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E. Fabbri, Roberto Bellarmino e Thomas Hobbes. Teologie politiche a confronto,
Aracne, Roma 2009, pp. 259.
Recensione a cura di Andrea Erizi
Ci sono testi che si segnalano per l’accuratezza della ricostruzione filologica e
concettuale, capace di sollecitare l’attenzione anche degli specialisti in materia. Altre
opere, invece, suscitano interesse per le linee di ricerca a cui offrono spunto, riuscendo a
gettare luce nuova su nodi teoretici ricorrenti. Assai più raro e prezioso, infine, è un
libro che metta il lettore in condizione di tesaurizzare entrambe queste dimensioni,
associando al rigore analitico la fecondità delle suggestioni euristiche. A questo duplice
requisito risponde, mi sembra, il volume di Enrica Fabbri. La mia impressione
complessiva, in altre parole, è di essere in presenza di un testo che adempie ad un
obiettivo per più versi meritorio: focalizzandosi con una lente analitica sugli aspetti
teologico-politici della riflessione di Hobbes, mentre allarga, con l’altra, l’angolo
visuale ad una prospettiva di teoria della modernità, esso rende un servizio al campo
degli studi hobbesiani, ma anche a chi è interessato, più in generale, alla tematizzazione
moderna del rapporto fra religione e politica.
Il lavoro di Fabbri viene anzitutto ad occupare un terreno, come la stessa autrice
osserva (p. 14), sorprendentemente poco battuto nell’ambito della ricezione di Hobbes.
Nonostante un recente fiorire di interesse – motivato peraltro, mi permetto di suggerire,
più dalla cogenza del presente che da motivazioni interne agli studi hobbesiani –, la
teologia politica resta una delle parti più in ombra del pensiero di Hobbes. Un deficit di
considerazione critica che stride con la biografia intellettuale del filosofo inglese, che a
questioni teologiche dedicò segmenti importanti della sua riflessione, nonché la metà
circa della mole complessiva dell’opus maius del 1651, il Leviatano. Nei suoi intenti
generali, questo volume è dunque il tentativo di rendere ragione di un percorso teorico
costellato di suggestioni e interventi sul terreno teologico, o piuttosto teologico-politico,
che conoscono in Bellarmino soltanto l’obiettivo polemico più reiterato ed esplicito.
1
Rispetto a yale nucleo problematico, la struttura del lavoro di Fabbri presenta, anche
ad una lettura distratta, almeno due aspetti degni di menzione. In primo luogo, la
ricostruzione si avvale di una conoscenza profonda dell’intera produzione hobbesiana.
Non soltanto, quindi, il volume porta l’attenzione su temi ancora insufficientemente
frequentati dalla letteratura critica, ma lo fa mobilitando anche i testi meno noti, e in
alcuni casi mai tradotti in italiano – in particolare, l’Anti-White del 1643 –, in cui la
riflessione teologico-politica di Hobbes ha trovato sistemazione. In secondo luogo, mi
sembra valga la pena spendere qualche parola sull’impianto complessivo del libro. Esso,
infatti, riesce a tenere insieme in maniera convincente l’accuratezza della ricostruzione
storica, pur senza mai pretendere di costituire un’opera di storia della filosofia, né
tantomeno di storia della Chiesa, con un respiro propriamente teoretico, che lo rende a
tutti gli effetti un lavoro di filosofia politica. Uno dei suoi obiettivi fondamentali è,
appunto, quello di inquadrare la posizione hobbesiana nel contesto nel dibattito
teologico-politico del suo tempo, anche attraverso puntuali riferimenti – e qui l’autrice
sviluppa le intuizioni consegnate da Carl Schmitt ad Ex Captivitate Salus1 – alla vicenda
biografica del pensatore inglese. Nondimeno, anche quando si concede circostanziate
digressioni, l’argomentazione mantiene sempre ben dritta la barra sul focus filosofico o
concettuale in questione.
Siamo dunque di fronte ad un lavoro dotato, al di là del notevole impegno analitico –
e, direi, filologico – che comunque vi traspare, di un taglio eminentemente teoretico. È
in questa prospettiva che Fabbri affronta le due questioni al centro del suo interesse. Da
una parte, tracciare una mappatura del “corpo a corpo” con la teologia politica di
Bellarmino che Hobbes ingaggia, attraverso tutta la sua produzione, non appena si
confronta con tematiche teologiche. Dall’altra, dare conto del secondo grande fronte
polemico che impegna il filosofo inglese, quello aperto contro le denominazioni settarie
di matrice calvinista. Così individuati gli schieramenti, l’idea a mio parere saliente del
lavoro, e con più marcati profili di originalità, è che fra i due versanti polemici ricorrenti
nella teologia politica hobbesiana vi sia uno sbilanciamento, un’asimmetria non
1
Cfr. C. Schmitt, Ex Captivitate Salus, Adelphi, Milano 1987 (ed. or. 1950).
2
espressa, ma non per questo meno operativa. Tale tesi sostiene, in termini provocatori,
come non sia in realtà il confronto con il cattolicesimo, rappresentato dalle posizioni di
Bellarmino, e che Fabbri pone fin dal titolo al centro della sua ricostruzione, il cuore
pulsante della prestazione teologico-politica del filosofo del Leviatano (pp. 13-14, 98,
102-103). Ben più problematica, infatti, appare la discussione con coloro che si rendono
fautori di un soggettivismo radicale nell’accesso e nell’interpretazione dei Testi Sacri.
Sono i presbiteriani, i “fanatici” che si pretendono direttamente ispirati da Dio, a
rappresentare, ben più dei cattolici, un inciampo alla modalità di neutralizzazione del
conflitto religioso messa in campo da Hobbes. Se è vero che la Chiesa di Roma
costituisce il bersaglio più appariscente nelle pagine hobbesiane, e quello su cui
soprattutto si è focalizzata la critica, diversamente l’idea chiave di Fabbri è che siano i
presbiteriani, come più chiaramente emerge nel Behemoth, i portatori della più
consistente minaccia all’unità e all’ordine del corpo politico.
Chiesa cattolica romana e sette presbiteriane incarnano, in effetti, due diverse
modalità di dissoluzione del potere sovrano. Il cattolicesimo opera “dall’esterno”,
secondo un modello che è quello del conflitto inter-statale: esiste uno Stato, quello
pontificio, retto da un sovrano, il Papa, che agita ricompense e pene ultraterrene per
distogliere i sudditi inglesi dal dovere dell’obbedienza al legittimo sovrano terreno. La
Chiesa cattolica pone, in altri termini, un contenzioso di sovranità: rivendica una
potestas sulle questioni religiose – sia pure, almeno nella versione adottata da
Bellarmino, indiretta – tendenzialmente universale, estesa ai sudditi non sottoposti alla
sua giurisdizione secolare. Sarebbe tuttavia sufficiente che Roma abdicasse alle sue
“mire espansionistiche”, esercitando il comando teologico-politico al solo interno dei
propri confini, per porre fine ad ogni dissidio (pp. 123-124). Infatti, lungi dal metterlo in
questione, il cattolicesimo rappresenta piuttosto un modello ineguagliato per quello che
è il cardine della teologia politica hobbesiana: la necessità di un’interpretazione
autoritativa del contenuto del messaggio salvifico. La ierocrazia pontificia e il
cesaropapismo propugnato da Hobbes tendono a sovrapporsi nella comune indicazione
dell’esigenza di una mediazione “dall’alto” nella ricezione delle verità della fede.
3
Al contrario, il potenziale dirompente dell’esperienza settaria si situa proprio nel
rifiuto di ogni interposizione autoritativa, che sia del Papa o del sovrano, nell’accostarsi
alle Sacre Scritture. L’assunzione coerente del principio scritturale si traduce nella
negazione della legittimità della decisione sovrana in materia di fede, a favore della
libera espressione del carisma religioso individuale. Ma lasciare che l’agire religioso
esuli dall’ambito della regolazione politica non significa altro, per Hobbes, che esporre
il Leviatano alla minaccia spettrale, tanto più esiziale in quanto endogena, della guerra
civile a matrice confessionale.
È dunque essenzialmente nella rivendicazione presbiteriana della libertà religiosa,
assai più che negli “anatemi” provenienti da Roma, che Hobbes scorge pericolose
occasioni di disordine politico. Molto lucidamente, Fabbri definisce l’opzione
teologico-politica di Hobbes a partire da due opposte esigenze (pp. 83-86). Da una
parte, egli propugna il ritorno al kerygma evangelico contro le sovrastrutture teologiche
funzionali al potere di un clero cattolico imbevuto di cultura filosofica greca. Si tratta di
un progetto a cui non sono estranee venature proto-illuministiche, di emancipazione
dalla superstizione, ma che Fabbri, a mio parere in maniera persuasiva, riconduce a
motivazioni squisitamente politiche. D’altra parte, le pretese settarie di un accesso
individualizzato, im-mediato ai Testi Sacri si scontrano con l’esigenza, tutta terrena, di
preservare l’ordine politico dagli esiti polemogeni di una proliferazione incontrollata del
pluralismo delle opinioni circa la salvezza. Il disaccordo con Bellarmino verte dunque
“semplicemente” sull’attribuzione del comando teologico-politico in materia di fede –
per il teologo cattolico, compete al Pontefice romano su tutta la cristianità, per il
filosofo inglese, ad ogni sovrano territoriale –, non sulla sua opportunità; la quale è da
entrambi difesa contro l’interpretazione “spoliticizzante” del sola Scriptura fatta propria
dai presbiteriani.
Le medesime linee di frattura, che scompaginano l’immagine tradizionale di
Hobbes, possono essere portate allo scoperto affrontando la questione, come fa Fabbri,
anche nei termini della residualità del profetismo nell’intervallo, che ormai si palesa non
brevissimo, fra l’incarnazione di Cristo e la seconda e definitiva parusia. Mentre per
Hobbes – e per Bellarmino – viviamo in un’epoca priva di profeti, i fanatici settari sono
4
descritti come coloro che presumono di godere di un rapporto di diretta ispirazione
divina (p. 103). È evidente quale sia per Hobbes la posta in gioco: dare credito
all’esistenza di una profezia autentica – non riducibile, come egli in realtà crede, a
posticcio entusiasmo motivato in ultima istanza dalla brama di potere – significherebbe
spalancare le porte al conflitto fra l’autorità istituzionale del sovrano, unico interprete
legittimo del Testo Sacro, e l’autorità carismatica di cui è latore il profeta.
L’architettura hobbesiana si regge sull’attribuzione al detentore dell’autorità politica del
monopolio dell’interpretazione del sacro; monopolio che verrebbe messo in crisi se, a
quanto “sta scritto” per volontà sovrana, qualsiasi fedele “entusiasta” potesse opporre il
proprio “ma io vi dico”. Il definitivo esaurimento dell’esperienza profetica, di
conseguenza, è la posizione su cui tanto Hobbes, quanto Bellarmino, si attestano per
neutralizzare la carica intrinsecamente rivoluzionaria della predicazione carismatica dei
profeti2.
I punti di merito di questo lavoro trascendono, tuttavia, la proposta di un diametrale
spostamento del focus polemico della teologia politica hobbesiana, secondo la linea
argomentativa che ho brevemente ripercorso. È soprattutto all’Introduzione che viene
affidato un compito irriducibile alla mera enunciazione delle tesi sviluppate nel corso
del volume: quello di provvedere ad una perimetrazione del campo della ricezione della
teologia politica di Hobbes, isolando e descrivendone i diversi filoni esegetici (pp. 1529). In particolare, l’autrice si confronta con tre paradigmi ermeneutici che hanno, in
modi diversi, “preso sul serio” il versante teologico della proposta politica hobbesiana.
Ciò significa modelli interpretativi che non si sono accontentati di ricondurre l’interesse
teologico di Hobbes a motivazioni strumentali rintracciabili nella sua biografia,
segnatamente il tentativo – peraltro fallito – di disinnescare la pericolosità di un’opera
sempre liminale con l’eresia; piuttosto, hanno cercato di argomentare la sua
funzionalità, o addirittura necessità, alla tenuta del progetto hobbesiano, rivendicando
per la teologia una cittadinanza pleno iure dentro i confini della teoria politica. O
2
Sulla portata rivoluzionaria del carisma, e del carisma profetico in particolare, luogo classico è la
trattazione di M. Weber, Economia e società, vol. I, Edizioni di Comunità, Milano 1974, pp. 445-456 (ed.
or. 1922).
5
meglio: rinvenendo nella religione l’inaggirabile presupposto pre-contrattuale
dell’artificio del contratto, il fondamento pre-politico dell’ordine politico. Attraverso
questo confronto, la ricerca di Fabbri è così proiettata al di là di una prospettiva
strettamente esegetica o ricostruttiva, per interrogarsi, a partire da una lettura di Hobbes,
sullo statuto della modernità politica.
Il primo modello interpretativo è quello proposto da un lettore d’eccezione di
Hobbes, Carl Schmitt, che al pensiero del filosofo inglese ha dedicato una
pluridecennale attenzione. Proprio a Schmitt è ascrivibile un’intuizione di capitale
importanza nella questione del rapporto fra religione e politica: l’idea dell’insufficienza
della coercizione politica a neutralizzare una conflittualità avente per oggetto beni e
mali, quali quelli ultraterreni, creduti superiori a quelli nella disposizione del potere
sovrano. Ma questa decisiva agnizione resta in Schmitt circoscritta alla monografia del
19383. Nei contributi precedenti, e poi in quelli successivi, Schmitt assume invece
Hobbes a paradigma dell’ontologica necessità di una teologia politica: dell’apertura alla
trascendenza come garanzia della capacità del potere politico di esibire giustificazioni,
cioè come fonte della sua legittimità. Il riferimento alla teologia politica hobbesiana è
dunque funzionale all’ontologia della politica moderna elaborata da Schmitt negli scritti
degli anni ‘20, come forma dell’agire in tanto legittimata a richiedere il sacrificio della
vita nel conflitto con un nemico, in quanto in grado di attingere ad un orizzonte valoriale
in qualche senso trascendente4. Non posso ovviamente soffermarmi oltre; basti però dire
che Schmitt incorre qui, secondo Fabbri, in un sostanziale fraintendimento degli intenti
teologico-politici del filosofo inglese: in gioco non è infatti tanto la legittimità, quanto
una più puntiforme efficienza dell’ordine politico, secondo l’intuizione formulata dallo
stesso giurista tedesco nel 1938 (pp. 21, 221).
È questa prospettiva ad essere stata ripresa in anni recenti da Dimitri D’Andrea, che
ne ha tratto fondamentali conclusioni in chiave di teoria della modernità. Il punto
3
Cfr. C. Schmitt, Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes. Senso e fallimento di un
simbolo politico, in Id., Scritti su Thomas Hobbes, Giuffrè, Milano 1986 (ed. or. 1938).
4
Faccio riferimento essenzialmente da una parte a C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, in Id., Le
categorie del politico, Il Mulino, Bologna 1972 (ed. or. 1927), e dall’altra a Cattolicesimo romano e
forma politica, Giuffrè, Milano 1986 (ed. or. 1923).
6
nevralgico dell’argomentazione di D’Andrea, sostanzialmente accolto da Fabbri, è la
necessità di ricorrere a strumenti non politici, ma discorsivi, che persuadano – e non
costringano – attori che facciano riferimento a fonti di senso ultime, di carattere
religioso o lato sensu ideologico. Hobbes è quindi, in quest’ottica, il pensatore che,
illustrando le potenzialità della politica, per primo ne ha con altrettanta chiarezza
individuati i limiti: appunto, la sua impotenza a ricomporre con i mezzi che la
identificano la violenza religiosamente motivata. Di fronte ad identità a “trazione
verticale”, cioè che attingono a risorse di senso comunque eccedenti la sfera del dato, la
politica è costretta a lasciare il passo a modalità non coercitive di composizione del
conflitto, che facciano leva su una possibile ridefinizione dell’auto-percezione e degli
interessi dei soggetti.
Infine, Fabbri si confronta con quelle letture che mettono in luce come in Hobbes la
religiosità, una volta emendata da quegli elementi spuri che dividono i cristiani, possa
fungere da fattore identitario funzionale alla coesione del corpo sociale. In questo senso,
è possibile rintracciare una sostanziale continuità fra il ruolo che la fede religiosa può
svolgere nella riproduzione della vita sociale all’interno del Leviatano e l’idea di
“religione civile” avanzata prima da Rousseau e poi da Tocqueville. Hobbes si porrebbe
così all’origine della stretta che la modernità impone al rapporto fra religione e politica,
attraverso un duplice processo di sacralizzazione della politica e di politicizzazione del
sacro.
Un’adeguata ricognizione della teologia politica hobbesiana non è dunque soltanto
indispensabile ad un ripensamento delle sue tesi nel contesto nella discussione del XVII
secolo, ripensamento che si traduce in quello slittamento del bersaglio polemico
privilegiato che, come abbiamo visto, rappresenta la tesi centrale di questo volume.
Accanto a questo, il tentativo di Fabbri mi pare essere quello di mostrare come la
riflessione di Hobbes possa interloquire con profitto non solo con altri classici del
pensiero politico moderno, ma anche con le questioni che agitano un tempo, il nostro, in
cui con rinnovata urgenza si pone il problema della convivenza inter-religiosa e della
definizione di confini fra “ciò che è di Cesare” e “ciò che è di Dio”. Che la riflessione
hobbesiana possa, ad onta del suo carattere “scandalosamente” primo-moderno, fornire
7
indicazioni in tal senso costituisce, in fondo, il trait d’union delle interpretazioni con cui
Fabbri fa maggiormente i conti, nonché la radice ultima dell’inesausto confronto che il
pensiero contemporaneo continua ad intrattenere con la sua opera.
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