num 1

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etica in modelli storici TU 2009
Socrate - Platone
incontro 1
ETICA
La proposta: ETICA: modelli storici
Alcune premesse generali di motivazione per la scelta del tema e della sua impostazione
1. l’urgenza presente del tema (e il suo ricorrere in discussioni e incontri…) quasi a chieder conto
alla produzione culturale dell’occidente della sua utilità sociale e umana oggi; un chieder conto che
non rappresenti una ripresa forzata e di maniera di quella tradizione dedicata alla riflessione etica
che altrimenti solo a parole verrebbe dichiarata solo così come patrimonio irrinunciabile.
2. ripresa nella sua proposta, l’etica non si rivela una semplice sezione (paragrafo o capitolo) della
filosofia ma suo contesto di senso la sua essenza e la sua causa prima. Osserva P.Hadot (Esercizi
spirituali e filosofia antica, ed. Einaudi, Torino 1988, pp- I X—X ): «In queste indagini ho
constatato come molte difficoltà che incontriamo quando cerchiamo di comprendere le opere
filosofiche degli antichi spesso derivino dal fatto che, interpretandole, commettiamo un duplice
anacronismo: crediamo che, come molte opere moderne, siano destinate a comunicare informazioni
intorno a un contenuto concettuale dato, e che noi ne possiamo anche trarre direttamente chiare
informazioni sul pensiero e sulla psicologia del loro autore. Ma, di fatto, sono assai spesso esercizi
spirituali che l’autore pratica egli stesso, e fa praticare al suo lettore. Sono destinate a formare le
anime. Hanno un valore psicagogico. Allora ogni asserzione deve essere intesa nella prospettiva
dell’effetto che si propone di produrre, e non come una proposizione che esprima adeguatamente il
pensiero e i sentimenti di un individuo. Così le mie conclusioni metodologiche sono venute a
convergere con le mie convinzioni filosofiche».
3. la varietà del lascito storico sul settore Etica non costituisce un ostacolo, ma si presenta come
patrimonio e consegna irrinunciabile proprio per la diversità delle teorie generali, dei fondamenti
indicati come ultimi, dei metodi di costruzione e orientamento, degli stili di vita delineati, delle
tecniche di giudizio adottate, delle sentenze o massime promulgate … E non si tratta solo di
proposte antiche, ma di modelli presenti e operanti nel linguaggio e nei sistemi comuni di
orientamento; ora non si trovano più nella forma in cui sono stati delineati dagli autori e dai periodi
storici, ma sono indistricabilmente intrecciati tra di loro nella ripresa e nell’uso che la tradizione
culturale ne ha fatto; per cogliere la portata delle questioni etiche e la funzione delle diverse
impostazioni è opportuno prendere consapevolezza di quelle tradizioni distinte in modelli, portarli
alla memoria e solo così possono essere portati a sostegno della scelta etica libera personale di
ciascuno.
4. la radice della insopprimibile (e fortunata) varietà: la complessità dell’argomento ci mette nelle
condizione di non poterlo “vedere da tutti i lati” (come, più semplicemente, accade al vedere fisico
di fronte ad ogni singolo e quotidiano oggetto – vedi Husserl). Vale l’avvertimento di Platone (già
noto): «Perché su tali questioni a me pare, o Socrate, come forse anche a te, che avere in questa
nostra vita una idea sicura, sia o impossibile o molto difficile; ma d’altra parte non tentare ogni
modo per mettere alla prova quello che se ne dice, e cessare di insistervi prima di aver esaurita ogni
indagine da ogni punto di vista, questo, o Socrate, non mi par degno di uno spirito saldo e sano.
Perché insomma, trattandosi di tali argomenti, non c’è che una cosa sola da fare di queste tre: o
apprendere da altri dove sia la soluzione; o trovarla da sé; oppure, se questo non è possibile,
accogliere quello dei ragionamenti umani che sia se non altro il migliore e il meno confutabile, e,
lasciandosi trarre su codesto come sopra una zattera, attraversare così, a proprio rischio, il mare
della vita: salvo che uno non sia in grado di fare il tragitto più sicuramente e meno pericolosamente
su più solida barca, affidandosi a una divina rivelazione.» Platone, Fedone 85 cd.
5. il pregio del pluralismo: diventa il naturale contesto in cui possono formarsi: apertura critica,
disponibilità culturale, serenità di sguardi e di giudizio, possibilità di confronto, percorsi di
riflessione e di puntualizzazione.
Sergio Gabbiadini
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Socrate - Platone
incontro 1
Alcune premesse di accordo su termini generali.
1. etica e/o morale, il ventaglio ampio delle posizioni: termini diversi per etimologia (greca: ethos,
latina, mos), sono in alcuni contesti (i più diffusi, così come anche nel parlato comune) considerati
identici nel significato primo fondamentale, in altri contesti teorici e storici vengono rigorosamente
distinti e la diversità tra di loro viene esplicitamente proclamata e giustificata e portata fino
all’opposizione (dialettica).
1.1 come sinonimi: varia la sola etimologia; identico il significato che rimanda allo studio e
presentazione di due componenti: il mondo dei comportamenti come oggetto, il mondo delle regole
e dei valori come principi; dal loro diverso incontro dipende l’ambivalenza dell’etica riferita al
prevalere dell’impianto e del fine descrittivo o prescrittivo.
1.2. come distinti: per antitesi o per inclusione
1.2.1. in antitesi (emblematica è l’antitesi tra i due termini nella filosofia di Hegel):
1.2.1.1. l’etica studia il mondo dei costumi (delle azioni, delle abitudini, degli stili di vita) avvertiti
come storicamente variabili (per tempo e spazio), spesso tra loro in contrasto e non
universalizzabili, ogni sistema tuttavia possiede una intrinseca normatività i cui scopi formali
possono essere indicati come le coordinate razionali e strutturali dell’etica e della sua finalità.
1.2.1.2. la morale studia le condizioni universali (formali e valoriali) dell’agire umano; ne indica le
condizioni a priori, naturali, ne indica la sede primaria nelle facoltà dell’uomo (ragione [Kant],
sentimento [Hume]), ne presenta le forme universali e i principi dell’azione come imperativi e
doveri individuali, naturali, universali.
1.2.2. in inclusione ma con reciprocità:
1.2.2.1. l’etica, come studio di costumi e culture, comprende anche la morale in quanto prodotto
culturale e storico di un’epoca: individua i principi e le regole indicate come coordinate che
presiedono le scelte delle azioni le rendono morali;
1.2.2.2. la morale, come analisi della natura umana dal punto di vista dell’agire, secondo
un’impostazione a priori o trascendentale (e nell’obiettivo di una morale autonoma), comprende
l’etica, il mondo concreto dei costumi, ne indica le condizioni di moralità basandosi su principi
universali necessari.
2. la situazione più diffusa che considera i termini morale ed etica come sinonimi può giustificare la
propria posizione con riferimento al contesto filosofico in cui etica – morale si collocano: fanno
parte della filosofia pratica, riguardano l’agire dell’uomo, ne descrivono le caratteristiche,
individuano costanti, definiscono norme, esplicitano i fondamenti dell’agire secondo regole
(principi, diritti e doveri) nel contesto del presupposto della libertà (individuale o sociale)
3. aspetti comuni e ricorrenti compaiono nella definizione delle diverse teorie etiche o morali; si
tratta di costanti tematiche come: i fondamenti dell’etica, la natura del giudizio morale, il vincolo
delle leggi, la definizione e la sede del bene e del male, la funzione del sentimento; costanti che
hanno l’effetto di mostrare la differenza tra le posizioni, ma anche di attuare una comparazione e
spingono a prendere posizione e compiere scelte etiche.
4. tutte le teorie etiche possono collocarsi in una prospettiva unitaria di indagine stabilita dalla
indicazione della radice a cui, esplicitamente o inconsapevolmente, fanno riferimento; radice sulla
quale occorre prima o poi incentrare la riflessione, la ricerca, il dibattito e la puntualizzazione. Si
tratta di una radice doppia, ma una duplicazione internamente correlata: la definizione teorica
dell’etica è strettamente dipendente dalla relazione intrattenuta e dalla considerazione in cui viene
collocato il corpo e in cui viene collocata la morte (l’etica sembra iscriversi dentro il binomio morte
/ immortalità) all’interno della visione dell’uomo persona e della società. Il confronto più diffuso
che affianca le diverse teorie etiche partendo dal loro catalogo di principi, norme e virtù è un’analisi
Sergio Gabbiadini
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di secondo momento, rischia di confrontare gli effetti e non coglie la radice reale del pensare etico e
della diversità tra i modelli fondato sulla concezione del corpo e della morte.
5. uno scopo comune caratterizza i diversi modelli di etica: sorta per cogliere la natura e salvare
l’efficacia dell’agire umano, l’etica si batte per impedire che l’azione non sia nient’altro che un
adattamento. L’adattamento è una componente dell’agire morale, ma enfatizzato come sua essenza
ne determina la morte. Il massimo dell’attivismo e del coinvolgimento può coincidere con la morte
dell’etica se trasforma l’azione in acritico adattamento; l’esterno prevale sull’interno e ne dispone
(si pensi ai regimi totalitari o a modelli di vita totalmente omologati per consumo o per
appartenenze fondamentalistiche di fede o per enfatizzazioni di identità tanto più fittizie quanto più
sbandierate e rigide). È un dato quotidiano. Come la percentuale più alta dei nostri discorsi è
riconducibile all’adozione di formule comuni previste dai cerimoniali quotidiani della convivenza e
non consiste in veri discorsi intenzionalmente formulati, così la percentuale più alta dei nostri
comportamenti è costituita da riti previsti e risultato di forme di adattamento ormai per ognuno
spontanee e immediate. Spesso solo una alterazione anomala e imprevista di processi e funzioni
normali è in grado di mettere a tema l’ampia gamma dei comportamenti umani e la loro natura
(camminiamo senza dover decidere ad ogni passo di spostare la gamba … solo quando una
alterazione imprevista determina il blocco della funzione l’attenzione mette a tema i movimenti
implicati nel camminare [è quanto compie la psicanalisi che, nella esposizione di Freud, non a caso
parte dall’analisi degli atti mancati])
6. un dilemma, un binomio, un’ambivalenza metodologica. L’etica è una scienza descrittiva o una
scienza prescrittiva? Il tema va affrontato attraverso un ragionamento per assurdo (o quasi).
Un’etica descrittiva analizza come gli attori si comportano nei fatti ma non può pretendere di
imporre regole o fondamenti. Un’etica prescrittiva indica come gli attori si devono comportare e
vanta una fondazione autonoma e assoluta ma prescinde dalla concretezza storica e dalla
contingenza reale contesti indispensabile per decidere circa la propria azione. Bisogna trovare un
incontro. Sarebbe mancanza di “saggezza” (phrònesis e virtù connesse) limitarsi alla sola
componente prescrittiva (spinti da esigenze di fondazione e di certezza) ignorando il ruolo di
un’etica descrittiva nello studio della natura umana. Una tesi iniziale, a indicare la relazione,
potrebbe essere la seguente: l’etica ricava la propria valenza prescrittiva dallo studio e dalla
descrizione dei comportamenti in cui si esprime la natura degli uomini e dall’ampio consenso che
matura intorno a prassi che riconoscono e appoggiano la natura dell’uomo. Una opposizione tra i
due metodi equivarrebbe, per analogia, al progetto di scrivere una grammatica prescrittiva del
linguaggio ignorando l’uso che gli uomini ne fanno. (Una riflessione più analitica sul problema
trova spazio nella presentazione dei diversi modelli storici dell’etica)
Ipotesi di bilancio e laboratorio (discussione attraverso confronto) finale
Prendere come punto di riferimento per le relazioni tra i modelli esaminati alcuni elementi:
1. ricorrenti
2. fondanti
Potrebbero essere
1. le basi e il contesto logico metafisico: principi e dualismi
2. la relazione con il corpo e il tema del piacere
3. la relazione con la morte e con la sua fenomenologia sociologica
4. il tema del limite e della determinatezza nel campo filosofico della logica e dell’etica
5. il rapporto tra norma (razionalità) e libertà
6. la concezione del divino e della relazione che intrattiene con la realtà
7. la natura descrittiva o prescrittiva dell’etica
8. scoprire le presenze attuali dei modelli storici richiamati
9. ……
Sergio Gabbiadini
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incontro 1
Socrate – Platone
Etica
dal dialogo al bene ideale
0.1. Socrate – Platone uniti per la difficile distinguibilità storica. Socrate non scrive, parla nelle
opere che altri scrivono a sua testimonianza. La principale fonte socratica è Platone, fonte che è ad
un tempo la più attendibile per la capacità mostrata da Platone di cogliere i nuclei portanti e
produttivi della proposta di Socrate, la meno attendibile proprio per questa stessa sua capacità che lo
porta a interpretare, leggere e sistemare secondo completezza teorica il fare filosofia di Socrate, e
perché attribuisce a Socrate l’intera propria filosofia nonostante il suo esplicito divenire e la diversa
posizione presa sugli stessi temi.
0.2. Socrate – Platone distinti attraverso un percorso di ricostruzione storica della probabile
posizione socratica (più condivisa che attendibile, grazie e oltre la testimonianza platonica), e della
diversità delle impostazioni e delle posizioni che la riflessione platonica assume in campo etico.
0.3. Contesto generale: secondo un luogo comune manualistico (con la semplificazione che lo
caratterizza), con i Sofisti e Socrate la filosofia passa dal campo privilegiato della physis (ricerca di
un arché cosmico in vista di cosmologie; vedi le opere attribuite a pressoché tutti i presocratici:
Sulla natura) al campo della polis (ricerca dell’origine della convivenza sociale, riflessione sul tema
della legge giusta, sul peso delle convenzioni e consuetudini sociali, religiose …)
Tre passaggi fondamentali
1. Socrate, il bene è dialogo, di confronto e ricerca (dialéghesthai, exetàzein)
2. Platone: rifugio nelle idee e nello stato ideale, luogo di giustizia, dominato dal concetto di bene.
3. Platone: la dialettica dei generi , il non-essere tra i generi sommi e i problemi etici
1. Socrate, il bene è dialogo, di confronto e ricerca (dialéghesthai, exetàzein)
1.1. condizioni perché vi sia dialogo
1.1.1. la consapevolezza della propria ignoranza (“so di non sapere”) come disponibilità al
confronto; apertura ottenuta attraverso uno smantellamento delle convinzioni e abitudini di pensiero
consolidate ma non assunte consapevolmente in proprio; a tale scopo il dubbio e l’ironia “socratica”
1.1.2. la brachilogia contro la macrologhìa: procedere per brevi domande e risposte e non per lunghi
discorsi; la prima strada è fare filosofia, la seconda è fare retorica; la prima è volontà di confronto e
di ricerca, la seconda è volontà di persuasione e di dominio. La brachilogia è contro lo scritto,
quella è disponibilità alla confutazione e al cambiamento, questo resta immutato, silenzioso,
indifeso… La brachilogia è la tecnica dell’arte maieutica e il ruolo maieutico della filosofia è un
ruolo etico pedagogico.
1.1.2.1. Vi è uno stretto legame, in termini di coerenza e efficacia del metodo, tra la tecnica
dialogica condotta per brevi domande e risposte e la natura della memoria dell’uomo e dei suoi
processi di apprendimento. Se conoscere non è ricevere dall’esterno passivamente dottrine e
racconti, ma è reagire e partecipare risvegliando la mente al mondo delle proprie capacità, allora è
necessario che venga adottata un’arte adatta a provocare il risveglio. Non lunghi discorsi che
provocano torpore, assopimento, dipendenza e dolce abbandono e, sempre, dimenticanza di sé, ma
brevi domande e risposte che possano richiamare alla memoria e riportare alla mente ciò che essa
possiede senza esserne consapevole. Se conoscere è ricordare, quindi, è necessaria l’arte del porre
domande e del chiedere, esigere risposte.
Sergio Gabbiadini
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1.1.3. l’accordo raggiunto è accettato come vero. La concordia è considerata (nel campo della
filosofia pratica) condizione di verità. È la verità di cui l’uomo dispone (a meno di credere di poter
contare su altre fonti di verità, esterne, accettate come fonti, e certe).
I tratti dell’accordo - verità: 1. è la verità che nasce dalla ricerca (dialéghesthai come exetàzein) e
dal confronto, 2. resta provvisoria per la sua fonte (nasce dall’apporto dei dialoganti) e per la sua
apertura (resta nella sede del dialogo) 3. è contesto di etica: sommo bene per l’uomo e per la società
è sia la verità raggiunta, sia lo stare nelle condizioni di poterla sempre maieuticamente raggiungere.
Nell’etica come impegno dialogico per la verità vengono a coincidere virtù (privata e pubblica),
giustizia, sommo bene, felicità (eu-daimonìa) 4. nel dialogo e nell’accordo che genera si attua la
coincidenza di bene e sapere: non tanto (non solo) nel senso che il sapere sia il vero bene (in senso
contenutistico; ricorda il monito di Eraclito: sapere molte cose non aiuta ad essere intelligenti), né
nel senso che l’ignoranza è fonte di male (o che l’uomo compie il male perché ignora che sia male),
ma nel senso che il bene è lo stare nel dialogo come confronto e ricerca, questo è l’unico contesto
per il sapere e per il sapere come virtù (non vanto o ostentazione retorica di competenze).
1.1.4. il contrasto tra Socrate e Sofisti è un contrasto sul tema della verità come scopo del dialogo e,
conseguentemente è un contrasto di stile etico. Sul tema un passaggio dal Convito.
Al termine dell’elogio di Amore pronunciato da Agatone in perfetto (ostentato e applaudito) stile
retorico (sul modello Gorgia) interviene, ironicamente e polemicamente Socrate:
«Perché nella mia semplicità credevo che si dovesse dire la verità su ogni oggetto da lodare, e che
questa ne fosse la base; per poi, scelte le più belle fra queste stesse verità, disporle nel modo più
elegante. Ed ecco che andavo tutto superbo di poter parlare bene, sentendo di conoscere il vero
modo di lodare ogni cosa. D’un tratto mi accorgo invece che non era questo il modo di fare un
bell’encomio, che ma esso consiste nell’attribuire all’oggetto in questione le cose più grandi e più
belle, sia che le possieda sia che non le possieda; e se poi è tutto falso, poco male. Dunque, a
quanto pare, ci si era intesi che ognuno di noi facesse vista di celebrare Amore, e non che lo
celebrasse per davvero. […] Ma io non conoscevo proprio, me ne accorgo, questa specie di elogio,
e così tutto ignaro acconsentii con voi che anch’io lo facessi a mia volta. La «lingua» dunque
promise, ma la «mente no». E così, tanti saluti all’elogio! Perché l’elogio in questo modo non lo
faccio: non ne sarei capace. Proprio no; ma la verità, se volete, sono pronto a dirla secondo il mio
modo e non in confronto ai vostri discorsi, perché non voglio essere ridicolo. […] permettimi di
fare qualche piccola domanda…» (Simposio198d-199d)
1.2. il contesto del dialogo: la società organizzata, la polis e le sue leggi
1.2.1. il ruolo delle leggi: è il presupposto che permette di affrontare con correttezza il tema etico
della giustizia come fedeltà alle leggi. Nel dialogo “Critone” le leggi personificate si presentano
come coloro che permettono al cittadino di essere generato, allevato, educato.
«Di’, dunque, che cosa hai da reclamare tu contro noi e contro la città che stai tentando di darci la
morte? E anzi tutto, non fummo noi che ti demmo la vita, e per mezzo nostro tuo padre prese in
moglie tua madre e ti generò? Parla dunque: credi forse non siano buone leggi quelle di noi che
regolano i matrimoni, e hai da rimproverare loro qualche cosa?», — «Non ho nulla da
rimproverare», risponderei io. «E allora, a quelle di noi che regolano l’allevamento e la
educazione dei figli, onde fosti anche tu allevato e educato hai rimproveri da fare? che forse non
facevano bene, quelle di noi che sono ordinate a questo fine prescrivendo a tuo padre che ti
educasse nella musica e nella ginnastica?» «Bene», direi io. «E sia. Ma ora che sei nato, che sei
stato allevato, che sei stato educato, potresti tu dire che non sei figliolo nostro e un nostro servo e
tu e tutti quanti i progenitori tuoi?»
1.2.2. il tema della fedeltà alle leggi per definire un comportamento giusto o ingiusto.
La natura “estrema” del quesito: occorre obbedire alle leggi anche quando queste ti condannano a
morte o ti impongono il delitto massimo? L’ingiustizia nei confronti delle leggi si ha quando 1. non
se ne accetta la sentenza perché sfavorevole all’utile privato; 2. trasgredendole non si rispetta il
patto presente nelle leggi stesse, il patto di convivenza civile; 3. non si rispetta la natura dialogica
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del patto che le costituisce se non si concorre a modificarle. L’ingiustizia non consiste solo nel non
rispettare le leggi, ma anche e soprattutto nel non concorrere a formarle e poi a modificarle quando
si considerano ingiuste, adempiendo all’etica del dialogo. Ne deriva, di conseguenza, che
l’obbedienza alle leggi se talvolta viene usata come mezzo di giustificazione giuridica per
scagionare da gravi crimini (vedi nei sistemi totalitari e nei crimini contro l’umanità ordinati da chi
al momento si è insediato nelle strutture di gestione dello stato) non può diventare il contesto di una
giustificazione morale.
«…bisogna fare ciò che la patria e la città comandano, o almeno persuaderla da che parte è il
giusto; ma far violenza non è cosa santa, né contro la madre né contro il padre, e molto meno
ancora contro la patria…Ma chi di voi rimane qui, e vede in che modo noi amministriamo la
giustizia e come ci comportiamo nel resto della pubblica amministrazione, allora diciamo che
costui si è di fatto obbligato rispetto a noi a fare ciò che noi gli ordiniamo; e se egli non obbedisce,
diciamo che commette ingiustizia contro noi in tre modi: primo, perché non obbedisce a noi che lo
abbiamo generato; secondo, perché non obbedisce a noi che lo abbiamo allevato; terzo, perché
essendosi egli obbligato a obbedirci, né ci obbedisce né si adopra, caso che facciamo alcuna cosa
non bene, di persuaderci altrimenti, nonostante che noi, quello che gli diciamo di fare, gli si
proponga benevolmente, e non già duramente gli s’imponga; che anzi, mentre noi gli lasciamo
libertà di scegliere delle due cose l’una, o di persuaderci o di fare quello che gli diciamo, egli non
fa né l’una cosa né l’altra.»
1.3. L’intoppo “logico” del dialogo e il suo rilancio in un nuovo contesto.
La filosofia etica del dialogo, impersonificata da Socrate, va incontro a un doppio fallimento, uno
esterno, uno interno, coraggiosamente ricostruiti e rappresentati da Platone nei suoi dialoghi.
1.3.1. Un fallimento esterno: la condanna a morte di Socrate, da parte della polis, delle sue leggi e
della sua giustizia, rappresenta il fallimento del dialogo, almeno in contesto politico: un giusto
condannato a morte dalle leggi della polis e, drammaticamente, una morte che rappresenta un atto
ultimo di fedeltà alle leggi.
1.3.2. Un fallimento interno: Platone, servendosi dell’abilità dei Sofisti, ravvisa e mette in mostra
un grave e compromettente difetto logico presente nel metodo etico del dialogo praticato da
Socrate.
La rappresentazione (drammatizzata) del doppio fallimento è contemporaneamente l’avvio di un
nuovo modello filosofico, etico e politico.
1.3.2.1. L’argomento eristico presentato nel dialogo “Menone”
«MENONE. Ma in quale modo, Socrate, andrai cercando quello che assolutamente ignori? E quale
delle cose che ignori farai oggetto di ricerca? E se per un caso l’imbrocchi, come farai ad
accorgerti che è proprio quella che cercavi, se non la conoscevi? SOCRATE Capisco quel che vuoi
dire, Menone! Vedi un po’ che bell’argomento eristico proponi! L’argomento secondo cui non è
possibile all’uomo cercare né quello che sa nè quello che non sa: quel che sa perché conoscendolo
non ha bisogno di cercarlo; quel che non sa perché neppure sa cosa cerca. MEN. E non ti sembra,
Socrate, che sia questo un ragionamento assai ben condotto? SOCR. A me no! MEN. Dimmi
perché! SOCR. Certo!»
L’argomento eristico evidenzia l’impraticabilità del dialogo impostato secondo la tecnica espressa
finora da Socrate. Se la base necessaria per stare nel dialogo è la consapevolezza della propria
ignoranza, la ricerca non decolla per mancanza di scopo e la somma dei “non-sapere” è ancora un
non sapere, destinato a non produrre.
1.3.2.2. Per uscire da questo vicolo cieco bisogna pensare che l’incalzante domanda di Socrate a
Menone sull’idea di virtù, si traduca nella segnalazione di una nuova sede del sapere e del dialogo:
occorre portare alla attenzione filosofica il tema della mente umana come sede naturale delle idee.
Si tratta di un discorso sulle origini, si impone perciò, anche nel testo di Platone, testo filosofico, la
forma mitica, la poesia e il racconto come forma per la presentazione dei principi - postulati.
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« SOCR. Certo! Perché ho sentito dire da uomini e donne assai addottrinati nelle cose divine...
MEN. Cosa dicevano? SOCR. Cose vere, mi sembra, e belle. MEN. Quali? E chi sono coloro che le
dissero? SOCR. Sacerdoti e sacerdotesse, quelli a cui stava a cuore saper rendere ragione del
proprio ministero. E quelle stesse cose dice anche Pindaro e molti altri poeti, i poeti divini, E
questo dicono — ma vedi se ti sembra che dicano il vero —; dicono, dunque, che l’anima umana è
immortale, e che ora essa ha un suo compimento — il che si dice morire —, ora rinasce, ma che
mai essa va distrutta; ecco perché, dicono, bisogna trascorrere la vita il più santamente possibile,
“poiché Persefone, a quelli che hanno già pagato il debito / dei loro antichi peccati, giunto il nono
anno, di nuovo / l’anima loro rimanda su in alto verso il sole; / da tali anime i re illustri rinascono
/ e gli uomini potenti per forza o grandi o per sapienza, / che per tutto il tempo futuro sono, tra i
mortali, chiamati eroi senza macchia”.
L’anima, dunque, poiché immortale e più volte rinata, avendo veduto il mondo di qua e quello
dell’Ade, in una parola tutte quante le cose, non c’è nulla che non abbia appreso. Non v’è, dunque,
da stupirsi se può fare riemergere alla mente ciò che prima conosceva della virtù e di tutto il resto.
Poiché, d’altra parte, la natura tutta è imparentata con se stessa e l’anima ha tutto appreso, nulla
impedisce che l’anima, ricordando (ricordo che gli uomini chiamano apprendimento) una sola
cosa, trovi da sé tutte le altre, quando uno sia coraggioso e infaticabile nella ricerca. Sì, cercare ed
apprendere sono, nel loro complesso, reminiscenza [anamnesi].»
La tecnica socratica del dialogo conserva la propria struttura ma cambia la propria sede operativa.
La professione di ignoranza è invito a ritirarsi dai «soliti modi di ragionare del volgo», dal «cosa
dirà la gente», dal «pensa ai tuoi figli» (citazioni da Critone) per camminare «dove la ragione ci
porta» secondo un percorso convenuto e condiviso («insieme si è convenuto … vediamo insieme…
con la persuasione tra…»). Il “so di non sapere” è dunque ritirarsi dalle opinioni dominanti perché
mai esaminate ed è scoperta della mente come sede di strumenti per definire e comprendere. Il
dialogo è allora terapia e strategia filosofica per risvegliare la mente al “proprio logos” (come
afferma Eraclito, autore di cui Platone resta la principale fonte documentaria). Non è più allora
semplice confronto tra interlocutori che non sanno; il dialogo trova sede nella mente di ciascuno ed
ha lo scopo di portare alla memoria e mettere a disposizione i concetti e le idee, patrimonio
specifico della mente umana, lì depositato come risultato di molte generazioni, strumento e
principio per cogliere la realtà leggendola appunto secondo concetti e rispondendo al “che cos’è”
incalzante di Socrate. Conoscere è ricordare, portare alla memoria, ricostruire e mettere in azione la
memoria interiore. Il dialogo, che porta ciascuno a far affiorare alla mente, in modo assolutamente
personale, il patrimonio di forme mentali di orientamento, è l’arte della conoscenza. Si tratta di un
apprendimento che è sollecitato dall’esperienza sensibile, quale motore per alcuni aspetti esterno,
ma che si attiva in un procedimento interno, nella memoria interiore e non nasce per
indottrinamento o convinzione dall’esterno; è la definizione e lo scopo della filosofia e rende la
filosofia, e in generale la cultura, etica.
2. Platone, rifugio nelle idee e nello stato ideale, luogo di giustizia, dominato dal
concetto di bene.
Le parole centrali dell’etica sorreggono il progetto di società definito da Platone nella Repubblica.
Anche e soprattutto per Platone, come per i Sofisti, Socrate e il pensiero filosofico allora
storicamente dominante, la città (la polis, lo Stato) è il contesto etico unico in cui società e
individuo si compongono nell’armonia del bene. A tale scopo occorre tratteggiare gli aspetti
essenziali di uno stato ideale, costruito cioè a partire dalle idee e non sulla base delle relazioni di
forza esistenti di fatto in una società storicamente definita; bisogna cioè “rifugiarsi nelle idee”
(Platone, Fedone) sia per capire la realtà sia per definire progetti non consegnati al semplice
consenso delle opinioni (manipolabili con facilità da accorti retori) per assistere alla nascita dello
Stato, di uno Stato ideale.
Sergio Gabbiadini
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Socrate - Platone
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2.1. Uno stato, una società, una situazione ideale. Nella Repubblica, opera redatta nella forma di
un dialogo raccontato, Platone presenta il proprio ideale di società e di Stato. Lo costruisce su di
una ricorrente simmetria tra le componenti dell’uomo (l’anima e le sue funzioni) e le componenti
della società (le classi e le loro funzioni).
«Ebbene, in un àmbito maggiore ci sarà forse più giustizia e la si noterà più facilmente. Perciò, se
volete, cerchiamo prima negli stati che cosa essa sia. Esaminiamola poi con questo metodo anche
in ogni individuo e cerchiamo di cogliere nelle caratteristiche del minore la somiglianza con il
maggiore. — Così va bene, mi sembra, rispose. — Ora, ripresi io, se non di fatto, ma a parole
assistessimo al processo di nascita di uno stato non vedremmo nascere pure la giustizia e
l’ingiustizia? — Forse sì, ammise. — E se ciò avviene, non possiamo sperare di scorgere più
agevolmente il nostro obiettivo? — Molto di più, certo. — Ora, secondo voi, dobbiamo tentar di
andare sino in fondo? Non la credo una impresa da poco, e quindi pensateci su! — Ci abbiamo già
pensato, disse Adimanto. Via! Fa come hai detto.»
Lo stato ideale sarà governato da filosofi in quanto competenti nella gestione delle idee o dei
modelli di definizione della realtà. Un piano di studi graduale e completo li porta a plasmare la
propria naturale inclinazione all’arte del governo; la disciplina più alta in questo piano formativo è
la dialettica, l’arte di gestire le idee secondo corrette relazioni e muoversi perciò con competenza
nella realtà naturale e sociale.
Il modello di Stato è dominato da una doppia armonia: la prima è quella tra le abilità della persona e
la classe sociale di appartenenza (ognuno svolgerà quella funzione, e di conseguenza apparterrà alla
classe sociale che la realizza, sulla base della propria natura, educazione e delle opportunità che sa
cogliere – kairòs), la seconda è quella delle classi sociali tra di loro (ognuno adempie al proprio
ruolo, non prevarica e non invade campi a sé non propri e lo stato si compone in ordinata armonia).
È come se l’accordo cui mirava Socrate con la propria arte maieutica dialogica venisse a trasferirsi e
operare nello Stato, nelle relazioni tra individui e città e tra le classi, rendendolo perciò giusto.
Prende forma una triplice accezione di giustizia. Lo Stato è giusto se le funzioni sono essenziali e
non complicate (lo stato giusto è cioè lo stato sobrio perciò sano, e non di lusso, così sarebbe
corrotto e malato), lo stato è giusto se ognuno attende alle funzione cui è adatto (secondo natura /
secondo educazione / secondo "kairòs"), lo stato giusto è l'armonia (omologhìa) delle funzioni che
lo compongono ognuna ferma al ruolo di competenza.
2.2. Un triplice intoppo e la crisi del progetto.
Il coraggio filosofico di Platone consiste nel dar corpo e nel rappresentare, nello stesso dialogo che
vede il sorgere dello Stato ideale e giusto, i passaggi e i momenti che lo portano ad una inevitabile e
quasi inesorabile dissoluzione, e non per aggressione esterna (non bisogna giocare su alibi politici
né dar corpo a nemici al solo scopo di non aderire ai propri compiti e alle proprie responsabilità)
ma per corruzione interna. Sembrano principali tre punti di intoppo.
2.2.1. L’idea di Bene, principio reggente ma indefinibile.
Il progetto di definizione e costruzione dello stato ideale prevede la distinzione tra le parti
(funzioni) dell’anima e le correlative distinzioni delle funzioni dello stato per poter fornire una
definizione delle rispettive virtù, della temperanza (anima concupiscibile e lavoratori), del coraggio
(anima irascibile e custodi) e della sapienza (anima razionale e governanti); solo disponendo di
questi elementi è possibile realizzare l’obiettivo dell’intero dialogo: definire la giustizia nel contesto
ampio e comprensivo dello stato giusto. Si rende necessario poi lo sforzo ultimo e più ampio, quello
di affrontare «la massima disciplina e il suo oggetto…l’idea del bene; è da essa che le cose giuste
traggono la loro utilità e il loro vantaggio». (Repubblica 504e, 505a). Il proposito di affrontare
l’idea del bene allo scopo di fornirne una corretta conoscenza, definito più volte “massimo
argomento”, non giunge a buon fine e viene abbandonato; Socrate racconta la risposta che ha dato,
sul tema, ad Adimanto che ribadiva: «Noi ci sentiremo soddisfatti se tratterai del bene allo stesso
modo con cui hai trattato della giustizia, della temperanza e delle altre virtù.» Socrate racconta. «
Anch’io, risposi, mio caro amico, ne sarò molto soddisfatto, ma temo che non ci riuscirò e che, pur
Sergio Gabbiadini
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Socrate - Platone
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mettendocela tutta, farò una brutta figura e mi esporrò allo scherno. Su, benedetti amici, lasciamo
stare per il momento cosa sia mai il bene in sé: mi sembra una cosa troppo alta perché possiamo
raggiungere ora, con lo slancio presente il concetto che ne ho io. Invece voglio dire, se ne siete
contenti pure voi, quello che sembra la prole del bene, cui molto somiglia. Se però non ne siete
contenti, lasciamolo perdere. – Su, dillo!, fece. Pagherai il tuo debito un’altra volta , spiegandoci
che cosa è il padre.» (506 d,e) Il tema, in realtà non viene più ripreso. L’indispensabile principio di
ogni virtù e fondamento dell’etica e di ogni discorso sul giusto e sull’ingiusto risulta indefinito e
indefinibile, se ne possono mostrare gli effetti ma non appare in sé presentabile; occorre trovare la
ragione etica di un simile abbandono della definizione del concetto primo dell’etica: il bene. Questa
mancata definizione diventa un elemento centrale e fondamentale nel pensiero etico di Platone.
2.2.2. La condanna a morte di un giusto da parte dello Stato.
Il mito della caverna è una storia di schiavitù e di liberazione, ma anche del tragico fallimento del
progetto di liberare la moltitudine dalle ombre e dalle catene delle proprie opinioni e illusioni,
considerate, per assuefazione, abitudine ed attaccamento, l’unica indiscutibile realtà e verità.
Platone invita a prendere in considerazione l’ipotesi di un processo di risveglio e di un cammino di
risalita dalle ombre della caverna alla luce della realtà e dei suoi principi: «Ammetti che capitasse
loro naturalmente un caso come questo: che uno fosse sciolto, costretto improvvisamente ad
alzarsi, a girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce…». A cammino,
dolorosamente, portato a termine, Socrate (Platone) immagina un suo rientro nella caverna, con il
compito di liberare quei prigionieri; di fronte alle riserve e ai dubbi avanzati nei confronti di un
simile ritorno al mondo delle ombre («dovremmo veramente fare ingiustizia a queste nature e farle
vivere peggio, quando possono vivere meglio») Socrate ricorda il principio sommo di giustizia
politica, centro ispiratore dell’intero progetto dello stato ideale: «Ti sei dimenticato di nuovo, mio
caro, replicai, che alla legge non interessa che una sola classe dello stato si trovi in una condizione
particolarmente favorevole. Essa cerca di realizzare questo risultato nello stato tutto.» L’esito
complessivo dell’intera missione di ritorno, di riscatto e di liberazione è drammaticamente tragico:
«E se dovesse discernere nuovamente quelle ombre e contendere con coloro che sono rimasti
sempre prigionieri, nel periodo in cui ha la vista offuscata, prima che gli occhi tornino allo stato
normale? e se questo periodo in cui rifà l’abitudine fosse piuttosto lungo? Non sarebbe egli allora
oggetto di riso? e non si direbbe di lui che dalla sua ascesa torna con gli occhi rovinati e che non
vale neppure la pena di tentare di andar sù? E chi prendesse a sciogliere e a condurre sù quei
prigionieri, forse che non l’ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo?» Platone
fa parlare Socrate e delinea sullo sfondo la condanna a morte di un giusto, proprio Socrate, da parte
dello stato, che dovrebbe essere contesto unico di giustizia.
2.2.3. La crisi della scienza formativa somma: la dialettica
Nel quadro delle discipline cui Platone affida il compito di formare i filosofi al compito di governo
dello stato ideale compare al vertice la dialettica: scienza delle idee, cioè di quei principi sommi che
permettono la conoscenza secondo essenza della realtà tutta e la gestione razionale dello stato.
«…per secondo segmento dell’intellegibile intendo quello cui il discorso attinge con il potere
dialettico, considerando le ipotesi non principi, ma ipotesi nel senso reale della parola, punti di
appoggio e di slancio per arrivare a ciò che è immune da ipotesi, al principio del tutto; e, dopo
averlo raggiunto, ripiegare, attenendosi rigorosamente alle conseguenze che ne derivano, e così
discendere alla conclusione senza assolutamente ricorrere a niente di sensibile, ma alle sole idee,
mediante le idee passando alle idee; e nelle idee termina tutto il processo. —» (Repubblica 511 b,c)
L’attività filosofica di Platone ritorna, dopo la Repubblica, sul tema della dialettica indicata come
scienza somma ma, da questo punto di vista, tutti i dialoghi successivi mettono in evidenza le
insolubili difficoltà poste dalla disciplina vertice e indicano le nuove strade percorse, come se la
perplessità qui espressa in rapida battuta («Comprendo, rispose, ma non abbastanza.») fosse
preludio alla lunga discussione sui problemi posti dalla scienza dialettica attuati nel contesto
dell’Accademia e raccontati nei dialoghi platonici detti “dialettici”.
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3. Platone: la dialettica dei generi, il non-essere e i problemi etici
Nell’Accademia, scuola di formazione dei filosofi, anche al ruolo di futuri dirigenti di Stato, la
dialettica è al centro dei programmi di studio, ma al suo approfondimento essa si rivela fonte di
insospettati, gravi e insolubili problemi logici. I dialoghi definiti “dialettici”, e ciò che resta delle
opere giovanili di Aristotele, discepolo dell’Accademia (una testimonianza delle “dottrine non
scritte”), riferiscono problemi e discussioni e soprattutto espongono la coraggiosa scelta platonica di
abbandonare la forma di dialettica fin qui seguita, fondata sulle idee come principi, per cercarne le
radici in operazioni logiche formali più remote, a cui le stesse idee, presentate finora come principi
nella precedente dialettica, devono fare riferimento per poter essere gestite. Si tratta di teorie
consegnate alla oralità degli insegnamenti dell’Accademia e alla loro segretezza, dottrine riservate,
“esoteriche”. Di loro tuttavia compare traccia nelle citazioni che lo stesso Aristotele fornisce nelle
sue opere maggiori, soprattutto nel libro A della Metafisica, in ciò che resta delle opere giovanili di
Aristotele (allo stato di frammenti), ma anche, in forma dichiarata divulgativa (“essoterica”), nei
dialoghi di Platone considerati finali e definiti “dialettici”. La nuova proposta, risultato di ciò che
appare un serrato confronto interno all’Accademia, accompagnato anche da dissensi e dissapori,
prende forma in tre nuove tecniche generali di gestione delle idee: l’arte della distinzione e della
sintesi, la dottrina degli elementi uno-indeterminato, la presentazione dei cinque generi sommi a cui
le idee risalgono per essere definite (moto, quiete, identico, essere, non-essere).
3.1. Una strana domanda rivolta da Parmenide al giovane Socrate.
3.1.1. La situazione tragica. Nel mondo antico, nella tragedia classica, “il naufragio dell’uomo di
fronte alla sorte, la sua infelicità come la sua felicità non tradiscono piccolezza … il tragico
interviene a coprire, con la sua eroica obiezione, ogni possibilità di squallore” (Agamben Giorgio,
Idea della prosa, il capitolo Idea della vergogna, Quodlibet, Macerata 2002). La condanna di
Socrate e la sua morte, nei dialoghi di Platone, è circondata da grandezza e ammirazione per la sua
pacatezza dialogica, per la sua dedizione allo stato ideale, per la serenità di fronte alla morte e per la
dignità morale di fronte ai suoi meschini giudici. Il tragico, in generale, toglie ogni possibilità di
squallore, di casualità, di insensatezza e di inutilità alla sventura; la circonda di gloria, grandezza e
quasi gioia di contro alla mediocrità e pochezza diffuse.
3.1.2. La “strana domanda” e l’ipotesi di uno squallore senza possibilità di tragedia
Nel dialogo Parmenide, il giovane Socrate espone a Parmenide la teoria delle idee. E Parmenide
pone uno strano quesito; chiese se esistano idee “del capello, della sporcizia, del fango e di ogni
altra cosa di natura vile e spregevole al massimo grado”. Socrate confessa di sentirsi preso come
da un capogiro: “mi tormentò già una volta il pensiero che ciò fosse estensibile universalmente. Ma
se appena mi adagio in quest’opinione, subito ne rifuggo per il timore di perdermi, precipitando in
un abisso di stoltezza...” Ma è solo un istante: “è perché sei ancora giovane” replica Parmenide, “e
la filosofia non ti ha ancora preso come prevedo che ti prenderà in futuro, quando non avrai più
ribrezzo per nessuna di queste cose”.
Il senso della strana domanda può così venire ricostruito. Se di ogni realtà visibile vi è un modello
ideale (universale e come essenza) che permette di conoscere e definire il reale individuale, e se
quell’ideale, in quanto principio, costituisce una realtà in sé, assoluta (kath’autò), allora esiste anche
lo “squallore in sé”, la “sporcizia in sé” ecc. Squallore, sporcizia, sconfitta e “ogni altra cosa di
natura vile e spregevole al massimo grado” esistono “in sé”, fanno parte del mondo ideale, esistono
nella loro gratuità e quindi come assolutamente ingiustificati e ingiustificabili (senza alcuna
ragione, ma fonte dei possibili ragionamenti), esistono come principi; a loro anzi, come ad ogni
altra idea, guarda il Demiurgo (in paurosa implicazione teologica) quando plasma la materia e il
mondo secondo forme. Qui la lordura e ogni altra cosa vile si presentano senza alcuna redenzione
tragica possibile; senza aura di grandezza che le possa circonfulgere e rendere eroiche, senza la
grandezza di un disegno, sono assolutamente insensate e gratuite senza il pudore creato dalla
vergogna. La mente del giovane Socrate soffre di capogiri e vertigine di fronte a quella che verrà
chiamata “la banalità del male”, la sua tranquilla e perciò inquietante presenza. «L’abisso su cui
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vacilla la nostra ragione – osserva ancora Agamben - non è quello della necessità, ma quello
dell’accidentalità e della banalità del male.» Una normalizzazione di fronte alla quale non si può
disporre del riparo della vergogna. E si tratta di un primo abisso.
3.2. La radice metafisica del quesito di Parmenide e la morte (filosofica) di Parmenide.
La domanda di Parmenide fa riferimento ad una nuova base metafisica e logica della scienza
dialettica. Tra le proposte di una nuova dialettica, di tipo sempre più logico formale, viene
presentata quella dei “cinque generi sommi”: moto, quiete, identico, essere, non-essere. Tra i generi
sommi compare il non-essere e compare come una “contraddizione logica”, cioè, paradossalmente
come una contraddizione necessaria, come una negazione della logica necessaria per la sussistenza
della logica stessa: «Abbiamo dimostrato che il non-essere è». L’idea è introdotta con ripetuta
titubanza, nel dialogo Sofista: «Forestiero. E non s’ha a dire con fiducia che il non essere ha
sicuramente una sua propria natura; e, come il grande era grande, il bello bello, e il non grande
non grande e il non bello non bello: così anche allo stesso titolo il non essere era ed è non essere,
annoverabile, come una forma tra le molte che sono? O rispetto a ciò, Teeteto, abbiamo tuttora
qualche diffidenza? Teeteto. Oh! nessuna. FOR. Ma sai dunque che abbiamo disobbedito a
Parmenide al di là del suo divieto? TEE. E perché? FOR. Perché, proceduti con la nostra indagine
anche oltre, noi gli abbiamo dimostrato più di quello che egli ci aveva interdetto di esaminare.
TEE. E come? FOR. Difatti egli, se non erro, dice: «Perché questo non può venire mai imposto:
che le cose che non sono siano: ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero». TEE. Così
difatti egli dice. FOR. E noi invece non solo abbiamo dimostrato che il non essere è, ma del non
essere abbiamo chiarito anche la forma che lo costituisce, perché dopo di aver dimostrato che la
natura del diverso è, e si trova sminuzzata per tutti quanti gli esseri nei rapporti reciproci; di
ciascuna particella di essa, che si contrapponga all’essere abbiamo avuto l’audacia di dire che
questa per l’appunto è realmente il non essere.» Sofista 258 b-d
La logica deve ammettere il non-essere tra i generi sommi e affermare, con coraggio e impudenza,
ma per necessità e coerenza (quasi contraddittoria), che il non-essere è. Una qualsiasi idea, infatti,
possiede una propria e specifica identità ed è se stessa in quanto si distingue e non è un’altra idea;
così è per ogni realtà che si voglia determinare, definire, delineare, individuare. È necessario
dunque disporre non solo del genere sommo dell’essere, per poterne affermare l’esistenza, ma, per
lo stesso motivo, del genere del non-essere, della diversità, dell’alterità. Il trauma deriva
dall’affermazione che il non-essere si presenta come un genere e non come una semplice
caratteristica di qualcosa; è un principio originario e non dipendente da un’altra realtà di cui è
qualità; anzi è la condizione di esistenza di ogni realtà determinata, sia essa ideale o visibile.
L’alterità non è un tratto particolare dell’essere, né il suo assoluto contrario, ma una sua condizione
di esistenza e di identità; l’essere deve fare i conti con il non-essere, può definirsi solo in forza del
non-essere. (Qui la base metafisica della relazione e del dialogo).
È questo il secondo abisso. Tra i due vi è una relazione logica: l’ammissione del non essere tra i
generi sommi, con la gratuità di un principio da cui dipende ogni possibile affermazione si
accompagna all’accettazione di parole che indicano negatività o accidentalità (sporcizia, capello)
come aventi un corrispettivo in idee così da permettere di esprimere enunciati sulla realtà concreta
quotidiana.
3.3. Il riscontro etico della mancata definizione del bene, dell’ammissione del non-essere tra i
generi sommi e di idee per ciò che risulta “di natura vile e spregevole al massimo grado”. Sia
l’affermazione della esistenza del non-essere che l’ammissione di idee corrispondenti a realtà di
natura vile e spregevole pongono di fronte ad una radicale antinomia: pur considerati negativi
generi sommi e idee risultano principi, quindi postulati indispensabili per ogni altra affermazione.
Questa impostazione logica, metafisica e gnoseologica, trasposta in campo etico si traduce in uno
scenario che porta a chiarezza l’impianto complessivo e l’idea reggente dell’etica di Socrate e di
Platone. Da una parte il genere dell’essere e del non-essere come generi sommi e quindi originari,
Sergio Gabbiadini
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Socrate - Platone
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corrispondono, in sede etica, al concetto del bene e del male come generi assoluti, paritetici e
gratuiti (quasi in situazione di dualismo manicheo). Dall’altra, così come essere e non essere sono
in relazione dialettica e devono venire in relazione per garantire un’identità specifica (un
determinato), anche l’idea di un bene assoluto e un male assoluto risulta, nel campo della realtà
storica contingente, insostenibile; bene e male entrano in relazione dialettica di reciproca
definizione e solo così entrano nel campo di ciò che è determinato, delimitato, definito, non assoluto
e solo così acquistano concretezza. Si tratta però di una relazione dialettica non di tipo logico ma di
carattere etico, che si realizza cioè nelle forme della filosofia pratica. L’etica deve trovare la propria
strada sapendo che si muove nella attrazione e nella tentazione di un bene assoluto e di un male
assoluto, aspirazioni e generi sommi che reggono l’agire ma che non possono trovare esistenza
senza entrare in relazione con il proprio contrario, e si negano entrambi come assoluti. Non è un
caso che, storicamente (e con profetica e mirabile lungimiranza da parte di Platone ) l’ipotesi di
poter dare vita concreta, nello stato, al sommo bene, al bene assoluto, si rivela essere
contemporaneamente la realizzazione del massimo del male, del male assoluto (così sembra
accadere inesorabilmente nei regimi utopistici – totalitari che nella storia ricorrentemente si
autoproclamano). Dunque l’unica strada da percorrere è fondata sulla consapevolezza di dover
definire il giusto, il bene in situazioni perennemente contingenti dove il bene e il male non si
rivelano mai come soggetti assoluti. Qui viene posto in chiaro il motivo che ha portato PlatoneSocrate, nella Repubblica (nel passo citato 506 d,e), a rimandare la definizione del bene e a non
riprendere poi più quel progetto né nella Repubblica, né, in nessun altro dialogo: si tratta di un
impedimento intrinseco. Il bene non è definibile in sé (come l’essere in sé); se ne possono mostrare
i frutti, le manifestazioni, nella consapevolezza che le realizzazioni possibili del bene sono di
numero illimitato. «Su, benedetti amici, lasciamo stare per il momento cosa sia mai il bene in sé:
mi sembra una cosa troppo alta perché possiamo raggiungere ora, con lo slancio presente il
concetto che ne ho io. Invece voglio dire, se ne siete contenti pure voi, quello che sembra la prole
del bene, cui molto somiglia. Se però non ne siete contenti, lasciamolo perdere. – Su, dillo!, fece.
Pagherai il tuo debito un’altra volta, spiegandoci che cosa è il padre.» (506 d,e)
3.4. Postulati di contesto, condizione di etica. La relazione dialettica bene – male come
impostazione della filosofia etica di Platone e di Socrate trova la propria realizzazione all’interno di
tre postulati di contesto pratico.
3.4.1. A definire il bene non resta che la strada di Socrate, il confronto e il dialogo, assumendo
come bene ciò che al momento e con il massimo sforzo di una tecnica dialogica, che si muove
seguendo la ragione (Socrate), si è convenuto di seguire. Il passo già citato da Fedone «…
accogliere quello dei ragionamenti umani che sia se non altro il migliore e il meno confutabile, e,
lasciandosi trarre su codesto come sopra una zattera, attraversare così, a proprio rischio, il mare
della vita: salvo che uno non sia in grado di fare il tragitto più sicuramente e meno
pericolosamente su più solida barca, affidandosi a una divina rivelazione.» Le tesi sul non-essere,
espresse nel Sofista indicano il fondamento ultimo del dialogo e del suo successo: esso è reale
quando non si annulla ma si ammette, si salva e si difende l’alterità, la diversità, l’assolutamente
altro, indicato e posto tra i generi sommi. (Osserva Levinas: « Fuoriuscita da sé che fa appello
all’altro, allo straniero. L’incontro avviene tra stranieri, altrimenti sarebbe parentela. Ogni pensiero
è subordinato alla relazione etica, all’infinitamente altro in altri, e all’infinitamente altro di cui ho
nostalgia. Pensare altri dipende dall’irriducibile inquietudine per l’altro.» Emmanuel Levinas,
Alterità e trascendenza, ed. il melangolo, Genova 2006, pp. 15-16.)
3.4.2. È urgenza etica uscire dall’alibi teologico e da ogni assoluto che ne rappresenti una
sostituzione mascherata (bene assoluto, male assoluto) e proclamare l’“irresponsabilità” di Dio.
«Parole della vergine Lachesi sorella di Ananke. Anime dall’effimera esistenza corporea,
incomincia per voi un altro periodo di generazione mortale, preludio a nuova morte. Non sarà un
demone a ricevervi in sorte, ma sarete voi a scegliervi il demone. Il primo che la sorte designi
scelga per primo la vita cui sarà poi irrevocabilmente legato. La virtù non ha padrone; secondo
Sergio Gabbiadini
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Socrate - Platone
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che la onori o la spregi, ciascuno ne avrà più o meno. La responsabilità è di chi sceglie, il dio non
è responsabile (theòs anàitios).» Repubblica 617 d,e
3.4.3. Lo stato ideale, considerato da Platone come la sede storica naturale del bene, resta
consegnato a una irrisolta antinomia che mette in questione la sua natura e la sua funzione etica: lo
Stato è sede del bene e della giustizia, ma il bene non trova una definizione e una presentazione
essenziale. Si apre, più in generale, il rapporto tra lo Stato (la società organizzata) e l’etica, tra la
politica e la morale. Collocata infatti per lo più nella sede sociale (nella polis e non nella persona),
l’etica di Socrate e di Platone, se viene considerata a partire dai concetti di bene e di male, pone e
lascia aperto un problema: lo Stato (la società ideale) è sede del bene o del male? Assume su di sé il
bene (ne è la sede più naturale e adeguata) con il compito di definirlo e di realizzarlo, oppure
assume su di sé il male con il compito di gestirlo, toglierlo, neutralizzarlo?
3.4.3.1. Dal bene al male. Se lo Stato è la sede della giustizia e del bene e il cittadino realizza la
propria natura in quanto componente dello Stato (giusto e ideale) allora sono poste le premesse
perché lo Stato diventi un assoluto. Le forme teoriche e storiche possibile esito di questo modello
sono tra loro fortemente eterogenee e non possono venire identificate: Platone nella “Repubblica”,
lo Stato utopia di Moro, lo Stato etico di Hegel, gli Stati Assoluti dell’età moderna, i totalitarismi
recenti… Il rischio, denunciato ed evitato proprio da Platone, è incluso nella possibilità che il Bene
trovi una definizione ideale e determinata; in tal caso entra nel campo del necessario, esclude ogni
possibile e ogni possibilità, nega ogni diversità e, senza pudore né vergogna, ha le condizioni per
diventare il Male assoluto, gratuito, banale nella sua normalità amministrativa della necessità, della
repressione e negazione; assumere su di sé il bene, attribuirsene la competenza in forma di
monopolio e presentarsi come la sua realizzazione somma si traduce nel massimo dei mali, nel Male
assoluto.
3.4.3.2. Dal male al bene. Un’altra situazione politica, in contesto etico e di giustizia, viene costruita
dall’ipotesi (teorica e pratico) dello Stato che “assume su di sé il male”. Come racconta la tradizione
mitologica dell’homo sacer, richiamata dall’antropologia politico e religiosa, lo Stato (nella persona
del sovrano) è vittima sacrificale, è phàrmakon, assume su di sé il male e quindi lo “toglie” dal
sociale [«Agnello di Dio che togli = prendi su di te e quindi togli i peccati del mondo»].
Nell’assumersi su di sé il male lo Stato compie la propria, l’unica possibile, partecipazione al bene.
Si tratta di una contraddizione politica che si risolve solo se lo stato assume su di sé la violenza, la
forza e il male, li assume in forma unica e riservata per salvare così la società da tali derive.
Considerato come luogo “naturale” della violenza lo Stato è di nuovo assoluto, sciolto da vincoli e
controlli, e quindi può diventare sede della violenza ingiustificata, irresponsabile, non chiamata a
dar conto presso nessun tribunale superiore, ma può, all’opposto, trasformarsi in sede del bene.
Assumendo su di sé il male, la violenza, crea le condizioni sociali di libertà, affinché il soggetto si
realizzi in quanto progetta e decide e non perché riceve piani e contenuti necessari dallo stato, non è
incluso in una definita (perché indefinibile contenutisticamente) idea di Bene (così da Platone, a
Hobbes, alle teorie liberal-democratiche). Di nuovo, per Socrate e Platone, lo stato è contesto di
etica, ma non è stato etico.
Una triplice direzione di pensiero:
1. la portata etica del dialogo e la natura dialogica dell’etica
2 .l’urgenza ma, insieme, l’indefinibilità del concetto di Bene in sé (morale senza fondamentalismi)
3. la dimensione sociale – politica dell’etica senza e contro uno stato etico (tema che verrà ripreso a
proposito delle tesi di Hegel)
Sergio Gabbiadini
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