I caratteri del fascismo Gli sconvolgimenti sociali, economici, culturali e politici causati dalla Prima Guerra Mondiale posero la condizioni per la fine dello stato liberale e per l’affermazione d un regime dittatoriale e totalitario, detto Fascismo, instaurato da Benito Mussolini. Per un ventennio, a partire dal 1922, la politica, la società e l’economia italiane furono dominate dal Fascismo; esso trascinò il Paese nella Seconda Guerra Mondiale, le cui sorti decretarono la caduta del regime. Ecco i caratteri peculiari del Fascismo: 1. 2. 3. Il movimento fascista si organizzò come partito milizia, cioè strutturato militarmente, con lo scopo di conquistare il potere, abbattendo il sistema parlamentare liberale per sostituirlo con un regime nuovo. Per conquistare e consolidare i potere, il Fascismo si servì contemporaneamente di mezzi illegali e legali. Il Fascismo fu un regime totalitario, perché cercò di plasmare l’intera società, la mentalità e i costumi, imponendo le proprie concezioni dell’uomo e del mondo, considerate le uniche ammissibili. Tali concezioni esaltavano il mito della giovinezza, lo spirito guerriero, il cameratismo, la violenza; disprezzavano l’egualitarismo e la democrazia; sostenevano la completa subordinazione dell’individuo allo Stato. Per realizzare questa nuova società, il regime fascista attuò un nuovo sistema politico e si dotò di una serie di strutture e organizzazioni. Fu creato un regime dittatoriale, nel quale il potere era concentrato nelle mani di un asola persona, Mussolini, capo del Governo e del partito unico. Organi di polizia e di partito controllavano e mettevano a tacere ogni forma di opposizione e di dissenso. Per inquadrare e indottrinare le masse furono create numerose organizzazioni e si esercitò un ferreo controllo sull’istruzione e sulla cultura. Il difficile dopoguerra Alla fine della guerre l’economia italiana fu caratterizzata da una grave crisi, con un forte aumento della disoccupazione e dell’inflazione . Le industrie, che dovevano convertire le produzioni di guerra in produzioni di pace, ridussero il numero dei loro dipendenti attraverso licenziamenti. Il numero dei disoccupati fu accresciuto dai reduci e dal blocco delle emigrazioni. Il continuo aumento dei prezzi di beni e servizi determinò una forte inflazione, che ridusse il potere d’acquisto di stipendi e salari. I piccoli risparmiatori, inoltre, vennero colpiti svalutazione delle azioni e dei titoli di Stato. Ancora più critica era la situazione dell’agricoltura, gravemente penalizzata durante la guerra dal venir meno della manodopera e dalla concorrenza dei prodotti statunitensi. Il malcontento si diffuse ben presto nell’intero Paese e contagiò tutti gli strati della popolazione. L’esperienza stessa guerra, inoltre, favorì lo sviluppo di movimenti e forze antiliberali ed estremistiche, che radicalizzarono e resero particolarmente violenta politica. Il biennio rosso Nel biennio 1919-20, che venne poi definito “biennio rosso”, l’industria e l’agricoltura furono investite da un’ondata di scioperi, agitazioni, occupazioni di fabbriche e di terre, di esasperati conflitti tra lavoratori e datori di lavoro, come mai si erano visti prima. Sembrava che anche in Italia si potesse realizzare una rivoluzione proletaria sul modello di quella russa. Al Nord, nel 1920, vennero occupate le fabbriche istituiti i consigli di fabbrica, attraverso i quali gli operai si proponevano di gestire autonomamente la produzione. Nelle campagne dell’Italia centro-settentrionale, i braccianti salariati (organizzati nelle Leghe bianche, cattoliche, e Leghe rosse, socialiste) chiedevano aumenti della loro retribuzione; i mezzadri e i coloni chiedevano ai proprietari terrieri una quota maggiore di raccolto, una diminuzione delle spese per le coltivazioni e il diritto di non essere licenziati, se non per giusta causa. Al Sud la protesta dei contadini sfociò in una estesa occupazione delle terre che, tuttavia, non scalfì il sistema del latifondo. I sindacati e l’ala massimalista (quella più radicale) del Partito socialista, che sosteneva le agitazioni, erano profondamente divise sul modo di gestire le occupazioni e di guidare la protesta. Il braccio di ferro venne risolto anche per l’intervento di Giolitti, tornato al governo nel 1920; egli convinse le parti a trovare un accordo. Ad alimentare le tensioni del “biennio rosso” ci furono sia le violenze del neonato movimento fascista, sia le manifestazioni dei Nazionalisti che, sbandierando il mito della vittoria mutilata, avevano occupato la città di Fiume con Gabriele d’Annunzio; il governo fu costretto a riparare all’incedente internazionale, firmando con la Iugoslavia un accordo (Trattato di Rapallo)che riconosceva Fiume città libera, e sgomberando con la forza i dannunziani alla fine del 1920. Nonostante alcuni successi di Giolitti, i governi liberali si dimostrarono incapaci di affrontare il clima di tensione, che generò paura e preoccupazione soprattutto nei ceti medi. La nascita di nuovi partiti Nel clima di fermento dell’immediato dopoguerra videro la luce nuovi partiti e movimenti. Tra il 1919 e il 1921 nacquero il Partito Popolare Italiano, il Partito comunista d’Italia e il Partito Nazionale Fascista. Dopo decenni di esitazioni, i Cattolici decisero di inserirsi completamente nella vita politica italiana. Nel gennaio 1919 il sacerdote siciliano don Luigi Sturzo (1871-1959) fondava il Partito Popolare Italiana, il primo vero partito di ispirazione cristiana. In esso confluivano le diverse “anime” del mondo cattolico, da quella conservatrice e tradizionalista a quella vicina ai sindacati e alle Leghe. Il Partito popolare mantenne una posizione moderata e di centro, appoggiando gli ultimi governi liberali ma senza mai parteciparvi direttamente. A sinistra il Partito Socialista Italiano costituiva il raggruppamento politico più forte. Esso, già da anni diviso nelle due correnti riformista e massimalista, subì un’ulteriore divisione con la nascita di una corrente comunista. Tale corrente era guidata dai fondatori della rivista Ordine Nuovo ( Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Angelo Tasca, Palmiro Togliatti). In questo gruppo spiccava Antonio Gramsci (1891-1937), che contestava al Partito socialista di non avere sostenuto fino in fondo le lotte dei lavoratori durante il “biennio rosso” e quindi di averne favorito il fallimento. Al Congresso di Livorno del 1921 il gruppo si staccò dal Partito socialista, fondando il Partito Comunista d’Italia. Le divisioni interne ai due principali partiti di massa del dopoguerra e il fatto che nessuna delle forze politiche (Liberali, Popolari, Socialisti ) riuscisse ad ottenere la maggioranza alle elezioni impedirono la formazione di governi stabili. Mussolini e il movimento fascista Nel clima teso di questi anni nasceva e si affermava anche il movimento fascista, fondato da Benito Mussolini. Mussolini aveva iniziato la sua carriera politica nelle file del Partito Socialista, divenendone in breve tempo uno degli esponenti più in vista e capo della corrente rivoluzionaria. Nominato direttore dell’”Avanti!”, fu in seguito espulso dal partito per avere appoggiato la tesi interventista, che sostenne con vigore dalle colonne del nuovo giornale “ Il popolo d’Italia”. Partecipò alla Prima Guerra Mondiale, nel corso della quale maturò il suo distacco dalle idee socialiste, per abbracciare un confuso nazionalismo rivoluzionario, che aspirava a portare una nuova classe, costituita dagli ex combattenti. La nascita e l’affermazione del movimento fascista Nel marzo 1919 Mussolini creò i Fasci di combattimento, chiamando ad aderirvi i reduci di guerra e sostenendo con entusiasmo l’impresa di Fiume. Inizialmente il movimento ebbe poco seguito, tanto che alle elezioni del novembre 1919 subì una clamorosa sconfitta, mentre Popolari e Socialisti ottennero un grande successo. E successivamente, però, il movimento riuscì ad approfittare del clima di tensione del biennio rosso, presentandosi come restauratore dell’ordine e della proprietà, come rappresentante degli interessi dei ceti medi, delle classi dirigenti e della borghesia produttiva. Vennero costituite delle squadre armate, organizzate militarmente, che attuavano spedizioni punitive contro le sedi delle organizzazioni sindacali, delle Leghe cattoliche e socialiste, delle Camere del lavoro e delle sezioni socialiste, soprattutto nella Pianura Padana. Le violenze delle squadre fasciste, finanziate da industriali e proprietari terrieri, non furono represse dagli organi di polizia e furono tollerate dal governo, che considerava il movimento fascista come un fenomeno transitorio. Il movimento, invece, dopo il 1920 registrò una crescita rapidissima. La crisi definitiva dello Stato liberale Nel 1921 il clima era tesissimo: le violenze squadriste si erano intensificate sempre più e continuavano nonostante le agitazioni sindacali si fossero ormai esaurite. Ciò innescò nuove tensioni e instaurò un clima da guerra civile. Giolitti si convinse di poter mettere fine alle violenze facendo entrare in Parlamento i Fascisti e neutralizzandone la forza con il risultato elettorale. Alle elezioni del 1921 essi parteciparono alla lista del Blocco Nazionale, insieme a Liberali e Nazionalisti, ed ottennero un successo insperato, riuscendo a portare in Parlamento 35 deputati; Socialisti e Popolari riuscirono a mantenere sostanzialmente i loro seggi. Di fronte al risultato delle elezioni, Giolitti si dimise. Alla fine del 1921 il movimento fascista si trasformò in partito, il Partito Nazionale Fascista, incorporando nella sua organizzazione e nel suo statuto le squadre armate. Nel 1922 il Partito Nazionale Fascista era la più forte organizzazione politica del Paese; attraverso le squadre armate continuava ad esercitare ogni forma di violenza contro Socialisti, Cattolici e Comunisti. I Fascisti proclamavano apertamente di volere conquistare il potere e continuavano a sfidare i deboli governi liberali ( a Giolitti erano succeduti Ivanoe Bonomi e Luigi Facta ). Impotenti, mal sostenuti dai patiti antifascisti, privi della fiducia popolare, gli ultimi governi liberali non riuscirono a ristabilire l’autorità, aprendo la strada alla conquista del potere da parte di Benito Mussolini. Mussolini conquista il potere Nell’estate del 1922 Mussolini si convinse di poter facilmente conquistare il potere. Ideò a tale scopo un’iniziativa, nota come Marcia su Roma. Le squadre fasciste, contraddistinte dalle camicie nere usate come uniforme e organizzate come reparto militare ( sotto il comando do Italo Balbo, Emilio De Bono, Cesare Maria De Vecchi e Michele Bianchi), si diressero verso Roma, giungendo alle sue porte il 28 ottobre 1922. Il governo affidato a Mussolini Tale azione, in realtà, non voleva essere un mezzo per la conquista diretta del potere, ma solo un’arma di ricatto e di pressione sulle istituzioni, con le quali Mussolini stava trattando, per farsi cedere la guida al governo. Per fermare le camicie nere il presidente del Consiglio Facta, seppur tardivamente, decretò lo stato d’assedio, ma il re Vittorio Emanuele III si rifiutò di firmarlo e convocò Mussolini. Solo a questo punto Mussolini si recò a Roma, dove il re gli assegnò l’incarico di formare il nuovo governo, e, per suggellare platealmente la conquista fascista del potere, il 31 ottobre aprì le porte della città alle camicie nere. Con l’assegnazione di questo incarico al capo di un partito armato si compiva il primo atto dell’instaurazione della dittatura e della demolizione dello Stato liberale. I primi provvedimenti del governo Mussolini (del quale facevano parte, oltre che ai Fascisti, alcuni esponenti liberali, popolar e nazionalisti) furono diretti a ridurre i poteri del Parlamento, attribuendoli al governo. Il partito Nazionale Fascista, inoltre, si dotò di organi che avrebbero sostituito, in seguito,quelli istituzionali: Gran Consiglio del Fascismo e la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, un esercito al servizio di Mussolini, utilizzato per reprimere ogni forma di opposizione. Il delitto Matteotti Nell’aprile 1924 vennero indette nuove elezioni; il Partito Nazionale Fascista costituì una Lista Nazionale che includeva anche alcuni esponenti liberali. Le elezioni si tennero in un clima di intimidazioni e violenze, che valsero ai Fascisti il 65% dei suffragi, mentre Socialisti e Popolari crollarono. Il deputato socialista Giacomo Matteotti, che aveva denunciato più volte in Parlamento i brogli elettorali e il clima di illegalità in cui agiva il governo fascista, venne rapito e ucciso dalle squadre fasciste il 10 giugno 1924. L’assassinio di Matteotti suscitò un’ondata di sdegno in tutto il Paese; per protesta i partiti di opposizioni lasciarono il Parlamento, dando vita alla cosiddetta secessione dell’Aventino ( ricordo di quella della plebe romana del V sec. a.C.), nella speranza che questo gesto suscitasse la rivolta popolare e l’intervento del re per porre fine al governo Mussolini. Il delitto Matteotti mise in crisi il Fascismo, ma non ne decretò la caduta, per il mancato intervento del re e per l’incapacità dell’opposizione di sfruttare efficacemente la situazione. Il tragico episodio costituì, invece, l’inizio della svolta autoritaria del regime. L’instaurazione della dittatura Nel discorso del 3 gennaio 1925 Mussolini si addossò la responsabilità di quanto accaduto e dichiarò esplicitamente che avrebbe fatto ricorso con la forza per sbarazzarsi dei suoi avversari. Tra il 1925 e il 1926 vennero presi provvedimenti e promulgate leggi autoritarie ( leggi “ fascistissime” )che pur mantenendo formalmente lo Statuto albertino e la monarchia costituzionale, trasformarono definitivamente lo Stato in un regime dittatoriale a partito unico. 1. Il potere venne concentrato nelle mani di Mussolini, chiamato capo del governo o duce, che non avrebbe più dovuto rispondere al Parlamento, ma solo al re. 2. Il Parlamento venne privato dei suoi poteri e le sue funzioni furono attribuite in parte al Gran Consiglio. 3. Tutti i partiti, ad eccezione di quello fascista, venero sciolti e messi fuorilegge; una nuova legge elettorale introdusse una lista unica, i cui candidati erano scelti dal Gran Consiglio. 4. Venne abolita la libertà di stampa, di associazione e di sciopero. 5. Venne istituito un Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, che giudicava i reati contro il regime, e l’OVRA, la polizia politica. 6. La Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale divenne un corpo delle forze armate agli ordini diretti di Mussolini. In seguito a tali leggi un’ondata di repressione colpì numerosi esponenti antifascisti e la censura provvide a sospendere tutti i giornali che non fossero schierati con il regime. Il consolidamento del regime e i Patti Lateranensi Negli anni successivi il regime portò a termine il processo di “fascistizzazione” dello Stato e della società. Tutte le attività passarono sotto il controllo del Partito fascista e dei suoi funzionari locali. Vennero cancellate le autonomie territoriali:al posto dei sindaci eletti vennero insediati dei podestà nominati dal governo. Fu istituito un sindaco unico, con facoltà di stipulare contratti collettivi con valore di legge. Per consolidare il suo potere, Mussolini cercò di ottenere l’appoggio del mondo cattolico e della Chiesa, che dal 1870 non aveva mai riconosciuto lo Stato italiano. La conciliazione tra Stato e Chiesa venne sancita dai Patti Lateranensi, firmati l’11 febbraio 1929. In base a essi le due entità riconoscevano la reciproca sovranità: il territorio sul quale la Santa Sede aveva giurisdizione assoluta prendeva il nome di Città del Vaticano e diventava uno Stato sovrano a tutti gli eletti. Gli accordi stabilivano, tra l’altro, l’indipendenza della Santa Sede, la validità civile dei matrimoni religiosi, l’insegnamento obbligatorio della religione cattolica nelle scuole elementari e medie. L’accordo con la Chiesa, che chiudeva definitivamente l’annosa Questione Romana, rappresentò un grande successo politico per Mussolini e il suo regime. Nonostante ciò, negli anni successi vivi furono forti contrasti tra Mussolini e papa Pio XI (1922-1939 ) in merito alle associazioni cattoliche, soprattutto l’Azione Cattolica ( di cui il regime mal sopportava l’autonomia e la concorrenza nella funzione educatrice dei giovani ), e alle leggi razziali, promulgate dal regime nel 1938. La “ fascistizzazione “ della società “Io prendo l’uomo al momento della sua nascita e non l’abbandono fino al momento della sua morte, quando diventa compito del Papa occuparsene”. In queste parole di Mussolini è esplicito l’intento del Fascismo di subordinare l’intera vita di ogni individuo allo Sato e all’ideologia fascista. Un Paese “arruolato” Lavoro, tempo libero, scuola, educazione, cultura divennero competenza esclusiva del partito e delle organizzazioni ( Figli della lupa, Balilla, Avanguardisti, Giovani fascisti, confluite nel 1937 nella Gioventù Italiana del Littorio ), coordinate dall’Opera Nazionale Balilla, le quali partecipavano a manifestazioni e sfilate alla presenza dei “gerarchi”, cioè dei capi di partito. La cornice scenografica e culturale di tali sfilate era costituita dai simboli ispirati alla romanità antica. Alle donne, anch’esse inquadrate in organizzazioni, il Fascismo assegnava il ruolo di spose e madri, il cui compito principale era dare alle luce numerosi figli per servire la patria e il regime. Relativamente alla scuola, la Riforma Gentile (approvata nel 1923, ma risultato di un lungo processo antecedente l’avvento del Fascismo ) venne più volte modificata per rendere l’istruzione scolastica più confacente ai dettami fascisti. Venne introdotto il testo unico per la scuola elementare e i libri per gli altri ordini di scuola furono rielaborati secondo le direttive del regime; gli insegnanti furono obbligati a prestare giuramento di fedeltà al regime. Di fronte all’opera di indottrinamento e alla soppressione della libertà di pensiero il mondo della cultura si divise in due. Ci fu chi come il filosofo Giovanni Gentile, autore del Manifesto degli intellettuali del Fascismo, aderì al regime e alla sua ideologia; altri, come il filosofo Benedetto Croce, Pietro Calamandrei, Eugenio Montale, nel Manifesto degli intellettuali antifascisti, riaffermarono le ragioni della libertà e della democrazia. Se Croce fu tollerato dal regime per la sua fama internazionale, gli altri intellettuali antifascisti furono perseguitati, incarcerati p costretti all’esilio. La macchina del consenso Per mobilitare le masse e organizzare il regime si servì di un imponente apparato propagandistico, che seppe sfruttare efficacemente i nuovi mezzi di comunicazione di massa (radio, cinema, stampa ). Della propaganda si occupava un apposito ministero, il Ministero della Cultura Popolare, detto Minculpop. L’opposizione al regime Fin dalla sua comparsa, il movimento fascista aveva fatto ricorso alla violenza e all’eliminazione fisica degli avversari, assassinando numerosi esponenti politici, sindacali e religiosi: tra questi, oltre a Matteotti, furono vittime delle squadre fasciste Giovanni Amendola e don Giovanni Minzoni. Con le leggi promulgate nel 1925-1926 l’opposizione al Fascismo venne ritenuta un delitto contro lo Stato e giudicata dal Tribunale Speciale. Uomini politici, tra i quali gli esponenti dei partiti dell’Aventino, intellettuali, sacerdoti, persone comuni vennero sottoposti a processo e condannati al carcere ( tra gli altri Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Sandro Pertini ) oppure al confino, cioè alla perdita del lavoro e al domicilio coatto in isole o luoghi difficilmente raggiungibili; fu questa la sorte di Alterio Spinelli, Ernesto Rossi, Carlo Levi, Cesare Pavese, Leone Ginzburg: si calcola che dal 1926 al 1943 furono inviati al confino circa 15.000 italiani. Esiliati e fuoriusciti: le vie dell’Antifascismo Carlo Rosselli ed Emilio Lussu riuscirono a fuggire dal confine e a rifugiarsi all’estero. Qui si unirono ai numerosi antifascisti che avevano scelto la via dell’esilio (fuoriuscitismo ), soprattutto in Francia, ma anche in Belgio, Svizzera, Gran Bretagna e Stati Uniti: don Luigi Sturzo, Gaetano Salvemini, Filippo Turati, Nello Rosselli, Pietro Nenni, Piero Gobetti. Dall’esilio gli esponenti antifascisti costituirono movimenti ( tra i quali Giustizia e Libertà ), con l’obiettivo di promuovere in Italia, nella clandestinità, la lotta contro il regime, propagandandola anche attraverso giornali e riviste, come La Libertà e L’esilio. In Italia la lotta clandestina era resa quasi impossibile dalla’azione dell’OVRA, la polizia politica, che colpì duramente l’organizzazione ormai fuori legge del Partito comunista, il cui segretario Palmiro Togliatti si era rifugiato in URSS. La politica economica Nei primi anni del regime, Mussolini non modificò l’organizzazione dell’economia italiana, adottando una politica liberista. Il corporativismo e l’intervento dello Stato Dopo avere sciolto tutti i sindacati, istituendo il Sindacato unico fascista, nel 1927 con l’approvazione della Carta del Lavoro il Fascismo delineò i principi dell’ordinamento corporativo. Esso consisteva nella creazione di organizzazioni ( corporazioni ) nelle quali lavoratori e datori di lavoro avrebbero dovuto organizzarsi nella stessa categoria. In tal modo lo Stato esercitava uno stretto controllo politico sul mondo produttivo e neutralizzava i conflitti sociali. Di fronte agli effetti della grande crisi del 1929, anche l’Italia attuò una serie di misure simili a quelle adottate negli Stati Uniti; il governo diede vita ad un sistema di economia mista, in parte pubblica e in parte privata. Vennero create due strutture finanziarie, l’IMI ( Istituto Mobiliare Italiano ) e l’IRI ( Istituto per la Ricostruzione Industriale ), con lo scopo di sostenere finanziariamente le industrie per incentivare la ripresa e di salvare le banche in difficoltà per aver concesso prestiti ad imprese fallite. L’IRI ( la cui attività sarebbe durata fino al 2002) si trovò a gestire numerose industrie in settori strategici, come la produzione di acciaio ( Finsider ) e la ricerca e la raffinazione di petrolio. ( AGIP) Durante il ventennio fascista lo Stato attuò un vasto programma di opere pubbliche ( ristrutturazioni urbanistiche, ammodernamento della rete ferroviaria e portuale ), tra le quali spiccano i lavori di bonifica delle terre paludose ( dell’Agro Pontino, della foce del Po, della Maremma e della Sardegna ), per ricavare terreni coltivabili e abitabili. In questo modo venne dato notevole impulso all’agricoltura, nell’ambito della quale già dal 1925 il regime aveva lanciato una campagna per l’autosufficienza cerealicola, nota come battaglia del grano. L’autarchia In seguito all’occupazione italiana dell’Etiopia ( 935-1936 ), la Società delle Nazioni aveva imposto come sanzione l’embargo ( cioè il divieto di avere rapportare commerciali con l’Italia). Il governo fascista rispose con l’autarchia, cioè con una serie di provvedimenti volti a rendere l’economia nazionale autosufficiente, facendo a meno delle importazioni da altri Paesi. Tale politica ebbe conseguenze negative per l’Italia, che era priva di materie prime e vincolata agli investimenti stranieri, e danneggiò in modo particolari l’agricoltura e la piccola e media industria. La politica estera Fino agli anni ’30 il governo fascista aveva perseguitato una politica estera tesa a conferire all’Italia prestigio, credibilità e autorevolezza. Intratteneva rapporti amichevoli con i Paesi europei democratici e partecipava all’attività della Società delle Nazioni. La conquista dell’Etiopia Dalla metà degli anni ’30 però, la politica estera italiana si fece più aggressiva e Mussolini concepì un’espansione imperialistica, la conquista di un impero coloniale che desse anche all’Italia “ un posto al sole”, come era successo alle altre potenze europee. Con una martellante propaganda, Mussolini riuscì ad ottenere una vastissima adesione popolare al progetto, tanto che la conquista dell’Etiopia costituì il culmine del consenso al regime. Con un pretesto, Mussolini dichiarò guerra all’Etiopia e nel giro di pochi mesi ( ottobre 1935-maggio 1936), reprimendo duramente la resistenza della popolazione locale, le truppe italiane conquistarono il territorio, destituendo il legittimo re ( negus ) Hailé Selassiè. Il 9 maggio 1936 Mussolini proclamava la nascita dell’Impero italiano. Di esso facevano parte anche l’Eritrea, soggetta alla penetrazione italiana dal 1882, e alcune regioni della Somalia, colonia italiana dal 1908. L’avvicinamento alla Germania Dopo la conquista dell’Etiopia l’Italia impresse una svolta alla sua politica estera, dando vita ad altre imprese militare e avvicinandosi alla Germania nazista ( il cui leader, Adolf Hitler, Mussolini non aveva nutrito inizialmente alcuna simpatia ). Nel 1936 venne siglato un accordo tra i due Stati ( detto Asse Roma-Berlino ), in seguito al quale Germania e Italia intervennero nella guerra civile spagnola e l’Italia ebbe via libera all’occupazione dell’Albania. Negli anni successivi l’Italia abbandonò la Società delle Nazioni e si affiancò alla Germania nazista nella tragica avventura della Seconda Guerra Mondiale. Le leggi razziali L’ideologia fascista contemplava la “ difesa della razza e della stirpe italiana”, ma il regime non aveva mai intrapreso politiche razziste, tanto meno contro gli Ebrei. Gli ebrei italiani erano circa 50.000 e costituivano una parte molto esigua della popolazione; numerosi avevano aderito al fascismo e facevano parte degli organi di partito. Nel 1938 l’atteggiamento del regime mutò, sia per l’influenza della politica razziale nazista sia perché si voleva dare nuovo slancio al Fascismo. Fu il Manifesto degli scienziati nazisti a fissare in 10 punti le posizioni del regime, affermando l’esistenza di una “ pura razza italiana”, alla quale non appartenevano gli Ebrei. Alla fine del 1938 il governo approvò le leggi razziali che fecero dell’Italia uno Stato antisemita. Tali leggi sancivano la discriminazione nei confronti degli Ebrei: erano vietati i matrimoni misti; gli Ebrei non potevano accedere all’amministrazione statale, all’insegnamento universitario, al servizio militare e alle attività imprenditoriale. La politica razziale del governo suscitò sdegno e reazioni negative. Papa Pio XI, che nel1937 con l’enciclica Mit Brennender Sorge ( “Con viva preoccupazione “ ) aveva condannato il razzismo nazista, altrettanto aspramente criticò le leggi razziali italiane. Allo stesso modo la maggioranza della popolazione italiana non condivise la politica antisemita: si determinò allora la prima frattura tra il regime e il consenso popolare. Durante la guerra, soprattutto dopo il 1943 ( quando l’Italia subì l’occupazione nazista ), la persecuzione contro gli Ebrei si fece più spietata e migliaia di Ebrei italiani furono deportati nei campi di sterminio tedeschi. La maggioranza degli italiani cercò di ostacolare le deportazioni e si adoperò per strappare a questa sorte un vasto numero di persone.