La forza dei simboli L’uso regolare dei simboli in Matematica è stato il passo fondamentale verso l’universalità del linguaggio. A parte l’evidente economicità del loro uso, sembra che essi acquistino una vita propria. Citiamo, a questo proposito, il seguente brano tratto da La ribellione del numero di Paolo Zellini (pagg. 172-176). “Che i simboli matematici, una volta creati, siano provvisti di “potere ermetico”, di una forza che spinge a nuovi atti creativi, pare non ci siano dubbi. Specie quando si designano con segni appropriati, i concetti (matematici) assomigliano a ciò che Hofstadter chiama “simboli attivi”: sottosistemi di sistemi complessi che generano per via di reciproche attivazioni, che ne fissano anche le possibili valenze semantiche, altri sottosistemi diversi e via via più complessi. È noto, ad esempio, il fatto che la teoria delle categorie e l’algebra omologica nascono e si sviluppano con l’osservazione che molte proprietà di sistemi matematici possono essere unificate e semplificate in virtù di speciali diagrammi di frecce, i quali, proprio per via di questa semplificazione “visuale”, aiutano a trovare nuove costruzioni e nuove strutture concettuali. Un esempio più elementare lo danno i numeri immaginari. Quando Cardano si occupò della risoluzione delle equazioni di terzo grado questi numeri entrarono nell’“esistenza” matematica. Ma la loro introduzione non fu l’effetto di una immaginazione “libera” e sovrana che sa da sola quel che bisogna fare o non fare. Giustamente Waismann afferma che gli immaginari si introdussero da sé nei calcoli, per via di precise necessità algoritmiche, e addirittura in contrasto con la volontà e l’intenzione del matematico. Nonostante Cardano ottenesse la risoluzione di un’equazione cubica utilizzando radici quadrate di numeri negativi, e nonostante il buon senso consigliasse di respingere simili stranezze (nessun numero elevato al quadrato è negativo), i calcoli che ne facevano uso davano un esito giusto e sensato, e finivano per imporre il consiglio opposto: quello di considerare questi segni come nomi di nuove entità, fornite di uno speciale “status existentiae”. Così, scrive Waismann, “sembra che proprio nell’operare con formule, cioè nell’algoritmo matematico stesso, si celi una forza autonoma che ci spinge innanzi nostro malgrado, forza che nel caso considerato portò i matematici a far uso dei numeri immaginari”. Analogo il commento di Felix Klein: “I numeri immaginari seguirono la loro strada [...] senza la ratifica e anche in opposizione ai desideri dei singoli matematici, e ottennero più larga diffusione solo gradualmente e nella misura in cui si dimostrarono utili ”. Oltre che essere il risultato di una necessità algoritmica, il numero immaginario rappresentò anche l’occasione per ulteriori sviluppi algebrici e geometrici, nel senso di una progressiva astrazione della matematica. Alla crescita dell’algebra astratta contribuirono non poco, del resto, la stessa esistenza e le stesse proprietà combinatorie di segni operazionali della cui potenzialità euristica si poteva essere, sulle prime, legittimamente ignari. Questo contributo prese origine dall’uso dei segni introdotti da Leibniz per il calcolo differenziale e integrale, e dalla scoperta a posteriori che questi segni ubbidivano alle stesse proprietà combinatorie delle potenze (ad esempio il differenziale ennesimo di un prodotto era formalmente analogo alla potenza ennesima di un binomio). Questa sola analogia già portava Lagrange a concludere che molti nuovi teoremi, che sarebbe stato difficilissimo scoprire per altre vie, diventavano ora accessibili; e l’opportunità più conseguente diventava ben presto di considerare i simboli delle operazioni di derivazione e di differenziazione come quantità algebriche, alla stessa stregua delle x e delle y cui esse si applicavano. La tecnica della “separazione dei simboli” introdotta da Louis François Arbogast nel 1800, le ricerche di Fourier e i lavori di Cauchy sul calcolo delle operazioni (1827) rafforzarono l’evidenza di una stretta analogia tra potenze e indici di differenziazione; e questa fu ben presto in grado di suggerire successive considerazioni sulla natura dell’algebra, e da ultimo sugli stessi fondamenti della matematica. Il “salto” speculativo prese spunto dalla scuola inglese di Babbage, Herschel, Peacock, che videro in tale scoperta il seme di una novità non sufficientemente riconosciuta dalle scuole continentali. Boole inventò una pura algebra di segni in base a proprietà combinatorie finalmente astratte dal particolare significato che i simboli potessero assumere nell’algebra o nel calcolo differenziale o funzionale. E questo stile ben si accordava con l’emergente teoria dei gruppi algebrici, che, spostando l’attenzione dagli oggetti (matematici) alle leggi cui questi soggiacciono, affrancava il ragionamento dalla necessità di una particolare interpretazione dei segni. Quanto questo processo possa addebitarsi a una specie di automatismo, di crescita spontanea dell’idea per svolte casuali, impreviste e per successive conquiste mentali imposte dall’analogia e dall’astrazione, può dedursi da un commento di Robert Woodhouse, che risale al 1801.- “Sarebbe invero un singolare paradosso o una rara fortuna se la verità non sempre raggiunta dalla meditazione dovesse inaspettatamente risultare da operazioni non rispondenti all’idea, condotte senza principio, senza scopo o regolarità”, Hermite sarebbe forse stato disposto a vedere in queste “operazioni senza principio” le mosse di un organismo vivente; proprio come esseri viventi egli considerava infatti, ci racconta Poincaré, gli enti più astratti. Nel suo strenuo realismo, anche quando non riusciva a vedere gli enti matematici in modo chiaro ed esauriente, Hermite percepiva comunque una loro unità interna, un principio di organizzazione che li rendeva dissimili da una morta composizione artificiale; o per lo meno era lecito pensare che lo stesso artificio non potesse essere altro che vita e movimento. Perfino Cantor, cui Hermite rimproverava di creare gli oggetti matematici anziché di limitarsi a scoprirli, doveva presentire una finale rivincita dell’oggetto sulla presunta “libertà” del matematico. Per un attimo, è vero, il condizionamento esterno dei fatti non escludeva un’apparenza di “libertà”, perché si rivolgeva contro il vincolo di un’abitudine e contro la forza carceraria di certi pregiudizi. (La “libertà”, si direbbe, è “libertà” di opporsi a una costrizione precedente). Ma quand’era ormai vicino a scoprire nella successione degli indici di derivazione una nuova specie di numeri, i numeri transfiniti, Cantor dovette anche riconoscere la forza autonoma e antagonista dei concetti: “Qui vediamo una generazione dialettica di concetti, che porta sempre più innanzi, e rimane libera da ogni arbitrio e insieme necessaria e logica in sé”. Ciò che scrisse Ludwig Fleek (in Entstehung und Entwicklung einer wissenschaftlichen Tatsache, 1935) - che la conoscenza richiede la massima coazione e la minima arbitrarietà di pensiero - non è mai così poco evidente come nell’atto dell’invenzione. Ma perfino in quell’atto la necessità e la “coazione” si aggiungono all’arbitrio, perché non c'è dubbio che vi prenda corpo, al di là di una parvenza di “libera” scelta, qualcosa che compete alla stessa unità e strategia dell’oggetto.”