I caratteri del fascismo Gli sconvolgimenti sociali, economici

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I caratteri del fascismo
Gli sconvolgimenti sociali, economici, culturali e politici causati dalla
Prima Guerra Mondiale posero la condizioni per la fine dello stato
liberale e per l’affermazione d un regime dittatoriale e totalitario, detto
Fascismo, instaurato da Benito Mussolini.
Per un ventennio, a partire dal 1922, la politica, la società e l’economia
italiane furono dominate dal Fascismo; esso trascinò il Paese nella
Seconda Guerra Mondiale, le cui sorti decretarono la caduta del
regime.
Ecco i caratteri peculiari del Fascismo:
1.
2.
3.
Il movimento fascista si organizzò come partito milizia, cioè
strutturato militarmente, con lo scopo di conquistare il potere,
abbattendo il sistema parlamentare liberale per sostituirlo con un
regime nuovo. Per conquistare e consolidare i potere, il Fascismo
si servì contemporaneamente di mezzi illegali e legali.
Il Fascismo fu un regime totalitario, perché cercò di plasmare
l’intera società, la mentalità e i costumi, imponendo le proprie
concezioni dell’uomo e del mondo, considerate le uniche
ammissibili. Tali concezioni esaltavano il mito della giovinezza, lo
spirito guerriero, il cameratismo, la violenza; disprezzavano
l’egualitarismo e la democrazia; sostenevano la completa
subordinazione dell’individuo allo Stato.
Per realizzare questa nuova società, il regime fascista attuò un
nuovo sistema politico e si dotò di una serie di strutture e
organizzazioni. Fu creato un regime dittatoriale, nel quale il
potere era concentrato nelle mani di un asola persona, Mussolini,
capo del Governo e del partito unico. Organi di polizia e di partito
controllavano e mettevano a tacere ogni forma di opposizione e
di dissenso. Per inquadrare e indottrinare le masse furono create
numerose organizzazioni e si esercitò un ferreo controllo
sull’istruzione e sulla cultura.
Il difficile dopoguerra
Alla fine della guerre l’economia italiana fu caratterizzata da una grave
crisi, con un forte aumento della disoccupazione e dell’inflazione .
Le industrie, che dovevano convertire le produzioni di guerra in
produzioni di pace, ridussero il numero dei loro dipendenti attraverso
licenziamenti. Il numero dei disoccupati fu accresciuto dai reduci e dal
blocco
delle
emigrazioni.
Il continuo aumento dei prezzi di beni e servizi determinò una forte
inflazione, che ridusse il potere d’acquisto di stipendi e salari. I piccoli
risparmiatori, inoltre, vennero colpiti svalutazione delle azioni e dei
titoli di Stato. Ancora più critica era la situazione dell’agricoltura,
gravemente penalizzata durante la guerra dal venir meno della
manodopera e dalla concorrenza dei prodotti statunitensi.
Il malcontento si diffuse ben presto nell’intero Paese e contagiò tutti gli
strati
della
popolazione.
L’esperienza stessa guerra, inoltre, favorì lo sviluppo di movimenti e
forze antiliberali ed estremistiche, che radicalizzarono e resero
particolarmente violenta politica.
Il biennio rosso
Nel biennio 1919-20, che venne poi definito “biennio rosso”, l’industria
e l’agricoltura furono investite da un’ondata di scioperi, agitazioni,
occupazioni di fabbriche e di terre, di esasperati conflitti tra lavoratori
e datori di lavoro, come mai si erano visti prima.
Sembrava che anche in Italia si potesse realizzare una rivoluzione
proletaria
sul
modello
di
quella
russa.
Al Nord, nel 1920, vennero occupate le fabbriche istituiti i consigli di
fabbrica, attraverso i quali gli operai si proponevano di gestire
autonomamente
la
produzione.
Nelle campagne dell’Italia centro-settentrionale, i braccianti salariati
(organizzati nelle Leghe bianche, cattoliche, e Leghe rosse, socialiste)
chiedevano aumenti della loro retribuzione; i mezzadri e i coloni
chiedevano ai proprietari terrieri una quota maggiore di raccolto, una
diminuzione delle spese per le coltivazioni e il diritto di non essere
licenziati,
se
non
per
giusta
causa.
Al Sud la protesta dei contadini sfociò in una estesa occupazione delle
terre che, tuttavia, non scalfì il sistema del latifondo.
I sindacati e l’ala massimalista (quella più radicale) del Partito
socialista, che sosteneva le agitazioni, erano profondamente divise sul
modo di gestire le occupazioni e di guidare la protesta.
Il braccio di ferro venne risolto anche per l’intervento di Giolitti,
tornato al governo nel 1920; egli convinse le parti a trovare un
accordo.
Ad alimentare le tensioni del “biennio rosso” ci furono sia le violenze
del neonato movimento fascista, sia le manifestazioni dei Nazionalisti
che, sbandierando il mito della vittoria mutilata, avevano occupato la
città di Fiume con Gabriele d’Annunzio; il governo fu costretto a
riparare all’incedente internazionale, firmando con la Iugoslavia un
accordo (Trattato di Rapallo)che riconosceva Fiume città libera, e
sgomberando con la forza i dannunziani alla fine del 1920.
Nonostante alcuni successi di Giolitti, i governi liberali si dimostrarono
incapaci di affrontare il clima di tensione, che generò paura e
preoccupazione soprattutto nei ceti medi.
La nascita di nuovi partiti
Nel clima di fermento dell’immediato dopoguerra videro la luce nuovi
partiti e movimenti. Tra il 1919 e il 1921 nacquero il Partito Popolare
Italiano, il Partito comunista d’Italia e il Partito Nazionale Fascista.
Dopo decenni di esitazioni, i Cattolici decisero di inserirsi
completamente nella vita politica italiana. Nel gennaio 1919 il
sacerdote siciliano don Luigi Sturzo (1871-1959) fondava il Partito
Popolare Italiana, il primo vero partito di ispirazione cristiana. In esso
confluivano le diverse “anime” del mondo cattolico, da quella
conservatrice e tradizionalista a quella vicina ai sindacati e alle Leghe.
Il Partito popolare mantenne una posizione moderata e di centro,
appoggiando gli ultimi governi liberali ma senza mai parteciparvi
direttamente.
A sinistra il Partito Socialista Italiano costituiva il raggruppamento
politico più forte. Esso, già da anni diviso nelle due correnti riformista e
massimalista, subì un’ulteriore divisione con la nascita di una corrente
comunista. Tale corrente era guidata dai fondatori della rivista Ordine
Nuovo ( Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Angelo Tasca, Palmiro
Togliatti).
In questo gruppo spiccava Antonio Gramsci (1891-1937), che
contestava al Partito socialista di non avere sostenuto fino in fondo le
lotte dei lavoratori durante il “biennio rosso” e quindi di averne favorito
il
fallimento.
Al Congresso di Livorno del 1921 il gruppo si staccò dal Partito
socialista,
fondando
il
Partito
Comunista
d’Italia.
Le divisioni interne ai due principali partiti di massa del dopoguerra e il
fatto che nessuna delle forze politiche (Liberali, Popolari, Socialisti )
riuscisse ad ottenere la maggioranza alle elezioni impedirono la
formazione di governi stabili.
Mussolini e il movimento fascista
Nel clima teso di questi anni nasceva e si affermava anche il
movimento
fascista,
fondato
da
Benito
Mussolini.
Mussolini aveva iniziato la sua carriera politica nelle file del Partito
Socialista, divenendone in breve tempo uno degli esponenti più in vista
e
capo
della
corrente
rivoluzionaria.
Nominato direttore dell’”Avanti!”, fu in seguito espulso dal partito per
avere appoggiato la tesi interventista, che sostenne con vigore dalle
colonne
del
nuovo
giornale
“
Il
popolo
d’Italia”.
Partecipò alla Prima Guerra Mondiale, nel corso della quale maturò il
suo distacco dalle idee socialiste, per abbracciare un confuso
nazionalismo rivoluzionario, che aspirava a portare una nuova classe,
costituita dagli ex combattenti.
La nascita e l’affermazione del movimento fascista
Nel marzo 1919 Mussolini creò i Fasci di combattimento, chiamando ad
aderirvi i reduci di guerra e sostenendo con entusiasmo l’impresa di
Fiume. Inizialmente il movimento ebbe poco seguito, tanto che alle
elezioni del novembre 1919 subì una clamorosa sconfitta, mentre
Popolari
e
Socialisti
ottennero
un
grande
successo.
E successivamente, però, il movimento riuscì ad approfittare del clima
di tensione del biennio rosso, presentandosi come restauratore
dell’ordine e della proprietà, come rappresentante degli interessi dei
ceti medi, delle classi dirigenti e della borghesia produttiva.
Vennero costituite delle squadre armate, organizzate militarmente,
che attuavano spedizioni punitive contro le sedi delle organizzazioni
sindacali, delle Leghe cattoliche e socialiste, delle Camere del lavoro e
delle sezioni socialiste, soprattutto nella Pianura Padana.
Le violenze delle squadre fasciste, finanziate da industriali e
proprietari terrieri, non furono represse dagli organi di polizia e furono
tollerate dal governo, che considerava il movimento fascista come un
fenomeno
transitorio.
Il movimento, invece, dopo il 1920 registrò una crescita rapidissima.
La crisi definitiva dello Stato liberale
Nel 1921 il clima era tesissimo: le violenze squadriste si erano
intensificate sempre più e continuavano nonostante le agitazioni
sindacali si fossero ormai esaurite. Ciò innescò nuove tensioni e
instaurò
un
clima
da
guerra
civile.
Giolitti si convinse di poter mettere fine alle violenze facendo entrare in
Parlamento i Fascisti e neutralizzandone la forza con il risultato
elettorale.
Alle elezioni del 1921 essi parteciparono alla lista del Blocco
Nazionale, insieme a Liberali e Nazionalisti, ed ottennero un successo
insperato, riuscendo a portare in Parlamento 35 deputati; Socialisti e
Popolari riuscirono a mantenere sostanzialmente i loro seggi.
Di fronte al risultato delle elezioni, Giolitti si dimise.
Alla fine del 1921 il movimento fascista si trasformò in partito, il Partito
Nazionale Fascista, incorporando nella sua organizzazione e nel suo
statuto
le
squadre
armate.
Nel 1922 il Partito Nazionale Fascista era la più forte organizzazione
politica del Paese; attraverso le squadre armate continuava ad
esercitare ogni forma di violenza contro Socialisti, Cattolici e
Comunisti. I Fascisti proclamavano apertamente di volere conquistare
il potere e continuavano a sfidare i deboli governi liberali ( a Giolitti
erano
succeduti
Ivanoe
Bonomi
e
Luigi
Facta
).
Impotenti, mal sostenuti dai patiti antifascisti, privi della fiducia
popolare, gli ultimi governi liberali non riuscirono a ristabilire
l’autorità, aprendo la strada alla conquista del potere da parte di
Benito Mussolini.
Mussolini conquista il potere
Nell’estate del 1922 Mussolini si convinse di poter facilmente
conquistare il potere. Ideò a tale scopo un’iniziativa, nota come Marcia
su
Roma.
Le squadre fasciste, contraddistinte dalle camicie nere usate come
uniforme e organizzate come reparto militare ( sotto il comando do
Italo Balbo, Emilio De Bono, Cesare Maria De Vecchi e Michele
Bianchi), si diressero verso Roma, giungendo alle sue porte il 28
ottobre 1922.
Il governo affidato a Mussolini
Tale azione, in realtà, non voleva essere un mezzo per la conquista
diretta del potere, ma solo un’arma di ricatto e di pressione sulle
istituzioni, con le quali Mussolini stava trattando, per farsi cedere la
guida
al
governo.
Per fermare le camicie nere il presidente del Consiglio Facta, seppur
tardivamente, decretò lo stato d’assedio, ma il re Vittorio Emanuele III
si
rifiutò
di
firmarlo
e
convocò
Mussolini.
Solo a questo punto Mussolini si recò a Roma, dove il re gli assegnò
l’incarico di formare il nuovo governo, e, per suggellare platealmente
la conquista fascista del potere, il 31 ottobre aprì le porte della città
alle
camicie
nere.
Con l’assegnazione di questo incarico al capo di un partito armato si
compiva il primo atto dell’instaurazione della dittatura e della
demolizione
dello
Stato
liberale.
I primi provvedimenti del governo Mussolini (del quale facevano parte,
oltre che ai Fascisti, alcuni esponenti liberali, popolar e nazionalisti)
furono diretti a ridurre i poteri del Parlamento, attribuendoli al
governo. Il partito Nazionale Fascista, inoltre, si dotò di organi che
avrebbero sostituito, in seguito,quelli istituzionali: Gran Consiglio del
Fascismo e la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, un esercito
al servizio di Mussolini, utilizzato per reprimere ogni forma di
opposizione.
Il delitto Matteotti
Nell’aprile 1924 vennero indette nuove elezioni; il Partito Nazionale
Fascista costituì una Lista Nazionale che includeva anche alcuni
esponenti
liberali.
Le elezioni si tennero in un clima di intimidazioni e violenze, che
valsero ai Fascisti il 65% dei suffragi, mentre Socialisti e Popolari
crollarono. Il deputato socialista Giacomo Matteotti, che aveva
denunciato più volte in Parlamento i brogli elettorali e il clima di
illegalità in cui agiva il governo fascista, venne rapito e ucciso dalle
squadre
fasciste
il
10
giugno
1924.
L’assassinio di Matteotti suscitò un’ondata di sdegno in tutto il Paese;
per protesta i partiti di opposizioni lasciarono il Parlamento, dando vita
alla cosiddetta secessione dell’Aventino ( ricordo di quella della plebe
romana del V sec. a.C.), nella speranza che questo gesto suscitasse la
rivolta popolare e l’intervento del re per porre fine al governo
Mussolini.
Il delitto Matteotti mise in crisi il Fascismo, ma non ne decretò la
caduta, per il mancato intervento del re e per l’incapacità
dell’opposizione di sfruttare efficacemente la situazione. Il tragico
episodio costituì, invece, l’inizio della svolta autoritaria del regime.
L’instaurazione della dittatura
Nel discorso del 3 gennaio 1925 Mussolini si addossò la responsabilità
di quanto accaduto e dichiarò esplicitamente che avrebbe fatto ricorso
con
la
forza
per
sbarazzarsi
dei
suoi
avversari.
Tra il 1925 e il 1926 vennero presi provvedimenti e promulgate leggi
autoritarie ( leggi “ fascistissime” )che pur mantenendo formalmente lo
Statuto albertino e la monarchia costituzionale, trasformarono
definitivamente lo Stato in un regime dittatoriale a partito unico.
1. Il potere venne concentrato nelle mani di Mussolini, chiamato
capo del governo o duce, che non avrebbe più dovuto rispondere
al Parlamento, ma solo al re.
2. Il Parlamento venne privato dei suoi poteri e le sue funzioni
furono attribuite in parte al Gran Consiglio.
3. Tutti i partiti, ad eccezione di quello fascista, venero sciolti e
messi fuorilegge; una nuova legge elettorale introdusse una lista
unica, i cui candidati erano scelti dal Gran Consiglio.
4. Venne abolita la libertà di stampa, di associazione e di sciopero.
5. Venne istituito un Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato,
che giudicava i reati contro il regime, e l’OVRA, la polizia politica.
6. La Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale divenne un corpo
delle forze armate agli ordini diretti di Mussolini.
In seguito a tali leggi un’ondata di repressione colpì numerosi
esponenti antifascisti e la censura provvide a sospendere tutti i
giornali che non fossero schierati con il regime.
Il consolidamento del regime e i Patti Lateranensi
Negli anni successivi il regime portò a termine il processo di
“fascistizzazione” dello Stato e della società. Tutte le attività
passarono sotto il controllo del Partito fascista e dei suoi
funzionari
locali.
Vennero cancellate le autonomie territoriali:al posto dei sindaci
eletti vennero insediati dei podestà nominati dal governo. Fu
istituito un sindaco unico, con facoltà di stipulare contratti
collettivi
con
valore
di
legge.
Per consolidare il suo potere, Mussolini cercò di ottenere
l’appoggio del mondo cattolico e della Chiesa, che dal 1870 non
aveva mai riconosciuto lo Stato italiano. La conciliazione tra Stato
e Chiesa venne sancita dai Patti Lateranensi, firmati l’11 febbraio
1929.
In base a essi le due entità riconoscevano la reciproca sovranità:
il territorio sul quale la Santa Sede aveva giurisdizione assoluta
prendeva il nome di Città del Vaticano e diventava uno Stato
sovrano a tutti gli eletti. Gli accordi stabilivano, tra l’altro,
l’indipendenza della Santa Sede, la validità civile dei matrimoni
religiosi, l’insegnamento obbligatorio della religione cattolica
nelle
scuole
elementari
e
medie.
L’accordo con la Chiesa, che chiudeva definitivamente l’annosa
Questione Romana, rappresentò un grande successo politico per
Mussolini
e
il
suo
regime.
Nonostante ciò, negli anni successi vivi furono forti contrasti tra
Mussolini e papa Pio XI (1922-1939 ) in merito alle associazioni
cattoliche, soprattutto l’Azione Cattolica ( di cui il regime mal
sopportava l’autonomia e la concorrenza nella funzione
educatrice dei giovani ), e alle leggi razziali, promulgate dal
regime nel 1938.
La “ fascistizzazione “ della società
“Io prendo l’uomo al momento della sua nascita e non
l’abbandono fino al momento della sua morte, quando diventa
compito
del
Papa
occuparsene”.
In queste parole di Mussolini è esplicito l’intento del Fascismo di
subordinare l’intera vita di ogni individuo allo Sato e all’ideologia
fascista.
Un Paese “arruolato”
Lavoro, tempo libero, scuola, educazione, cultura divennero
competenza esclusiva del partito e delle organizzazioni ( Figli
della lupa, Balilla, Avanguardisti, Giovani fascisti, confluite nel
1937 nella Gioventù Italiana del Littorio ), coordinate dall’Opera
Nazionale Balilla, le quali partecipavano a manifestazioni e sfilate
alla presenza dei “gerarchi”, cioè dei capi di partito. La cornice
scenografica e culturale di tali sfilate era costituita dai simboli
ispirati
alla
romanità
antica.
Alle donne, anch’esse inquadrate in organizzazioni, il Fascismo
assegnava il ruolo di spose e madri, il cui compito principale era
dare alle luce numerosi figli per servire la patria e il regime.
Relativamente alla scuola, la Riforma Gentile (approvata nel
1923, ma risultato di un lungo processo antecedente l’avvento del
Fascismo ) venne più volte modificata per rendere l’istruzione
scolastica
più
confacente
ai
dettami
fascisti.
Venne introdotto il testo unico per la scuola elementare e i libri
per gli altri ordini di scuola furono rielaborati secondo le direttive
del regime; gli insegnanti furono obbligati a prestare giuramento
di fedeltà al regime.
Di fronte all’opera di indottrinamento e alla soppressione
della libertà di pensiero il mondo della cultura si divise in due. Ci
fu chi come il filosofo Giovanni Gentile, autore del Manifesto degli
intellettuali del Fascismo, aderì al regime e alla sua ideologia;
altri, come il filosofo Benedetto Croce, Pietro Calamandrei,
Eugenio Montale, nel Manifesto degli intellettuali antifascisti,
riaffermarono le ragioni della libertà e della democrazia.
Se Croce fu tollerato dal regime per la sua fama internazionale,
gli altri intellettuali antifascisti furono perseguitati, incarcerati p
costretti all’esilio.
La macchina del consenso
Per mobilitare le masse e organizzare il regime si servì di un
imponente apparato propagandistico, che seppe sfruttare
efficacemente i nuovi mezzi di comunicazione di massa (radio,
cinema, stampa ).
Della propaganda si occupava un apposito ministero, il Ministero
della Cultura Popolare, detto Minculpop.
L’opposizione al regime
Fin dalla sua comparsa, il movimento fascista aveva fatto ricorso
alla violenza e all’eliminazione fisica degli avversari,
assassinando numerosi esponenti politici, sindacali e religiosi:
tra questi, oltre a Matteotti, furono vittime delle squadre fasciste
Giovanni Amendola e don Giovanni Minzoni. Con le leggi
promulgate nel 1925-1926 l’opposizione al Fascismo venne
ritenuta un delitto contro lo Stato e giudicata dal Tribunale
Speciale.
Uomini politici, tra i quali gli esponenti dei partiti dell’Aventino,
intellettuali, sacerdoti, persone comuni vennero sottoposti a
processo e condannati al carcere ( tra gli altri Antonio Gramsci,
Umberto Terracini, Sandro Pertini ) oppure al confino, cioè alla
perdita del lavoro e al domicilio coatto in isole o luoghi
difficilmente raggiungibili; fu questa la sorte di Alterio Spinelli,
Ernesto Rossi, Carlo Levi, Cesare Pavese, Leone Ginzburg: si
calcola che dal 1926 al 1943 furono inviati al confino circa 15.000
italiani.
Esiliati e fuoriusciti: le vie dell’Antifascismo
Carlo Rosselli ed Emilio Lussu riuscirono a fuggire dal confine e a
rifugiarsi all’estero. Qui si unirono ai numerosi antifascisti che
avevano scelto la via dell’esilio (fuoriuscitismo ), soprattutto in
Francia, ma anche in Belgio, Svizzera, Gran Bretagna e Stati
Uniti: don Luigi Sturzo, Gaetano Salvemini, Filippo Turati, Nello
Rosselli, Pietro Nenni, Piero Gobetti.
Dall’esilio gli esponenti antifascisti costituirono movimenti ( tra i
quali Giustizia e Libertà ), con l’obiettivo di promuovere in Italia,
nella clandestinità, la lotta contro il regime, propagandandola
anche attraverso giornali e riviste, come La Libertà e L’esilio.
In Italia la lotta clandestina era resa quasi impossibile
dalla’azione dell’OVRA, la polizia politica, che colpì duramente
l’organizzazione ormai fuori legge del Partito comunista, il cui
segretario Palmiro Togliatti si era rifugiato in URSS.
La politica economica
Nei primi anni del regime, Mussolini non modificò
l’organizzazione dell’economia italiana, adottando una politica
liberista.
Il corporativismo e l’intervento dello Stato
Dopo avere sciolto tutti i sindacati, istituendo il Sindacato unico
fascista, nel 1927 con l’approvazione della Carta del Lavoro il
Fascismo delineò i principi dell’ordinamento corporativo.
Esso consisteva nella creazione di organizzazioni ( corporazioni )
nelle quali lavoratori e datori di lavoro avrebbero dovuto
organizzarsi nella stessa categoria. In tal modo lo Stato
esercitava uno stretto controllo politico sul mondo produttivo e
neutralizzava i conflitti sociali. Di fronte agli effetti della grande
crisi del 1929, anche l’Italia attuò una serie di misure simili a
quelle adottate negli Stati Uniti; il governo diede vita ad un
sistema di economia mista, in parte pubblica e in parte privata.
Vennero create due strutture finanziarie, l’IMI ( Istituto Mobiliare
Italiano ) e l’IRI ( Istituto per la Ricostruzione Industriale ), con lo
scopo di sostenere finanziariamente le industrie per incentivare
la ripresa e di salvare le banche in difficoltà per aver concesso
prestiti ad imprese fallite.
L’IRI ( la cui attività sarebbe durata fino al 2002) si trovò a gestire
numerose industrie in settori strategici, come la produzione di
acciaio ( Finsider ) e la ricerca e la raffinazione di petrolio. ( AGIP)
Durante il ventennio fascista lo Stato attuò un vasto programma
di
opere
pubbliche
(
ristrutturazioni
urbanistiche,
ammodernamento della rete ferroviaria e portuale ), tra le quali
spiccano i lavori di bonifica delle terre paludose ( dell’Agro
Pontino, della foce del Po, della Maremma e della Sardegna ), per
ricavare terreni coltivabili e abitabili.
In questo modo venne dato notevole impulso all’agricoltura,
nell’ambito della quale già dal 1925 il regime aveva lanciato una
campagna per l’autosufficienza cerealicola, nota come battaglia
del grano.
L’autarchia
In seguito all’occupazione italiana dell’Etiopia ( 935-1936 ), la
Società delle Nazioni aveva imposto come sanzione l’embargo (
cioè il divieto di avere rapportare commerciali con l’Italia).
Il governo fascista rispose con l’autarchia, cioè con una serie di
provvedimenti
volti
a
rendere
l’economia
nazionale
autosufficiente, facendo a meno delle importazioni da altri Paesi.
Tale politica ebbe conseguenze negative per l’Italia, che era
priva di materie prime e vincolata agli investimenti stranieri, e
danneggiò in modo particolari l’agricoltura e la piccola e media
industria.
La politica estera
Fino agli anni ’30 il governo fascista aveva perseguitato una
politica estera tesa a conferire all’Italia prestigio, credibilità e
autorevolezza.
Intratteneva rapporti amichevoli con i Paesi europei democratici
e partecipava all’attività della Società delle Nazioni.
La conquista dell’Etiopia
Dalla metà degli anni ’30 però, la politica estera italiana si fece
più aggressiva e Mussolini concepì un’espansione imperialistica,
la conquista di un impero coloniale che desse anche all’Italia “ un
posto al sole”, come era successo alle altre potenze europee.
Con una martellante propaganda, Mussolini riuscì ad ottenere
una vastissima adesione popolare al progetto, tanto che la
conquista dell’Etiopia costituì il culmine del consenso al regime.
Con un pretesto, Mussolini dichiarò guerra all’Etiopia e nel giro di
pochi mesi ( ottobre 1935-maggio 1936), reprimendo duramente
la resistenza della popolazione locale, le truppe italiane
conquistarono il territorio, destituendo il legittimo re ( negus )
Hailé Selassiè.
Il 9 maggio 1936 Mussolini proclamava la nascita dell’Impero
italiano. Di esso facevano parte anche l’Eritrea, soggetta alla
penetrazione italiana dal 1882, e alcune regioni della Somalia,
colonia italiana dal 1908.
L’avvicinamento alla Germania
Dopo la conquista dell’Etiopia l’Italia impresse una svolta alla sua
politica estera, dando vita ad altre imprese militare e
avvicinandosi alla Germania nazista ( il cui leader, Adolf Hitler,
Mussolini non aveva nutrito inizialmente alcuna simpatia ).
Nel 1936 venne siglato un accordo tra i due Stati ( detto Asse
Roma-Berlino ), in seguito al quale Germania e Italia intervennero
nella guerra civile spagnola e l’Italia ebbe via libera
all’occupazione dell’Albania.
Negli anni successivi l’Italia abbandonò la Società delle Nazioni e
si affiancò alla Germania nazista nella tragica avventura della
Seconda Guerra Mondiale.
Le leggi razziali
L’ideologia fascista contemplava la “ difesa della razza e della
stirpe italiana”, ma il regime non aveva mai intrapreso politiche
razziste, tanto meno contro gli Ebrei. Gli ebrei italiani erano circa
50.000 e costituivano una parte molto esigua della popolazione;
numerosi avevano aderito al fascismo e facevano parte degli
organi di partito.
Nel 1938 l’atteggiamento del regime mutò, sia per l’influenza
della politica razziale nazista sia perché si voleva dare nuovo
slancio al Fascismo. Fu il Manifesto degli scienziati nazisti a
fissare in 10 punti le posizioni del regime, affermando l’esistenza
di una “ pura razza italiana”, alla quale non appartenevano gli
Ebrei.
Alla fine del 1938 il governo approvò le leggi razziali che fecero
dell’Italia uno Stato antisemita. Tali leggi sancivano la
discriminazione nei confronti degli Ebrei: erano vietati i
matrimoni
misti;
gli
Ebrei
non
potevano
accedere
all’amministrazione statale, all’insegnamento universitario, al
servizio militare e alle attività imprenditoriale.
La politica razziale del governo suscitò sdegno e reazioni
negative. Papa Pio XI, che nel1937 con l’enciclica Mit Brennender
Sorge ( “Con viva preoccupazione “ ) aveva condannato il
razzismo nazista, altrettanto aspramente criticò le leggi razziali
italiane.
Allo stesso modo la maggioranza della popolazione italiana non
condivise la politica antisemita: si determinò allora la prima
frattura tra il regime e il consenso popolare.
Durante la guerra, soprattutto dopo il 1943 ( quando l’Italia subì
l’occupazione nazista ), la persecuzione contro gli Ebrei si fece
più spietata e migliaia di Ebrei italiani furono deportati nei campi
di sterminio tedeschi.
La maggioranza degli italiani cercò di ostacolare le deportazioni
e si adoperò per strappare a questa sorte un vasto numero di
persone.
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