi lavora, la concezione di uno Stato che non poteva difendere gli interessi di parte, ma promuovere civiltà e benessere. Riformismo sociale e autentico il suo, che non tollerò lo sperpero del denaro pubblico, né lo strapotere di enti pubblici e privati, riformismo che lo portò a promuovere la riforma agraria e a correggerne gli errori, difese sempre la piccola proprietà contadina. Segni non fu mai un tecnocrate, convinto che le scienze, quella 16 economica in primis, non potevano imporsi al politico, ma essere riassunte da questo in una sintesi unitaria per raggiungere i fini che solo la politica, vera scienza delle scienze, poteva e doveva proporre a se stessa. Nella sua fede religiosa e politica c’era un liberalismo che era senso concreto della misura, del limite, diceva di lui “io sono molto sobrio, perché ho assunto il principio di dire il meno possibile per poter mantenere il più possibile ed è questo l’unico pregio che gli amici mi riconoscono”. Il settimanale “Time” ha scritto una volta “Segni, ovvero una vita pulita come uno specchio”, definizione questa sottoscritta dai comunisti ai missini. Una vita pulita, che Segni ha costruito con pazienza e senza stanchezza. Il suo carattere con si è mai smentito nei momenti decisivi, dimostrando con la forza e con la volontà, sensibilità e fierezza, che provenivano da un atteggiamento onesto e cristallino, nei confronti della politica, nei lunghi anni trascorsi nella vita politica attiva. Nato a Sassari nel Febbraio del 1891 da famiglia benestante, divenne nella I guerra mondiale, osservatore d’artiglieria e contrasse una passione per il volo, che sembrerà più tardi inspiegabile in lui, uomo titubante, ma pronti ai continui voli tra Roma e Cagliari. Finita la guerra, fece le scelte importanti alle quali restò sempre fedele. Nel ’20 vinse la cattedra di diritto processuale a Perugia. Il cattolicesimo, con la pratica devota dei sacramenti, fu convinzione una morale profonda. Iscritto al Partito Popolare, fin dalla sua fondazione, nel ’23 divenne consigliere nazionale e nel ’24 fu candidato alla Camera nel collegio di Sassari. Mentre se ne parlava di una stella nascente, Segni collocò la sua vita politica sui binari della coerenza e della dignità. Il delitto Matteotti, il colpo di stato di Mussolini, lo rigettarono nell’ombra della vita privata anche se lui avversò decisamente il regime fascista, tanto che nel ’32, non venne chiamato all’Università di Napoli. Si ritirò nella sua Sassari, della cui università fu rettore dal ’46 al ’51, dedicandosi agli studi giuridici e a quelli tecnici ed agrari, a cui si sentiva portato per il suo amore alla terra, e alla cura delle sue proprietà, che più tardi non esitò a farsi espropriare dalla riforma agraria da lui voluta. Gli anni di meditazione, di assenza dalle battaglie politiche, maturarono nel futuro statista cattolico una profonda riflessione sulle condizioni della sua Sardegna e del Mezzogiorno in generale. Per cui una volta riconquistate le libertà democratiche in Italia, diventò un assertore del 17 regionalismo e fu uno dei principali artefici della legge 28 Dicembre del ’44 sull’autonomia regionale della Sardegna sia di una riforma agraria, che sviluppasse la piccola proprietà coltivatrice colpendo il latifondo. Nel ’42 riprese la sua vita politica, contribuendo all’elaborazione dei documenti agrari per il partito. Dal ’46 al ’51, nel II al VI governo De Gasperis fu ministro dell’agricoltura e foreste e con la riforma agraria dette le sue prime prove della sensibilità verso i contadini ed il mondo rurale. Fondamentale resta la relazione al Consiglio dei Ministri nel 2 Agosto del 49, riguardo alla riforma agraria, affermando che il progetto parte da considerazioni sociali ed economiche. Gli addetti all’agricoltura, in Italia, sono in numero maggiore rispetto ai paesi europei (oltre 8 milioni), superiori alla stessa Inghilterra e Francia (circa 7 milioni e mezzo). La distribuzione dei lavoratori dipendenti è oltre 4 milioni, maggiore che non in Francia, circa 2 milioni. Ora la distribuzione degli addetti all’agricoltura non corrisponde alla distribuzione della proprietà, perché quella coltivatrice raggiunge in Italia solo Ha (ettari) 6.750.000, su una superficie agraria di ettari 27.500.000. E’ vero che la piccola proprietà coltivatrice è aumentata, però questo non basta. Le linee di una riforma dovrebbero seguire la strada degli altri paesi, mettere a disposizione dei lavoratori che cercano terra, una massa di terreni da proprietà pubblica o privata che possono formare una sana proprietà coltivatrice riducendo il bracciantato, e stabilizzando economicamente il campo del lavoro e della produzione agricola. Questa politica di sviluppo della proprietà coltivatrice è storicamente avvenuto con successo già da tempo in Francia, Germania ed in Inghilterra. Per mettere a disposizione la quantità di terra occorrente per creare la proprietà contadina sufficiente a ridurre il numero dei braccianti, per effetto diretto e indiretto della riforma, si dovrà ricorrere alla proprietà di enti pubblici ed anche alla proprietà privata. Questo prelievo è da attuarsi secondo criteri semplici, impedendone applicazioni arbitrarie. Si propone di applicare, data la diversità della nostra terra, un criterio misto, che consideri superficie e reddito seguendo criteri che evitino dubbi e che rena possibile ai proprietari di sapere quanto e cosa dovranno dare, su che cosa concentrare la loro attività. Inoltre il problema della riforma fondiaria non s’identifica con quello della bonifica, perché c’erano zone nelle quali non è necessaria la bonifica 18 e può operare la riforma. Tuttavia vi sono zone in cui i due problemi sono di fatto legati e vanno considerati insieme. La riforma non può essere una semplice distribuzione di terra ma creazione di proprietà coltivatrice produttiva, unita a forma particolare di credito, di qualificazione professionale. In relazione a queste esigenze, la meta da raggiungere era il collocamento di 250 – 300 mila famiglie di coltivatori su 1.200 – 1.500 milioni di ettari. Bisogna iniziare l’opera della riforma nelle zone tecnicamente più indicate e dove il bracciante più diffuso, in prima linea nel meridione dove la bonifica è già avanzata, o zone fuori bonifica dove migliori siano le condizioni. Lo scorporo della proprietà privata deve effettuarsi contro un equa indennità. Sarà consentito un periodo nel quale i trapassi potranno effettuarsi direttamente da parte dei vecchi proprietari ai nuovi con il controllo di uffici particolari. È da facilitare, oltre alla vendita, la concessione in enfiteusi (è il diritto di godere di un fondo altrui e l’obbligo di apportarvi migliorie e corrispondere periodicamente un canone) sia da parte di privati che di enti pubblici, introducendo norme che rendano conveniente reciprocamente tale forma. Lo scorporo da effettuarsi dovrà lasciare sempre esente una base che varia da 40 mila a 60 mila lire di reddito secondo l’estimo catastale accertato in relazione al numero dei figli del proprietario e applicato con criterio progressivo. Si potranno concedere abbuoni ai proprietari che entro un certo periodo eseguiranno trasformazioni. La legge di riforma non ha applicazione retroattiva. Secondo i dati statistici posseduti, il numero delle ditte catastali, soggette allo scorporo, non dovrebbe superare di molto le 8 mila con prevalenza nelle zone a coltura estensiva. Un ente speciale si dovrà creare per le operazioni della riforma, ente distinto da quelli della bonifica e sarà articolato regionalmente. Determinerà in concreto le quote da scorporare, provvederà alla ripartizione, determinerà le opere di trasformazione, assistendo tecnicamente le nuove proprietà che si vengono a formare, infine le modalità della cessazione agli assegnatari che non sarà gratuita ma dovrà essere a pagamento, dilazionata e a mite interesse. Un istituto speciale di credito dovrà assistere la proprietà coltivatrice. Questa, antica e recente, trova la sua sede specificatamente più adatta dovunque è alto l’impiego di manodopera, opportunamente integrata con forme corporative, potrà 19 sulla nuova superficie, intensificare la nuova produzione che è destinata al consumo del mercato anche al mercato estero. L’uomo Segni, dalla personalità inconfondibile, dalla matrice cristiana, si delineò nella sua battaglia per la riforma fondiaria che rappresentò uno dei capitoli essenziali della storia della Questione Meridionale. In questa prospettiva, nel suo impegno meridionalistica, derivante dalla conoscenza approfondita dei problemi immensi che andavano affrontati, nei suoi obiettivi intesi a realizzare quel tipo di società rurale che Don Sturzo aveva a cuore, si collocano la Riforma Fondiaria e l’azione politica di Segni che ad essa fu e resterà sempre legata. I provvedimenti governativi di politica agraria di quegli anni rivelano 2 caratteristiche: innanzitutto la volontà di riassorbire le lotte contadine in ambito legalitario, attraverso una serie di garanzie sulla formazione della piccola proprietà contadina, sul credito agrario, sul collocamento, in secondo luogo lo sforzo di trasformare in consenso allo Stato, ma soprattutto alla DC, la gestione esclusiva della questione contadina. Segni sollecitò una riforma agraria con riferimento alla questione del Mezzogiorno e che non si risolvesse in una semplice ridistribuzione della proprietà, ma che introducesse un nuovo equilibrio tra produzione e lavoro, spezzando i monopoli terrieri. Infatti, la legge agraria di Segni si pose come un fatto dirompente rispetto a strutture fondate su vecchie mentalità, nella difesa d’interessi che, nel Mezzogiorno, s’identificavano nella classe latifondistica. Contro quella classe e i loro interessi, si schierò con ferma decisione, né si curò degli attacchi anche personali. Nonostante le destre lo ingiuriassero come il Sovietico Bianco e i comunisti lo accusarono di scaltrezza, Segni si batté per la riforma agraria che comportò l’esproprio di 114 ettari di sua proprietà, rispondendo con i fatti alle accuse di favorire i grossi proprietari terrieri che aiutavano la DC. La Riforma Agraria fu il fatto basilare e qualificante della politica dei cattolici negli anni della maggioranza assoluta. La DC pagò lo scotto della politica rinnovatrice del centrismo De Gasperiano alle elezioni politiche del ’53 che videro un’affermazione soprattutto nel Mezzogiorno nei partiti di destra, sostenuti dagli agrari che dalla riforma erano stati sconfitti. Questa sconfitta elettorale, però qualificò l’azione politica dei cattolici che abbandonarono una politica conservatrice e avevano sostenuto le fasce sociali più 20 deboli. Varata la riforma agraria, Segni nel ’51, passò al Ministero della Pubblica Istruzione, promuovendo la legge che estese l’istruzione obbligatoria fino all’età 14 anni. Nel ’55 Segni divenne Presidente del Consiglio e dopo l’esperienza di politico e Ministro iniziava quello dello statista. Ebbe massima attenzione verso i problemi del Mezzogiorno tanto che intervenendo all’apertura della XIX fiera del levante, del Settembre del ’55 ebbe a dire che percorrendo queste zone dove era stato già nel ’47 e dove aveva visto abbandono e desolazione, doveva riconoscere che in fondo non avevano sbagliato. Il problema centrale italiano è il problema del Mezzogiorno, affrontato da molti governi e regimi fallendo, di fronte alla complessità del problema. Avevano sbagliato perché non si era riusciti nell’opera di trasformazione di una zona dove l’abbandono era stato plurisecolare. Questo governo ha iniziato quest’opera, e oggi si può dire che lo Stato, grazie alla Cassa del Mezzogiorno, ha compiuto passi giganteschi e decisivi in questa trasformazione. Il miglioramento del Mezzogiorno è il miglioramento di tutta l’economia italiana. Concludeva che gli italiani volevano lavorare, e lo volevano soprattutto quelli senza casa e senza terra. Questo è il compito di un governo democratico, a cui non possono mancare il vostro aiuto e della Provvidenza. Segni, pur avendo altri incarichi di governo, continuò a seguire la legge di riforma fondiaria a cui aveva lavorato tanto. Riteneva che soprattutto in Italia ci doveva essere un’azione diretta dello Stato rivolta a modificare la struttura giuridica ed economica della proprietà fondiaria e si auspicava un deciso intervento legislativo in quelle zone in cui non si erano applicate le leggi di riforma. 5. AMINTORE FANFANI E IL MEZZOGIORNO Per Fanfani la depressione meridionale investiva lo stato d’animo, la psicologia del mondo rurale, in quanto molti contadini erano rassegnati alle loro condizioni e i loro animi chiusi ad ogni fiducia di miglioramento. Un esempio di tale stato psicologico fu offerto dai contadini dei Sassi di Matera, delle capanne delle montagne Lucane e di alcuni Comuni Calabresi, i quali non volevano trasferirsi nelle accoglienti case dei nuovi villaggi costruiti con i finanziamenti delle varie leggi vigenti. L’azione di rottura delle vecchie strutture feudali della riforma agraria, l’utilizzo delle forze di 21 lavoro, il miglioramento delle attrezzature civili, gli acquisti di terre, una volta baronali e poi signorili, per effetto degli investimenti della Cassa del Mezzogiorno, avevano contribuito a scuotere la popolazione meridionale a ridare coscienza a larghe schiere di bracciantati che andavano sempre più acquistando capacità e responsabilità imprenditoriali. Fanfani, in qualità di segretario della DC, diede vita ad un’iniziativa politica a favore del Sud che chiamò “Assemblea delle rappresentanze popolari del Mezzogiorno e delle Isole”. Infatti, ogni anno, a partire dal 1954 organizzò questa assemblea per fare un bilancio di un anno di lavoro in Parlamento e nel Governo per lo sviluppo economico, sociale e politico del Mezzogiorno, indicando azioni ed obiettivi da perseguire nel nuovo anno. Questa iniziativa significò anche un’occasione per ribadire che il Mezzogiorno doveva essere collocato sempre al centro del dibattito e delle riflessioni della classe dirigente cattolica. Il che significava ribadire “l’impegno d’onore” di fare della questione Meridionale un problema nazionale da risolvere nell’interesse di tutto il paese e con la partecipazione di tutti i cittadini. Infatti, nel II° consuntivo dell’azione della DC nel Mezzogiorno, affermò, che l’azione dei governi presieduti da uomini politici di formazione cattolica (194555) si era concretizzata nell’autonomia regionale alla Sicilia e alla Sardegna; degli enti d’irrigazione della Puglia; nei provvedimenti della riforma agraria in Sila, nel Molise e in Campania. Di questa vasta azione d’intervento per il Sud, era stata protagonista, secondo Fanfani, la DC, non a caso il Congresso di Napoli del 1947 ed altri congressi, erano stati momenti ispiratori dei programmi di governo e delle azioni di partito. La DC non avrebbe dovuto mai rinunciare alla preferenza della povera gente. Il suo compito era quello di recuperare quest’ultima a dimensione di vita civile, attraverso l’attuazione di riforme sociali ed economiche, e soprattutto di creare le premesse per la collaborazione di tutti i ceti al lavoro comune al fine di svolgere una specifica funzione nel processo di sviluppo del Mezzogiorno. Quello che Fanfani affermò nella IIª assemblea a Bari, fu un fermento nuovo di vita politica che doveva accompagnare un processo di trasformazione delle vecchie strutture economiche meridionali per inserire nuovi strati sociali per il bene del paese. Il che, significava educare alla dignità di cittadino le giovani generazioni e combattere le vecchie idee 22 con le nuove per arrivare a diversi obiettivi. A Bari Fanfani riaffermò con chiarezza la capacità democratica e politica della DC, che aveva programmato il riscatto della gente del Sud. Infatti, alla fine della IIª assemblea fu approvata la nozione scritta dallo stesso Fanfani. La nozione, dopo l’ampio dibattito che ha messo in luce l’importanza delle realizzazioni attuate grazie anche alla spinta del movimento democratico cristiano, esprime la sua piena soddisfazione per quanto è stato fatto a vantaggio del Mezzogiorno anche sul terreno della valorizzazione della dignità umana, del progresso sociale, della difesa della libertà e dà atto con gratitudine ai governi di coalizione democratica e alla DC, riafferma l’impegno del Partito Democratico Cristiano e per suo tramite dei governi da esso sostenuti. In particolare indica per la futura azione del partito e del governo alcune linee di sviluppo, la proroga del termine di attività della Cassa del Mezzogiorno, per completare i programmi in corso d’attuazione nel settore della bonifica, riforma fondiaria, irrigazione e, in secondo luogo, completare la Riforma Agraria con le ultime assegnazioni dei terreni espropriati; aumento delle cooperative agricole, sviluppo della ricerca scientifica nel campo agronomico e altre iniziative atte a sollevare le condizioni del Mezzogiorno. Infine l’assemblea, conscia che nessuna conquista nel senso del progresso, può essere ottenuta senza la collaborazione stretta tra l’azione politica ed il popolo, impegna la DC a continuare nel suo lavoro costruttivo per meritare un mandato politico ancora più imponente e convinto, che lo metta a guidare in modo efficace la nazione verso mete di progresso, dignità e di pace. 6. MARIO POMILIO “SVINCOLIAMOCI DAL PROVINCIALISMO” Mario Pomilio, pubblicò questo scritto nel volume dal titolo “La narrativa meridionale”. L’idea di questo testo nacque con l’ambizione di riuscire a diffondere un’idea del Mezzogiorno d’Italia il più possibile conforme alla realtà. Il Mezzogiorno era, infatti, negli anni ’50 poco conosciuto, non erano molti i viaggiatori che arrivavano a visitare le bellezze naturali, paesaggi, uomini e povertà e i quei pochi che venivano, si limitavano alla visita turistica di qualche zona ed erano spinti da indagini polemiche. Lo stesso, se non minore, era il movimento delle genti 23 meridionali da zona a zona. È il caso di dire che l’idea dominante relativa al Mezzogiorno, in una certa narrativa prima, da una certa letteratura specificatamente meridionalistica poi, era un’idea letteraria. Lo scritto di Pomilio voleva offrire un’altra idea, di radice letteraria ma con un contenuto di verità, poiché era data da uno scrittore meridionale che conosceva da ormai lungo tempo il Sud. In quegli anni scrittori e poeti critici e narratori come Bartolini, Caproni, Domenico Rea, Pomilio, Prisco e tanti altri, solo per citarne alcuni, partirono verso la Sicilia, la Calabria, l’Abruzzo, la Lucania, per toccare con mano qual era la situazione e cosa stava accadendo nella vita di quelle popolazioni, se qualcosa si era messo in moto o tutto continuava ad essere fermo. Si precisa che, parlando di narrativa meridionale, il discorso verterà solo sulla cosiddetta ripresa meridionalista del II° dopoguerra e non su scrittori di altra generazione, vedi Alvaro ad esempio, o Vittorini che si farebbe fatica a inquadrarli nei nostri schemi, ma anche perché, nonostante certi loro ritorni alla provincia, ritorni distaccati e quasi mitizzati, si tratta di scrittori di respiro nettamente europeo, con interessi complessi (tranne che per Alvaro non si voglia citare gente in Aspromonte) con la tradizione regionalista e verista. Invece, guardando i nomi venuti alla ribalta, in quest’ultimo decennio non si può fare a meno di riflettere alle sorti di Silone ed osservare che i suoi libri sono giunti in Italia con 15 – 20 anni di ritardo, troppo tardi cioè per far sentire la loro influenza sulla nostra narrativa meridionale. Le opere di Silone, sono troppo calate (eccetto Fontamara) in valori extra - artistici e tali da tenere a battesimo una nuova narrativa. Esse presentano molti degli elementi della crisi della letteratura del ventennio che solo dopo la fine del Fascismo dovevano divenire attuali. Se vogliamo una narrativa ispirata al Sud, e che si caratterizzi politicamente meglio di quanto sia avvenuto finora, bisogna considerare il Mezzogiorno un’entità definibile perché chi pensa di accostarsi, e coglierlo in termine di rappresentazione, puntando su elementi esterni, vedi l’ambiente, il costume, rischia di fare bozzettismo. Per l’appunto come non è successo a Silone che dai suoi cafoni risaliva a mettere in luce una vera condizione umana, come pure a Jovine, per citare un’altra eccezione, che in “Le Terre del Sacramento” ci ha lasciato un romanzo di quella che potrebbe essere una narrativa 24 meridionale; come, invece, è accaduto a molti scrittori partiti all’avventura, alla riscoperta del Sud, parlando di un ambiente solo di nome meridionale, ma in realtà fittizio. È mancato anche il ricambio tra cultura meridionalista e narrativa di ispirazione meridionale. Infatti, l’esempio di Levi non è stato inteso, è mancato anche una sutura tra la tradizione realista fra la fine del secolo e la ripresa neo - realista di questi anni. Quindi, più che di ripresa, c’è stata una ripetizione stanca che ha reso arretrata e provinciale la nostra letteratura. Il Verismo di Verga, s’inseriva in un fenomeno europeo e la stessa poetica dell’impersonalità con tutti gli equivoci, era stato un valido strumento di ricerca. Oggi alla poetica dell’impersonalità si è sostituita quella del documento che è superficialità. Si ha insomma l’impressione che, dopo le violente negazioni, nei primi momenti, sia mancata alla narrativa meridionale, lo slancio per rinnovarsi, dal piano della denuncia, non ci pare che finora abbia mostrato la forza per ricostruire. Un discorso a parte merita le sue eccezioni, vedi di certi scrittori come Prisco che è passato in sordina, per difetto di certa nostra critica distratta. Non a caso, dopo le pagine disinteressate dei primi due libri con “Figli Difficili”, fa un’indagine severa e penosa di quella piccola e media borghesia che seppur collocata nella sua provincia, rispecchia le problematiche, l’immobilismo, la mediocrità di tanta della nostra borghesia non solo Meridionale. Un libro, “Figli Difficili”, che nei suoi intenti, nella sua segreta moralità fa pensare a quelle che potrebbero essere e non sono le vie di una vera, nuova narrativa ispirata al Mezzogiorno. 7. IL NUOVO MERIDIONALISMO DI PASQUALE SARACENO Pasquale Saraceno scrive: “con il 1948 si è delineata una nuova fase del dibattito del nostro paese, i problemi dello sviluppo della nuova società formatasi con la fine della guerra hanno assunto un peso prevalente sui problemi a breve termine della ricostruzione. A questi cambiamenti hanno contribuito 4 eventi importanti: 1. l’attuazione degli ordinamenti previsti dalla nuova Costituzione; 2. la stabilizzazione dei rapporti internazionali; 3. il risanamento monetario; 25 4. l’assegnazione del piano Marshall che garantisce la copertura del fabbisogno dei mezzi di pagamento sull’estero e pone fine all’incertezza sulla nostra economia”. In questo dibattito s’inserirono i cosiddetti “nuovi meridionalisti” che ritenevano impossibile un reale decollo dell’economia italiana senza la risoluzione della questione meridionale, per cui l’unica via era l’industrializzazione. Significativa fu la posizione del Morandi, il quale nel “Manifesto” riteneva che occorresse attività vitali e creative. Egli diceva che lo Stato non doveva concedere solo accordi e facilitazioni, ma di promuovere industrie che abbiano ragioni economiche di sorgere o possibilità di svilupparsi. Nettamente contrari erano gli industriali settentrionali, timorosi che si potesse creare nel Mezzogiorno doppioni di industrie del Nord, oppure che la stessa industrializzazione potesse essere favorita da condizioni di vantaggio rispetto al Nord. Le motivazioni principali erano 2: 1. mantenere intatte le condizioni di sviluppo dell’Italia economicamente più avanzata; 2. far funzionare le leggi del mercato. La soluzione di questa volontà finiva per essere un appello alla ripresa di una emigrazione verso il Nord o verso l’estero. L’alternativa agrarista non riuscì mai a decollare come tale. L’alternativa migliore fu quella che il Mezzogiorno diventasse un’area di servizi. Saraceno trattò il caso del Mezzogiorno nell’ambito della problematica delle “aree depresse”. La sua diagnosi partiva dalla considerazione che nel Mezzogiorno c’era una forte riserva di mano d’opera disoccupata, ora dato che nel 1949 sarebbero affluiti capitali per gli aiuti americani, c’erano le condizioni per un decollo industriale. La sua analisi parte dal fatto che c’era molta disoccupazione. L’area depressa è l’area in cui ci sono fattori produttivi inutilizzati. In essa, c’è uno squilibrio di risorse naturali e popolazione, quindi gli aumenti di reddito è da ricercarsi nell’industria manifatturiera. In un’area depressa c’è un’alta propensione al consumo, in particolare alimentare, e una propensione all’importazione. Il tutto è in mano dei grandi proprietari terrieri, che non hanno le capacità di intraprendere una politica di sviluppo economico. La preoccupazione del Saraceno era quella di fare in 26 modo che l’iniziativa pubblica fosse tale da utilizzare i meccanismi del mercato. Egli sosteneva che “l’azione statale” doveva essere immaginata sotto forma di investimento, che da un lato migliorino le condizioni di vita e dall’altro creino un aumento di potere d’acquisto per uno sblocco di produzione dell’imprese future. Compito dell’iniziativa pubblica doveva essere quello di guidare l’iniziativa privata. La prima avrebbe dovuto tendere a sommarsi alla seconda ogni qual volta essa fosse stata di per sé insufficiente. Era preoccupazione costante del Saraceno mostrare che le due fonti di iniziativa economica non fossero tra loro contrastanti, ma si integravano a vicenda. La sua concezione rientrava nel quadro di un’economia mista. Un quadro industriale nazionale dove un’industria meridionale, essenzialmente statale, si fosse contrapposta ad un’industria settentrionale in prevalenza privata, avrebbe determinato un equilibrio innaturale nel sistema economico. Protagonisti di quegli anni sono concordi nel riconoscere al Saraceno un ruolo di spicco nel dibattito sul Mezzogiorno per la sua capacità di promuovere effetti diretti tanto da incidere nell’ambito delle decisioni pubbliche. Bisogna dire che almeno dal punto di vista teorico, Saraceno possa essere considerato uno dei promotori della futura Cassa del Mezzogiorno. Nel 1949 Saraceno scriveva che con la spesa pubblica ci si propone di aumentare la disponibilità di alcune dotazioni economiche e sociali di grande interesse per le regioni meridionali; bonifiche, case, porti, scuole, ospedali e unitamente a questo aumento di dotazione, si ottiene un incremento di consumi. In fatto di politica di sviluppo del Mezzogiorno si può dire che alla vigilia dell’istituzione della cassa del Mezzogiorno, due idee potevano ritenersi acquisite: che tale politica doveva fondarsi sui lavori pubblici; la seconda che la proposta di istituire un ente capace di “progettare, dirigere, amministrare le imprese”, oltre che mettere a disposizione capitali pubblici per quei privati che trovano conveniente investire. Il dibattito politico – culturale acquisisce 3 conclusioni: 1. bisognava organizzare una politica coordinata di interventi, diffusa nel tempo ed unificata con un piano; 2. bisognava mettere a disposizione delle risorse finanziarie anche per le iniziative industriali già esistenti nel Mezzogiorno; 27 3. si doveva creare un ente capace di dar luogo ad un’agile politica della spesa e di costituire un progetto unificante. La cassa venne istituita come struttura operativa di fonti e di autorizzazioni di intervento. Questi compiti erano finalizzati a cambiare un habitat sia con attività infrastrutturali, sia con il sostegno delle iniziative per l’ammodernamento produttivo dell’economia meridionale dall’agricoltura a quelli industriali e turistico. Per quanto riguarda la discussione in sede parlamentare, dai banchi della maggioranza se si eccettua una replica del relatore Angelo Raffaele Iervolino alla Camera dei Deputati ebbero solo interventi sbiaditi, le critiche dell’opposizione, invece vivissime, da parte dei partiti di sinistra, ricordiamo tra tutti l’intervento di Amendola, che osservava che la via per la soluzione della questione meridionale non era quella dell’intervento esterno o dall’alto, per mezzo di un ente speciale, ma quella di permettere alle stesse popolazioni meridionali di operare il rinnovamento ed il progresso per quelle regioni rimuovendo con una svolta della politica dello Stato verso il Mezzogiorno e non solo con l’esecuzione di determinate opere pubbliche, le cause di carattere politico e sociale che dal 1862 in poi hanno determinato il formarsi di una questione meridionale. Il limite di questo intervento, come tutti gli altri della sinistra, era che il disegno di legge alternativo restava solo di carattere politico. Viceversa ci voleva una linea di politica economica, con obiettivi chiari, alla definizione dei quali Saraceno dette un contributo fondamentale, favorendo una saldatura fra le diverse correnti del pensiero meridionale, grazie alla quale l’unica soluzione al duplice problema della disoccupazione e dello sviluppo del Mezzogiorno era quello dell’accumulazione del capitale fisso. La filosofia della Cassa per il Mezzogiorno si fondava sull’ipotesi che l’economia avesse bisogno di massicci investimenti, per il “capitale fisso sociale” in modo che, una volta realizzate alcune “infrastrutture”, lo sviluppo si sarebbe realizzato ad opera delle imprese private, agevolato dalla riduzione dei costi di produzione. Infatti, Saraceno era convinto che questi investimenti avrebbero determinato il big – push, capace di modificare l’ambiente sociale da agricolo in industriale. La preoccupazione del Saraceno era che la nuova industria sorgesse per iniziativa privata e che quest’ultima creasse condizioni di convenienza. Egli 28 sosteneva anche la necessità di promuovere un’azione conoscitiva per migliorare e definire le situazioni locali, valutando le possibilità industriali e turistiche. Tutto questo avrebbe reso maggiore la produttività e facilitato gli investimenti pubblici e privati. Saraceno ha scritto: “Un italiano inascoltato, Saraceno, la Svimez e il Mezzogiorno”. Se il “vecchio meridionalismo” aveva visto nella politica dello Stato unitario una delle cause primarie dell’arretratezza del Mezzogiorno, il “nuovo meridionalismo” riteneva che la questione meridionale andasse risolta con la scelta di strumenti tecnici ed appropriati, attraverso un intervento programmato dello Stato, che puntasse sull’industrializzazione, attraverso una politica che modificasse le convenienze dei privati, rendendo profittevole gli investimenti al Sud, creando un’area di risparmio dei privati per la produzione industriale. In questa prospettiva nacque l’idea dell’intervento straordinario, visto come uno strumento di promozione e finanziamento d’iniziative imprenditoriali, rispetto all’intervento ordinario che continuava su tutto il territorio nazionale. La grande lezione del Saraceno è ancora attuale e il suo saggio riapre nel panorama un interesse per l’analisi dei ritardi economici e sociali del Mezzogiorno. LA STAMPA Il Domani Sociale, fu l’organo dei collaboratori cristiani, diretto da Colasanto, uscito nel Marzo del ’44 come edizione per la Campania. S’ispirò alla dottrina sociale della chiesa (Rerum Novarum, enciclica di Leone XIII che condannava l’industrialismo, difendendo i diritti di lavoro, ridava dignità e dimensione umana ai lavoratori per realizzare la giustizia sociale). Due erano i filoni d’interesse del settimanale: l’uno storico dottrinale (che sosteneva la necessità di organizzare sindacati operai liberi cristiani e rilanciava le tematiche della Rerum Novarum), l’altro politico organizzativo (che rivalutava il sindacalismo cattolico, ridava slancio al problema agrario, al movimento cooperativistico). La rivista s’interessò anche di temi riguardanti il Mezzogiorno, affermando che dare un pezzo di terra ai contadini, significava assicurare loro il pane e con esso serenità e benessere. Individuava nell’agricoltura, il settore cardine per la trasformazione e lo sviluppo dell’economia 29 meridionale. L’unità sindacale fu uno dei temi centrali del periodico, anche se non condivideva le scelte fatte dai sindacalisti della CGIL non erano d’accordo nel voler realizzare un’unità sindacale attraverso battaglie sindacali; mentre il periodico dava importanza al significato cristiano del lavoro, della pace e della giustizia cristiana. La storia del quotidiano salutò, a Salerno nel Consiglio Nazionale della CIL l’unità sindacale con un ordine del giorno di fiducia dell’unità dei lavoratori. La storia del quotidiano è legata alla nascita del nuovo meridionalismo cattolico, secondo le intuizioni di Don Sturzo. Un meridionalismo, che si proponeva di fare del Mezzogiorno una questione nazionale, e poggiava la rinascita della nuova Italia su due capisaldi: libertà e giustizia sociale. Un posto di primo piano ebbe la Riforma Agraria, la terra ai contadini, le autonomie locali per ridurre lo squilibrio tra Nord e Sud. Il “Domani d’Italia” diventa un giornale di lotta politica che assolve il compito di propaganda a favore della DC e al tempo stesso è impegnato a dare al Sud un ruolo centrale nell’ambito dello sviluppo economico e della crescita del paese. LA QUESTIONE MERIDIONALE NELLA PUBBLICISTICA CATTOLICA Nel periodo che va dalla liberazione al II Congresso della DC a Napoli nel ’47, l’atteggiamento dei cattolici verso la questione meridionale, viaggia verso problematiche che si basano sulla questione agraria. Non a caso con la fine della guerra e la ripresa del dibattito politico, gli interessi di classe si andarono sviluppando lungo la linea di scontro tra condizioni sociali diverse, da una parte la borghesia proprietaria e i notabili, che cercavano di difendere il loro status sociale, con i privilegi connessi, al contrario le masse contadine spingevano per la spartizione delle terre. Per queste problematiche, iniziava a farsi strada, tra le forze cattoliche una concezione riformista verso il Sud con un programma che si basava non solo dall’interesse dei cattolici verso questo mondo rurale, ma anche per il timore che le campagne meridionali diventassero luoghi di scontro sociale. Francesco Vito, economista e docente del Sacro Cuore, parla che la soluzione del problema, presupponeva il superamento della concezione liberista dell’economia, sulle cause di disagio dei lavoratori, evidenziò un duplice principio, affermando che se si pretende 30 di trovare rimedi con la politica agraria e con la riforma ai problemi pur connessi all’agricoltura, deve tener presente che hanno radice più profonde che investono l’economia nazionale. A suo dire, l’esigenza della giustizia e dell’efficienza erano la ricetta efficace. La Questione Meridionale si avvia a soluzione nella misura in cui si supera la deludente polemica Nord – Sud per diventare problema di portata nazionale. Le concezioni di Vito trovano conferma nei tanti articoli apparsi nei periodici cattolici che si diffondono nel Mezzogiorno. Da una lettura attenta emergono 3 fattori: evitare i vizi delle rivendicazioni municipalistiche del vecchio meridionalismo; respingere le intolleranze del conflitto esasperato; fare del riscatto del Mezzogiorno una questione nazionale. Il problema meridionale andava assumendo un ruolo centrale nell’ambito del programma politico dei cattolici meridionali che andavano affrontando, ne sono prova saggi, opuscoli diffusi dalle case nel meridione. POPOLO E LIBERTÀ Quest’organo di stampa, uscito nel ’46, di ispirazione democratica cristiana rappresentava il mutamento di tendenza verso le problematiche meridionali, contribuendo al nuovo corso della politica. Fin dal primo numero il settimanale si mise su questa linea, al riguardo Palmieri scriveva che la questione meridionale h bisogno di soluzioni a ciclo produttivo, non servono le rivendicazioni né incolpare i cafoni, i briganti, ma globalità di proposte e far diventare il Mezzogiorno problema nazionale. Palmieri attribuisce all’attività commerciale e a quella industriale, assieme all’agricoltura, il compito d’inserire il Mezzogiorno nel circuito produttivo nazionale. Accenna alla costruzione di una società per lo sviluppo industriale del Sud, la futura cassa del Mezzogiorno, invitando coloro che possedevano capitali liquidi ad inserirlo nel circuito produttivo della nazione. 31 CIVITAS La rivista mensile “Civitas”, fondata nel ’19 da Meda, fu soppressa nel ’26 dal Fascismo, riprese poi nel ’50. Rivista questa che s’interessava di saggi, di storia e di politica, trattò anche della questione meridionale, mettendo al centro la questione agraria, facendo proprio il pensiero di Sturzo, per il quale era fondamentale la necessità dell’emancipazione rurale, la valorizzazione delle autonomie locali, istituendo le regioni onde favorire la partecipazione delle masse contadine alla vita pubblica. Il problema della questione meridionale diventava un problema di giustizia sociale e non poteva essere separato dalla politica generale del paese. Necessitava una politica d’intervento programmata, e questo, da parte dello Stato, è sentito come dovere morale e politico. Per Saraceno il miglioramento che l’economia del paese manifestava dopo il II° conflitto, si mostrò insufficiente ad attenuare il divario Nord – Sud, nonostante i massicci provvedimenti verso il Sud dopo il ’47. Parlava che la questione dell’unificazione economica dell’Italia fosse una questione dell’unificazione politica e vi era la responsabilità dello Stato, perché il perdurare di questo divario poteva riflettersi negativamente sull’Unità nazionale. CASSA DEL MEZZOGIORNO Il vero mutamento della politica, come nell’economia, si ebbe nel ’50 con la Cassa del Mezzogiorno. Infatti, una volta che furono ripresi i rapporti con l’estero, reinserita l’economia italiana nel giro internazionale, assicurati i rifornimenti di materie prime, ridotto il deficit del bilancio dello Stato, l’azione del governo si rivolse alle regioni e alle aree depresse del Sud. Gli obiettivi della Cassa prevedevano un programma pluriennale a favore di aree abbandonate da secoli, nelle quali l’intervento straordinario doveva mirare a conseguire condizioni uguali alle regioni più progredite, aumentando l’occupazione e la produzione. Taviani parlò, a proposito della Cassa, di un organismo distinto dallo Stato, come di una persona giuridica diversificata, che doveva rompere la situazione ambientale e solo dopo doveva intervenire la normale amministrazione. 32 LA DISCUSSIONE Agli inizi degli anni ’50, grazie ai governi presieduti da De Gasperis, molte cose mutarono nel profondo Sud. Gli enti di bonifica, la Cassa del Mezzogiorno, i processi d’industrializzazione, l’impegno dei cattolici, per i quali il Mezzogiorno doveva essere considerato problema nazionale, e su cui si giocava l’avvenire del Paese. Si dava inizio ad un nuovo Meridionalismo che non era più sterile denuncia, ma programmi fattivi. In quegli anni Fanfani, Segni, Moro, Saraceno ed altri trovarono nel settimanale “La Discussione”, il loro punto di riferimento. Il periodico divenne punto di forza del Meridionalismo Cattolico nel proporre misure di politica economica e d’intervento da parte dello Stato, capaci di portare alla riunificazione sociale ed economica del paese. Il Sud non era più un area irrimediabilmente depressa, il potenziamento del Sud era visto come operazione urgente e necessaria per colmare il dislivello del paese. Il settimanale s’interessò anche della letteratura meridionalista. PROSPETTIVE MERIDIONALI La ripresa del dibattito meridionalistica, nei primi anni del dopoguerra, si distinse tra i partiti democratici e personaggi più rappresentativi dell’anti – Fascismo, sicché la discussione sulla questione meridionale rischiava di restare su due opposti filoni culturali: quello marxista, basato sulle rivendicazioni delle masse contadine e quello liberal – democratico con il richiamo alla storia e all’impegno civile. La fine della guerra e la ripresa del dibattito politico portò interesse di categorie ad organizzarsi su due linee: da una parte la borghesia proprietaria e i notabili, che cercavano di difendere il loro status sociale, con i privilegi connessi, al contrario le masse contadine spingevano per la spartizione delle terre. Per queste problematiche, iniziava a farsi strada, tra le forze cattoliche una concezione riformista verso il Sud con un programma che si basava non solo dall’interesse dei cattolici verso questo mondo rurale, ma anche per il timore che le campagne meridionali diventassero luoghi di scontro sociale. Si discuteva quindi su un terreno d’incontro tra studiosi di problemi meridionali, uomini di cultura che si ponevano il problema dello sviluppo 33 democratico del Mezzogiorno. Prospettive Meridionali si occupò anche della polemica coi comunisti di Cronache Meridionali, la rivista d’Amendola, ossia contrastare la penetrazione social – comunista nelle campagna e fra gli intellettuali meridionali, sia una politica d’alleanza con ceti a loro affini. La rivista s’occupò dei problemi del Mezzogiorno, discutendone gli aspetti di sviluppo, prospettando attività d’intervento pubblico, invitando comuni e province meridionali a partecipare con maggior impegno alla rinascita. Infine ribadiva la necessità di creare un capitale fisso sociale per favorire lo sviluppo industriale, facendo leva sulla questione che lo sviluppo del Mezzogiorno diventasse fattore essenziale dell’intero processo di sviluppo dell’economia. 34