Capitolo 2. La descrizione sociologica dei sistemi urbani Autonomia

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CAPITOLO
urbani
2
. La descrizione sociologica dei sistemi
Autonomia, stili di vita, morfologia, struttura di potere sono le principali aree
semantiche alle quali afferiscono gli strumenti tipici della tradizione sociologica
nell’analisi dei sistemi urbani. Qualunque catalogo degli strumenti di una disciplina
deve essere inteso come illustrazione della sua specificità o della sua capacità di
comprendere fenomeni attuali, senza pretesa di esaustività. Quelli che presentiamo
in questo capitolo rivestono posizioni assai diverse nella storia della disciplina:
alcuni definiscono delle scuole, altri sono il prodotto di episodiche convergenze
scientifiche.
1.
AUTONOMIA
Se si riflette sull’influenza dei singoli sistemi urbani nel loro contesto storico, le
convergenze della sociologia con le altre scienze sociali sono evidenti: la forma politica e le
caratteristiche funzionali della città costituiscono allora il primo criterio di discrimine tra
formazioni urbane anche per la storia, la geografia, l’economia. Nella tradizione
sociologica l’insistenza è però posta sulle diverse capacità di produrre norme sociali: la
capacità di diffondere cultura e pratiche tipica delle sole città dominanti; la capacità di
sviluppare e mantenere una propria cultura che definisce la città autonoma anche se non
dominante.
1.1
L’autonomia del Comune weberiano
Tipologia di riferimento fondatrice della sociologia urbana è quella proposta da Weber nella
sua definizione detta «politica» di città: le dimensioni dell’autocefalia e dell’autonomia
dell’ordinamento giuridico consentono, in Die Stadt, di distinguere la città occidentale dalla
città orientale, e le città dell’Occidente tra di loro a seconda della diversa distanza dal tipo
ideale di «città occidentale». Soffermiamoci di nuovo su un’affermazione, già ricordata:
Comuni urbani nel senso vero della parola sono noti soltanto in Occidente. A lato di questi,
in una parte dell’Oriente e precisamente nell’Asia anteriore (cioè nella Siria e nella Fenicia,
forse anche nella Mesopotamia), sono esistiti solo temporaneamente o si ritrovano altrimenti
allo stato rudimentale [...] Considerata a questa stregua in tutta la sua estensione, anche la
città del Medioevo occidentale era solo parzialmente un vero «comune urbano» e quella del
XVIII secolo lo era persino in minima parte soltanto. Le città dell’Asia però non lo erano
affatto, per quanto si sappia a tutt’oggi e tenendo presenti le singole eccezioni, oppure lo
erano solo rudimentalmente [Weber 1920; trad. it. 1950, 22].
Le conquiste delle città nell’epoca di loro maggiore autonomia tendevano, dice Weber,
verso le seguenti mete:
1) verso l’indipendenza politica e, parzialmente, verso una politica estera invadente, tanto è vero che il
governo cittadino aveva permanentemente una milizia propria, stringeva alleanze, conduceva
guerre importanti, teneva completamente soggetti estesi territori ed eventualmente altre città e
conquistava colonie oltremare [...];
2) verso una legislazione autonoma della città in quanto tale e, internamente a questa, verso una
legislazione autonoma delle gilde, e delle «maestranze» [...] Per le questioni riguardanti i possessi
fondiari cittadini, il movimento del mercato ed il commercio, i tribunali della città, costituiti da cittadini
in veste di scabini, applicavano leggi specifiche, uniformi e uguali per tutti i cittadini; leggi che
erano state compilate all’atto della fondazione, in base a consuetudini o regolamenti preesistenti, o
per assorbimento o concessione di leggi straniere. Questi tribunali andavano escludendo sempre
più dalla procedura i mezzi di prova irrazionali e magici, quali il duello, le ordalie e il giuramento del
parentado, in favore di una razionale ricerca delle prove [...];
3) verso l’autocefalia, ossia verso un’autorità giudiziaria ed amministrativa del tutto indipendente [...]
La questione più importante per la città era quella di costituire un distretto giudiziario distinto, con
scabini scelti tra i suoi abitanti [...] Era poi importante per il cittadino ottenere il privilegio di dover
comparire solo dinanzi al tribunale della sua città [...] L’esistenza [dell’amministrazione
caratteristica della città, cioè il consiglio, dotato] di estese competenze amministrative, era, in
pieno Medioevo, una caratteristica di ogni comunità cittadina dell’Europa occidentale e
settentrionale [...];
4) verso un potere fiscale sui cittadini e la loro esenzione dalle imposte e dalle tasse verso
l’esterno [...];
5) verso la libertà di mercato, una sorveglianza propria sul commercio e sull’industria e poteri per il
relativo regolamento monopolistico [Weber 1920; trad. it. 1950, 134-140].
Quella che qui si illustra è, in breve, la capacità di costruire un sistema normativo nuovo,
che riposa in questo caso sulla nozione di cittadino:
«il cittadino isolato ne era la personificazione, egli era perciò l’elemento tipico della città nel
senso politico» [ibidem, 22].
Tale sistema normativo era difeso da una leadership localmente legittimata, indicata
come elemento distintivo di un tipo di sistema urbano. È importante sottolineare che la
tipologia weberiana, nata dalla descrizione del mondo medievale, si fonda su una
dimensione analitica quasi eterna, che ha oggi ritrovato utilità nell’analisi comparata dei
sistemi urbani. L’insieme dei fenomeni ascrivibili alla globalizzazione pone infatti sotto
una luce nuova la problematica dell’autonomia e della legittimità politica dei governi
locali.
1.2 Egemonia e polarizzazione
Dalle riflessioni sull’involuzione dell’esperienza medievale e attorno alla nozione di «città
barocca» si è sviluppato tra storia e sociologia nel secondo dopoguerra un modello di
riferimento, anch’esso fondato sulla dimensione dell’autonomia politica, che, per altri
motivi, ritrova oggi analoga attualità. Il problema dell’originalità tipologica della città
barocca rispetto sia alla città rinascimentale sia alla città classica, e la conseguente
individuazione dell’esempio canonico [De Seta 1996] sono assai dibattuti tra gli storici.
In molti casi, tra cui quello di Roma per alcuni, scoprire il volto della città barocca «vuole
dire tentare la ricostruzione di una rivoluzione fallita, che se non ha trasformato ma solo
adornato e interpretato la vecchia città, ha lasciato una impronta duratura nella cultura
europea» [Portoghesi 1973, I, 5].
■ Per il sociologo la città barocca e l’ordine che esprime sono di più facile lettura e
rappresentano anch’essi un idealtipo di grande suggestione: un sistema urbano che, al
di là della sua «apparenza capricciosa», rispecchia, nella sua logica, l’ordine ieratico del
potere assoluto. Lo spirito barocco è stato capace di «organizzare lo spazio, di
renderlo continuo, di ridurlo a un ordine e a una misura, di allargarne i limiti includendo
l’estremamente lontano e l’estremamente piccolo, e infine di associare a esso il tempo
e il movimento» [Mumford 1961, 458459]. Schemi convergenti, stellari in particolare,
complessità delle strutture di distanza affidate all’esercizio dell’«idea geometrica» del
classicismo, traducono e costruiscono una speciale struttura di potere, quella della cittàcapitale devota alla persona del sovrano: la città tutta è destinata alla persuasione, è
forma retorica complessa [Argan 1965]. Retorica nella quale distanze e simmetriereciprocità, in quanto dimensioni della «società di corte» [Elias 1975], sono elementi
chiave. Il potere assolutistico, ricorda oggi Sennett [1990], ha plasmato in larga
parte le condizioni di vita nelle metropoli attuali, più dell’esperienza industriale. Città
dell’egemonia ma senza autonomia, città delle disuguaglianze e della segmentazione,
della persuasione e dell’immagine più che della legittimazione, dall’ordine interno
instabile, la città barocca è implicito riferimento nelle descrizioni della città globale
contemporanea.
■ La città globale sarebbe succeduta alle vecchie capitali politiche, eredi della città barocca,
come città egemonica del nuovo ordine mondiale.
Ecco la descrizione che ne fa Saskia Sassen:
Una combinazione di dispersione spaziale e di integrazione globale ha creato un nuovo ruolo
strategico per le maggiori città. Superando il loro ruolo storico di centri per il commercio
internazionale e l’attività bancaria, queste città oggi ricoprono funzioni centrali sotto quattro
ulteriori aspetti: come luoghi di potere altamente concentrato nell’organizzazione dell’economia
mondiale; come localizzazioni chiave delle imprese di servizio specializzato e delle attività
finanziarie; come luoghi della produzione, inclusa la produzione di innovazioni, in questi settori di
punta; come mercati per i prodotti e le innovazioni prodotte [...]. Tali mutamenti nel
funzionamento delle città hanno un impatto massiccio sull’attività economica internazionale e
sulla forma urbana. Le città concentrano il controllo su vaste risorse, mentre la finanza e le
attività di servizio specializzate hanno ristrutturato l’ordine urbano, sociale ed economico. Un
nuovo tipo di città è quindi comparso. È la città globale [1991, 3-4].
■ Friedmann e Wolff [1982] avevano largo
precedentemente proposto una
numero
di
persone
altamente
simile qualificate – l’élite transnazionale – e uno
immagine dell’avvenire delle maggiori staff ancillare di personale impiegatizio.
città, da essi definite «città mondiali», L’élite transnazionale,
in quanto classe
indicando come compito primario per le dominante della città mondiale, la organizza
scienze sociali l’analisi dell’impatto che i in funzione dei propri stili di vita e delle
mutamenti da poco in atto nelle attività proprie necessità di lavoro. Per Friedmann
stesse di queste città possono avere sulla e Wolff, come poi per la Sassen, la
loro struttura sociale.
Il
motore
del polarizzazione della struttura di classe è
cambiamento era, a loro giudizio, il tratto emblematico della città mondiale,
settore
dominante
dei
servizi
alle segnata
dal contrasto tra le condizioni
imprese di alto livello, che occupava un economiche e gli stili di vita dell’élite
transnazionale e la miseria nella quale si una diversa composizione della manodopera,
trova a combattere quotidianamente un con una maggior presenza di posti a bassa o
terzo
circa
(l’underclass
della
permanente
popolazione alta
della
mondiale).
retribuzione
rispetto
alle
vecchie
città industrie. Almeno metà dei posti nei servizi
sono a bassa retribuzione, e metà nelle classi
Nei lavori della Sassen (i primi lavori sul superiori di retribuzione. All’opposto, una
settore informale a New York e Los larga
parte
dei
lavoratori
dell’industria
Angeles tra il 1984 e il 1987, quello sulla ricopriva posti a retribuzione media durante
mobilità del lavoro nelle città del 1988, la il periodo postbellico di forte espansione negli
loro summa intitolata Global Cities, 1991) Stati Uniti e in Gran Bretagna [Sassen 1991,
viene
in
qualche modo perfezionato 9].
questo modello. Alla struttura produttiva La tendenza alla polarizzazione sarebbe stata
tipica di queste forme urbane – dominata ampliata da altre due tendenze che hanno
dai servizi, finanziari e manageriali in profondamente segnato il sistema economico.
primo
luogo,
produzione
piuttosto
che
manifatturiera
corrisponderebbe
una
dalla La gentrification e i suoi effetti sul parco
– abitativo e sulla sua gestione, come pure
inarrestabile sulla rete commerciale,
polarizzazione sociale. Da una parte le manodopera
richiamano una
abbondante
ma
di
rado
città globali vedono crescere il numero dei qualificata. Interviene infine il cosiddetto
fornitori di servizi, dei liberi professionisti e «degrado del settore manifatturiero»: declino
dei manager attivi in questi settori; dei sindacati, progressione del lavoro a
dall’altra la struttura industriale tradizionale domicilio e in laboratori improvvisati. La
perde la sua vitalità, e decresce in Sassen, in sintesi, concentra l’attenzione su
particolare la parte di manodopera operaia un crescente divario delle posizioni lavorative
qualificata
fondamentale.
che
ne
era
risorsa e dei redditi, che rifletterebbe mutamenti nella
struttura di produzione e nel mercato del
La Sassen mette a punto la sua tesi lavoro.
La
associando più dettagliatamente l’analisi l’affermarsi,
studiosa
in
sottolinea
direzione
inoltre
dell’economia
del mutamento sociale alla descrizione mondiale, di sistemi urbani egemonici ma
delle nuove caratteristiche del processo polarizzati, che un po’ come la città barocca
produttivo. Le attività che dimostrano la esprimono un ordine prodotto da una ristretta
maggior espansione si caratterizzano per élite «separata».
Per poter descrivere comparativamente le trasformazioni della struttura occupazionale dei grandi
sistemi urbani alla luce delle interpretazioni attuali sulle conseguenze della globalizzazione occorre fare ricorso ad una molteplicità di dimensioni analitiche: distribuzione delle posizioni professionali, andamento del rapporto pubblicoprivato, forme di organizzazione giuridica del
lavoro, peso reciproco di alcuni settori chiave,
spesso emergenti e che travalicano le tradizionali distinzioni della sociologia economica.
turismo internazionale. Esso si sovrappone considerevolmente al secondo (hotel, ristoranti,
commercio di lusso, divertimento) e come l’altro è strettamente legato ai risultati congiunturali dell’economia mondiale.
Il seguente elenco di clusters socioprofessionali,tipici secondo Friedmann e
Wolff della città mondiale [1982, 320-321],
rappresenta una pro- posta analitica di
riferimento in queste compa- razioni.
5. I servizi governativi costituiscono un quinto
cluster. Loro funzione è la difesa e la riproduzione della città mondiale, nonché l’erogazione di
beni di consumo collettivo: la pianificazione e la
regolazione dell’uso del suolo urbano e la sua
espansione; la fornitura di edilizia pubblica, di
beni e servizi indispensabili e di trasporti; la difesa dell’ordine pubblico; l’educazione; la regolazione dello scambio; i parchi urbani; l’assistenza ai poveri. [...] Durante i periodi di crisi, il governo diventerà l’ultima planche de salut come
datore di lavoro. Il suo ritmo interno tende ad
essere anti-ciclico.
6. Un sesto, numericamente il cluster più abbondante, in certe città almeno, racchiude l’economia «informale», «fluttuante» o «di strada»
che spazia dai servizi non formalizzati dei lustrascarpe ai venditori di frutta, vetrai, drug dealers e modesti artigiani. [...] Il settore informale
esiste essenzialmente per il largo afflusso di persone nella città mondiale da altre città e dalla
campagna, persone attratte dalla città mondiale come da un barattolo di miele.
1. Il dinamismo della città mondiale risulta principalmente dalla crescita di un primo cluster di
servizi manageriali di alto livello che occupano
un numero ampio di professionisti – l’élite transnazionale – e del loro staff ancillare di personale impiegatizio. Le attività sono quelle che verranno a definire le funzioni economiche principali della città mondiale: management, banche e
finanza, servizi legali, consulenza contabile, telecomunicazioni e telematica, trasporti internazionali, ricerca ed educazione superiore.
2. Un secondo cluster occupazionale, anch’esso in rapida ascesa, è per buona parte al servizio del primo. La domanda in questo settore è
largamente derivata ed esso occupa proporzionalmente un numero minore di specialisti: attività immobiliare, edilizia, attività alberghiera,
ristorazione, commercio di lusso, divertimento, polizia privata e servizi domestici. Presenta
una varietà maggiore del primo cluster, la sua
fortuna è strettamente legata al precedente.
Benché molti lavori del cluster siano permanenti
e ragionevolmente ben pagati, non è il caso dei
servizi domestici che rappresentano il settore
occupazionale più vulnerabile e più sfruttato.
3. Un terzo cluster occupazionale è centrato sul
4. La crescita dei primi tre clusters si verifica a
detrimento del quarto, il settore delle attività
manifatturiere, in rarefazione, quantitativamente importante, ma negli ultimi anni in continuo
declino, e in prevedibile ulteriore declino.
Friedmann e Wolff propongono anche una valutazione quantitativa di massima del rapporto
tra i sei clusters nelle città dominanti dell’economia mondiale: servizi manageriali di alto livello
tra il 10 e il 20% della manodopera; settori di
domanda derivati (clusters 2 e 3) dal 15 al 30%;
attività manifatturiere tra il 15 e il 20%; servizi
governativi tra il 10 e il 15%; economia informale dal 10 al 40%; disoccupati dal 5 al 10%.
1.3 L’ortogenesi urbana
Nel considerare le modalità di autonomia della città l’analisi sociologica, da Weber in poi,
si sofferma sulle città dominanti; le «altre» sono definite a contrario. La città coloniale ad
esempio ha interessato gli storici piuttosto che i sociologi. La «città media» è
un’immagine fluttuante, la cui consistenza muta da paese a paese e a seconda dei
momenti storici; suscita case-studies, non teorizzazione. Quando è oggetto di indagine
empirica accurata, più spesso nella sociologia statunitense, essa è intesa come
emblema della società intera. Nella classica ricerca di comunità svolta dai Lynd, nel 1929,
poi nel 1937, la cittadina studiata, Muncie, viene ad esempio definita come la «Middletown»
nella quale si possono leggere le trasformazioni che hanno investito l’intera società
americana (cfr. par. 4).
Alcuni marginali tentativi di teorizzazione sul grado diversificato di autonomia dei
sistemi urbani, rintracciabili nella sociologia americana degli anni Cinquanta, ritrovano
tuttavia oggi una certa attualità. Nel quadro della riflessione interdisciplinare sulle
relazioni tra città e sviluppo economico e culturale che allora si viene elaborando, è
proposta e discussa una distinzione legata in parte a quella già evocata tra urbanizzazione
primaria e urbanizzazione secondaria [Redfield-Singer 1954]. Nel movimento verso la
progressiva urbanizzazione, si osserva come alcuni sistemi urbani si rinnovano
producendo essi stessi gli strumenti culturali del proprio mutamento. Essi sono capaci di
produrre autonomamente una cultura adeguata alle esigenze del momento, che li rende
riconoscibili, innovativi e li dota di capacità di attrazione sulle popolazioni esterne; di
produrre – in altri termini – una «grande tradizione», attraverso un processo di
trasformazione intellettuale che porta allo sviluppo di una classe nuova di letterati,
all’elaborazione di testi sacri e a un apparato nuovo di controllo sociale. Subentrerà poi
una seconda fase di difesa dell’equilibrio raggiunto, con i relativi rischi di eccessiva
conservazione. Accanto a questi sistemi urbani, altri, invece, vivono di riflesso i
mutamenti culturali nati altrove e che si estendono ad essi per semplice contaminazione.
I primi sono detti «ortogenetici», i secondi «eterogenetici». Conseguenza dei processi
globalizzanti sembra essere il declassamento di molti sistemi da ortogenetici a
eterogenetici.
2
MORFOLOGIA
Per «morfologia sociale» si intendono qui, secondo l’accezione durkheimiana, le modalità
di insediamento delle popolazioni sul territorio. I modelli morfologici di sistemi urbani si
interessano quindi alle espressioni spaziali delle differenziazioni e aggregazioni sociali
[Durkheim 1899].
2.1 Verso la morfologia urbana duale del capitalismo
Per la scuola durkheimiana l’organizzazione spaziale delle comunità riflette e condiziona
la sua complessità sociale e funzionale, nonché le dicotomie fondanti della coscienza
collettiva, in primis la distinzione tra sacro e profano [Durkheim 1912] (cfr. cap. 3).
Aumento della complessità e addensamento sono processi convergenti: le società semplici
sono diffuse, quelle complesse concentrate. Gli aggregati urbani rispondono al bisogno di
«densità morale» dell’uomo, sono l’elemento definitorio delle specie sociali superiori.
e La città medievale per i durkheimiani illustra il principio di specializzazione applicato alla
vita lavorativa e all’organizzazione spaziale. Il mestiere genera il quartiere, ogni mestiere
esprime una sua gerarchia, costituisce un territorio che diventa un suo emblema: la città è
la risultante di questi spazi contrapposti. La città medievale è quindi «città segmentata»
[Maunier 1910].
Il punto è controverso: la città medievale per Sjöberg [1960], che si ispira principalmente
al caso italiano, è invece «città concentrica». La società urbana medievale si compone di
tre classi: uno strato superiore, uno strato inferiore e un gruppo di marginali.
Quest’ultimo è definito spesso su base etnica o religiosa. L’élite vive al centro, vicino
alle sedi dell’attività religiosa, cerimoniale e politica; la classe inferiore vive all’esterno; i
marginali al limite della città o in enclaves nella struttura urbana. Non mancano,
tuttavia, a contrastare questa tesi, le testimonianze di residenza delle famiglie
dominanti nelle zone esterne dell’area urbana, spesso laddove i redditi principali
derivano dalla proprietà fondiaria [White 1984, 6].
fig. 2.1. Esempio di impianto urbano medievale (XIII sec.).
Fonte: BERNOULLI [1951].
■ Anche per Braudel, la «città borghese», non dominata dall’aristocrazia fondiaria ma da
mercanti organizzati nelle gilde, struttura il suo spazio sulle specializzazioni più che sulla
gerarchia sociale: la casa del borghese è anche luogo di lavoro e di residenza per i
dipendenti; la tendenza alla disposizione concentrica è limitata. Soltanto alcune attività
vengono esiliate al «limite» della città, secondo un processo di stigmatizzazione sociale
che le accomuna quasi allo straniero [Braudel 1967].
■ Della morfologia urbana barocca la letteratura ci propone un’immagine più consensuale.
Sia come dimora permanente del principe e della sua corte, sia come cittadella per il
suo esercito, la città barocca esisteva in funzione delle esigenze del potere [...] Entro
questi criteri militari e dispotici, la nuova pianta si distingueva dall’irregolarità medievale
per l’impiego di linee rette e blocchi regolari, dalle dimensioni per quanto possibili
uniformi, fatta eccezione per i casi in cui strade diagonali mutavano i parallelepipedi in
poliedri irregolari. Il nuovo ordine era decisamente estroverso: piazze aperte o rondò,
con strade e corsi che se ne irradiavano intersecando sia gli antichi grovigli sia i nuovi
reticoli, e prolungandosi verso l’orizzonte sconfinato [Mumford 1961, 484-86].
La pianta stellare che, secondo Mumford, soprattutto nei paesi latini, fu per tre secoli il
segno distintivo di un’urbanistica elegante, introdotta in schegge nuove dello spazio
cittadino, porta ad una ricomposizione della mappa sociale della città. Con la
costituzione di un nuovo centro del potere attorno al quale si assiepano aristocrazia e
borghesia, essa rompe lo schema concentrico laddove esisteva, riordinando
socialmente il territorio urbano.
■ Dalle «osservazioni dirette e fonti autentiche» del suo viaggio in Inghilterra del 18441845, Engels desume una descrizione morfologica della «città industriale» quale
espressione e strumento territoriale di un ordine, quello del capitalismo, fondato sullo
sfruttamento della classe operaia [Engels 1845]. Che le condizioni non fossero ancora
mature perché la totale alienazione del proletariato facesse sviluppare la coscienza, poi
solidarietà, di classe, è dimostrato in tutte le grandi città inglesi studiate:
La brutale indifferenza, l’insensibile isolamento di ciascuno nel suo interesse personale
emerge in modo tanto più ripugnante ed offensivo quanto maggiore è il numero di
questi singoli individui che sono ammassati in uno spazio ristretto [...] La
decomposizione dell’umanità in monadi, ciascuna delle quali ha un principio di vita
particolare, il mondo degli atomi sono stati portati qui alle estreme conseguenze. È per
questo che la guerra di tutti contro tutti è dichiarata qui apertamente. Gli uomini
considerano gli altri soltanto come oggetti utilizzabili; ognuno sfrutta l’altro e ne deriva
che il più forte si mette sotto i piedi il più debole e che i pochi forti, cioè i capitalisti,
usurpano ogni cosa, mentre ai molti deboli, ai poveri, a malapena resta la nuda vita
[Engels 1845; trad. it. 1955, 52].
L’atomizzazione, nella città del capitale, si associa al dualismo spaziale; ogni città ha i
suoi «quartieri brutti», nei quali si ammassa la classe operaia: a volte vicoletti nascosti
dietro i palazzi dei ricchi, ma più spesso zone a sé stanti, bandite dalla vista delle classi
più fortunate. I «quartieri brutti» sono anche situati nelle zone mal collocate, vicine alle
industrie, quindi spesso lungo i fiumi, umide e fisicamente degradate. Quando si tratta
di quartieri «nuovi» (costruiti spesso dall’imprenditore stesso, che sfrutta l’operaio anche
come inquilino), sono per lo più lunghe file di costruzioni in mattoni a uno o due piani, di
tre o quattro stanze, eventualmente con cantine abitate: il cottage. È questo in tutta
l’Inghilterra, tranne che in qualche parte di Londra, il «nuovo» habitat della classe operaia.
Le strade non sono lastricate, non hanno canale di scarico o fogna, sono cosparse di
fetide pozzanghere stagnanti; sono ordinate in tre file contigue con due strade esterne,
disposizione che lascia poca possibilità alla luce e all’aria di entrare all’interno delle case
(fig. 2.2). Gli affitti, sempre esosi rispetto ai redditi, vengono differenziati proprio sulla
base della minore o maggiore ariosità della fila. Nei quartieri «vecchi», invece, è proprio
l’addensamento, la configurazione tortuosa, a deprivare il proletariato di quei «beni d’uso»
fondamentali che sono lo spazio, la luce, l’aria.
La separazione tra quartieri «brutti» e quartieri borghesi è totale. Engels nota che a
Manchester, archetipo della città industriale, «si potrebbe abitare per anni ed entrarvi
ogni giorno senza mai venire a contatto con un quartiere operaio, anche soltanto con
operai» [ibidem, 81]. È l’esigua classe media, con i suoi negozi, a fare da filtro fisico tra
le due classi, difendendo la «buona coscienza» della borghesia, nascondendo «ai
ricchi signori e alle ricche donne dagli stomaci forti e dai nervi deboli» lo squallore della
miseria proletaria. La città ha quindi una struttura semplice, che verrà sistematizzata come
modello urbanistico nell’intervento hausmanniano a Parigi: il centro accoglie gli uffici, le
banche e i magazzini dei borghesi che vivono nelle colline attorno alla città. Vi si accede
tramite boulevards monumentali a vocazione commerciale che orlano, nascondendoli, i
quartieri operai.
fig. 2.2. La struttura del cottage operaio nella città industriale.
Fonte: ENGELS [1845; trad. it. 1955].
2.3
Successione e integrazione nel modello ecologico
L’analisi morfologica proposta negli anni Venti dalla «Scuola ecologica» di Chicago, al di
là della pesante contaminazione semantica con le scienze naturali, non si può scindere
dalla teoria dell’assimilazione culturale che la sottende. Tra il 1924 e il 1933, la fase di
crescita abnorme della città tramite inurbamento e immigrazione europea, a Chicago
furono pubblicati una quarantina di lavori sui problemi etnici in ambiente urbano
[Pearsons 1987]. Chicago e tutte le grandi città sono, secondo gli autori della scuola, i
luoghi privilegiati del melting pot, in cui l’immigrato viene socializzato in una cultura che egli
stesso contribuisce a creare. Ogni città si caratterizza per una speciale composizione di
etnie sul territorio, ma le uniformità sono tante e il processo identico.
In quello che diventerà uno dei più fortunati manuali della storia della sociologia,
Introduction to the Science of Sociology, Park e Burgess [1921] propongono lo schema
descrittivo di un processo di «assimilazione», sul quale si fonda l’ordine in movimento
della grande città. Quattro sono le tappe del percorso che deve seguire, secondo gli
autori, l’immigrante con la sua famiglia.
1)
In una prima fase, detta di competizione, le sue relazioni con il contesto si limitano
a quelle necessitate dai rapporti economici; la sua interazione con la società americana è
elementare e universale (si può parlare di interazione senza contatto); si inserisce soltanto
in una nuova divisione del lavoro.
2)
In una seconda fase, detta di conflitto, all’inconsapevolezza della competizione
subentrano la consapevolezza e la ricerca di
solidarietà nella minoranza, in genere etnica, alla quale si avvicina. L’individuo in questa
fase entra nell’ordine del «politico». La fase di conflitto – secondo una tesi centrale della
Scuola di Chicago, in contrasto con qualunque interpretazione eccessivamente ottimista
delle relazioni etniche – è inevitabile quando popolazioni diverse si trovano in presenza
l’una dell’altra.
3)
In una terza fase, detta di adattamento, subentra una sorta di «conversione
religiosa» che necessita di uno sforzo diverso ma altrettanto impegnativo di quello
profuso dall’individuo nella seconda fase. Con l’individuo cambiano le istituzioni che
hanno facilitato la sua socializzazione nella fase del conflitto: la gang, organo centrale
della fase di conflitto, si trasforma in club. I gruppi rimangono rivali, ma accettano le loro
differenze per mantenere sotto controllo la violenza e garantire la sicurezza delle
persone.
4)
La quarta fase, detta di assimilazione, rappresenta l’approdo dell’intero processo.
Le differenze si sfumano, ma per interpenetrazione e fusione.
Il percorso mobilita i gruppi e le famiglie su un arco di tempo spesso molto ampio. La
seconda generazione, quella dei figli dell’immigrato, appare come l’anello più fragile
dell’insieme familiare, la componente più attiva della fase di conflitto [ibidem, 509-510].
e Uno schema simile, ma più denso nei suoi elementi teorici, arricchito da esperienze di
ricerca esemplari, è proposto parallelamente da Thomas e Znaniecki ne Il contadino
polacco in Europa e in America (1918-1920). I concetti sono quelli fondamentali della
sociologia di Thomas, in primo luogo quello di «organizzazione sociale», intesa come
l’insieme dei valori sociali, degli elementi culturali della vita sociale, in particolare quelli
inscritti nelle regole di comportamento degli individui dettate dalle istituzioni sociali.
Questa la tesi centrale: le differenze razziali o etniche non spiegano i problemi degli
immigranti. Il contatto brutale con nuove regole di vita e le trasformazioni che ne derivano
per l’esistenza quotidiana non sarebbero sufficienti a generare quei problemi se nella
condizione del migrante alla partenza non fossero presenti motivi di forte fragilità morale. Il
fenomeno migratorio non si spiega con la povertà o l’aggravarsi delle difficoltà
economiche; anzi il disagio estremo priva l’individuo perfino della capacità di reagire,
mentre chi emigra spesso appartiene a fasce sotto certi aspetti qualificate della
popolazione alla quale appartiene. Per Thomas e Znaniecki lo sviluppo dell’emigrazione
nel caso delle campagne polacche si collega allo sgretolamento della società contadina
tradizionale e al mutamento di valori che coinvolge in primo luogo i giovani contadini:
sfaldamento della famiglia contadina ed emigrazione di massa in Germania, nel resto
d’Europa e negli Stati Uniti sono due fenomeni collegati. Con l’industrializzazione e la
desertificazione delle campagne svanisce la centralità della cultura contadina; riducendosi
il numero dei suoi componenti, la famiglia agricola perde anche vitalità; si verificano
trasformazioni culturali profonde che, nelle giovani generazioni, modificano i termini di
definizione della propria situazione. Declina il rispetto della tradizione; di fronte
all’emergere dell’individuo come valore, il successo economico diventa metro di
riconoscimento collettivo che adombra il prestigio antico.
Il giovane contadino polacco dell’inizio del secolo vive quindi, affermano Thomas e
Znaniecki, una situazione di disorganizzazione sociale; ciò significa che la società non
riesce più a trasmettere con efficacia le convenzioni, le attitudini e i valori con i quali si
impone all’individuo e lo sostiene nella sua vita quotidiana. Alla disorganizzazione del
nucleo familiare, che si trasforma in unità di consumo, si associa la disorganizzazione
della comunità locale, che non funziona più come unità di solidarietà, e nella quale non si
costruisce più l’opinione pubblica. Un processo che, con l’immigrazione negli Stati Uniti,
diventa spettacolare e drammatico. La disorganizzazione individuale, vale a dire la
demoralizzazione, segue la disorganizzazione sociale: esse si esprimono nella prima
fase di immigrazione nella pauperizzazione visibile e nella delinquenza giovanile
[Thomas-Znaniecki 1918; trad. it. 1968, II, 3-45].
La vicenda dell’immigrato diventa tuttavia, da questo momento, storia di una
«riorganizzazione», che avviene principalmente attraverso l’adesione a valori religiosi
meno impermeabili al cambiamento di quelli tipici del contesto di origine. Motori di questa
riorganizzazione sono le istituzioni culturali (il sistema educativo, la stampa locale in
lingua nazionale), ma soprattutto la conformazione della città in «colonie separate»,
l’organizzazione dell’habitat per nazionalità, che consente l’aiuto reciproco tra gli
immigrati e il sostegno delle istituzioni espresse dalla società americano-polacca nella
quale essi si inseriscono (l’associazione, la chiesa). L’americanizzazione di massa
richiede l’organizzazione etnica per l’adattamento dell’immigrato [ ibidem, 143 ss.].
La morfologia cittadina offre l’immagine di questo processo, nella sua configurazione e
nella sua mobilità. La città, come descritta nel manifesto della Scuola ecologica, il volume
collettivo intitolato La città [1925], firmato da Park, Burgess e McKenzie, è costituita da
«colonie separate», o «aree naturali», il cui valore fondiario si differenzia principalmente in
relazione alla distanza dal centro, o meglio dalla «zona di transizione», la zona degradata di
primo insediamento, situata a ridosso dell’area più centrale, che ospita al loro arrivo in città
gli immigrati. Le colonie separate, intese come «aree di isolamento della popolazione», i
vicinati o ancora le «regioni morali» (che possono essere luoghi di incontro e non solo di
residenza) sono le unità locali di integrazione, nelle quali popolazioni molto diverse tra di loro
consolidano le proprie caratteristiche tramite «contagio sociale», trovando così il
necessario sostegno in una società discriminante. Sono unità di vita culturalmente
caratterizzate, che si ritrovano con una certa regolarità nelle metropoli americane:
Ogni città americana ha i suoi slums, i suoi ghetti, le sue colonie di immigrati, aree che
conservano una cultura più o meno straniera ed esotica. Quasi ogni grande città ha
quartieri abitati da intellettuali e minoranze sessuali che scelgono uno stile di vita
alternativo , bohémien, (il ”village ”) e da vagabondi e senza tetto ( la “giungla”) ove la
vita è più libera, più avventurosa e più solitaria che in qualsiasi altra zona [Park 1952,
196].
Alcune altre aree rappresentano costanti dell’organizzazione urbana, come quelle di
«appartamenti in affitto», dette anche delle «commesse», la «zona commerciale
decaduta (il centro del divertimento)», descritte in particolare da Zorbaugh nel suo studio
sulla zona nord-occidentale di Chicago, La costa dorata e lo slum [Zorbaugh 1929]. Le
regioni morali sono quindi parte integrante della vita della città, espressione più alta della
sua cultura laddove funzionano con la sufficiente efficacia e mobilità. Il modello di
integrazione proposto dalla Scuola di Chicago suppone infatti un’estrema mobilità da
parte degli individui e delle comunità: l’invasione individuale e poi la «successione» (cap.
3) di intere comunità ad altre su uno stesso territorio corrispondono al movimento di
mobilità ascensionale nella società americana. L’uscita dall’area etnicamente definita
della zona di transizione e l’insediamento residenziale in una cerchia più decentrata
segnano la fase finale dell’assimilazione che ha per condizione basilare il miglioramento
delle possibilità di vita. L’integrazione economica (l’accesso al lavoro, il miglioramento
delle opportunità di vita) diventa infatti, col tempo e i successivi traslochi, la base di una più
lenta e dolorosa integrazione culturale.
La città americana così descritta ha quindi una morfologia particolare, caricaturalmente
sintetizzata nel noto schema a cerchi concentrici proposto da Burgess ne La città [1925]. I
tratti caratteristici della struttura così evocata, oltre alla mobilità, si possono formulare nei
termini seguenti: la desiderabilità residenziale aumenta via via che ci si allontana dal centro;
il centro è dedicato alle sole attività direzionali (central business district); la popolazione si
organizza di conseguenza secondo un orientamento centripeto, che carica il cerchio
attorno al central business district, il cerchio della «transizione», delle funzioni di prima
accoglienza o di ricettacolo di chi non riesce ad integrarsi. Alcune «colonie separate»
sono già indicate dai primi autori della Scuola ecologica come aree grigie nel modello di
riorganizzazione sociale: lo slum, per i cosiddetti «intrappolati» [Gans 1962], diventa non
lo spazio della transizione, ma quello di una vita, denuncia Zorbaugh [1929]; il «ritorno al
ghetto» dell’ebreo non è fenomeno marginale, denuncia Wirth [1938]; il ghetto nero, nella
cartina, rappresenta la particolare posizione e resistenza di una «colonia separata» che,
nella sua estensione geografica, travalica le distinzioni economiche segnate dai cerchi.
Nel ghetto nero devono rimanere anche chi, tra la popolazione nera, ha risorse
economiche superiori a chi sta nella zona di transizione.
Fig. 2.3. I «cerchi» dell’organizzazione e della disorganizzazione sociale: lo schema di Burgess.
Fonte:
PARK-BURGESS-MCKENZIE
Gli strumenti analitici costruiti a Chicago dagli anni Venti alla seconda guerra
mondiale orientano durevolmente l’analisi della città americana.
Chi nel
dopoguerra si richiama più direttamente ai lavori della prima generazione degli
ecologisti di Chicago, gli studiosi che propongono il programma dell’”Human
Ecology” [Hawley 1950], e i propugnatori della più suggestiva “Social Area
Analysis”
[Shevky-Bell
1955],
assume
un orientamento
esclusivamente
quantitativo che consente una buona descrizione di alcuni contesti, ma non nutre
in modo originale il dibattito sulla questione urbana o su singoli contesti. Una
ripresa più ricca, più fedele all’impostazione metodologica della prima
generazione della Scuola ecologica di Chicago si rileva negli anni più recenti, nei
lavori del gruppo dell’Università di Chicago diretto da Robert J. Sampson che
hanno portato alla pubblicazione di Great American City. Chicago and the
Enduring Neighborhood Effect [2012] L’analisi si incentra sul funzionamento
delle aree urbane, delle “comunità” tradizionali della città di Chicago, come
motori della riproduzione sociale. Vi si lavora a partire da una pluralità di
tecniche (analisi della statistica pubblica, interviste, osservazione strutturata dei
comportamenti e delle tracce e dalla replica di diverse raccolte dati per ottenere
visioni longitudinali, evidenziando le relazioni tra le possibilità di
“sviluppo
umano” e la solidità dei vicinati.
Ma i lavori della Scuola ecologica, hanno ispirato e continuano ad ispirare, più
spesso come riferimenti contradditori, numerose interpretazioni americane delle
relazioni tra capitalismo globale e grande città statunitense.
2.4 La sociologia americana davanti alle nuove modalità di differenziazione urbana
Rispetto al modello proposto in The City , secondo le tesi americane contemporanee
sulla grande città dominanti alla fine del secolo scorso, il tratto fondamentale del nuovo
ordine metropolitano sarebbe invece una paradossale congiunzione di polarizzazione e
frammentazione sociali che ricorda piuttosto la città industriale descritta da Engels.
e Gli approcci dualisti, come quelli della Sassen [1991] e di Castells [1989], osservano
allora il funzionamento della città descrivendo le relazioni tra due segmenti del mercato del
lavoro storicamente definiti: un segmento primario ed un segmento secondario,
ciascuno con una sua gerarchia. Nella società metropolitana convivrebbero due
segmenti formati da categorie sociali diverse:
–
quelle sopravvissute a periodi in cui erano predominanti forme ormai superate di
organizzazione economica e sociale, che si «adattano» alle nuove circostanze tramite
declassamento ed emarginazione;
–
quelle generate dalle tecnologie emergenti (che definiscono una vasta élite stimata da
Castells, per la grande città americana, in un quarto della popolazione).
I due segmenti rappresenterebbero i due volti della metropoli contemporanea: da un lato i
retaggi ancora importanti del passato, che del presente costituiscono tuttavia una
condizione di esistenza e di funzionamento; dall’altro, l’ordine urbano emergente, fondato
anch’esso su una polarizzazione tra la vasta élite e gli strati inferiori, relegati a mansioni
«ancillari» e a lavori mal qualificati e mal tutelati: un ordine riassunto nello schema a
«clessidra» della struttura sociale, nella quale il divario tra gli having e gli having not si
approfondirebbe ogni giorno. e È ancora Castells [1989] a riassumere, nel saggio su
The Informational City, analisi ricorrenti in molta della letteratura specialistica, secondo cui
la struttura spaziale della grande città contemporanea – città «informazionale» –
combina segregazione, diversità e gerarchia. Socialmente, la città informazionale è
«città duale».
Il dualismo strutturale porta, allo stesso tempo, alla segregazione spaziale e alla
segmentazione spaziale, approfondisce la differenziazione tra il livello superiore della
società informazionale e il resto dei residenti locali, l’infinita segmentazione e il conflitto
ricorrente tra le molteplici componenti del lavoro ristrutturato e destrutturato [...].
L’universo sociale di questi mondi differenti è caratterizzato anche dalla diversa
esposizione ai flussi di informazione e ai modelli di comunicazione. Lo spazio dello
strato superiore è usualmente connesso alla comunicazione globale e a vasti reticolati di
scambio, è aperto a messaggi ed esperienze che abbracciano il mondo intero. Dall’altra
parte dello spettro, reticolati locali segmentati, spesso su base etnica, si fondano sulla
propria identità come unica risorsa per difendere i propri interessi e, in definitiva, la
propria esistenza [ibidem, 154].
Enfatizzando anch’egli il contrasto di interessi nelle trasformazioni urbane tra la borghesia e il
resto della popolazione urbana, e recependo le riflessioni di molti sociologi americani sulla
«militarizzazione» delle città [Wacquant 1999], Davis [1990; 1998] suggerisce che la
morfologia della città americana (Los Angeles lo insegna) s i a determinata dall’insicurezza
che ridisegna i confini delle zone definite dalla Scuola di Chicago.
C’è forse bisogno di spiegare perché la paura sta attanagliando l’anima di Los Angeles?
L’ossessione ricorrente per la sicurezza personale e per l’isolamento sociale è superata solo
dal terrore medio-borghese della tassazione progressiva. Di fronte a una povertà e ad un
problema dell’alloggio irresolubili, e nonostante una delle più grandi espansioni nella storia
economica americana, tutti i partiti continuano a ripetere che il bilancio dev’essere riportato
in pareggio e l’assistenza ridotta. Non potendo sperare in ulteriori investimenti pubblici per
riequilibrare i problemi sociali, siamo obbligati invece a fare investimenti privati e pubblici
sempre più elevati nella sicurezza. La retorica della riforma urbana persiste, ma la
sostanza si è dissolta. «Ricostruire Los Angeles» significa soltanto irrobustire il bunker,
mentre la vita in città diventa sempre più bestiale, le varie classi sociali adottano strategie
e tecnologie di sicurezza proporzionali ai propri mezzi. [...] Dato che queste misure sono
reazioni al disagio sociale, è possibile parlare di una «tettonica della sommossa» che ogni
tanto libera una scossa con cui rimodella lo spazio urbano. Dopo la rivolta di Watts nel
1965, per esempio, i principali proprietari di immobili del centro di Los Angeles
organizzarono un «Comitato dei 25» segreto per reagire alle ipotetiche minacce alle
iniziative immobiliari [...] La chiave del successo dell’intera strategia (celebrata come la
«rinascita di Los Angeles») fu la segregazione fisica del nuovo centro e del suo valore
immobiliare dietro un bastione di palizzate, pilastri di cemento e muri di autostrade. I
tradizionali passaggi pedonali tra Bunker Hill e il vecchio centro furono rimossi, e il traffico
dei pedoni alzato sopra il livello della strada su «marciapiedi passerella» il cui accesso,
come nell’immaginaria Titan City di Hugh Ferriss, era controllato dai sistemi di sorveglianza
di ogni grattacielo. Questa privatizzazione radicale dello spazio pubblico di downtown,
con le sue orrende implicazioni razziali, si svolse senza significativi dibattiti pubblici e senza
proteste [1998; trad. it. 1999, 377-380].
La trasformazione dello spazio cittadino di cui parla Davis è illustrata nella figura
seguente.
fig.2.4. Morfologia urbana ed ecologia della paura nella Los Angeles contemporanea.
Fonte: DAVIS [1998; trad. it. 1999].
Negli stessi anni i lavori di Wilson [1991] sul ghetto nero dell’inner city – elemento
definitorio di un modello morfologico drammaticamente tipico della città
americana
contemporanea – analizzano determinanti e caratteristiche geografiche dell’emarginazione
sociale nella grande città. I l g h e t t o n e r o , n e l l o s c h e m a d e g l i e c o l o g i s t i d i
Chicago,
razziale,
era
“colonia
fortemente
separata”
particolare,
differenziata
al
definita
suo
interno
su
base
perché
differenziata erano le provenienze, le esperienze professionali, le
opportunità economiche e culturali di vita della popolazione che vi
abitava. Raggiunto il riconoscimento dell’uguaglianza dei diri tti
civili, il ghetto nero perdura, ma si trasforma
in seguito alla
c o n t e m p o r a n e a r i v o l u z i o n e d e l l a s t r u t t u r a p r o d u t t i v a . La povertà di
ghetto americana si sviluppa come forma sociale diffusa soprattutto nel Nord-Est e nel Mid
West, in seguito a un drastico processo di ristrutturazione dell’industria, alla scomparsa di
numerosi posti di lavoro operai, alla delocalizzazione di quelli, quantitativamente minori, offerti
dalla nuova industria: un’offerta alla quale soltanto p a r t e d ell’élite nera ha potuto rispondere,
staccandosi, anche nella sua scelta di residenza nelle periferie della media borghesia, dal
gruppo etnico più ampio.
«Tratto caratteristico dei residenti dei ghetti neri di centro-città è proprio la disoccupazione,
rafforzata da un isolamento sociale crescente in vicinati poveri, che si riflette per esempio
nell’accesso rapidamente decrescente ai sistemi di informazione sul mercato del lavoro» [ibidem,
9].
Wilson associa la posizione debole sul mercato del lavoro a particolari situazioni
residenziali: nel ghetto nero si costituisce un nuovo sotto-proletariato segregato risultante da
cambiamenti su larga scala nel mercato del lavoro e dalla concentrazione spaziale,
nonché dall’isolamento rispetto alle parti più cospicue della comunità nera.
■Anche chi, tra gli osservatori della metropoli statunitense, protende per un
approccio diverso della morfologia della grande città americana, recupera
temi degli ecologisti di Chicago mentre si associa alle idee di rinnovata
territorialità delle relazioni sociali urbane.
Peter Marcuse [1989; 1991; 2006] dalla fine degli anni Ottanta propone un modello di città
quartered ma non duale, tipico della grande città contemporanea. Indica come
determinanti della differenziazione sociale le posizioni diversificate sul
mercato dell’alloggio e come ulteriore fonte della distribuzione socio-territoriale della
popolazione i meccanismi di «differenziazione invidiosa» che indirizzano la localizzazione della
casa.
Egli propone un elenco di dieci caratteristiche a suo parere realmente nuove della città
«post-fordista». Cinque di esse esprimono il rinnovato connubio tra suolo e popolazione,
secondo meccanismi tra i più violenti descritti dalla Scuola di Chicago:
1.le «aree naturali» mutano profondamente: si estende e si diversifica la parte della
popolazione non alloggiata;
2.alcune aree si espandono smisuratamente (città gentrificata e città abbandonata), altre
si contraggono (città degli affitti);
3.la dinamicità delle aree aumenta, i fenomeni di espulsione per espansione delle aree
dominanti rimodellano continuamente la città;
4.L’«identità di area» è forte risorsa identitaria per chi vi abita;
5.la solidarietà di area è molto forte: si creano veri e propri muri tra aree, strenuamente
difesi con turf barricades e turf battles, mentre altre aree si trovano sempre più
strettamente inserite in una rete fitta di rapporti internazionali.
Caratteristica determinante è infine la posizione delle istituzioni governative che,
tralasciando l’interesse pubblico a favore dell’interesse privato, non soltanto non
contrasta ma favorisce la crescita della città gentrificata e della città abbandonata.
Contemporaneamente, si ridefiniscono i cleavages politici, le linee di conflitto politico e di
coalizione; infine, si concentra il controllo privato dell’attività economica sullo sfondo di
mutamenti radicali nelle tecniche produttive di beni e servizi. Il modello che tenta di
associare l’analisi dei fenomeni aggregativi derivanti dalla nuova stratificazione con
considerazioni più classicamente ecologiche sulle caratteristiche fisiche delle aree offre
una interessante variazione sul modello della città globale. I tentativi più recenti di bilancio
sui mutamenti morfologici della città americana [Soja 2013?] continuano ad insistere sul
confermarsi di due movimenti costitutivi della struttura urbana emergente. Da una parte
perdura la dedensificazione delle inner cities e la loro trasformazione sotto il duplice
segno della gentrification in alcune aree e della formazione di nuovi ampi spazi dismessi
(la “shrinking city”), non sempre utilizzati dai nuovi immigrati. Dall’altra la crescente
debolezza delle famiglie sul mercato dell’alloggio, che comporta, da una parte mobilità
residenziale sostenuta, dall’altra crescita della popolazione dei senza tetti, un fenomeno
quest’ultimo, oggi purtroppo non tipico del Nord America.
2.5
Sulla morfologia dei sistemi urbani europei
Trovare modelli di città, sociologici o con valenza sociologica, meno rigidamente
derivati dall’esperienza statunitense è più difficile. Tra i modelli «non ortodossi» di città
occidentale va ricordato, per completare il panorama delle proposte morfologiche più
recenti, almeno il modello della città mediterranea, oggi marginale, ma sempre prezioso
per la ricchezza dei riferimenti offerti.
Tratti di organizzazione politica e di morfologia spaziale comuni ai sistemi urbani del Sud
Europa sembrerebbero delineare un modello alternativo a quello della città americana.
Proprio sulla nozione di «città mediterranea» elaborata nella letteratura storica, si innesta
negli anni Ottanta un modello sociologico, ancora troppo poco riconosciuto, della grande
città dell’Europa del Sud: una città che, in parte, contrasterebbe con il ritratto proposto della
«città globale» e, in qualche modo, l’avrebbe preceduta per alcune sue attività tradizionali,
come quelle assimilate sotto l’espressione di «economia informale».
I
cittadini
di
paesi
mediterranei,
si
afferma,
hanno
sempre
praticato
contemporaneamente più forme di lavoro come strategia per ridurre i rischi [Braudel
1949], tratto culturale che ha conseguenze nell’attuale struttura occupazionale. La
compresenza, tradizionale nella città mediterranea, tra il settore delle grandi imprese
moderne e il settore sempre crescente dei lavoratori autonomi e delle piccole imprese ha
fatto di questa città il precursore di un modello organizzativo che oggi si ritrova nella
città globale, con il suo mercato del lavoro polarizzato. In questa prospettiva, la città
mediterranea europea non è soltanto un sistema urbano tipico della semiperiferia
economica, secondo la definizione di Wallerstein [1980] (cioè un’area che nell’economia
mondiale occupa uno spazio intermedio tra il core e la periferia, e che vive ancora le
conseguenze della sua tarda industrializzazione), ma si caratterizza per alcuni tratti
specifici.
■ Innanzitutto, il precoce sviluppo urbano del Sud Europa rispetto al resto del
continente si esprime ancora oggi nella morfologia dei suoi sistemi urbani. Tratti uniformi
dello sviluppo economico del secondo dopoguerra accomunano ulteriormente queste
città: esso si associa a urbanizzazione rapida, andamento demografico dinamico,
emigrazione. La tesi, in breve, è quella di una relativa indipendenza dell’ambiente urbano
dall’industria [Leontidou 1990, 32].
■ Anche la carenza di controllo fondiario appare come caratteristica dell’Europa urbana
mediterranea [White 1984, 29]. L’assenza di separazione tra capitale fondiario e capitale
industriale è elemento significativo della sua storia economica, accanto a determinanti fisiche
e climatiche: la vita all’esterno della casa è facilitata, come pure la vita nel tugurio.
■ Negli anni Settanta, la carenza di pianificazione e le dimensioni della speculazione che
ha accompagnato lo sviluppo hanno proposto la città mediterranea, segnata da
sovraurbanizzazione e parassitismo, come tipo ideale di sistema politico locale. A questo
tipo ideale si sono ispirate diverse analisi sociologiche, anche italiane [GinatempoCammarota 1978]. La spontaneità che Leontidou, richiamandosi alla categoria gramsciana
dell’azione popolare spontanea, ha individuato come caratteristica dello sviluppo urbano
nell’Europa meridionale contemporanea ha una doppia dimensione. «L’espansione urbana
avviene sulla spinta di movimenti popolari senza leadership né piano; [...] gli attori di questi
movimenti considerano la terra e l’alloggio come valori d’uso e non come valori di
scambio; il loro scopo principale è la residenza piuttosto che la speculazione. I movimenti
spontanei dovrebbero quindi essere distinti per un verso da riforma e pianificazione, per
l’altro dalla speculazione» [Leontidou 1990, 43]. Tali movimenti si ispirano in genere a
culture popolari che possono rivestire un contenuto di contestazione radicale: è il caso dei
fenomeni di squatting (occupazione abusiva di suolo o di edifici).
■ La crescita urbana nei paesi del capitalismo periferico, tra i quali l’Europa mediterranea,
realizzerebbe, secondo Schnore [1965], uno schema morfologico anti-burgessiano:
concentrazione della residenza borghese nel centro ed espulsione alla periferia degli strati
marginali, inclusi i poverissimi, secondo una distribuzione spaziale degli strati sociali vicina
a quella della città preindustriale concentrica descritta da Sjöberg. Le aree borghesi si
sviluppano tradizionalmente nelle strette vicinanze del central business district o, secondo
uno schema socio-spaziale non concentrico ma radiale, lungo linee direttrici di giardini
urbani che collegano il centro alla periferia e nei pressi dei quali si situano le residenze più
appetibili. L’esplosione urbana degli anni Settanta avrebbe anch’essa approfondito,
secondo alcuni geografi, la tendenza anti-burgessiana tramite la riqualificazione urbana, la
gentrification e l’uniforme espulsione della residenza povera e degli slums interstiziali
centrali all’estrema periferia, sotto forma di grands ensembles o di bidonvilles.
■ Lo schema morfologico anti-burgessiano si associa, nel modello di città mediterranea
delineato da altri studiosi [in particolare White 1984; Leontidou 1990], ad una maggiore
promiscuità tra attività e gruppi sociali, in particolare nelle fasce medio-inferiori della
popolazione. La distribuzione della residenza operaia segue con relativa fedeltà la
localizzazione delle industrie; se vi è segregazione sociale spaziale essa corrisponde
soprattutto ad una «secessione» volontaria delle classi più agiate; la residenza operaia
si colloca molto spesso in aree socialmente miste, nelle quali la piccola borghesia è ben
presente: in breve, la città mediterranea idealtipica conosce lo slum, anche di grande
dimensione; ma non conosce il quartiere operaio ereditato dalla rivoluzione industriale
nelle città del Nord Europa.
Vi è promiscuità sociale anche perché persistono forme di differenziazione residenziale
alternative a quella del vicinato: la differenziazione verticale (tra i «piani nobili» e gli altri)
nel palazzo del centro o nella periferia ottocentesca, la distinzione tra facciata e retro,
l’affollamento differenziato degli stessi appartamenti. Le stesse attività economiche
risultano spesso geograficamente intrecciate con la residenza secondo uno schema nel
quale lo zoning, per le carenze nella produzione di piani e quelle dell’attività edilizia,
non riesce a concretarsi. Nella città settentrionale la disposizione delle attività
economiche in aree separate viene favorita dalla pianificazione e in particolare dalla
zonizzazione legale. Le città meridionali offrono, invece, un patchwork spaziale di attività
cucito sulla trama dell’economia informale, che porta spesso ad uno schema di
differenziazione verticale alternativo alla segregazione spaziale delle attività economiche:
nello stesso palazzo sono compresenti attività commerciali, amministrative, artigiane o
industriali al pianterreno, mentre la residenza è ai piani superiori. Una promiscuità che
raggiunge l’apice nel caso, diffuso, del lavoro domestico. Ne derivano ridotti
pendolarismi per tutte le classi sociali e lo spezzamento della giornata lavorativa con un
lungo intervallo-pranzo.
Questo tipo di morfologia urbana va associato alla predominanza di tipologie edilizie
verticali e alla quasi totale assenza nella grande città mediterranea dell’abitazione
monofamiliare, che modella invece così rigidamente il paesaggio urbano di tanti paesi
del Nord Europa. Alcuni studi degli anni Settanta intravedevano forti tensioni proprio
nell’aumento della densità urbana mediterranea. Le condizioni di vita delle classi medie –
ormai difficili per rumore, disagio, assenza di servizi – avrebbero alimentato la tendenza
alla fuga, o alla costruzione di nuovi ambienti di vita, in rottura col modello antiburgessiano. I nuovi sviluppi della localizzazione delle attività e delle residenze
richiederebbero quindi l’approntamento di strumenti di riferimento nuovi che aiutino a
descrivere le varie situazioni metropolitane europee, in riferimento in particolare al modello
classico della città mediterranea.
■ Il modello di metropoli proposto da Martinotti [1993, 137 ss.] deve essere infine
considerato come contributo, seppur critico, all’analisi morfologica tradizionale. Esso
definisce una tipologia di sistemi metropolitani fondata non sulla struttura di produzione,
ma sulle forme e la forza dell’attrazione urbana, e sulle loro conseguenze morfologiche
e politiche. Essa, inoltre, considera non solo i residenti della città, ma chi la frequenta ogni
giorno o episodicamente: quindi tutte le sue «popolazioni», diurne e notturne. Le tre tappe
individuate da Martinotti nella storia dell’area metropolitana a partire da considerazioni
sull’uso diurno e notturno dei centri urbani sono tipiche del vecchio continente.
1)
Le «metropoli di prima generazione» sono insiemi urbani unitari formati da una
città e dalle sue appendici dopo l’abbattimento ottocentesco delle cinte murarie, sui quali
gravitano esclusivamente due popolazioni: i residenti e i pendolari.
Le «metropoli di seconda generazione» hanno già una periferia sconfinata e si
2)
caratterizzano per una relativa autonomia produttiva e culturale. Esse attraggono un
numero crescente di city users che non lavorano né risiedono entro i loro confini:
«consumatori metropolitani» che la città serve per gli acquisti eccezionali, per il
consumo culturale.
3)
Nelle «metropoli di terza generazione» vi si aggiungono consumatori stranieri,
appartenenti a una categoria numericamente limitata ma socialmente ed economicamente
significativa: i metropolitan businessmen; per loro la città sviluppa servizi di alto livello ma
improntati ad uno standard internazionale banalizzante.
Ai metropolitan businessmen si dovrebbe senz’altro aggiungere in molte metropoli le
categorie dei «turisti» e dei diversi residenti temporanei per completare questa descrizione
dei «consumatori stranieri».
Tale approccio morfologico rinnovato apre la strada ad analisi dei sistemi urbani
assai suggestive poiché consentono di proporre dei quadri della struttura socioterritoriale che illuminano le dinamiche di competizione e di conflitto sullo sfondo
delle quali si costruiscono le politiche pubbliche locali.
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