Secondo tema - Documento senza titolo

Bene comune e legge naturale
(Documento tratto dalle slide presentate da Don Mario Colombo – 06.12.2011)
Bene comune
Il Compendio della dottrina sociale della Chiesa, rifacendosi all’insegnamento del Concilio Ecumenico
Vaticano II, specifica che:
«Il bene comune non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo
sociale. Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme
è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro» (n. 164, ove si cita la
costituzione Gaudium et Spes 26). Già il teologo Francisco Suárez individuava un bonum commune
omnium nationum, inteso come «bene comune del genere umano».
In passato, e ancor più oggi in tempo di globalizzazione, il bene comune va pertanto considerato e
promosso anche nel contesto delle relazioni internazionali e appare chiaro che, proprio per il
fondamento sociale dell’esistenza umana, il bene di ciascuna persona risulta naturalmente
interconnesso con il bene dell’intera umanità. Giovanni Paolo II osservava, in proposito, nell’Enciclica
Sollicitudo rei socialis che:
• «si tratta dell’interdipendenza, sentita come sistema determinante di relazioni nel mondo
contemporaneo, nelle sue componenti economica, culturale, politica e religiosa, e assunta
come categoria morale» (n. 38: EV 10/2650).
• E aggiungeva: Quando l’interdipendenza viene così riconosciuta, la correlativa risposta, come
atteggiamento morale e sociale, come «virtù», è la solidarietà. Questa, dunque, non è un
sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone,
vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il
bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili
di tutti (ivi).
C’è un circuito virtuoso che il Concilio Vaticano II delinea e che siamo chiamati a innervare nella vita
sociale. Esso parte dalla persona e arriva all’ordine sociale, poiché «l’ordine delle cose deve essere
subordinato all’ordine delle persone e non l’inverso», ed è un ordine che «deve avere per base la
verità, realizzarsi nella giustizia, essere vivificato dall’amore, trovare un equilibrio sempre più umano
nella libertà» (GS 26: EV 1/1401). Come l’agire morale del singolo – ribadisce il Compendio della
dottrina sociale della Chiesa – si realizza nel compiere il bene, così l’agire sociale giunge a pienezza
realizzando il bene comune. Il bene comune, infatti, può essere inteso come la dimensione sociale e
comunitaria del bene morale.
L’Enciclica Deus Caritas Est , di Benedetto XVI, ricorda che «la formazione di strutture giuste non è
immediatamente compito della Chiesa, ma appartiene alla sfera della politica, cioè all’ambito della
ragione autoresponsabile» (n. 29). Nota poi che, «in questo, il compito della Chiesa è mediato, in
quanto le spetta di contribuire alla purificazione della ragione e al risveglio delle forze morali, senza le
quali non vengono costruite strutture giuste, né queste possono essere operative a lungo». Quale
occasione migliore di questa per ribadire che operare per un giusto ordine nella società è
immediatamente compito proprio dei fedeli laici? Come cittadini dello Stato tocca ad essi partecipare
in prima persona alla vita pubblica e, nel rispetto delle legittime autonomie, cooperare a configurare
rettamente la vita sociale, insieme con tutti gli altri cittadini secondo le competenze di ognuno e sotto
la propria autonoma responsabilità.
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Il bene comune, se cum-munus deve essere, non è la somma dei beni individuali. La somma dei beni
individuali non potrà mai essere il bene cattolico o dei cattolici. Il bene comune è il primato della
persona, della solidarietà e della sussidiarietà: la Dottrina Sociale della Chiesa ha in questi principi
non un tesoro immutabile da difendere ma punti cardine fondamentali che possono e devono essere
realizzati a favore di tutti in forme rinnovate grazie al contributo di quanti vi si riconoscono, in
concreto aiuto ai bisogni di ciascuno.
Il Concilio Vaticano II ci ha insegnato che è possibile, prima che doveroso, ovunque e davanti ad ogni
sfida, anche la più ardua, in-culturare la fede, trovare modi e forme nuove, inattese, sorprendenti per
esprimerla senza sminuirla ma anzi rendendola più ricca di colori, di sfumature, di riletture. Inculturare la fede vuol dire tratteggiare continuamente, levigare nella temperie odierna il volto in cui la
verità si declina ed è capace di dirsi all’uomo contemporaneo: la carità. Anche la nostra riflessione, la
nostra mediazione culturale, il pensiero intellettuale deve riconoscersi in quel volto, il solo capace di
guardare senza paura al futuro.
Oggi al laicato cattolico… è richiesta creatività, capacità, libertà di iniziativa, energia pensante. È
richiesto di essere, come e più di ieri, fucina di pensiero autenticamente nuovo. Purtroppo infatti non
possiamo ignorare come di fronte alle grandi sfide che la modernità ci impone a ritmi sempre più
rapidi e con effetti talvolta evanescenti …, i cattolici indulgano più o meno consapevolmente a
interpretare con sapienza la realtà, ma non a fornire, con la stessa sapienza, in maniera netta e chiara,
soluzioni vere e concrete a queste medesime sfide, che siano esse stesse pensiero nuovo, fresco,
intrinsecamente giovane. Dalla lettura attenta e corretta dei segni dei tempi deve, anche oggi,
scaturire un visione che si faccia parola pronta ed azione lungimirante nella nostra società (Tiziano
Torresi, Pistoia 2007).
Il conflitto che i cristiani con il loro contributo e patrimonio devono oggi contribuire a sanare e a
rendere tensione benefica per la democrazia non è più conflitto ideologico o di classe ma conflitto tra
culture. Ecco una scommessa di formidabile importanza per la conquista e la condivisione del bene
comune: fare dei cristiani non dei partigiani difensori di una singola cultura ma uomini di fede in
dialogo capaci di essere una risorsa per la società e di capire meglio se stessi. Il bene comune può e
deve essere in questa ottica non solo un obiettivo ma anche un metodo.
Se la Chiesa non è difesa di una civiltà ma dialogo, lievito, presenza discreta che sa ascoltare ed
arricchire con il punto di vista di ciascuno la propria visione della realtà, allora ciò di cui più ha bisogno
il laicato cattolico oggi è di cercare ed incontrare interlocutori laici.
Dato che questo “bene comune” va realizzato tenendo conto della realtà in cui siamo immersi, ora
cercheremo di leggere la situazione politica con la quale dobbiamo confrontarci attraverso il
contributo di Pierpaolo Donati docente di sociologia, Università di Bologna, relazione alla settimana
sociale dei cattolici 2007.
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La situazione nella quale si trova lo Stato sociale italiano è sotto gli occhi di tutti: gli attori
politicamente più rilevanti non perseguono il bene comune. Certo, le eccezioni non mancano,
e si può convenire che molti hanno buone intenzioni. Ma chi prende il potere nelle istituzioni
pubbliche insegue interessi di parte, egoistici o particolaristici, e così la società italiana va alla
deriva.
Tanto per capirci, basterà fare l’esempio della perdurante iniquità nella distribuzione delle
risorse fra le generazioni. Nonostante sia evidente che l’Italia sta distruggendo da tempo e in
tutti i modi le nuove generazioni, il sistema politico continua a distribuire diritti e risorse a
gruppi e categorie sociali che tolgono opportunità, risorse e speranze di vita ai giovani.
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Quando un Paese imbocca questa via, e non dà segni di ravvedimento, è destinato a fallire, fra
mille tragedie.
La res publica è in mano ad attori che sono essenzialmente gruppi di potere particolaristici. Lo
sono i partiti politici (una miriade), i gruppi di pressione e di interesse (centinaia quelli censiti,
la maggior parte ignoti), incluse le organizzazioni sindacali e le associazioni di categoria e di
rappresentanza, le migliaia di piccole e grandi lobbies che si comportano come vere e proprie
bande armate le une contro le altre. Tutti questi attori collettivi particolaristici cercano di
massimizzare i propri vantaggi senza curarsi delle conseguenze che il loro comportamento ha
sul bene comune. Il bene comune – così dicono – è una responsabilità dello Stato e delle sue
istituzioni. Ma intanto depredano lo Stato delle sue capacità di perseguire i fini comuni.
Chi persegue il bene comune viene penalizzato, mentre chi persegue il proprio interesse
egoistico – purché lo faccia in modo formalmente lecito – viene premiato: e tutto ciò accade
secondo regole riconosciute e istituzionalizzate, non come un effetto indesiderato e inatteso.
Succede in quasi tutti i campi della vita sociale, dall’imposizione fiscale all’uso dei servizi di
welfare, dai contratti di lavoro al sistema previdenziale, dal modo di trattare la famiglia al
modo di elargire i cosiddetti nuovi diritti civili.
Liberista/laburista
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Quest’assetto, che se ne sia consapevoli o meno, è quello lib/lab, che rappresenta l’ultima
versione del moderno Stato hobbesiano. In quest’assetto non c’è spazio per il bene comune
propriamente inteso.
Dirò più in dettaglio che senso abbia quest’affermazione; ma, in buona sostanza, essa allude al
fatto che il bene comune viene concepito come esito di un continuo compromesso fra Stato e
mercato, cioè fra gli attori che sostengono il primato della politica contro il mercato (lab) e
quelli che sostengono il primato del mercato sulla politica (lib). In apparenza questi attori si
oppongono gli uni agli altri, ma nella realtà dei fatti essi condividono lo stesso gioco, in cui si
tratta di perseguire interessi particolari tutelati ora dallo Stato e ora dal mercato.
Lo stato moderno
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Lo Stato moderno occidentale è stato costruito seguendo quella che le scienze sociali
chiamano la «soluzione hobbesiana del problema dell’ordine sociale» (come dare ordine alla
società).
La soluzione dice così: siccome gli uomini tendono per loro natura a regredire a una condizione
di vita in cui valgono soltanto la forza e la frode, occorre che Qualcuno (con la Q maiuscola)
detti loro delle regole, e li faccia passare dallo stato di natura allo stato civile. Nella sua
formulazione più astratta: l’utilitarismo degli individui umani genera problemi di sicurezza
(conflitti sociali) che possono essere risolti soltanto mediante un contratto (che ha due
momenti: un pactum unionis e un pactum subjectionis), in cui ciascuno aliena le proprie
prerogative a un potere che decide le regole per tutti, assicurando le libertà proprietarie di
tutti alla sola condizione che ciascuno non leda le libertà proprietarie degli altri.
Basterà ricordare il fatto che lo Stato di Hobbes segna la rottura definitiva con il mondo
comunitario e plurale del medioevo (il corpus christianum). Si fonda sull’interesse degli
individui, quindi sul calcolo, e sta alla base del carattere tipicamente «borghese» della
modernità.
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Modello contrattualista (o illuminista o liberale)
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Si caratterizza per intendere la società come la semplice somma degli individui che la
compongono
Individui a loro volta intesi come uguali perché tutti caratterizzati da una medesima natura e
ragione
Natura che si specifica come un’insieme di diritti soggettivi ed inalienabili di per sé evidenti
alla ragione
Concezione atomista o individualista della società
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Concezione universalista dell’uomo
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Concezione del diritto
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Visione contrattualista e neoliberista - Conseguenze attuali di questa impostazione
Dimensione etica
Il rischio che le società industriali avanzate come la nostra stanno correndo è quello di accettare non
solo la deriva individualistica (no al bene comune ma solo perseguimento del bene individuale dei
singoli) ma anche di considerare l’auto realizzazione della persona esclusivamente in termini
economicistici. Il concetto di bene, che non a caso è rifiutato sostanzialmente dalle culture dominanti,
tanto a destra e a sinistra, presuppone un giudizio di valore: dire bene significa affermare che vi è
anche un male, individuale e sociale. Si afferma che la politica non è il luogo all’interno del quale si
devono esprimere giudizi di valore, ciò che è bene e ciò che è male, ma si deve piuttosto utilizzare la
categoria di utilità. Si valuta cioè una società in relazione non all’astratto del “bene” ma al concetto di
utilità e prevalentemente di utilità economica.
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Bene/utile
Si sostituisce il perseguimento del bene con quello di utilità sociale intesa in termini di aumento della
ricchezza nazionale e della ricchezza individuale: il mito del prodotto interno lordo. Bene comune si
realizza nel momento in cui la quantità delle risorse disponibili per un determinato gruppo umano è
costantemente crescente. Questa mentalità economicistica sta corrodendo la classica categoria di
bene comune con quella di utilità sociale e ritiene che il bene sia tanto meglio perseguito quanto più
aumenta il volume delle risorse disponibili. Il bene comune non equivale in alcun modo alla crescita
economica di un gruppo, anche se è necessario che un minimo di risorse è necessario siano poste a
disposizione di tutti gli individui.
Modello comunitarista (o organicista o olista)
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Intende la comunità (popolo o stato) come una totalità coesa e solidale, definita dalla storia e
identificata sulla base della cultura, originaria nei confronti dell’individuo e portatrice di un
valore aggiunto rispetto alla semplice somma delle parti che la compongono
Gli individui non sono elementi autonomi ma s’identificano in base alla loro appartenenza alla
comunità/popolo/stato/cultura
Il diritto è parte di tale cultura risultato dello sviluppo storico della comunità e in quanto tale
valido solo per quella comunità
Concezione essenzialista della comunità popolo stato cultura
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Concezione storicista
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I Comunitaristi
Charles Taylor / Aladair MacIntyre/ Michael Walzer
Modello contrattualista
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Il giusto è autonomo ed è primario rispetto al bene
Lo stato è semplice garante dei diritti individuali
e risulta indifferente verso le scelte etiche dei suoi cittadini che lascia alla sfera privata del
soggetto
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Modello comunitarista
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Il bene è primario rispetto al giusto che da esso dipende
La comunità/stato si fa promotore di una specifica visione etica
che scaturisce dalla tradizione culturale di cui lo stato è oggettivazione
Per cui lo stato interviene orientando eticamente la vita dei cittadini
Critiche al modello comunitarsista
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La Comunità è vista in senso ideologico chiuso, esclusiva
La comunità prescrive i valori (imposizione dall’alto)
Primato della politica sulla comunità
Comunità
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Delle tante definizioni di comunità (talora vicendevolmente esclusive) ci pare utile trarre gli
aspetti comuni più ricorrenti e significativi:
1. l’esistenza di rapporti sociali, comunque espressi, tra i suoi membri;
2. la condivisione di ragioni di base, o di aspirazioni, o di valori, che non abbiano, o
non abbiano come centrale o fondante, la dimensione affaristico/economica;
3. la coscienza di un’appartenenza comune e solidale.
Tre parole-chiave, dunque: rapporti, condivisione, appartenenza. Con, sullo sfondo, come
ragion d’essere e di senso di una comunità, la ricerca di quella nozione generica e da
interrogare di bene comune, quale elemento ‘pratico’ della vita comunitaria associata. Tutti
questi elementi, peraltro, non necessariamente comportano, per un individuo, l’esclusività di
sentirsi parte di una sola comunità, riproponendo anche sotto questo aspetto, come ai tempi
della polis greca, la necessità di specificare la comunità.
Comunità e bene comune
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Il fine sovrastante tutti i fini particolari che rende detta “comunità politica” per così dire
principale rispetto alle altre comunità, deve sapersi configurare come scopo comune cercato
non a danno, ma a vantaggio di ogni parte del tutto sociale. Tutti i fini particolari devono
essere rispettati nella loro specifica diversità e subordinati solo per quegli aspetti per cui essi
rientrano nell’ambito dell’interesse comune.
Abbiamo così nell’insieme un concetto di “bene comune” che si pone non come un qualcosa di
dato e di prescrittivo, ma come ricerca secondo dinamiche dialettiche e sociali storicamente
variabili: quello che, in un certo assetto socio-economico e storico, è ritenuto necessario a
garantire condizioni basiche ai suoi membri, cioè conservazione della vita fisica e sviluppo di
un’esistenza dignitosamente umana, può essere diversamente considerato in un altro.
Attuazione del bene comune
Abbiamo visto che il concetto di bene comune è estensibile a tutto il genere umano ma non in modo
uniforme perché la sua attuazione storica va incarnata in contesti diversi. Quindi ogni comunità
politica è chiamata a realizzare questo bene secondo modalità che appartengono alla sua storia. Così
il concetto di democrazia, di diritto alla salute, all’ingresso nel mondo del lavoro, diritto alla salute
non ha un’unica modalità di attuazione
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Una nuova via
Cosa valorizzare dunque? Due direttrici:
1. da un lato, proprio a partire dalla sfera della fraternità (condivisa e rivendicata tanto nella
versione illuministico/liberale quanto in quella comunitaria), il recupero, nel vissuto sociale, di
valori di cooperazione, di solidarietà, di responsabilità, con innervature liberali intese come
pluralità delle forme di libertà;
2. dall’altro un’attenzione prioritariamente materialistica al “bene comune”, da intendere quindi
come insieme dei beni necessari alla vita umana, un materialismo di condizioni e di rapporti
sociali su dati ambiti (priorità politico/sociale su logiche d’impresa; istruzione/educazione;
ambiente; sanità; lavoro; pensioni), orientati verso la costituzione di un ambiente favorevole
allo sviluppo della persona, in parte già entrando concretamente, nel come si affrontano detti
ambiti, in una sfera di valori di senso etici e morali, in parte rinviando certe altre
problematiche valoriali più di fondo alle diverse fasi storiche e soprattutto alle relative
dialettiche, in un quadro quanto più possibile garantista della relazione uno/tutti. Così, si può
fuoriuscire dall’estremizzazione liberalista e comunitarista.
Questo, e quel che vi è di oltre, presuppone, molto laicamente, condizioni di indipendenza nazionale e
di sovranità politica ed economica, ed un orizzonte di valori da radicare, attraverso la dialettica, in una
sorta di ontologia antropologica non capitalista.
Stato sociale
1) Il welfare non può essere costruito su una visione antropologica negativa come quella hobbesiana.
Un’altra modernità, quella della visione positiva dell’uomo, della sua dignità e dei suoi diritti, si sta
affacciando all’orizzonte come soluzione alternativa. Se partiamo dall’idea che l’uomo sia una bestia,
costruiremo un welfare da bestie. Se partiamo dall’idea che l’uomo sia un essere ferito e debole, ma
intrinsecamente capace di comportamenti altruistici, solidali o almeno non autointeressati, ovvero di
«scambi umani», allora possiamo costruire un welfare dal volto umano. Un’antropologia negativa
porta a dispiegare dinamiche negative, una positiva porta a suscitare e alimentare (empowerment) le
migliori capacità umane.
2) Il welfare non può più essere costruito sulla base della distinzione moderna (hobbesiana) fra
pubblico (Stato) e privato (il mercato dell’homo homini lupus). La sfida diventa quella dei «servizi di
interesse generale» (SIG), su cui l’Unione europea ha posto l’attenzione in vista di una nuova
normativa con la quale aprire uno scenario di servizi di welfare che sono da considerare «pubblici»
non perché siano statali, ma in quanto sono di interesse generale a prescindere dalla natura dell’ente
proprietario o erogatore del servizio.
3) Le identità culturali, incluse quelle religiose, non possono essere «privatizzate», non possono
essere dichiarate irrilevanti per la sfera pubblica, e quindi per il welfare «pubblico». Il welfare laicista
(quello che neutralizza le identità culturali, e in particolare quelle religiose) cade da sé, perché nella
vita quotidiana la gente reintroduce spontaneamente i problemi di identità nelle culture del
benessere, ne fa una questione di confronto fattuale nella sfera pubblica, prima che nell’ordinamento
di diritto.
4) Il controllo organizzativo centralizzato nelle istituzioni di welfare viene sostituito da reti sociali
(originarie e originali), che sono intrecci plurali di relazioni formali e informali, il cui metro di qualità è
dato dalla capacità di generare capitale sociale primario e secondario. È tutta la moderna concezione
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hobbesiana dell’ordine sociale come compromesso e fusione fra libertà e controlli che crolla. Al suo
posto subentra un «ordine societario», che nasce da un radicale cambiamento delle definizioni di ciò
che è pubblico e di ciò che è privato e dalla connessa ripresa della valenza pubblica delle identità
culturali, fenomeni che segnano la fine del sogno di poter realizzare nuovi compromessi fra le
ideologie lib e lab moderne.
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Se vogliamo perseguire un «nuovo welfare», dobbiamo guardare in nuove direzioni, quelle dei
bisogni reali della gente, soprattutto quelli che sono in discontinuità con il passato. Questi
bisogni stanno su due fronti, che contraddicono apertamente la soluzione hobbesiana.
Il primo fronte riguarda la definizione di benessere, che non può più essere concepito come
puramente materiale, utilitaristico e individuale (dell’individuo proprietario hobbesiano),
com’è anche nella soluzione à la J. Rawls, né può ricorrere a soluzioni normativovolontaristiche, ma deve farsi relazionale, nel senso che la felicità sta nelle relazioni e non negli
oggetti-merce.
Stato sociale /etica
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Il secondo fronte riguarda i contenuti etici delle azioni di welfare. Le misure di welfare non
possono più essere eticamente indifferenti o neutre, cioè con la pretesa di essere puramente
tecniche senza implicare valori che decidono del bene e del male, ma devono diventare
eticamente qualificate. Ciò significa che il fine etico deve essere introdotto nella funzioneobiettivo delle azioni di welfare, sia per quanto riguarda gli aspetti economici sia per quanto
riguarda quelli socio-relazionali.
Occorre una configurazione capace di mettere in sinergia l’integrazione sistemica con quella
sociale. Il che significa che occorre una governance ispirata al principio di sussidiarietà.
Invocare nuove «regole» si rivela una pia illusione se non si prende sul serio la necessità di una
loro giustificazione, per il semplice fatto che ogni contratto richiede premesse non
contrattuali. Ha condizioni pre-contrattuali da soddisfare, che consistono nella fiducia e nella
disponibilità a cooperare su comuni valori. Senza di queste premesse il contratto sulle regole
non può venire all’esistenza o, se viene fatto, non sarà rispettato. Lo Stato sussidiario soddisfa
queste condizioni. Perché, mentre il contratto che genera il Leviatano si basa sulla sfiducia e il
sospetto reciproci, lo Stato sussidiario si basa sul rispetto della dignità di ciascuno e sull’agire
per accrescere, non diminuire, le autonome capacità dell’altro.
Bene comune/stato
Alcuni settori del mondo cattolico si sono sempre appoggiati al «primato della politica» intesa, non già
correttamente come priorità del «politico» (il bene comune), ma come priorità dello Stato sulla
società civile, anziché viceversa. In ciò essi hanno finito per accettare, la soluzione hobbesiana per la
quale la vita sociale diventa civile soltanto attraverso la vita politica. A parte il fatto che esiste il rischio
che la soluzione hobbesiana finisca per sottoporre, prima o poi, la Chiesa allo Stato poiché la religione
rappresenta un rischio e una fonte di timori per lo Stato stesso, la questione cruciale è comunque
un’altra. Il fatto che molti interpretino la dottrina sociale nel quadro di un pensiero «verticale», in cui
lo Stato ordina la società civile anziché trarne ispirazione e linfa morale, comporta l’assenza di una
vera sussidiarietà, cioè la mancanza di un autentico protagonismo delle persone, delle famiglie, delle
associazioni, e quindi il mancato sviluppo di quelle reti «orizzontali» nel campo del welfare in cui si
esprimono le soggettività sociali e i loro beni relazionali. Con Giovanni Paolo II la dottrina sociale
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cattolica ha fatto passi da gigante per uscire dal welfare hobbesiano, ma la traduzione pratica rimane
tutta la sviluppare, al di là degli astratti principi.
Bene comune/relazione
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Dire che un bene è bene comune, significa dire che è bene relazionale in quanto è un tipo di
bene che dipende dalle relazioni messe in atto dai soggetti l’uno verso l’altro e può essere
fruito soltanto se essi si orientano di conseguenza.
In questo senso, la vita umana è oggetto di godimento e quindi di diritti non in quanto bene
privato, individuale nel senso di individualistico, né pubblico nel senso tecnico moderno di
bene statuale, ma propriamente come bene comune dei soggetti che stanno in relazione.
Legge naturale
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Il Catechismo della Chiesa Cattolica (cfr. da n. 1954 a 1958) afferma che la legge naturale
esprime il senso morale originale che permette all'uomo di discernere, per mezzo della
ragione, il bene e il male, la verità e la menzogna. Essa mostra all'uomo la via da seguire per
compiere il bene e raggiungere il proprio fine. La legge naturale indica le norme prime ed
essenziali che regolano la vita morale presente nel cuore di ogni uomo e stabilita dalla ragione,
è universale nei suoi precetti e la sua autorità si estende a tutti gli uomini. Esprime la dignità
della persona e pone la base dei suoi diritti e dei suoi doveri fondamentali. L'applicazione della
legge naturale si diversifica molto; può richiedere un adattamento alla molteplicità delle
condizioni di vita, secondo i luoghi, le epoche e le circostanze. Tuttavia, nella diversità delle
culture, la legge naturale resta come una regola che lega gli uomini tra loro e ad essi impone,
al di là delle inevitabili differenze, principi comuni. La legge naturale è immutabile e permane
inalterata attraverso i mutamenti della storia; rimane sotto l'evolversi delle idee e dei costumi
e ne sostiene il progresso. Le norme che la esprimono restano sostanzialmente valide. Anche
se si arriva a negare i suoi principi, non la si può però distruggere, né strappare dal cuore
dell'uomo.
Il Santo Padre, Giovanni Paolo II, alle Nazioni Unite (discorso del 1995, n. 3) ha indicato la legge
naturale come grammatica comune soggiacente a tutte le culture e condizione sine qua non di
ogni dialogo internazionale: "Se vogliamo che un secolo di costrizioni lasci il passo a un secolo
di persuasioni, dobbiamo trovare il cammino per discutere, con un linguaggio comprensibile e
comune, sul futuro dell’uomo. La legge morale universale, scritta nel cuore di ogni uomo, è una
specie di "grammatica" che serve al mondo per affrontare questa discussione sul proprio
futuro".
Per i politici e per i legislatori c’è un lavoro importante da fare. Bisogna riaccendere la luce
della legge naturale nel pensiero e nell’azione, essere fedeli ai suoi orientamenti, vigilare ed
esaminare continuamente la nostra coscienza per verificare se siamo sensibili ai suoi richiami o
se ci siamo lasciati trascinare a fare leggi contrarie ad essa, trovando perfino ragioni per il
male. Tutti possiamo ricordare quel fenomeno costante nell’esperienza umana: chi non agisce
in accordo al proprio pensiero, comincerà a pensare in accordo alla propria azione.
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Domande per un approfondimento insieme:
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Chi può decidere che cosa è il bene comune?
Senza un fondamento solido, come potrebbe il legislatore resistere alle pressioni di gruppi di
interesse?
E’ più avanzata, realizza maggiormente il bene pubblico e/o individuale una società sempre più
provvista di beni materiali o una società che ha meno beni materiali, ma che fa emergere e
affermi altri valori non monetizzabili, non misurabili?
Come seguire la legge naturale?
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