Conferenza di Organizzazione Cgil 29-31 maggio 2008
Intervento di Valeria Fedeli
Per un sindacato che continua a contare anche domani
“Non possiamo pensare di risolvere i problemi di oggi con lo stesso
metodo con cui essi si sono generati” [Eisenstein]
Formazione, giovani, donne, contrattazione decentrata, unità: questi i
nodi di innovazione emersi dal dibattito della conferenza
d’organizzazione della Filtea. Questi i temi su cui abbiamo scelto di
presentare emendamenti mirati, questi i temi che vorremmo fossero parte
del dibattito di tutta la confederazione.
Formazione sindacale, come strumento per fornire alle persone – in
particolare ai giovani delegati - mezzi efficaci di empowerment
personale, strumenti per dare capacità negoziali, conoscenza e
competenza che accrescono le opportunità di realizzare aspirazioni,
consapevolezza dei diritti, convinzione delle proprie qualità professionali.
Giovani come punto visibile di rinnovamento, come varco per aprire
un’innovazione culturale che conservi rinnovata la nostra forza di
rappresentanza, sia rivolta al mondo del lavoro cui abbiamo sempre
parlato, sia ai nuovi lavoratori, adeguando la nostra capacità di risposta ai
tempi del cambiamento, della flessibilità, del mondo globale, della
società complessa.
Contrattazione decentrata per essere più efficaci nella rappresentanza di
lavoratori che dobbiamo riconoscere nelle personali esperienze di vita,
collocando le nostre risposte vicino ad ogni singolo lavoratore,
modulando, nelle pratiche di contrattazione, esigenze comuni e differenze
di territori, distretti, filiere, imprese.
Con questo non neghiamo, ovviamente, anzi difendiamo il ruolo
strategico ed egualitario del contratto nazionale, ma non possiamo
pensare di viverlo al di sopra delle persone in carne e ossa, perseverando
in un’idea dell’uguaglianza che nega le differenze e non lascia spazio al
merito e alle capacità di ciascuno.
Unità sindacale, poi: non unità come astratto dover essere, o costrizione
contingente, ma proposta sindacale forte, che superi divisioni storiche che
non trovano ragioni nell’oggi e che indeboliscono i lavoratori; che prenda
atto delle mutazioni storiche, sociali ed economiche degli ultimi anni e
dei riflessi diretti e tangibili che proiettano nei luoghi di lavoro; che
rilanci un’idea nuova e più alta delle forme della rappresentanza sociale.
Seguendo la straordinaria strada aperta dall’accordo del 12 maggio, che
individua un equilibrio nuovo e moderno tra livelli di contrattazione
nazionale e decentrata, con il ruolo insostituibile del Ccnl inserito in una
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visione di unità della rappresentanza di tutti i lavoratori, di qualunque
comparto, e, quindi, di unità dei sindacati.
Abbiamo davanti una sfida che so complessa ma di cui non posso non
vedere il fascino. Il fascino del trovarsi in uno di quei momenti della
storia in cui ti viene dato il compito di dimostrati all’altezza della
tradizione e del nome che rappresenti: la sfida per un sindacato che
continui a contare anche domani.
Leggere la società, per un’innovazione necessaria
La Cgil, come l’insieme dei sindacati confederali italiani, è
organizzazione sociale forte e decisiva nella rappresentanza degli
interessi e nella loro composizione equilibrata con interessi diversi, tanto
più nell’affrontare e governare i cambiamenti. Ma dire questo non basta.
Siamo in ritardo – è bene dircelo, è bene discuterne – nella lettura della
società, dei cambiamenti, del ruolo che il lavoro svolge nella vita delle
persone. Debolezze di analisi e limiti di dibattito che occorre affrontare,
mettendo in campo un’innovazione che deve vederci tutti attenti,
sensibili, coraggiosi, per superare ogni abitudinarismo, ogni comodità
delle posizioni conosciute, ogni chiusura, per interpretare e rispondere a
bisogni e aspirazioni dei lavoratori.
Mercati aperti, outsourcing ed esternalizzazioni, tecnologie sempre più
veloci, internazionalizzazione delle imprese: abbiamo bisogno di
innovazione culturale, di conoscenza collettiva, di capire e stare dentro, di
partecipare al governo di queste trasformazioni. Trasformazioni che ci
pongono il tema di quale debba essere il ruolo del sindacato.
Non è più prevalente, tra di noi, la cultura dell’antagonismo, ma in attesa
di metabolizzare una nuova interpretazione della nostra funzione sociale,
ci ritroviamo stretti in una logica di conservazione, preoccupazione,
perfino paura, che diventa addirittura deleteria se finisce per strutturarsi
in opposizione al cambiamento.
E così, ci ritroviamo troppo spesso a chiuderci sul nostro passato, a
svolgere una funzione puramente difensiva. Insomma, rischiamo di
ritrovarci in un vicolo cieco, ancor più se ci facessimo promotori di una
contrapposizione tra passato e futuro, stretti tra una visione passatista e
l’accettazione di un futuro descritto e perseguito da Confindustria e
governo.
Dobbiamo sapere che il passato deve vivere nel presente, è al presente
che dobbiamo declinare valori, proposte, linguaggi, anche per
immaginare il futuro e cominciare a costruirlo. Solo così potremo tenere
viva la rappresentanza e proiettarla in avanti. E lo possiamo fare, Cgil e
sindacato in potenza unitario, proprio in virtù della nostra storia, della
consapevolezza di cosa vuol dire essere socialmente necessari, della
ricchezza umana ed etica che ispira le nostre comunità e le nostre
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battaglie. Lo possiamo fare, ma non è naturale riuscirci, dovremo
dimostrarci capaci.
“I grandi cambiamenti in corso, che accompagnano l’esaurirsi della crisi
fordista segneranno la fine dello stesso concetto di lavoro astratto, senza
qualità, per fare del lavoro concreto, del lavoro pensato e quindi della
persona che lavora il punto di riferimento di una nuova divisione del
lavoro e di una nuova organizzazione dell’impresa.” Sono parole di
Bruno Trentin. Proprio Trentin ci ha abituato a parlare della “necessità di
salvaguardare le esigenze vitali della persona” – sono ancora parole sue –
ci ha ammonito per tempo sul doverci occupare del “diritto a un avvenire,
all’autorealizzazione di sé attraverso il lavoro, come persona
inconfondibile nella massa indistinta di individui”.
Un tempo c’era la classe operaia, sapevamo chi era la nostra base di
rappresentanza, e soprattutto era una base di rappresentanza coesa e
simile. Oggi non è più così, e non importa che questo ci piaccia o meno.
La funzione di rappresentanza deve sapersi adattare alla realtà esterna,
non compiacersi intorno a modelli sociali astratti e ideologici, cercare di
migliorare le condizioni esistenti, non rifiutarle, sporcarsi le mani, non
fare testimonianza.
Il lavoro è parte fondamentale della vita di tutte le persone, non cosa
altra, non complementare e non assoluta, ed è con questa cultura di
attenzione alla persona che va affrontata la difesa e affermazione dei
diritti del lavoro. Al di là delle statistiche e delle definizioni contrattuali,
conosciamo e sappiamo immaginare, qui, dalla nostra conferenza
nazionale d’organizzazione, le facce, i luoghi di vita, le esperienze delle
persone? Sono davvero i lavoratori, e non solo il lavoro come entità
astratta, al centro del nostro dibattito?
Qual è il senso del sindacato oggi?
Insomma, ci capita di sentire intorno a noi – ed è bene che la esplicitiamo
ancora per non fare la parte di chi non vuol sentire, o peggio di chi non sa
rispondere – la domanda sul ruolo, sulla funzione, sugli obiettivi del
sindacato. Sappiamo rispondere se a chiedere è un ragazzo che sta
finendo gli studi? Abbiamo le parole giuste? Lo sappiamo che tanti
giovani, oggi, ad esempio, non sanno cosa significa “ammortizzatori
sociali”? Se non rispondiamo con forza corriamo il rischio di apparire
autoreferenziali.
Come spiegare in termini concreti, ad una ragazza fresca di studi o a quei
giovani lavoratori che ci vedono solo come uno strumento in caso di
emergenza, che il sindacato non è erogatore di servizi, ma soggetto
sociale per affrontare, insieme, come intelligenza collettiva, i problemi
concreti e le aspirazioni di protagonismo dei lavoratori?
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Come far loro capire – addirittura conoscere – che è nell’affermazione
della qualità del lavoro, nel suo riconoscimento in termini salariali e di
soddisfazione personale, nella formazione professionale e nella
conoscenza del ciclo produttivo in cui la loro prestazione è inserita e ha
significato che sta la vera forza sociale del sindacato, intesa come
rappresentanza e tutela dei loro interessi?
Questo è il senso nel quale non riusciamo a farci riconoscere da
importanti segmenti di lavoratori: i nuovi lavori, i lavori flessibili, chi
subisce la precarietà, le piccole imprese – in un paese dove il 92 per cento
delle imprese è sotto i 10 dipendenti – dove quasi mai siamo presenti.
Dobbiamo produrre una comprensione e consapevolezza piena che il
vissuto concreto dei lavoratori di oggi e di domani sta nella
globalizzazione, nella centralità dei consumi, nelle nuove tecnologie che
modificano processi di apprendimento e di relazione sociale, nel mutare
dei modi di attribuzione e di riconoscimento del valore, nelle
trasformazioni avvenute nell’organizzazione dell’impresa e del lavoro,
nella funzione intermedia sempre maggiore assunta dai manager, negli
straordinari stravolgimenti del sistema dell’informazione.
Si è modificata la catena del valore, si è frantumata la catena della
rappresentanza, per questo serve un sindacato che si riappropri della
conoscenza reale dell’organizzazione del lavoro, un sindacato davvero
post-fordista con una forte capacità di lettura continua dei cambiamenti
economici e sociali.
Dove le persone lavorano, a contatto con bisogni e aspirazioni
Stare dove le persone lavorano, dove la maggioranza delle persone
lavora: questa è la sfida per un sindacato che vuole restare per tutti. Ecco
perché la riforma della contrattazione. Ecco perché la formazione. Ecco
perché i giovani e le donne. Ecco perché una risposta unitaria.
Stare dove le persone lavorano significa saper rispondere sia ai bisogni
dei lavoratori, in un’ottica strumentale e di sevizio, sia alle aspirazioni
delle persone, per renderle vivibili attraverso l’effettivo e paritario
accesso ai diritti.
Le risposte di servizio sono un elemento di tutela, individuale e collettiva,
a cui il sindacato deve continuare a rispondere, in termini di qualità e in
regime, come è oggi, di concorrenza. Ma se resta solo questo, si diventa
un sindacato dei servizi e non anche della rappresentanza e della
contrattazione migliorativa delle condizioni di lavoro.
Così come, se non vogliamo ritrovarci sindacato a cultura minoritaria,
dobbiamo saper mettere in relazione le aspirazioni personali con i diritti,
le reali pari opportunità per tutte e tutti, il merito individuale e la
trasparenza per i criteri di selezione, la sicurezza sul lavoro e la funzione
di servizio.
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Ecco, ancora, la formazione come fondamentale diritto di cittadinanza.
Eco, ancora, la contrattazione vicina alle persone. Ecco, ancora, il
rinnovamento e l’apertura ai giovani. Ecco, ancora, l’unità che dà forza.
Bisogni e aspirazioni: dobbiamo sapere dove unificare e dove
differenziare. Sapere che le differenze non sono sempre disuguaglianza, e
che la parità a tutti i costi non è sempre uguaglianza.
Perché sulla maternità ci devono essere differenze se una donna ha il
contratto tessile o meccanico o del pubblico impiego o degli artigiani, o
co.co.pro.? O perché deve essere diverso il diritto al riposo, alla salute,
alla malattia? O, ancora, le tutele quando perdi il lavoro: perché non sono
diritti universali? Che senso ha una divisione tra chi può e chi non può
usufruire dei diritti perché ha un rapporto di lavoro differente o opera
nelle imprese sotto i 15 dipendenti?
Ma, dall’altra parte, l’abbiamo detto, ci sono diritti di cittadinanza e
aspirazioni, meriti, che sono in capo alle singole persone, con cui
confrontarci e da leggere senza appiattirli. E c’è il tema della
conciliazione dei tempi di vita delle persone, vita lavorativa e vita privata,
che non può prescindere dal farsi carico delle singole persone.
Cmbiamenti, complessità, partecipazione
I cambiamenti, più volte evocati, ci hanno dato in gestione una società
complessa – che non andrà semplificandosi, che non spetta a noi
semplificare – ed è con la complessità che dobbiamo misurare la nostra
capacità di rappresentanza. Servono risposte complesse, servono spazi e
regole flessibili. Se accettiamo la complessità, come possiamo rifiutare la
flessibilità? Viviamo, e dobbiamo riconoscerlo pienamente, in una società
complessivamente flessibile, e solo confrontandoci con la flessibilità,
accettandola e valorizzandola in senso sostenibile, possiamo evitare che
ricada solo su alcuni, che diventi, per loro, precarietà di vita, ancor più
che di lavoro.
Anche la precarietà, di cui tanto parliamo, è spesso descritta come un
fenomeno unico e unificante: ma mentre è simile il senso di incertezza
dei progetti di vita, sono dissimili i motivi e i contesti dove quel senso si
definisce (come considerare “uguali” le condizioni – e quindi le nostre
risposte – del laureato che cerca faticosamente di fare il lavoro per cui ha
studiato e del lavoratore non specializzato che subisce le difficoltà delle
esternalizzazioni? E come non cogliere che può sentirsi precario anche
chi ha un contratto a tempo indeterminato ma lavora in un settore esposto
alle crisi e alla concorrenza internazionale?), e complessa, quindi, deve
essere la risposta.
All’interno di uno scenario complesso, poi, per poter cogliere e
rappresentare tale complessità, elemento decisivo della cultura che
dobbiamo praticare è la partecipazione. Da una parte in direzione della
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democrazia economica, per realizzare e negoziare le condizioni della
condivisione da parte dei lavoratori, come previsto dall’articolo 46 della
Costituzione, della “gestione delle aziende”. Dall’altra in direzione
interna, sapendo essere organizzazione davvero democratica, a tutti i
livelli e in tutti i percorsi e processi di selezione e decisione.
C’è una questione, su questo, di strumenti, di capacità di informare, di
modulare linguaggi, di scegliere parole, di raccontare in modo
partecipativo. Perché, ad esempio, ancora non usiamo pienamente le
nuove tecnologie per avere un dialogo effettivamente orizzontale, una
circolarità di partecipazione nella costruzione delle decisioni, delle
priorità? Certo, le tecnologie non sono il nostro strumento, lo strumento
della maggioranza di noi, cresciuti e formati in un tempo altro. Ma questa
non può essere una ragione, deve anzi essere uno stimolo in più. Uno
stimolo a ripensare modi del dibattere che appaiono rivolti al nostro
interno, escludenti per una maggioranza di lavoratori, difficili da
comprendere per larghe parti di opinione pubblica, ripetuti in una ritualità
troppo gerarchica e spesso vuota.
E c’è, soprattutto, una questione di valori, di potere e di controllo
effettivo, di ascolto continuo o quantomeno stabilmente organizzato degli
iscritti e dei lavoratori. Abbiamo una struttura gerarchica e processi
decisionali figli del vecchio secolo, di altre visioni e modalità di
organizzazione della società e dei lavoratori.
Non serve più un sindacato centralista, che emette da Roma e chiede di
eseguire agli 11 milioni di iscritti, su tutto, ma un sindacato partecipativo,
con regole chiare, democratiche, che non teme le opinioni differenti, con
percorsi decisionali più aperti, che sa essere unito e che si divide e sceglie
per ragioni sindacali, e non partitiche.
Da una comunità politica a interessi di parte
Siamo una comunità politica, noi in Cgil e in senso più largo come
insieme del sindacato confederale. Ci riconosciamo come tale, ci
rappresentiamo, ci dividiamo anche come tale, ci sentiamo così.
Ma intorno a noi, come dimostrato, ancora una volta, dai risultati
elettorali, i lavoratori, i nostri rappresentati, comunità politica-partitica
non sono e non si sentono più. Possibile che questo non sia per noi un
segnale forte e sufficiente a farci riconsiderare la qualità della nostra
rappresentanza e delle pratiche contrattuali?
Il voto del 13 e 14 aprile è uno spartiacque chiaro. Siamo in un'altra fase
della storia politica italiana – in un’altra fase della società italiana,
iniziata da tempo e che non abbiamo saputo leggere per tempo – che ci
chiede di avere responsabilità, serietà, coraggio intellettuale.
Farci domande vere, e davvero rispondere, senza nascondersi. Dire
qualcosa, decidere, e poi praticare di conseguenza, con evidenza e
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certezza dei tempi di realizzazione. Ancora una volta, come una domanda
che ci deve seguire sempre, per ricordarci di affermare con forza le nostre
risposte: a cosa serve il sindacato, a chi serve, e quale sindacato guardano
gli attuali iscritti, quelli che rappresentiamo attraverso le Ru, quelli per i
quali negoziamo? Quelli che non rappresentiamo? Chi, cosa e come
rappresentiamo?
Se qualcuno ci chiede, oggi, a noi comunità di sindacalisti, se difendiamo
e rappresentiamo interessi generali o di parte, cosa rispondiamo? In un
sistema che immaginiamo pienamente democratico, non spetta alle
istituzioni, al governo, in quanto espressione della volontà popolare,
assumersi la responsabilità generale?
Noi possiamo, anzi dobbiamo, avere una visione dell’interesse generale,
ma nei fatti rappresentiamo una parte. Non c’è nulla di riduttivo, in
questo, non spaventiamoci davanti a chi ci dice che siamo corporativi,
sapendo che essere di parte è effetto obbligato della gestione degli
interessi nelle società complesse, ma sapendo anche, e facendo capire,
che rappresentare una parte non significa per forza avere una visione
ristretta e conservativa della rappresentanza e tanto meno configgente con
gli interessi generali del Paese.
Rappresentiamo una parte, ma nella pienezza di una visione generale. Qui
sta, secondo me, la nuova dimensione, da costruire, della confederalità.
Ci si pone, però, allora, il tema del rapporto con le istituzioni, il governo,
le controparti. La piattaforma unitaria del 12 maggio dimostra che è
possibile assumere una posizione unitaria e forte. Abbiamo, poi,
giustamente difeso lo spazio per un confronto non pregiudiziale con il
governo di centrodestra.
È bene essere molto chiari. Non abbiamo pregiudiziali per le diffidenze
politiche. C’è e deve esserci solo il merito sindacale, il rapporto tra
piattaforme votate dai lavoratori e risultati coerentemente conseguiti. Le
differenze e diffidenze politiche ci rafforzano forse nello scontro
dialettico della contrattazione, ma non ci aiutano nel rapporto con i
lavoratori.
Le funzioni di rappresentanza politica e sindacale sono diverse. Lo sono
sempre state, tranne quando, soprattutto in questi ultimi 20 anni, in questa
transizione infinita e fittamente punteggiata da crisi, ci si è trovati a
svolgere, da parte del sindacato, supplenza politica o ruolo politico
sovraesposto. Non siamo più in quella fase. Non è allora il caso di
ragionare seriamente anche sulla pratica della concertazione, nella veste
assunta negli ultimi quindici anni di condivisione delle responsabilità di
scelta di governo?
Non ci riscopriremmo più forti, anche accettando una visione di parte
degli interessi da difendere, con un modello di relazioni sociali, simile a
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quanto accade in molti paesi europei, con pratiche di contrattazione forti,
nazionali e decentrate, e mirate chiaramente all’obiettivo?
Le ragioni di un sindacato forte e utile, oggi e domani
Insomma ripensare la risposta all’interrogativo che i tempi ci pongono sul
ruolo del sindacato comporta rivedere l’insieme delle necessità di
gestione della società complessa, in cui la dimensione personale lascia
spazio a relazioni frammentate e senza appartenenze forti, in cui
l’interesse generale è una composizione di interessi di parte, in cui
imprese e lavoro condividono vissuti, problemi e successi (e devono
condividerli davvero tutti), in cui chi vuole giocare un ruolo di
rappresentanza deve saperla adeguare, saldo nei valori, al tempo
contemporaneo. Serve, allora, un modello di relazioni industriali e
occorrono pratiche di rappresentanza innovative, audaci, di merito,
efficaci.
È una sfida che non abbiamo più tempo di rimandare, ma è una sfida che
abbiamo l’opportunità di rilanciare, sulla quale competere in innovazione
con governi, politica, con Confindustria e le altre controparti. Una sfida
che continuerà a vederci forti se sapremo trovare le ragioni per
condividere l’obiettivo della crescita, ma qualificarlo, sapendo farne
scorgere i vantaggi ai lavoratori che vogliamo rappresentare, come
crescita economica e redistribuzione reale ai salari, comportamenti
trasparenti ed etici, e crescita che non dimentica i diritti delle persone.
Dobbiamo dare agli iscritti, ai lavoratori, al Paese, grandi ragioni
moderne di utilità e funzione del sindacato: non solo quelle che piacciono
a noi o quelle che già conosciamo, ma quelle adatte alla rappresentanza
oggi, nella fase presente della vita dei lavoratori, e domani, rispetto ai
cambiamenti che verranno.
Formazione, giovani, donne, contrattazione decentrata, unità. Queste le
parole che indichiamo per la prospettiva da intraprendere. Se ne
aggiungano altre, discutiamo, elaboriamo, decidiamo, pratichiamo però
poi, tempestivamente e con verifiche previste, le decisioni.
Basta continuare a decidere e poi non attuare: non è serio, non è
democratico, indebolisce l’organizzazione, ne mina la credibilità e
l’autorevolezza. Senza di questo tutte le discussioni e le decisioni
possibili su organizzazione e strumenti non ci eviteranno di restare fermi.
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