1.1.1. Privato come ricerca di senso A queste spiegazioni di tipo contingente si possono aggiungere altre analisi che individuano nel malessere diffusosi in questo decennio radici più profonde che in genere si riconnettono alla crisi del modello di sviluppo perseguito nel mondo occidentale ed in particolare in Italia fino agli anni '60. Con la caduta di tale modello entrano in crisi anche le visione del mondo che lo presiedevano e la capacità perciò di questa società di dare un senso unitario aciò che si fa e propone. E' la crisi delle "grandi narrazioni" (Lyotard) che apre il varco al nichilismo, al postmoderno, al cosiddetto "pensiero debole". Mancando delle "strutture di plausibilità" (Rusconi), che rendano comprensibile il proprio mondo ed evidenti i motivi per cui impegnarsi in esso, ne nascono movimenti tendenti a supplire tale mancanza. Ecco allora la frantumazione delle esperienze dei sistemi di significato. Di qui la "sindrome privatistica" (Ardigò 1980, 74): mancando un progetto collettivo ci si ritira nella sfera individuale, privata. Si pensa solo a salvare se stessi, avendo perso ogni prospettiva e speranza di salvare gli altri. Nei giovani emerge con particolare evidenza questa tendenza nel non voler assumere grandi obiettivi, individuali o collettivi. Non percepiscono le mete della società come proprie, per cui preferiscono ripiegarsi su se stessi, sulla sfera privata, rinchiusa nell'orizzonte della quotidianità. Venendo meno le evidenze comuni e condivise, si cercano sistemi di significato che aiutino a superare il senso di vuoto, che diano senso al proprio agire contingente, senza pretese di validità universale. Queste evidenze vengono cercate nel mondo vitale, "regno di evidenze originarie" (Husserl). Ma tra esso ed il sistema sociale non c'è più connessione1. Di conseguenza viene meno il consenso verso le istituzioni e diventa assai più difficile l'integrazione sociale. Il mondo vitale diventa l'unico produttore di senso ed in esso ci si rifugia di fronte alla complessità della vita ed alla sua incomprensibilità. Potrebbe essere questa una spiegazione della dissociazione tra sfera individuale/privata e sfera collettiva/pubblica denunciata in parecchie inchieste. Questo può spiegare anche la caduta di partecipazione sociale e politica. In compenso si cerca "un nuovo senso comune attraverso la festa, la poesia, la musica, anche attraverso aggregazioni informi di masse di spettatori, soggettività ormai emarginate o autoemarginate" (Ardigò 1980, 57). 41 1.2. II fenomeno della devianza: dalle interpretazioni classiche ai nuovi concetti di rischio e disagio Negli anni ‘80 la devianza, in parallelo con il cambiamento di atteggiamento generale, segnò “il passaggio da una forma di rifiuto violento del sistema (terrorismo politico), a forme più adattive ad esso, nel senso che non si cerca di più di combatterlo, ma convivere con esso, cercando degli spazi marginali alla vita sociale (marginalità nel privato)” (Tomasi, 1986, 108). Ciò non eliminò il problema della delinquenza comune, che, anzi, nel nuovo clima di disimpegno politico e sociale, trovò modo di espandersi ulteriormente, ma il problema riguarda i giovani solo in modo marginale. “Se alcuni giovani sono attirati dalle facili suggestioni di ricchezza e di potere da parte delle organizzazioni criminali, comuni e politiche, va detto pure che la maggior parte di loro rifiuta tale mentalità di violenza, ma non sembra, nel medesimo tempo, motivata all’assunzione di impegni di natura politica o sociale” (Tomasi, 1986, 109). -12) Ciò che prima era tendenzialmente omogeneità tra mondi vitali singoli e mondo sociale, diviene ora un delicato problema di transazione" (Ardigò 1980, 23). 1.2.1. L’introduzione dei termini di “disagio” e “rischio” Ciò che era cambiato era il clima sociale. Il mutamento venne percepito a livello di analisi, dove alle interpretazioni classiche della devianza/marginalità, si sostituirono nuove forme interpretative che tenevano conto della complessità sociale e della difficoltà di definire “devianza” in una situazione di pluralismo e relativismo etico, ed “emarginazione” in un contesto di pluralità di centri. Il risultato fu l’adozione di nuovi parametri interpretativi, come il “rischio” e il “disagio”. Termini entrati nella letteratura sociologica in seguito alle critiche rivolte dalla corrente interazionista sul ruolo dello stigma sociale nella definizione della devianza. Infatti, secondo tale scuola, le situazioni che erano tradizionalmente definite come “devianti” lo erano in quanto la società le aveva definite tali. La devianza “non” è una qualità dell’atto che la persona commette, ma piuttosto la conseguenza dell’applicazione, da parte degli altri, di norme e sanzioni che qualificano il soggetto come “delinquente”: il deviante è un soggetto al quale questa etichetta è stata applicata con successo; comportamento deviante è il comportamento che la gente etichetta come tale (Becker, 1963, 9) Questo etichettamento è di fondamentale importanza per capire il processo di costruzione dell’identità deviante. Al compimento di atti “devianti” (devianza primaria) da parte dell’adolescente, più per effetto della sua iperattività e del bisogno di distinguersi dall’ambiente e di esprimere la sua autonomia, segue un processo di “etichettamento” da parte della società. A questo punto, quelli che erano solo degli atti gratuiti, senza scopo, diventano delle azioni strutturanti. Il soggetto che non ha altre possibilità di affermare se stesso, a causa della deprivazione culturale e sociale, si identifica (identità negativa) nelle azioni stigmatizzate dalla società e ne fa la sua identità definitiva (devianza secondaria). La devianza secondaria, è quindi, il risultato dell’interazione fra l’aspetto psico-sociale dell’azione deviante e del suo autore e l’effetto sociopsicologico della reazione sociale intesa sia nella dimensione simbolica che in quella istituzionale. Attraverso l’adozione dei termini “rischio” e “disagio” si volle evitare di etichettare chi commetteva atti trasgressivi come “deviante”, contribuendo con ciò al passaggio da una devianza primaria ad una secondaria e definitiva. 1.2.1.1. L’elaborazione del concetto di rischio in “Giovani e Città” (1984) Il concetto di rischio venne applicato in maniera sistematica nella ricerca “Giovani e città” (Milanesi, 1984), che reca come sottotitolo “Percorsi giovanili a rischio”. Tale ricerca, promossa dall’Assessorato alla Pubblica Istruzione e Gioventù del Comune di Brescia tra i giovani compresi tra i 14 e i 19 della città, fu una ricerca che ha contribuito notevolmente alla elaborazione teorica del concetto di rischio2 e ad una svolta nel modo di trattare il tema della devianza. Questo perché il lavoro era stato condotto da un gruppo di studio, che comprendeva sociologi, psicologi, pedagogisti, esperti di politiche sociali, funzionari e operatori sul campo. Quest’ampia rappresentanza di vari interessi e approcci metodologici offrì la possibilità di elaborare un quadro teorico che tenesse conto sia delle varie interpretazioni teoriche sulla condizione giovanile e sulla devianza, sia degli aspetti concreti del problema a livello locale. Tale quadro teorico fu socializzato con altri studiosi, per cui divenne una base di riferimento in Italia per ulteriori riflessioni su tale tema3. Infatti l’ipotesi generale suonava in questi termini: "Esistono effettive possibilità di rischio sociale per gli adolescenti e per i giovani del Comune di Brescia nelle zone territoriali e negli strati sociali in cui: a) la condizione degli adolescenti e dei giovani appare più caratterizzata dai processi di _____2 “Il concetto di ‘rischio’ occupa una posizione centrale nell'impianto generale di questa ricerca (Milanesi, 1984 422). 3 Sembra, sia dall’esame interno dei contenuti che da incerte testimonianze di contemporanei, che la stessa opera di Neresini e Ranci (1992), che costituisce uno dei più validi lavori a livello di riflessione sistematica sul tema del disagio giovanile in Italia, abbia recepito alcuni elementi della ricerca di Brescia, forse per qualche forma di interazione tra i due emarginazione, di negazione del potenziale innovativo, di controllo sociale della socializzazione; b) la soggettività degli adolescenti e dei giovani appare inadeguata ai processi di cui essi sono oggetto" (Milanesi, 1984, 45-46). Per poter verificare tali ipotesi, fu necessario definire, teoricamente ed operativamente, i termini impiegati. Tale chiarificazione risultò decisiva per comprendere il concetto di rischio ed i termini ad esso correlati. 1.2.1.1.1. La definizione di rischio Innanzitutto venne esclusa la coincidenza del termine “rischio” con “comportamento deviante” Per rischio sociale si intendevano: "situazioni obiettive e soggettive in cui vengono rese difficili e, al limite negate, le possibilità e le capacità (personali e di gruppo) di autorealizzazione e di partecipazione consapevole" (Milanesi, 1984, 47). Concetto che venne ulteriormente specificato, nel corso della discussione: "situazione in cui vengono frustrate o negate le opportunità ragionevoli di soddisfazione dei bisogni fondamentali" (Milanesi, 1984, 422). A livello operativo vennero precisati i bisogni fondamentali, le possibilità di autorealizzazione e partecipazione, la cui frustrazione costituisce occasione (o fattore) di rischio. Siccome si optò per una definizione di autorealizzazione di tipo soggettivo, ne conseguiva che il concetto di "rischio" resta condizionato da una intrinseca oscillazione tra una concezione "obiettivistica" (essere in una situazione in cui mancano certe premesse obiettivamente necessarie alla soddisfazione di bisogni obiettivamente fondamentali) ed una concezione "soggettivistica" (percepire come soggettivamente pericolosa una situazione in cui mancano le premesse soggettivamente considerate necessarie alla soddisfazione di bisogni soggettivamente ritenuti fondamentali) (Milanesi 1984, 425-426). Anche se non annullata la componente “soggettivistica” del rischio, i ricercatori cercarono di definire le variabili che costituivano la componente “oggettiva” del rischio. La ricerca, infatti, era partita dal presupposto che: una certa disgregazione del territorio (in termini di degrado fisico ed abitativo, di destrutturazione del tessuto sociale e della partecipazione, di crisi dei processi di produzione collettiva di senso) sia obiettivamente alla base del rischio giovanile. E, per converso, ritiene che la presenza sul territorio di fenomeni di segno opposto (nuove forme di aggregazione; movimenti collettivi di tipo reattivo, adattativo, conflittuale; emergenza di una diversa domanda sociale) siano funzionali a processi di prevenzione e/o recupero rispetto al rischio (Milanesi, 1984, 426). Come pure considera fattori di rischio alcune situazioni tipiche della condizione giovanile del momento. L'impianto dell'indagine presuppone che certe situazioni obiettive tipiche della condizione giovanile di questa fase storica possano interagire insieme alle situazioni di disgregazione del territorio, moltiplicando 1e possibilità di rischio (Milanesi, 1984, 426). Tra le situazioni tipiche della condizione giovanile che possono diventare fattori di rischio, la ricerca considerò soprattutto l’emarginazione, “che minaccia tutti i giovani e che colpisce selettivamente i meno garantiti ed attrezzati tra essi” (Milanesi, 1984, 427). Gli indicatori dell’emarginazione vengono rintracciati in: l'espulsione precoce dalle strutture formative, o il prolungato parcheggio in esse, l'esclusione dal lavoro legale, lo sfruttamento del lavoro nero, la costrizione a svolgere esclusivi o prevalenti funzioni di consumo, la manipolazione attraverso la socializzazione coatta dei mass media, l'esclusione dalle forme di partecipazione scolastica, politica, ecclesiale (Milanesi, 1984, 427). Un altro fattore di rischio consisteva nella negazione del potenziale innovativo cioè la frustrazione della "capacità di produrre cultura relativamente autonoma rispetto ai modelli condivisi dalla società adulta, che a sua volta sembra collegata con la situazione tipica di frammentazione della condizione giovanile e con l'ambiguità sostanziale degli atteggiamenti di tolleranza e di permissività adottate dagli adulti nei riguardi dei comportamenti giovanili (Milanesi 1984, 427-428). Infine, un ulteriore fattore di rischio consisteva, secondo i ricercatori, in una situazione di controllo sociale della socializzazione, cioè di una "massificazione dei processi di socializzazione, attraverso la canalizzazione dei bisogni adolescenziali/giovanili verso comportamenti stereotipi soprattutto nel tempo libero" (Milanesi, 1984, 428). Anche questa situazione venne collegata al rischio, in quanto ostacolo serio alla costruzione di identità individuali e collettive ben strutturate. Tale tipo di socializzazione venne ritenuta dai ricercatori in grado di impedire un'autonoma e critica esplorazione delle possibilità originali di soddisfazione dei propri bisogni, indirizzandoli invece verso mete socialmente e personalmente irrilevanti, ancorché economicamente redditizie per i gestori del controllo sociale (Milanesi, 1984, 428). Infine i ricercatori si posero la domanda sul rilievo che potevano assumere questi fattori di rischio “oggettivi” sulla percezione o valorizzazione soggettiva nel vissuto dei giovani. Sulla base delle ricerche e degli studi compiuti negli anni immediatamente precedenti, si riconobbe che la soggettività dei giovani è incessantemente capace di elaborare (individualmente e collettivamente) risposte adattative, reattive e/o proattive più o meno funzionali al "bisogno di significato" emergente dalle problematiche condizioni di vita (emarginazione ecc.) in cui sono chiamati a vivere (Milanesi 1984, 429). I modi attraverso cui i giovani aumentano, attraverso le loro letture soggettive e adattive, la probabilità di rischio, già presente i certe situazioni oggettive, sarebbero: una distorta percezione delle proprie condizioni esistenziali, in particolare dei fattori di rischio; una cultura del privato, incline a interpretare solo in modo individualistico-consumistico le varie esperienza di vita; una cultura dell'irrazionalità che denota sia una certa incapacità a utilizzare realisticamente le risorse disponibili e a destinarle alla realizzazione e all'espansione della socialità, sia una certa tendenza all'uso di meccanismi di adattamento di tipo evasivo, aggressivo, supercompensativo (Milanesi, 1984, 431). Tuttavia l’ipotesi di lavoro cercò di evitare una concezione meccanicistica del rischio. Esso infatti, non è concepito come una serie di "affinità" (cioè di predisposizioni, condizioni, caratteristiche) cui si è esposti e da cui per "contagio" o per altri meccanismi automatici si perviene a comportamenti peri colosi per la persona del giovane o dell'adolescente. L'affinità non diventa rischio reale se non è filtrata attraverso una lettura che la trasforma in un fattore soggettivamente disfunzionale, rispetto alle possibilità di autorealizzazione e partecipazione (Milanesi, 1984, 431). Per concludere che il tentativo di misurare il rischio giovanile si limitava a privilegiare alcune "affinità" (cioè obiettive condizioni che più o meno astrattamente possono esporre al rischio), lasciando però aperte le differenziate possibilità di lettura soggettiva delle affinità stesse, che non sono prevedibili e misurabili se non ipoteticamente (Milanesi, 1984, 431432). 1.2.1.1.2. Tipi di rischio Per arrivare ad una operazionalizzazione dei concetti sopra esposti e soprattutto per poter misurare effettivamente il rischio, il gruppo di lavoro procedette ad una precisazione dei vari tipi di rischio in cui pensavano di imbattersi e degli indicatori da impiegare per riconoscerlo. Ne emersero varie tipologie di rischio che, operazionalizzate, diedero luogo a delle scale di rischio. A. Rischio di devianza Rispetto alla devianza classica (cfr. Gallino, 1978, 227), il rischio di devianza se ne differenzia per il carattere relativo, come è relativo il concetto di norma, cui esso si rifà, e i processi di legittimazione della norma, di tolleranza e di reazione sociale (stigmatizzazione del deviante). Per cui il vero deviante non è solo quello che ha infranto la norma, ma quello che lo ha fatto in maniera visibile e ne ha ricevuto una sanzione sociale (stigma). Per questo risulta che il vero deviante è il deviante "secondario", cioè il deviante strutturato, il deviante che ha interiorizzato lo "stigma", che è quanto dire il deviante che ha fatto della devianza stessa il motivo e il contenuto essenziale della propria identità totale; non è invece deviante a pieno titolo colui che ha infranto sì una norma, ma lo ha fatto solo occasionalmente, o che comunque non è ancora entrato nella spirale della stigmatizzazione (e che dunque va considerato solo un deviante "primario") (Milanesi, 1984, 438439). Pertanto, per poter quantificare il rischio di devianza bisognava, tenendo presenti le considerazioni precedenti, definire: le qualità di soggetti, i comportamenti che costituvano una predisposizione alla devianza primaria, e quali per una devianza secondaria,. Un primo livello di analisi cercò di cogliere le affinità (secondo il linguaggio di D. Matza), cioè, pre-condizioni obiettive (a livello biologico, psicologico, culturale) e soggettive (sentirsi nell'occasione di "poter" deviare) non meccanicisticamente connesse ad un reale atto o comportamento deviante (Milanesi, 1984, 439). Un secondo livello invece cercò di definire l’affiliazione, cioè, i comportamenti non conformi alla norma a cui si sono già associati in maniera dialettica sia alcuni atti di "affiliazione" (cioè di considerazioni positive circa l'ipotesi e la possibilità di diventare un deviante "secondario") sia alcuni atti di stigmatizzazione (cioè di definizioni/significazioni negative degli atti non conformi alla norma) (Milanesi, 1984, 439-440). È questo livello che indica la situazione di “rischio”, nel senso che esiste la possibilità che la devianza primaria possa strutturarsi in una devianza secondaria, cioè in una serie di atti di affiliazione e di stigmatizzazione, tendenti a provare l'accettazione (almeno iniziale) da parte del deviante di una definizione negativa degli atti compiuti (Ibidem, 440). Un terzo livello, corrispondente alla devianza vera e propria, sarebbe invece dato dalla quantificazione di comportamenti devianti ormai abituali, rafforzati da una strutturata "carriera" soggettiva nella devianza e da una ripetuta stigmatizzazione di tali comportamenti (anche da parte di controllori "esterni” e, in certi casi, dalle istituzioni totali). In questo caso il "rischio" di devianza potrebbe essere considerato come possibilità di strutturazione irreversibile del comportamento deviante, di fissazione entro una "subcultura deviante", di interiorizzazione profonda dell'identità negativa (o dello stigma) (Ibidem, 440). I ricercatori affermarono che la loro ipotesi di rischio riguardava prevalentemente il secondo aspetto, il che implicava la difficoltà di misurare il grado di “affiliazione”, cioè di interiorizzazione di un’identità negativa. Ancora più difficile appariva la misurazione della “significazione sociale” di certi comportamenti, operazione nemmeno presa in considerazione. Invece furono valutate: 1. La frequentazione di ambienti/persone a rischio di devianza; 2. La condivisione di opinioni, atteggiamenti e disponibilità per comportamenti devianti; 3. Alcuni comportamenti devianti tipici (fare bravate, uso di droghe, alcool, ecc.) (cfr. Milanesi, 1984, 610-611). B. Rischio fisico Nell’elaborare il concetto di rischio fisico, l’accento fu posto sulla salute, “come condizione ottimale di funzionalità bio-fisiologica che permette un armonico sviluppo della personalità complessiva del giovane” (Milanesi, 1984, 452). In particolare furono identificati tre livelli: 1. esposizione a comportamenti altrui presumibilmente dannosi alla salute del giovane; 2. situazioni in cui emergono sintomi di salute precaria nel soggetto; 3. comportamenti considerati gravemente dannosi per la salute del soggetto (Milanesi, 1984, 452). Come fecero notare gli stessi autori, mancavano indicatori “riguardanti le abitudini alimentari, lo uso controllato di medicinali, la presenza di malattie pregresse nella storia clinica dei famigliari o del soggetto stesso, ecc.” (Milanesi, 1984, 453). Scelta dovuta a motivi pratici. Questo tipo di rischio fu collegato, ipoteticamente ma ragionevolmente, con il rischio di devianza, soprattutto con comportamenti e atteggiamenti che hanno a che fare con la salute (tossicodipendenza e uso non sporadico di alcolici, alimentazione irregolare, ecc.). C. Rischio consumistico Il rischio consumistico venne collegato alle modalità di fruizione del tempo libero. I1 concetto di rischio consumistico nasce dalla constatazione che una parte del campione interpreta il tempo libero secondo una modalità di fruizione che implica un certo pericolo di svuotamento delle opportunità di crescita personale e sociale (Milanesi, 1984, 458). Prendendo come base la classica distinzione di Dumazedier (1978), si fece notare che il tempo libero poteva avere sì valenze autorelizzative e promozionali, ma anche ludiche o compensative, e queste ultime comportavano il rischio di una certa dicotomizzazione del tempo: il tempo libero viene troppo spesso vissuto come tempo separato dal tempo "occupato", cioè dal tempo "forte" del vissuto quotidiano (nel caso dei giovani dal tempo dedicato allo studio, al lavoro, alla famiglia). Si tratta di una separatezza che implica anche una evidente contrapposizione; non è raro infatti il caso che il tempo libero venga considerato dai giovani come il tempo "vero", quello in cui è possibile costruire la propria identità (Milanesi, 1984, 458). Ma spesso questa ipotesi si rivela illusoria, proprio perché il tempo "separato" non può offrire se non uno spazio di libertà fittizia in cui c'è solo la possibilità di non essere nessuno più che quella di essere qualcuno o in cui c'è solo l'astratta opportunità di fare tutto, che si tramuta nella vuota eventualità di non fare nulla. Tutto questo perché i tempi "forti", quelli che dovrebbero assicurare identità sono a loro volta attraversati da una pro fonda crisi di senso (Milanesi, 1984, 460). Da questa dicotomia tra tempi e illusione libertaria nasce il rischio consumista, che si configura quando il tempo libero, vissuto nella separatezza e nella contrapposizione rispetto al tempo totale dell'esperienza quotidiana offre solo (e necessariamente) occasioni di divertimento e relax che hanno lo scopo di reintegrare e omologare alla società dei consumi, secondo modelli che sono appunto funzionali ad essa e da essa elaborati (Milanesi, 1984, 460). La causa di tale rischio venne ricondotta dagli autori a situazioni di “frammentazione ed emarginazione che colpisce molti giovani e diventa necessariamente un fattore che ne moltiplica gli effetti negativi e prepara la strada alla devianza” (Milanesi, 1984, 460). Fu fatto, a questo punto, un richiamo alla logica dei processi di socializzazione e di canalizzazione coatta dei bisogni secondo modelli consumistici. In questa logica si annidava una pericolosa tendenza, perché “il giovane è chiamato solo a consumare cultura, gioco, festa, relax e se fosse possibile anche tutto lo spazio della sua socialità, senza mai essere stimolato a produrre tutto ciò in forma più costruttiva” (Milanesi, 1984, 461). Si aggiunse, in collegamento con le altre forme di rischio, che “probabilmente anche molti comportamenti devianti (tossicodipendenza ed alcoolismo in primo luogo) rispondono alla stessa logica emarginante e manipolante” (Milanesi, 1984, 461). La scala di rischio consumistico teneva conto sostanzialmente di due dimensioni: la dimensione individualistica del tempo libero (non aggregazione, solitudine); la dimensione evasiva (frequenza a locali pubblici, mass-media, assenza di interessi culturali) D. Rischio formativo Questo tipo di rischio si verifica quando “il ragazzo vive il rapporto con le agenzie di formazione in modo problematico, cioè sulla base di una generalizzata incertezza, sfiducia, incoerenza di orientamenti” (Milanesi, 1984, 468). Questa situazione stava ad indicare uno scollamento con le agenzie di formazione. Le agenzie formative prese in considerazione furono la scuola e la famiglia. Infatti, gli indicatori utilizzati da questa scala riguardavano: atteggiamenti verso l’istituzione scolastica (ripetenze, concezione negativa della scuola); atteggiamenti verso l’istituzione familiare (discrepanze valoriali, mancanza di sostegno). 1.2.1.1.3. I fattori di rischio Nel tentativo di capire meglio il rischio giovanile, si cercò di individuare “i fattori di rischio”: quegli elementi, cioè, che producono o favoriscono una situazione di rischio. La valutazione dei “testimoni privilegiati” riguardava sia aspetti molto generici (concetto esteso di rischio) oppure altri più specifici. Per molti intervistati è da considerare fattore rischio, in termini più estesi, tutto ciò che ostacola la crescita dei giovani, la loro maturazione individuale (maturazione intellettivo-conoscitiva, controllo e stabilità emotiva, individuazione stabile e coerente di scopi e valori, ecc.) e sociale (adesione alle "norme" del vivere civile, inserimento nel mondo del lavoro, assunzione di responsabilità al di là della propria sfera individuale: famiglia di elezione, partecipazione alla vita politica e sociale). In termini più specifici è considerato fattore rischio tutto ciò che conduce a forme più o meno recenti di disadattamento e devianza (droga, prostituzione, delinquenza, antisocialità in genere -il terrorismo non è stato citato-) (Ferrari, 1984, 509). A. I fattori di rischio specificamente risultarono: La crisi economica Il modo di fare politica La pluralità di modelli culturali La crisi delle istituzioni educative: famiglia e scuola Le cattive compagnie Il luogo di residenza L’età (14-16 anni) La condizione femminile B. In fase conclusiva, come riflessione del gruppo di studio, si sottolineò il fatto che il rischio aveva “una rilevante componente esogena. Non nasce dal caso o dalla sfortuna: è prodotto” (Ringhini, 1984, 541). Le condizioni che favorivano l’esposizione al rischio furono individuate nei seguenti elementi: 1. Frammentazione Da intendersi come tendenza […] alla frantumazione della condizione giovanile in un variegato mosaico di situazioni più difficilmente riconducibili ad omogeneità ed affinità. […] Al primo livello si manifesta con la crisi dell'identità collettiva e la progressiva evanescenza di un comune atteggiamento di ricerca per una legittimazione propria ed originale (cioè in quanto "giovani") nel tessuto sociale; con il ripiegamento in esperienze micro (gruppi ristretti, informali, circoscritti, ecc.) in cui elaborare un presente provvisorio, più immediatamente gratificante a livello individuale, sostanzialmente di tipo a-progettuale. A livello soggettivo si manifesta coree un'analoga frantumazione del proprio vissuto, arricchito e impoverito ad un tempo, della pluralità di tempi, luoghi e situazioni presieduti dallo effimero e dal "presentiamo" in cui è preponderante l'investimento emotivo su quello progettuale, a lungo termine. Le possibilità di sintesi sono rese più difficili e ancor più l'elaborazione di un futuro che appare oggettivamente condizionato o, per altri aspetti, precostituito quasi coma un "prendere o lasciare" e che alla fine consente ai giovani solo due vie d'uscita: l'integrazione o l'emarginazione (Ringhini, 1984, 541-542). 2. Marginalità Esso è riconducibile ad un continuum di progressiva esclusione, provocato o indotto, dalle opportunità di avvalersi di ruoli attivi, di decisionalità, di peso sociale, di acquisizioni culturali appropriate alle situazioni di vita, di professionalità realmente spendibili, ecc. Realisticamente essa minaccia potenzialmente tutti i giovani, ma agisce selettivamente esponendoli diversamente a situazioni di "rischio" in rapporto alle loro oggettive e soggettive possibilità di difesa di carattere culturale, familiare, economico, ambientale, ecc. Le possibilità soggettive di reazione "alternativa", pur essendo teoricamente ipotizzabili a determinate condizioni in realtà non date, sono di fatto poche. Si sviluppano piuttosto atteggiamenti di tipo adattivo, e ancora più spesso, di rassegnazione e passività, talvolta fino al punto da cambiare di segno ma non di significato, attraverso l'elaborazione di subculture celebrative di un'emarginazione ormai irreversibile (Ringhini, 1984, 542-543). Questi fenomeni non sono esclusivi dei giovani, ma fan parte del più ampio quadro sociale. In una società complessa, come quella italiana, in cui la segmentazione appare sempre più come un processo inarrestabile di frantumazione della struttura sociale e nei comportamenti individuali, in cui la certificazione dei bisogni è per lo più indotta dai livelli di complessità ed eterogeneità di gruppi e di singole persone, in cui rappresentarsi è un problema dal quale eludere, in cui elaborare un futuro vuoi dire fare i conti con vecchie e nuove paure, ecc., dovrebbe essere (provocatoriamente) più facile per ragioni se non altro "di necessità più di virtù", confrontarsi con problemi che di fatto sono collettivi. Alla disgregazione si contrappone invece la sicurezza individuale, alla ricerca l'abdicazione di responsabilità connesse a funzioni comunque esercitate. L'intento non vuole essere moralistico, ma cerca esclusivamente di trovare un filo conduttore tra i diversi segmenti del corpo sociale, quali i giovani, gli adulti, gli anziani, le donne, ecc., che sembrano celebrare per altre vie, la propria "autonomia", esaltando ma ad un tempo confermando, la reciproca estraniazione che "rischia" di farsi incomunicabilità e solitudine, quando non già prevaricazione (Ringhini, 1984, 544). 1.2.1.2. L’elaborazione del concetto di disagio in “il disagio giovanile” (1989) Nel 1989 veniva pubblicata un’altra opera, “Il disagio giovanile: conoscere per prevenire” (Milanesi - Pieroni - Massella, 1989), frutto di una ricerca promossa e condotta dalla Comunità dei Giovani nella Circoscrizione Ovest della città di Verona, cui collaborarono per la parte scientifica G. Milanesi e V. Pieroni dell’Istituto di Sociologia dell’UPS. Tale inchiesta aveva lo scopo di individuare le cause del disagio giovanile, con lo scopo di prevenire “l’entrata di non pochi giovani nel campo della devianza” (p. 15). Quest’opera è importante perché introduce come categoria fondamentale per la comprensione e spiegazione della condizione giovanile quella del disagio e lo collega sia i bisogni che al rischio. 1.2.1.2.1. Definizione del disagio Per disagio giovanile si intende una particolare situazione di vita in cui si manifestano sintomi di sofferenza, disadattamento, frustrazione che portano scompiglio e squilibrio nel vissuto personale del giovane e nella sua vita di relazione (Milanesi - Pieroni - Massella, 1989, 31). Tale situazione di disagio ha una componente soggettiva ed una oggettiva. Dal punto di vista soggettivo esso dipende dalla frustrazione di alcuni bisogni, con conseguente sofferenza e malessere. Soggettivamente il disagio si manifesta, dunque, come un insieme di percezioni, emozioni e sentimenti, valutazioni, bisogni e domande che denotano uno stato generale di insoddisfazione più o meno profonda nei riguardi delle condizioni obiettive entro le quali il giovane è chiamato a vivere ((Milanesi - Pieroni - Massella, 1989, 31). A fronte una percezione prevalentemente istintiva del bisogno, non c’è, come corrispettivo, la capacità delle istituzioni e della società a fornire dei criteri validi per la sua interpretazione e soddisfazione. Pertanto, l’adolescente, lasciato da solo a definire bisogni e percorsi per soddisfarli, sperimenta ben presto il disagio, cioè la distanza tra il desiderio e le reali possibilità di appagarlo. Infatti, oltre alla componente soggettiva, il disagio ne ha una di oggettiva: Oggettivamente il disagio ha le sue radici nella somma di inadempienze, ritardi, tradimenti, incomprensioni di cui i giovani sono oggetto e che si sintetizzano nell'incapacità della società a rispondere alle esigenze di crescita, di autorealizzazione e di inserimento dei giovani ((Milanesi Pieroni - Massella, 1989, 31). Da queste espressioni il disagio risulta avere due cause: a) una interna (il malessere del soggetto) b) una esterna (la società). Le situazioni di tipo oggettivo appaiono essere, in particolare: 1. povertà 2. abbandono 3. marginalità e frammentazione sociale 4. inadeguatezza degli adulti di fronte alle domande giovanili 5. crisi delle agenzie di socializzazione (famiglia, scuola, associazioni) 6. crisi delle istituzioni (politiche, economiche, giuridiche) 1.2.1.2.2. La dinamica del disagio A giudizio degli autori, Le radici del disagio vanno cercate non tanto nelle difficoltà a trovar lavoro e ad integrarsi nella società; vanno forse identificate nell'inadeguatezza degli atteggiamenti con cui gli adulti si relazionano alle domande problematiche dei giovani, nell'obiettiva condizione di povertà e abbandono di alcuni, di marginalità e di frammentarietà del vissuto di molti. Il disagio si nutre, in sostanza, della diffusa crisi delle principali agenzie di socializzazione; quali la famiglia, la scuola, la Chiesa, l'associazionismo giovanile. Più ampiamente risulta incisiva nel disagio là crisi generale delle istituzioni (politiche, economiche, giuridiche, ecc.) che provoca una situazione diffusa di anomia, cioè di scollamento tra il sistema dei valori e il grado di sviluppo della società, di insufficiente regolazione generale del comportamento sociale, di incerta canalizzazione dei bisogni verso mete socialmente accettabili. Di qui la sensazione soggettiva di angoscia, sfiducia, e bloccaggio, proprio perchè ci si sente frustrati nella domanda di cambiamento, di partecipazione, di responsaabilità (Milanesi - Pieroni - Massella, 1989, 41). Il quadro sociale appena delineato provocherebbe una diffusa situazione di “anomia”, “cioè di scollamento tra il sistema dei valori e il grado di sviluppo della società, di insufficiente regolazione generale del comportamento sociale, di incerta canalizzazione dei bisogni verso mete socialmente accettabili” (Milanesi - Pieroni - Massella, 1989, 41). Situazione già rilevata di E. Durkheim nel passaggio da una società rurale e conservatrice ad una industriale e progressista. La situazione di crisi generale dei valori e dei meccanismi sociali di regolazione del comportamento provoca a sua volta incertezza negli individui che si traduce in un disagio generale. I giovani percepirebbero la situazione di disagio con sentimenti di sfiducia verso la società e angoscia nei riguardi del proprio futuro. Sentimenti che produrrebbero un “bloccaggio”, cioè un senso di inadeguatezza e di incapacità ad esprimere totalmente se stessi, dando retta al proprio desiderio di trasformazione della società, attraverso una partecipazione responsabile. In pratica gli autori rileggono il cosiddetto “riflusso”, cioè la concentrazione sul privato e sul quotidiano, come una tattica di ripiegamento dei giovani di fronte alla insensibilità sociale nei loro confronti. Quindi, esisterebbe in teoria (o almeno nelle ipotesi) un vivo bisogno di autorealizzazione anche sociale (partecipazione), ma questo sarebbe frustrato dai meccanismi sociali di esclusione e immobilizzazione della domanda giovanile. Infatti l’ipotesi fondamentale della ricerca era così formulata: esiste nei giovani, compresi tra i 14 e i 18 anni, una condizione di precarietà che impedisce loro di esprimersi completamente. Ciò dipende da una limitata presenza di valori personali, da limitati punti di riferimento per una formazione personale, da ben definiti obiettivi personali e dalla presenza di situazioni sfavorevoli nel contesto familiare (Milanesi - Pieroni - Massella, 1989, 46). 1.2.1.2.3. I fattori di disagio I meccanismi sociali i responsabili del disagio sarebbero: 1. l’irrilevanza sociale della condizioni giovanile; 2. la situazione generale di complessità sociale con il conseguente tentativo giovanile di ridurla; 3. la mobilità sociale con il rimescolamento delle appartenenze; 4. la moltiplicazione e frantumazione delle appartenenze sociali e delle esperienze collettive; 5. l’ingovernabilità dei sottosistemi (economico, politico e sociale); 6. la fragilità degli ancoraggi e della legittimazione dei valori; 7. la precarietà dei percorsi dell’identità e dell’autorealizzazione giovanile; 8. l’allungamento dell’età giovanile con aumento della discrepanza tra adolescenza biopsicologica e adolescenza sociale (cfr. Milanesi - Pieroni - Massella, 1989, 32). A queste condizioni generali della società, si aggiungono situazioni particolari di povertà e di abbandono che aggravano la situazione personale o di alcune categorie, favorendo il ricorso a soluzioni irrazionali ai loro problemi. In questo gioco di responsabilità tra società e individuo, gli autori non mancano di far notare le responsabilità anche dei giovani, che, se giustificabili da un verso perché “le radici della loro inadeguatezza sono obiettivamente consistenti” (Milanesi - Pieroni - Massella, 1989, 42), dall’altra indulgono facilmente in soluzioni di comodo senza rendersi conto dell’obiettiva pericolosità di certi comportamenti e ancor più atteggiamenti. Pertanto gli autori sottolineano anche gli atteggiamenti che favoriscono una “caduta nel rischio”: la rassegnazione alla mediocrità, cioè l'accettazione quasi fatalistica delle condizioni di marginalità, frammentarietà, perdita di identità, la rinuncia consapevole alla progettualità, l'allergia per le proposte utopiche, l'inerzia che caratterizza il lungo periodo di parcheggio nelle istituzioni formative, la propensione verso l'effimero e il superficiale . la tentazione di adagiarsi in un'ingenua semplificazione della realtà (Milanesi - Pieroni - Massella, 1989, 42). Questi atteggiamenti, condivisi in misura variabile un po’ da tutti i giovani, minacciano la qualità della loro vita, “proprio perché contengono i germi di una profonda crisi morale, impastata di relativizzazione dell'etica, di gregarismo opportunista, di individualismo, di cinismo pragmatista” (Milanesi - Pieroni - Massella, 1989, 42). Questa situazione non va accettata solo perché molto diffusa e perché la situazione appare ingovernabile. Essa contiene degli elementi di rischio che superano l’episodicità di certi comportamenti antisociali e pregiudicano il futuro stesso della società. Se é vero che la società complessa evidenzia alti tassi di incomprensibilità e ingovernabilità, é altrettanto vero che non é sufficiente una "riduzione" della complessità attraverso le scorciatoie delle formule miracolistiche. Di fronte alla complessità pare del tutto ingenuo rifugiarsi nel mito della "progettualità di basso profilo", della "gestione quotidiana della precarietà", o peggio ancora nelle varie forme di integrismo teorico e pratico. Il volontarismo che é implicito in queste semplificazioni pericolose della realtà non può infatti che sfociare nell'ideologia. Essa costituisce un sicuro detonatore del rischio, nella misura in cui rappresenta una visione parziale della realtà, fatta di pregiudizio e di limiti conoscitivi. Il ricorso all'ideologia, tipico dell'esperienza giovanile degli anni '60 e '70, é sintomo di una certa allergia verso le meditazioni culturali pazienti e complesse, che richiedono tempo e strumenti di analisi sofisticati e flessibili; é anche segno di una crisi generale di sfiducia nella ragione scientifica, che del resto é logica nel quadro di diffusa irrazionalità che abbiamo ipotizzato (Milanesi - Pieroni - Massella, 1989, 42-43). Questo avviene perché l’ambiente è impegnato di una cultura “che premia gli atteggiamenti nichilisti e che é satura di propensioni alla condanna, alla stigmatizzazione ed alla colpevolizzazione dei giovani” (Milanesi - Pieroni - Massella, 1989, 42). Questa cultura condiziona il “filtro soggettivo” dei giovani, cioè il loro “modo personale di dare un significato al disagio e ai suoi sbocchi” (Milanesi - Pieroni - Massella, 1989, 42). Per questo motivo lo sbocco irrazionale sembra loro quello più conveniente e desiderabile. 1.2.1.2.4. Rapporto tra rischio e disagio Il ricorso a “soluzioni irrazionali” introduce la specificità del “rischio”, che in quest’opera viene definito in forma complementare al disagio. Infatti, in quest’opera, Per rischio intendiamo una situazione in cui, a causa della frustrazione, negazione mortificazione dei bisogni fondamentali della persona (cioè a causa di una situazione di soggettivo ed obiettivo disagio), il soggetto è portato a dare soluzioni irrazionali al bisogno fondamentale dell'esistenza (che quello del senso, del significato esistenziale) e agli altri bisogni correlati (Milanesi - Pieroni - Massella, 1989, 31-32). Il rischio quindi viene intimamente collegato al disagio, che comporta la frustrazione o negazione dei bisogni. Il disagio costituisce la situazione di sfondo (= malessere, sofferenza), mentre il rischio consiste nelle risposte che il soggetto tenta di dare alla situazione disagiata. Queste soluzioni quando non sono orientate ad un progetto capace di soddisfare il bisogno fondamentale dell’esistenza (quello di significato), diventa una risposta irrazionale. Essa viene precisata in questi termini: L'irrazionalità consiste nel fatto che le decisioni adottate si rivelano obiettivamente distruttive per l'individuo e per la società e non avviano assolutamente a soluzione i problemi che la persona ha (Milanesi - Pieroni - Massella, 1989, 32). L’irrazionalità quindi è individuata nel comportamento distruttivo (per sé o per altri) e nella non soluzione ai problemi personali. Questo tipo di comportamenti (irrazionali) carichi di auto ed eterodistruttività, verrebbero percepiti dai giovani come “la risposta conveniente, utile, desiderabile al loro disagio, sottovalutando gli effetti personali e sociali delle proprie scelte comportamentali” (Milanesi - Pieroni - Massella, 1989, 42). Tali tentativi, caratterizzati da una notevole carica distruttiva (auto o etero), si manifestano sovente con comportamenti violenti, che, facilmente stigmatizzati dalla società, possono indurre ad assumere un’identità negativa e così entrare nella spirale della devianza. Pertanto il rischio, in quest’opera, è un aggravamento della situazione, già pericolante o disagiata, che può evolvere, per una serie di cause concomitanti (endogene ed esogene) in comportamenti “devianti” (auto o etero distruttivi). In effetti i comportamenti sono già devianti, solo che per effetto della lezione dell’interazionismo simbolico (abbondantemente citato), si evita di parlare di devianza tout court per evitare effetti perversi di “etichettamento” che favorirebbero il consolidamento di una identità deviante (devianza secondaria). Anche la mancanza di progettualità viene considerato un indicatore di rischio: è sintomatico dell’irrazionalità di base della persona. 1.2.1.2.5. Alternative alla “devianza” Tuttavia si rifugge da una correlazioni meccanicistica tra queste condotte e l’esito deviante: Il passaggio dalla situazione di rischio alla devianza, e in genere all'irrazionalità, non è mai automatico; infatti, insieme ad una serie di "premesse" o "condizionamenti" negativi facilitanti, agiscono sul soggetto "a rischio" forti spinte provenienti dall'ambiente che "giudicano", o "colpevolizzano" o "stigmatizzano" il probabile deviante fino a rendergli "conveniente" l'adesione al modello deviante. Vi è in tutto questo processo, che porta dal rischio alla devianza, un intrico complesso di ragioni obiettive e soggettive che escludono in ogni caso una spiegazione meccanicistica del processo stesso e rinviano a fattori di tipo intenzionale che fino ad ora sono stati poco studiati (Milanesi - Pieroni - Massella, 1989, 32). Si sottolinea la “circolarità” del processo attraverso cui “si diventa devianti”: un processo in cui intervengono sia fattori soggettivi che oggettivi, anche se si riconosce che quelli soggettivi, soprattutto dipendenti dalle decisioni del soggetto, non sono stati ancora ben studiati. Invece sono più facilmente rintracciabili i meccanismi sociali che contribuiscono all’identità deviante: colpevolizzazione, stigmatizzazione, ecc., che possono indurre un soggetto, in particolari situazioni di deprivazione, ad aderire ad un modello deviante (affiliazione). In ciò consisterebbe il “rischio di devianza”. Tra le condizioni obiettive, viene presa in esame la stessa situazione giovanile che appare genericamente problematica. Ma tale situazione si configura più come disagio che come rischio. Pertanto le condizioni sociali in cui versa la condizione giovanile diventano delle “premesse”, perché il disagio recente, fin qui mantenuto sommerso e quasi privatizzato e neutralizzato entro un'ampia gamma di comportamenti evasivi e compensativi di chiaro segno consumista, possa esplodere in comportamenti devianti, carichi di significato eversivo o comunque di conflittualità sociale (Milanesi - Pieroni - Massella, 1989, 42). Ma questo non è l’unico esito possibile. I giovani potrebbero rappresentare una risorsa per la società, purché valorizzati, invece che emarginati o vezzeggiati. È possibile, infatti, ipotizzare la nascita di una nuova domanda di partecipazione-appartenenzaresponsabilità a partire dalla coscienza del rischio di marginalità, di una domanda di riflessività, interiorità, personalizzazione a partire dalla coscienza della frammentarietà, di una domanda di soddisfazione dei nuovi bisogni, a partire dalla coscienza di una identità espropriata ((Milanesi Pieroni - Massella, 1989, 44). Per attuare questo è però necessario un atteggiamento diverso da parte della società adulta, soprattutto se investita di compiti educativi o politici. Si tratta di ipotesi la cui realizzazione è subordinata ad un'attenzione educativa intelligente e ad un'operosità politica efficace da parte degli adulti ((Milanesi - Pieroni - Massella, 1989). Ciò richiede: La capacità di farsi carico di tutta la domanda educativa dei giovani, lo sforzo di rispondere ad essa con una proposta il più possibile completa e esauriente, la preoccupazione di offrire una sintesi operante tra educazione e socializzazione ((Milanesi - Pieroni - Massella, 1989). Così la creatività giovanile potrebbe esprimersi in forme di protagonismo sociale, piuttosto che di distruttività irrazionale. 1.2.2. Disagio come forma espressiva Stando a quanto aveva evidenziato D. Matza4, la devianza può costituire una forma di comunicazione. Così si può cogliere nel comportamento trasgressivo di un adolescenti un messaggio, la segnalazione di un bisogno. Mentre un adulto ruba per accumulare ricchezza, la stessa azione effettuata da un soggetto in età evolutiva potrebbe non avere questa funzione strumentale ed essere ricollegabile a bisogni legati all’identità, alle relazioni (questo spiegherebbe perché, sempre secondo l’autore, sono sempre più i bravi figli, di classe-bene, a compiere reati di un certo spessore). 1.2.2.1. L’indagine del CENSIS5 Stando nell’ottica della devianza intesa come forma di comunicazione, questa fenomenologia di comportamenti sembrerebbe esprimere da parte dei minori: 1. aggressività verso la società degli adulti, sentita come distante, poco disponibile all’accoglienza e poco attenta alla loro condizione, dovuto alla mancanza di canali sociali di espressione/accettazione della propria identità; 2. disorientamento individuale nell’interpretazione dei valori portanti; avori. 4 Cfr. D. MATZA, Come si diventa devianti, Bologna, Il Mulino 1969. 5 CENSIS, o.c., in “Esperienze di rieducazione”, XXIX(1982), suppl. 2-3, 3. “resilienza”, ovvero lucida determinazione ad adottare comportamenti spericolati per assecondare un esasperato bisogno di protagonismo/competitività fra compagni e nei confronti del mondo adulto. Porsi la domanda, nell’analizzare la devianza minorile, “quali azioni mentali hanno guidato la scelta dell’azione?” e “quali effetti ha voluto ottenere/comunicare il soggetto attraverso l’azione deviante?”, significa interrogarsi sulle ipotesi che hanno guidato il suo agire, organizzandolo cognitivamente ed emozionalmente. “Scegliere la devianza come modalità d’azione” può rappresentare un’adesione a modelli normativi condivisi nel sistema o nella microcultura di appartenenza. Di conseguenza, vengono tentate spiegazioni della delinquenza minorile riferentesi alle problematiche del sé, dell’identità, delle relazioni particolarmente significative e dei contesti di controllo. Ciò permette, da una parte, di andare oltre i modelli tradizionali di interpretazione, secondo cui la devianza era figlia di carenze (familiari, affettive, educative, economiche, culturali…) o di patologie psichiatriche e, dall’altra, di ipotizzare che le azioni devianti producano funzioni di mantenimento dell’organizzazione soggettiva, relazionale e di controllo: nell’interazione con l’ambiente il deviante agisce per equilibrare l’organizzazione del proprio sé e della propria identità con quella del “contesto significativo” di appartenenza. Questa ricerca di equilibrio si avverte in particolar modo durante la fase del processo evolutivo, quando il minore è particolarmente impegnato a cercare sempre nuove forme di equilibrio, di (ri)organizzazione dell’immagine di sé in continua trasformazione, al fine di realizzare articolate modalità di rapporto con il mondo adulto e le istituzioni. Quindi certi “strani” comportamenti degli adolescenti in realtà rappresentano complesse forme di organizzazione del proprio sé per comunicare. Sono funzionali al proprio sistema di interazione. 1.2.2.2. I “gruppi spettacolari” L’elemento espressivo e comunicativo apparve nettamente in alcune forme di violenza che caratterizzarono i giovani negli anni ‘80: i “gruppi spettacolari” (Caioli 1986) o “del disimpegno” (Bajardi, Guglielminotti 1987). Si trattava di Rockabillies, Mods, Punks, Darks, New-wavers, i cui elementi distintivi sembravano fare riferimento ad un genere o personaggio musicale e all’abbigliamento (più avanti nasceranno i “metallari”, le “madonnare”, i “paninari”, ecc.). Li accomunava la passione per la musica e la voglia di amicizia, nulla più. Alcuni di questi gruppi esibivano simboli, abbigliamento e gergo tipici dell’estrema destra. Davano l’impressione d’essere violenti e d’alimentare progetti reazionari. In realtà non si trattava di gruppi violenti, eccetto gli skinheads, che si sono segnalati per i raid razzisti (più in Germania che in Italia). In ogni caso mancava loro una vera progettualità politica. Un fenomeno che destò attenzione, ha sollecitato la fantasia degli osservatori e suscitato le apprensioni di educatori e politici per le affinità con analoghi movimenti di provenienza anglosassone, di cui sovente riprendevano i nomi e lo stile. Non sembra però possibile assimilarli, se non per alcuni elementi folkloristici, con gli omonimi gruppi inglesi, nati in contesti socioculturali e storici ben diversi, che esprimevano, in modo molto più violento e provocatorio, il malessere della gioventù inglese. I gruppi nostrani si limitavano ad esprimere l’insofferenza ed il disagio di vivere in una società che non li accoglieva, che non era adatta a loro. Una contestazione che aveva messo in soffitta le rivendicazioni sessantottine, che non pensava a rovesciare il sistema, a elaborare complicate analisi e controproposte politiche, che si limitava ad esprimere simbolicamente la propria differenziazione, anche se il disagio non era necessariamente inferiore. “Quando constatiamo che non è possibile cambiare, cerchiamo un altro obiettivo. Però gli obiettivi sono sempre chiusi...” dirà uno di essi al mensile “Dimensioni Nuove” (Giordani 1984, 14). La loro protesta ha avuto poca efficacia sul piano strutturale: addirittura sembrò, in alcuni casi, dar l’idea di una “ultra-integrazione” di tipo consumista modellata sullo “yuppismo” di moda in quegli anni. Benché non si possano includere tutti nelle stesse categorie interpretative, queste forme di aggregazione giovanile avevano qualche tratto in comune che li avvicina all’area della devianza ed erano un’espressione del disagio giovanile. Il disagio principale che essi esprimevano, a giudizio di Carmen Leccardi e Anna Rita Calabrò, era quello dell’identità (Caioli 1986). Un’identità sempre più difficile in un mondo che cambiava rapidamente e non offriva più supporti validi per i percorsi di definizione dell’identità. Quest’identità, non più ancorata a strutture sociali plausibili e condivise, cercava una sua via di definizione attraverso l’appartenenza ad un piccolo gruppo, l’adesione ad uno stile, ad un genere musicale, ad una moda, ecc. Un’identità “spettacolare”, appunto, fatta apposta per sorprendere, per stupire. Un’identità negativa, nel senso inteso da Erikson, che si afferma rendendo esplicita, manifesta la propria diversità. Differenziazione che fa parte delle strategie di definizione dell’identità6. Diversità manifestata attraverso il simbolismo, l’apparenza7. Simbolismo che costringeva a prendere posizione, che provocava, che non si prestava a mezze misure, “o sei con noi, o sei contro”, che rifiutava i compromessi. D’altra parte era una diversità elaborata dal gruppo, “portatore di un’identità collettiva che allevia e satura le incertezze legate alla definizione dell’identità personale” (Leccardi 1986, 214). Cosicché lo spazio-tempo dove gestire questa identità spettacolare era il tempo libero e lo spazio aperto della metropoli. In casa il comportamento di questi soggetti era probabilmente molto meno anticonformista, se non addirittura completamente integrato. Sembra esistesse tra i due momenti non solo autonomia, ma addirittura una “sostanziale impermeabilità” (Leccardi 1986, 206). Anche se sul momento di gruppo aveva una rilevanza tutta particolare, non è detto che, in realtà, fosse più importante di quello familiare. 1.2.2.2.1. Destrutturazione temporale (Cavalli 1985) Il problema dell’identità balzò alla ribalta anche in un’altra ricerca che aveva come tema i cambiamenti della dimensione temporale dei giovani. Tale dimensione fu studiata su un certo numero di giovani milanesi dai 18 ai 25 anni agli inizi del decennio ‘80 (autunno ‘80 - primavera ‘81) da un’equipe di ricercatori coordinata da Alessandro Cavalli, per conto della IARD. L’inchiesta aveva lo scopo di appurare se stesse emergendo una “sindrome di destrutturazione temporale” “leggibile in termini di assenza o di frammentazione di memoria storica, labilità dell’orizzonte temporale dei progetti che coinvolgono la definizione dell’identità personale, assenza di criteri relativamente persistenti di allocazione del tempo quotidiano” (Cavalli 1985, 39-40). La ricerca era stata condotta con il metodo delle “storie di vita” in quanto tentava di scoprire non tanto le “cause” di tale destrutturazione, ma piuttosto “come” essa era vissuta dai giovani. L’indagine aveva preso le mosse da una serie di osservazioni, compiute anche da altri sociologi 8, che avevano rilevato significativi mutamenti tra i giovani del modo di percepire e vivere la dimensione temporale. Ma tale mutamento veniva letto come segno di mutamenti profondi, sia nei giovani che nella società, e, quindi, dei processi di socializzazione. Di fronte all’allentamento del rapporto con la società, all’espansione del tempo a disposizione degli individui ne conseguiva una minor incidenza del tempo sociale sulla formazione dell’identità9. L’attenzione si stava spostando p. 45. 6 “I giovani si sono trovati costretti ad elaborare nuove strategie di definizione dell’identità operando una selezione tra le diverse risorse messe a loro disposizione da una società che sembra spingere in direzione dell’anonimità e del conformismo e nella quale l’appello alla differenza ha un significato dirompente sulla logica dominante” (Calabrò 1986 291) 7 “L’abbigliamento, come è noto è un medium comunicativo di grande efficacia simbolica” (Leccardi 1986 211). 8 Cfr., per es., A. Melucci, L’invenzione del presente (1982), N. Luhmann, The Future Can Not Begin (1976) e P. Berger, The Homeless Mind (1977). Bisogna tener conto anche di alcune ricerche condotte in quegli anni in Italia, che avevano già rilevato segni del fenomeno (cfr. Scotti M., Inchiesta sull’avvenire dei giovani, Milano, IULM, 1983; Giuliano L., M. Lepore, Progettualità personale e progettualità sociale, Convegno AIS, Trento, 985). dalle grandi prospettive ideali di una certa utopia che aveva catturato le attenzioni dei giovani del ‘68, al quotidiano che diventava, a questo punto, insieme con il presente, il vero senso del tempo. Alla progettazione a medio-lungo termine, personale e collettiva, si stavano sostituendo percorsi progettuali a breve e brevissimo termine. La ricerca riscontrò, di fatto, un certo numero di disturbi della percezione temporale, leggibile nei termini di una “confusione temporale” e di riluttanza ad abbandonare lo stato di moratoria in cui l’adolescente era relegato dalla società, ma che gli faceva anche comodo, fino a diagnosticare lo stato di “destrutturazione temporale”, “caratterizzata da una forte frammentazione e labilità della memoria storica; da una contrazione dell’orizzonte temporale dei progetti; dall’assenza di criteri stabili di allocazione del tempo quotidiano” (Leccardi 1987, 10; cfr. anche Cavalli 1984, 39-40). La ricerca confermò essere in atto nelle giovani generazioni una loro ridefinizione nei confronti del tempo, storico e sociale, con evidente enfatizzazione della dimensione del presente e perdita di spessore storico e di capacità progettuale. Ciò che risultava evidente era il marcato soggettivismo che contraddistingueva l’uso e il modo di intendere il tempo. “L’importante non é ciò che si fa [...] ma come interiormente ci si sente, come si vive il tempo: in altre parole, se il rapporto con se stessi é positivo, anche quello con il tempo necessariamente lo sarà” (Leccardi 1985, 506). Questo fenomeno sarebbe stato conseguenza, secondo gli autori, di varie concause, più o meno riconducibili ad un quadro sociale assai complesso ed in rapida trasformazione che allontana sempre più dal rapporto con il passato e con le radici storiche del proprio gruppo sociale. La perdita della memoria storica sarebbe causata dalle accelerazioni continue al cambiamento, dai meccanismi della storia sempre meno intelleggibili, dalla lontananza della politica, dall’avvento della società di massa, dall’influenza dei mass-media con effetti di “semplificazione, manicheizzazione, attualizzazione”10. Ma anche dalla obsolescenza della filosofie della storia e particolarmente dalla crisi del mito del progresso e della concezione del tempo della società moderna Infine la scarsa prevedibilità del futuro, più incerto, minaccioso, senza prospettive contribuirebbe alla perdita della capacità progettuale. Sarebbero gli stessi meccanismi sociali caratterizzati da poca chiarezza e scarsa prevedibilità ad alimentare in maniera determinante tale fenomeno. Così il presente diventava l’unica dimensione sperimentabile. Ci si concentra su l presente per esorcizzare l’ansia che il futuro riserva e per l’impossibilità di stabilire una continuità logica tra passato presente e futuro11. 1.2.3. La fuga dalla vita: tossicodipendenza e suicidio Il fenomeno droga sembra essere diventato il "fenomeno" per eccellenza degli anni '80. Non più assunta come alternativa o protesta al potere, bensi come sostitutiva di un "vuoto" interiore, di una capacità di affrontare i compiti di sviluppo e di inserimento sociale. Il problema ha assunto proporzioni allarmanti, tali da indurre i governanti a trovare dei correttivi adeguati, almeno a livello di legge. Il fenomeno si complica perché ad esso si associa anche la diffusione dell'AIDS. 9 “L’ipotesi […] è che laddove sono più labili i legami istituzionali prevalgono condizioni favorevoli all’insorgere della sindrome di destrutturazione temporale” (Cavalli 198 , 40). 10 - “L’informazione dei mass-media opera nei confronti della complessità sociale e della storia quegli stessi processi di riduzione che hanno luogo in occasione della divulgazione, televisiva e cinematografica, delle grandi opere letterarie: semplificazione, manicheizzazione, attualizzazione. [...] Il giornalismo di informazione resta, secondo Gabel, prigioniero dell’attualità e condiziona la coscienza collettiva nel senso di non attribuire valore al modo con cui sono maturati gli avvenimenti, al contesto storico che li ha resi possibili. [...] L’informazione di massa, svalorizzando il passato e sorvolando sul futuro, colloca il suo fruitore fuori dalla storia, fuori da ogni legame continuo con lo stato, la società, i problemi collettivi” (Tabboni 1985, 2-73). 11 - “Così il presente può diventare il limite della riflessione storica, un limite che è meglio non superare per evitare l’ansia, dato che non esistono strumenti per controllare il futuro e stabilire una sua coerenza col passato” (Tabboni 1985, 13 Se il fenomeno non è molto diffuso tra i minorenni, non per questo diminuisce la gravità della situazione. "E' nella fascia d'età tra i 15-18 anni che si affermano le prime esperienze di assunzione di stupefacenti, esperienze che in questa fase rimangono ancora sul piano episodico e che negli anni successivi possono comportare un maggior coinvolgimento del giovane nella tossicodipendenza. [...] Tra i più giovani sembra diffondersi sempre più la tendenza ad usare pscicofarmaci, anfetamine ed altre sostanze facilmente reperibili e di basso costo. Essi tendono ad usare droghe leggere, come prima esperienza e con l'idea che non diano assuefazione" (Faccioli 1989, 420). Sembra invece che, nonostante la conclamata non interdipendenza tra droghe leggere e droghe pesanti, per molti questo si traduca in un primo passo verso l'assunzione di sostanze più forti. Sussiste comunque una forma di disagio diffusa che non è certo facile identificare ma che trova espressione in mille forme. Troppo spesso questo tipo di malessere esistenziale viene portato alle estreme conseguenze. Una delle tendenze più significative e preoccupanti di questi ultimi anni è il ricorso al suicidio. Pur essendo un fenomeno in diminuzione (Faccioli 1989, 423), stupiscono alcuni casi ecclatanti di sucicido e le motivazione: una bocciatura, un rimprovero o un permesso con accordato. "Segno evidente di una incapacità a difendersi, da parte di molti teen-agers, dalle frustrazioni anche piccole, che il vivere contemporaneo comporta. Micro-traumi ingigantiti dall'età tradizionalmente delicatissima dell'adolescenza e da un bisogno di sensazioni forti e totalizzanti sempre più difficili da reperirsi nel tran-tran massificante del quotidiano" (Coriasco 1988, 185). In ogni caso, da parecchie parti viene sottolineato che la caduta di tensione ideale e l'incapacità di tradurre la protesta in azioni coerenti ed efficaci sia uno degli elementi che meglio spiegano il diffondersi progressivo del disagio giovanile. Esso si incanala a volte in forme violente distruttive della società, altre volte (forse le più) in forme autopunitive ed autodistruttive. tra i giovani 1.3. Le forme della devianza giovanili Un primo studio per delineare una mappa quali-quantitativa delle varie e più comuni forme di devianza minorile fu fatto dal CENSIS (1982-83). Secondo questa indagine, i comportamenti fuori legge più frequenti e diffusi nell’area adolescenziale, riguardavano: forme e modi diversi di vandalismo, spaccio e consumo di sostanze stupefacenti, reati contro il patrimonio e contro la persona (fra i quali i più frequenti legati alla sessualità). 1.3.1. Tossicodipendenza ed alcolismo La tendenza ad una emarginazione nella sfera del privato è rilevabile anche dalla crescita del numero di giovani che assumevano sostanze stupefacenti o alcolici. L’indagine Censis evidenzia come si fosse passati attraverso tre fasi nella diffusione ed uso delle sostanze stupefacenti; nei primi anni settanta si trattava di un fenomeno di minoranza, legato a giovani che, con la droga, volevano rompere completamente con il mondo degli adulti; una seconda fase, verso la metà degli anni settanta, era stata caratterizzata da un uso della droga in gruppi amicali, in aggregazioni giovanili che ricercavano gratificazione, sicurezza, solidarietà, significati; la terza fase, quella degli ani ‘80, era caratterizzata da una diffusione a macchia d'olio della droga, da un abbassamento dell' età dei tossicodipendenti e da una minore carica contestataria nei confronti del mondo degli adulti (13). La maggior parte dei giovani era esposta al problema della droga e non solo in modo mediato, attraverso i mass-media (14). Secondo gli operatori intervistati dal Censis si dovevano tener presenti alcuni fattori che determinano l'assunzione di stupefacenti; le crisi della convivenza familiare, l'insicurezza circa il futuro e la mancanza di prospettive, la crisi antropologica legata alla perdita di credibilità di alcuni valori e mancanza di valori sostitutivi (15). Se il problema droga è abbastanza studiato, l' alcolismo non ha mai attirato l'attenzione del pubblico e dei mass-media: probabilmente sono troppi gli interessi economici, generalmente leciti, legati alla produzione, commercio e consumo di bevande alcoliche. E' certo che è in aumento l'alcolismo tra i giovani (16), ma si nota poca sensibilità per tale problema: non si fa niente per la prevenzione e pochissimo per la cura, non risulta, fino ad oggi, che in Italia esistano centri specializzati per la cura degli alcolisti. 1.3.1.1. Fattori della tossicodipendenza. Le difficoltà in ambito familiare e, più in generale, le carenze affettive sarebbero tra i fattori principali del ricorso alla droga. In una ricerca della seconda metà degli anni ’80 venivano indicati i seguenti “fattori di rischio” per la tossicodipendenza (cfr. Merlo 1988): a) Fattori predisponenti (nel periodo dell’infanzia) - perdita genitori - paura o speranza di perdere i genitori - clima familiare insoddisfacente - sentimento di non essere accolti - depressione genitori - etilismo genitori b) Fattori favorenti (durante la crisi adolescenziale) - non sentirsi accolti, capiti - fuga da casa - caduta drammatica di ideali o di persone di riferimento c) Indicatori preditori - influenza del gruppo dei pari - interruzione scolastica - aver pensato di rivolgersi allo psicologo - aver tentato il suicidio prima dei 18 anni d) Fattori precipitanti: successo in presenza degli altri fattori - curiosità - iniziazione - mercato Questi dati stanno ad indicare che alla base del ricorso alla droga c’è sovente una cattiva socializzazione e molto probabilmente problemi affettivi e di adattamento non risolti, di cui la famiglia sarebbe il punto di snodo decisivo. 1.3.2. La violenza giovanile Una ricerca sulla violenza giovanile è stata condotta dal Labos (1988) su vari gruppi e realtà giovanili contigui alla violenza (gruppi a rischio, gruppi di tifosi, gruppi informali, gruppi di studenti, ecc.). Tale ricerca rappresenta forse il tentativo più compiuto di analisi sistematica della violenza in Italia. Per quanto non abbia analizzato tutte le forme di violenza (per esempio quella criminale), essa ha indagato fenomeni emergenti nel campo della devianza e violenza giovanile. Rispetto alle teorie classiche, il dato che balza agli occhi è la circolarità o interattività dei processi che conducono alla violenza. L’ipotesi classica, che la violenza abbia una base bio-psichica, cui i fattori ambientali farebbero da elemento scatenante, viene ridimensionata da questa ricerca. Ci può essere alla base anche qualche elemento psicologico (personalità irritabile, che ha subito violenza, con un locus of control esterno, tendente quindi alla ruminazione) ma essa appare molto più riconducibile a processi di apprendimento, ai meccanismi adattivi e alla dinamiche comunicative, intra e inter gruppo. Infatti i vari spezzoni della ricerca tendono a ricondurre la genesi del comportamento violento alle interazioni tra i soggetti e il micro-ambiente, che risulta capace di spiegare meglio di ogni altro fattore il ricorso alla violenza. Sovente è la violenza subita che diventa la forma di apprendimento per un comportamento violento. Oppure il clima intriso di violenza in cui si è vissuti; o le dinamiche di gruppo (ad intra o ad extra). In ogni caso la violenza appare collegata a dinamiche “normali” senza bisogno di far riferimento a precise patologie personali o sociali. Un altro elemento nuovo di questa ricerca è la scomparsa della violenza politica come “reazione alla violenza del sistema, alla violenza cioè impersonale attribuibile alle strutture sociali, alle istituzioni, alle forme organizzate della vita sociale, economica, politica” (Labos 1988, 299). Il modello esplicativo prevalente che emerge dalla ricerca è quello che spiega diverse forme di violenza giovanile […] come tentativi (inadeguati) di colmare il divario esistente tra complessità sociale (che prende il volto della società ostile e chiusa) e le ridotte opportunità individuali e con cui molti giovani devono fare i conti quando si pongono il problema delle proprie identità e dell'inserimento sociale (Labos 1988, 300). Pertanto la violenza agita dai giovani di questi anni appare una violenza di tipo espressivo, utilizzata al fine di manifestare il proprio disagio. La violenza assume nei diversi campioni una funzione prevalentemente espressiva; diventa strumento di comunicazione del disagio e allo stesso tempo manifestazione del bisogno di protagonismo frustrato in diversi modi dalla società e dai micro-ambienti con cui si hanno rapporti difficili (Labos 1988, 300). Per questo sua caratteristica fondamentalmente espressiva e simbolica, la violenza giovanile ha bisogno di accentuare l’elemento spettacolare. La violenza ha bisogno di un «palco», di una «cassa di risonanza», di un «pubblico»; i veri destinatari non sono sempre coloro che materialmente subiscono la violenza fisica, ma la più vasta «audience» sociale che non sembra degnare di attenzione i giovani e i loro problemi (Labos 1988, 3001). Da questo punto di vista questo tipo di violenza non viene presa molto in considerazione, sia dalle forze politiche che dall’opinione pubblica, perché s’accorgono che “essa spesso si esaurisce quando abbia raggiunto il suo scopo dimostrativo” (Labos 1988, 301). Allo stesso tempo la spettacolarità di certe manifestazioni violente instaura processi circolari di apprensione sociale, di sopravvalutazione della violenza stessa, di scoperta emotività dell'opinione pubblica di fronte alle ipotesi di conflittualità sociale presumibilmente ingovernabile. Infine va sottolineato il fatto che la spettacolarità ha anche una funzione di auto-securizzazione nei riguardi degli attori stessi della violenza: quanto più la violenza è dimostrativa tanto più l'attore si convince del proprio potere di comunicazione, di persuasione e di attivo condizionamento dell'ambiente, l'impressione di un facile superamento dell'angoscia da impotenza (Labos 1988, 301). I bersagli di tale violenza sono, in ordine: le persone, la cosa pubblica, le istituzioni, le forze dell’ordine, i cittadini, la proprietà, ecc. E’ più riprovevole se fatta contro le persone, soprattutto se inermi, anche se non mancano giovani che approfittano di queste persone. Invece appare più giustificabile, ai loro occhi, se fatta contro le istituzioni, contro i gruppi “altri” o “ostili”, contro persone singole percepite come disturbanti il “codice” distintivo della comunicazione intergruppo. La violenza negli stadi è considerata la meno grave e meno pericolosa. C’è comunque una certa tendenza a sminuire la gravità dell’azione violenta da parte di chi ne è attore. Sono anche interessanti le attenuanti addotte per legittimare l’uso della violenza. Un'attenuante comunemente citata è la difesa della propria incolumità fisica o di quella delle persone più vicine (familiari, amici); segue con molto rilievo, in più di un'inchiesta, il motivo della difesa del gruppo, della sua immagine, della sua identità; infine come attenuante importante emerge, nel giudizio che danno sportivi, ragazzi a rischio e giovani dei gruppi d'interazione la provocazione altrui (spesso esagerata intenzionalmente per creare un alibi al proprio comportamento). Lo stato di eccitazione (variamente motivato) è addotto come attenuante dai giovani a rischio, ma è poco valutato dagli altri gruppi (Labos 1988, 314). Questo modo di giustificare la violenza è legato soprattutto all'attribuzione di una funzione espressiva/dimostrativa, che accumula valenze reattive e difensive nei riguardi di situazioni difficili e contraddittorie, se non proprio nei confronti di una situazione obiettivamente ostile e minacciosa. Questo modo di sottovalutare la propria violenza (agita o prevista) sembra confortare l'ipotesi secondo cui la violenza giovanile non è oggi principalmente connessa alla frustrazione di bisogni molto specifici o alla presenza di situazioni particolarmente punitive nei riguardi dei giovani; si tratta invece di una possibile reazione inadeguata ad una condizione generalizzata di disagio complessivo e indistinto che è soprattutto percepito come incapacità di governare la complessità e la contraddizione della vita quotidiana (Labos 1988, 314). Rispetto agli attori della violenza, scrivevamo poco fa che questa appare come una violenza “normale” quindi difficile da identificare in certi target sociologici, come quando si parlava della devianza classica. Essa appare sempre più una violenza frutto del disadattamento a vivere in una società che non lascia spazio ai giovani e non si cura le sue esigenze. Infatti il giovane presumibilmente violento è un maschio, caratterizzato da maggiore irritabilità e ruminazione (introversione?), incline ad attribuire a cause esterne il senso dei propri accadimenti personali, preoccupato della propria immagine-identità e globalmente più coinvolto nel disagio socioeconomico-culturale (bassa scolarità, basso reddito familiare, alta esposizione alla violenza subita, bassa estrazione sociale, ecc.) (Labos 1988, 304). Da un’altra parte si aggiunge che questi giovani sono: poco scolarizzati (in gran parte sono drop-outs) vengono da famiglie sradicate (ex-emigranti, di origine contadina, dal Sud) e in genere anche incapaci di offrire una comunicazione educativa soddisfacente. […] Hanno a disposizione un eccesso di tempo da spendere in forme estese (e non intense) di comunicazione; sono infatti ragazzi che in generale né studiano né lavorano (Labos 1988, 305). Pertanto, se è il “disagio della civiltà” a costituire il dato comune e forse anche l’eziologia della violenza giovanile, almeno come comportamento, certamente il disagio socio-economico costituisce un elemento aggravante e più frequente nelle persone con tratti violenti. La ricerca condotta a Torino sui “gruppi a rischio”, curata da F. Garelli, ha evidenziato nel giovane con i tratti del “deviante” il fatto che respira la cultura della violenza nella vita quotidiana; l'indagine sembra sottolineare soprattutto l'avvenuta interiorizzazione di certi tratti culturali che allo stesso tempo sono connotazioni permanenti della personalità del giovane a rischio: un atteggiamento generalizzato di diffidenza e di difesa contro tutto e tutti, una facile disponibilità alla reazione e alla ritorsione, la tendenza a caricare ogni comportamento con il bisogno dell'autoaffermazione ad ogni costo, come rivalsa contro la vita precaria (Labos 1988, 305). Questo tipo di giovane appare particolarmente carente di cure parentali e con scarsa socializzazione, colpito inoltre da «deprivazione relativa».(De Leo in Dipartimento di giustizia minorile 2001, 3637). 1.3.3. La violenza negli stadi Un altro fenomeno tipico di questi anni è la violenza negli stadi, in cui gli adolescenti sono una componente significativa, anche se non esclusiva. Questo fenomeno va compreso all’interno della funzione che ha lo sport nella società contemporanea e, nello stesso tempo, nelle possibilità che offre un’aggregazione di massa come il tifo sportivo organizzato. La ricerca del Labos (1988) sulla violenza ha svolto anche un’indagine su gruppi di tifosi in tre città rappresentative di altrettante situazioni socio-culturali italiane. Essa ha concluso che il successo dello sport si gioca nella triade di “uguaglianza, successo individuale all’interno di una logica collettiva (il gruppo), e visibilità” (Labos 1988, 215). Gli adolescenti che sono impegnati nella ricerca di soluzione al problema dell’identità, individuale e sociale, trovano nell’aggregazione sportiva una rappresentazione simbolica di valori e modelli di comportamento che possono sembrare una risposta al problema dell’identità. Un’identità che si compone anche di un elemento aggressivo, di cui lo sport, ed il calcio in particolare, è assai ricco. L’inserimento in un gruppo che accetta nuove presenze senza difficoltà, perché la partecipazione è prevalentemente di esclusivo tipo fisico e corale; l’assunzione di un ruolo che può essere considerato quello di un adulto in chi è tutto proteso a bruciare le tappe e ad uscire da una condizione di forte ambiguità come quella adolescenziale; la sicurezza della impunità che consente di agire senza timori (e che si sia non punibile è presto trasmesso al ragazzo attraverso il «tamtam» tra coetanei); la possibilità di nobilitare la guerriglia attraverso l’autoconvincimento che si serve una fede e si esprime un amore per una realtà che assume quasi connotati metafisici (una squadra, una bandiera, una maglia); tutto ciò immette il ragazzo - alla ricerca non solo di una identità, di un ambiente e di un ruolo, ma a anche di una valorizzazione personale stemperata nel collettivo - in un sistema di violenza, e in realtà in una subcultura deviante, che può profondamente segnare tutta una esistenza. Tuttavia, la citata ricerca, afferma che, a parte la spettacolarizzazione della violenza, favorita certo dai rituali del calcio, per il resto la violenza non è provocata dallo sport, ma è dentro la società. Lo sport è un'espressione ritualizzata ed istituzionalizzata dell'aggressività, migliore, per es., della guerra o di altre forme di violenza sistematica, come una modalità di risoluzione del surplus aggressivo. Come hanno fatto rilevare Storr e tutti i sociologi e psicanalisti che si sono interessati al problema dell'aggressività, il pericolo per la società non sta nell'aggressività in sé - peraltro preziosa alla dinamica psico-biologica - ma nelle forme della sua canalizzazione e repressione, nell'incapacità di integrarla positivamente nella propria vita in qualche forma rituale e creativa. Lo sport ha inconsapevolmente la grande funzione sociale di valvola di sfogo e scarica ritualizzata dell'aggressività, simile al gioco ed alla sfida incruenta presente nelle società animali, in cui l'aggressione tra individui della stessa specie è rarissima. Secondo Braudillard, la violenza negli stadi rappresenterebbe un’esaperazione della partecipazione agli avvenimenti, in una logica di assenza di reali avvenimenti e di indifferenza generalizzata. La violenza negli stadi […] rappresenterebbe dunque uno dei disperati tentativi dei giovani di partecipare – senza cogliere compitamente le coordinate e gli spazi del loro agire – a fatti collettivi di una società che scoraggia, devia, esclude, illude e allontana dalla reale comprensione del senso generale e specifico dell’agire sociale e che rifugge da ogni conflitto e ad ogni dialettica (Labos 1988, 219). II tifoso vive la stessa situazione del protagonista, ne condivide le emozioni e le sensazioni, vive e si proietta in lui, nell'agire di lui identifica le proprie aspirazioni, si gratifica e si compensa di quanto la realtà quotidiana gli vieta. Vivere fortemente tali emozioni avrebbe una funzione catartica: permette al soggetto di esternare le sue contraddizioni, di far esplodere l’aggressività che ha dentro in modo sostanzialmente rituale e simbolico. Un modo quindi di esprimere l’aggressività e le tensioni non molto diverso da quello dei “gruppi spettacolari”, cui tra l’altro si avvicinano anche per il ricco apparato scenico di cui la partecipazione alle partite di calcio si colora (sciarpe, bandiere, colori, scritte, fumogeni, slogan, suoni, ecc.). Il calcio è dunque uno spettacolo che suggerisce una logica di battaglia, rafforza l’appartenenza di gruppo, stimola atteggiamenti di arrogante sicurezza nei confronti degli avversari: tutte caratteristiche che trovano terreno estremamente favorevole nei giovani che attraversano un processo di acquisizione e consolidamento dell’identità individuale e sociale, cui si addice il rischio e l’exploit. Ma […] gran parte di questo potenziale di violenza si stempera in forme di rituale aggressivo (Labos 1988, 217).