Convegno delIe coppie animatrici 2013 - 2014

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Convegno delIe coppie animatrici 2013 - 2014
All’inizio di questo convegno desidero brevemente commentare i
seguenti versetti tratti dalla Lettera di Paolo agli Efesini 4, 4-6.
Ritengo che sia un modo per iniziare con maggiore entusiasmo e
vigore la nostra azione pastorale, pensando alla nostra vocazione
di persone consacrate da Dio e chiamate a testimoniarlo nella
nostra casa prima e poi con le famiglie e dei fidanzati dei quali ci
prendiamo cura, a vario titolo.
I tempi che viviamo sono difficili, problematici, per non dire
drammatici, sia a livello sociale e politico, sia a livello ecclesiale e
familiare. Verrebbe la voglia di gettare la spugna e batterci in
ritirata. Ma se siamo qui è perché nonostante le delusioni, le
difficoltà che incontriamo nella nostra azione pastorale, siamo
chiamati alla speranza di essere amati dal Signore e di fondare la
nostra speranza non tanto sul nostro saper fare ed organizzare, ma
sulla certezza che “Dio agisce per mezzo di tutti ed è presente in
tutti”, come ci dice l’Apostolo Paolo.
È presente nella nostra sofferenza e nella nostra azione pastorale,
nonostante i nostri scoraggiamenti e le nostre delusioni.
È Lui a guidare la nostra vita e le nostre azioni pastorali.
È Lui a reggerci quando i nostri orizzonti sembra che si eclissino e
la nostra azione sembra che non abbia gli effetti desiderati.
È Lui a rendersi presente quando i nostri cuori e i nostri passi
battono la fiacca e vorremmo quasi lasciar perdere tutto e
abbandonare il campo della nostra azione pastorale.
È Lui che alita dentro di noi e ci invita ad avere fiducia in Lui e
soltanto in Lui, abbandonandoci nelle sue mani tenere,
compassionevoli e misericordiose, andando “a curare le ferite e a
riscaldare il cuore delle persone”, come ci ha invitato a fare Papa
Francesco.
La nostra azione pastorale deve ispirarsi a Lui, deve essere una
azione che focalizza l’attenzione non tanto sul nostro saper fare ed
organizzare, ma su di Lui e sulla sua Parola.
- Sì, guardare il Signore, per contemplare il sogno che Lui ha sulle
nostre comunità e su ciascuno di noi.
- Guardarlo e ritrovarci nel suo sguardo senza paure, senza
frapporre barriere, senza nascondere zone d’ombra della nostra
vita e scoprire la misericordia di Cristo.
- Guardarlo e ritrovare nel suo sguardo la strada, il cammino
interrotto e faticosamente ripreso.
- Guardarlo e portarci appresso il suo sguardo risanatore e
rigeneratore, per ritrovare il conforto, il sostegno, la forza di sfidare,
la voglia di riprendere il cammino.
- Guardarlo e lasciarci trasformare da Lui, senza nulla disprezzare,
consapevolizzando le nostre opposte polarità e dialogando con
esse per ritrovarci in Lui unificati e integri. Si tratta di non reprimere
quei pensieri e quelle emozioni negative e crepuscolari che ci
affliggono, ma piuttosto di ascoltarli e dialogare con essi
chiedendoci che cosa vogliono dirci, verso dove vogliono condurci,
diventando in tal modo una forza creativa e rigeneratrice del nostro
cammino.
- Guardare iI Signore e vivere, nei confronti delle nostre comunità,
quella delicatezza, quella attenzione, quella tenerezza che Lui hai
su di noi.
- Guardarlo e lasciarci vedere nudi: con le nostre ambiguità, la
nostra ricerca, le nostre debolezze, i nostri lati oscuri e problematici.
Nudi di fronte a Te, o Signore!
- Guardarlo e riconoscere la nostra sete di potere, di controllo e
chiedergli di darci una leadership d’impotenza e di umiltà in cui si
manifesta Gesù Cristo, servo sofferente di Dio.
- Guardarlo e osare dirgli, la nostra solitudine, non gretta, risentita,
chiusa, acida, ma aperta e pronta ad accogliere quanti ci hanno
ferito o fatto soffrire. Non una solitudine che si auto-commisera, si
affligge e si compiange, ma una solitudine abitata dalla presenza
calda e invisibile del Signore Risorto.
- Guardarlo e riconoscerlo, in certi momenti della nostra vita, nei
nostri passi incerti e stanchi, accettandoci e amandoci come Lui ci
ama, per poter accettare gli altri nei loro passi sfiduciati e stanchi.
Ed ora perché la mia riflessione non sembri troppo celestiale o
mistica, desidero proporre un qualcosa di molto concreto e nello
stesso tempo difficile per ciascuno di noi, a partire da me: imparare
a lavorare insieme, vivendo la corresponsabilità a livello di coppia,
di famiglia e di comunità.
Questo è un punto cruciale e difficile da attuare perché, senza
accorgercene, seguiamo i modelli della cultura contemporanea: il
modello del fare, del sentirci protagonisti, della smodata
preoccupazione per il nostro orticello da coltivare perdendo la
prospettiva del tutto, dell’individualismo esasperato e duro, della
mancanza della comunione tra noi, del non sapere vedere nella
proposta di un cammino o di un orientamento di vita da seguire dei
punti in comune da attuare. Ciò che campeggia è il nostro modo di
vedere, come l’unico, il migliore, il perfetto. Diventiamo incapaci di
dislocarci e di vedere il punto di vista dell’altro. Il colmo dei colmi è
che il Dio della comunione che annunciamo diventa motivo di
divisione e di separazione.
Il quadro che presento potrà sembrare un quadro impietoso, crudo,
accusatorio, e potrà metterci sulla difensiva, giustificandoci e
dicendo che in fondo noi siamo diversi. Invito voi e me, con il cuore
in mano, a non nasconderci, ma a vedere, e a dirci ciò che non
vogliamo vedere e dirci, perché è molto facile per noi coprire,
scusarci, non dirci, giustificarci. «Essere noi stessi prima di essere
diversi questa è la teoria paradossale del cambiamento».
È fondamentale attuare questa operazione, filtrata dalla speranza di
essere amati nonostante i nostri limiti, le nostre vulnerabilità, le
nostre impennate, le nostre cadute. Ciascuno di noi merita un
romanzo di misericordia e di amore. È importante stendere un
mantello di tenerezza sulle nostre miserie, ma solo dopo aver visto,
solo dopo aver consapevolizzato chi veramente siamo. Farlo prima
è una sorta di mistificazione di noi stessi e della realtà che ci
circonda. Siamo chiamati a passare da un crogiolarci lamentoso e
spesso impotente, frutto della nostra storia personale, alla
percezione di essere amati da Dio ed essere importanti per Lui.
«Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e ti
amo…Non temere, perchè io sono con te” ci dice il profeta Isaia al
capitolo (43,4,6). Noi siamo la pupilla di Dio, siamo preziosi ai Suoi
occhi. Dio ci ama e ci stima, anche quando noi non ci stimiamo e
non ci amiamo. Ciascuno di noi merita di essere celebrato. Noi
siamo unici ed irripetibili. In tutto il mondo ce n’è uno solo come
ciascuno di noi. La nostra esperienza, i nostri doni sono unici.
Nessuno può prendere il nostro posto in ciò che siamo. Dio ha
creato uno solo come ciascuno di noi. Siamo preziosi ai suoi occhi.
Noi abbiamo una immensa potenzialità di amore, di dedizione, di
creatività, di crescita, di sacrificio, se crediamo in noi stessi. Non ha
importanza la nostra età o le nostre competenze, o se i nostri
genitori ci hanno amato o no. Può darsi che abbiano voluto, ma non
abbiano potuto. Siamo chiamati a lasciar perdere, perché questo
appartiene al passato. E noi apparteniamo al presente. Non importa
che cosa siamo stati, le cose che abbiamo fatto, gli errori che
abbiamo combinato, le persone che abbiamo ferito. Noi siamo
perdonati, noi siamo accettati. Noi siamo amati nonostante tutto!
Non possiamo sentirci soli e abbandonati perché Dio è con noi.
Questa è la nostra fede. Questa è la nostra speranza. Questa è la
nostra certezza che poggia non sull’evidenza umana, ma sulla fede
e su Dio.
Quali sono pertanto i pericoli ai quali possiamo andare incontro?
- L’individualismo e il centralismo. L’individualismo si ha quando
ogni membro del corpo di Cristo vuole essere il tutto; il
centralismo quando invece, a voler essere il tutto, è un singolo
membro del corpo. Nel primo caso si afferma talmente la
diversità da fare morire l’unità; nel secondo caso avviene il
contrario. L’individualismo frammenta e disperde; il centralismo
assorbe, soffoca e fagocita. Tutti e ciascuno, nelle nostre
rispettive responsabilità, corriamo ambedue questi rischi. L’una e
l’altra patologia sono in fondo determinate dallo stesso «embolo»
che può causare una pericolosa occlusione nel corpo ecclesiale:
quell’embolo ha un nome preciso, egoismo.
- Un secondo pericolo è ciò che Papa Francesco definisce come
“funzionalismo”, la mania dell’efficienza. «La sua azione nella
Chiesa è paralizzante. Più che con la realtà del cammino, si
entusiasma con la tabella di marcia del cammino. La concezione
funzionalista non tollera il mistero, va alla efficacia. Riduce la realtà
della Chiesa alla struttura di una Ong. Ciò che vale è il risultato
constatabile e le statistiche. Da qui si va a tutte le modalità
imprenditoriali di Chiesa. Costituisce una sorta di teologia della
prosperità nell’aspetto organizzativo della Pastorale» (2).
- Un terzo pericolo è il clericalismo.
Papa Francesco stigmatizza in maniera forte questa tendenza:
«Curiosamente, nella maggioranza dei casi, si tratta di una
complicità peccatrice: il parroco clericalizza e il laico gli chiede per
favore che lo clericalizzi, perché in fondo gli risulta più comodo» (3).
Non è forse vero che chi campeggia siamo noi presbiteri e se una
cosa la vogliamo questo accade, altrimenti è difficile che succeda.
Non forse riteniamo che pastorale sia ciò che compiamo noi
ritenendoci il centro della comunità e che tutto debba fare
riferimento a noi e debba essere filtrato da noi. Noi sì siamo guide,
ma non siamo tutto il corpo di Cristo.
Non forse sono in tanti a pensare, presbiteri e non, che la
parrocchia sia la cellula primaria. Così ad esempio, la famiglia nella
vita pastorale è considerata sussidiaria alla parrocchia, mentre
dovrebbe essere il contrario. Il colmo dei colmi è che noi rischiamo
di chiedere alla società civile di riconoscere la priorità della
soggettività della famiglia, prima ancora di averla attuata nelle
nostre parrocchie. Ritengo che non ci sia crescita della comunità
cristiana, evangelizzazione piena, nè promozione umana, se manca
una collaborazione fra sacerdoti e famiglia. I protagonisti della
missione sono i presbiteri e le famiglie in forza dei rispettivi
sacramenti: «L’ordine e il matrimonio sono ordinati alla altrui
salvezza (…)se contribuiscono alla salvezza personale, questo
avviene attraverso il servizio degli altri». (Catechismo della Chiesa
Cattolica n.1534).
Questi autentici ministeri pure essendo diversi, sono tuttavia
reciprocamente complementari e non sono subordinati l’uno
all’altro, per cui non può funzionare bene l’uno, se manca l’altro.
Sono tutti e due sacramentali, e tutti e due specificamente sponsali
e comunionali, in quanto partecipi della comunione e del servizio
sponsale di Cristo e della Chiesa, in vista dell’eterna alleanza di vita
e di amore fra Dio e l’umanità.
Acutamente osserva il Card. Dionigi Tettamanzi: «Un test quanto
mai eloquente, proprio in rapporto alla relazione dei due
sacramenti, è questo: mentre è consolidata l’idea che non si può
costruire la chiesa senza il ministero dei presbiteri, pare invece
assente o comunque insufficiente l’idea della necessità e ancor più
della insostituibilità del ministero degli sposi cristiani. Non si
conosce o si dimentica che il ruolo del sacramento del matrimonio è
pure essenziale, strutturale e organico per la crescita della chiesa e
per la sua presenza nel mondo». (4)
- Sarebbe da domandarci in quali di questi pericoli mi ritrovo a
vivere e precisamente: il centralismo – l’individualismo –il
funzionalismo – il clericalismo?
Eppure lavorare insieme è oggi necessario più che in altri tempi,
perché la situazione attuale è complessa, frammentata,
problematica e ha bisogno del contributo di tutte le voci. Non
possiamo andare a briglie sciolte, ciascuno per conto nostro, senza
confrontarci, né possiamo essere dei navigatori solitari, senza
sapere quale sia la rotta da seguire, che cosa e come fare.
Il Papa Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte stigmatizza
con parole forti e sapienti quale dovrebbe essere il messaggio da
vivere oggi. “Prima di programmare iniziative concrete occorre
promuovere una spiritualità della comunione, facendola emergere
come principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l’uomo e il
cristiano, dove si educano i ministri dell’altare, i consacrati, gli
operatori pastorali, dove si costruiscono le famiglie e le comunità.
Spiritualità della comunione significa innanzitutto sguardo del cuore
portato sul mistero Trinitario che abita in noi, e la cui luce va colta
anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto.
Spiritualità della comunione significa inoltre capacità di sentire il
fratello di fede nell’unità profonda del Corpo mistico, dunque, come
«uno che mi appartiene», per saper condividere le sue gioie e le
sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi
bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia.
Spiritualità della comunione è pure capacità di vedere innanzitutto
ciò che di positivo c’è nell’altro, per accoglierlo e valorizzarlo come
dono di Dio: un «dono per me», oltre che per il fratello che lo ha
direttamente ricevuto.
Spiritualità della comunione è infine saper «fare spazio» al fratello,
portando «i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2) e respingendo le
tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano
competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie. Non ci facciamo
illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero
gli strumenti esteriore della comunione. Diventerebbero apparati
senz’anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione
e di crescita».
S. Bernardo con grande sapienza afferma: «Il demonio teme poco
coloro che digiunano, coloro che pregano, anche di notte, coloro
che sono casti, perché sa bene quanti di questi ne ha trascinati
all’inferno. Il demonio teme coloro che sono concordi e che vivono
nella casa di Dio con un cuore solo, uniti a Dio e fra di loro
nell’amore: questi producono al demonio dolore, timore e rabbia.
Questa unità della comunità non solo tormenta il nemico, ma
ottiene la benevolenza di Dio.
Giorgio Gaber, nella sua «Canzone dell’appartenenza» canta:
(…)«L’appartenenza non è un insieme casuale di persone, non è il
consenso a un’apparente aggregazione, l’appartenenza è avere gli
altri dentro di sé(…) L’appartenenza è assai più della salvezza
personale.(…) L’appartenenza è una esigenza che si avverte a
poco a poco. (…) Sarei certo di cambiare la mia vita se potessi
cominciare a dire noi» (28).
È proprio urgente darci da fare per costruire relazioni di
corresponsabilità con le persone con le quali ci incontriamo e
collaboriamo.
È fondamentale costruire i nostri gruppi come famiglia, come luogo
del confronto aperto ed appassionato, della condivisione e della
comunione. Si tratta di rivalutare i nostri gruppi non come un fatto
burocratico ed organizzativo, ma come un evento generato dalla
Grazia e dalla tensione comune a costruire un rapporto sponsale.
Un’utopia? Forse sì, forse no. Potrà pure essere un’utopia, ma
abbiamo bisogno di credere e di tendere verso questa utopia ed
avere il coraggio di accettare la sua non piena realizzazione.
Quale il segreto? Fare nostro l’atteggiamento chenotico di Gesù
davanti al mondo: un atteggiamento di totale vulnerabilità e di
«disarmo unilaterale».
Senza vivere il rischio della vulnerabilità, «se il chicco di grano non
muore non porta frutto», non possiamo costruire la comunità e
senza una vera fraternità non c’è vera vita in una comunità. La
vulnerabilità è la nostra forza. Siamo chiamati a rivalutare le nostre
vulnerabilità (morali, spirituali, fisiche, psicologiche, relazionali), a
non avere paura di esse, a non vederle come una catastrofe, come
un qualcosa che non deve accadere. Potremmo imparare molto di
più dalle nostre vulnerabilità che dalle nostre conquiste e dai nostri
successi, realtà queste che ci conducono facilmente a sentirci
onnipotenti, competitivi, aggressivi e duri. Forse dovremmo andare
più alla scuola delle nostre vulnerabilità, come Gesù in croce,
persona veramente libera perché spogliata da tutti gli orpelli e pesi
(il potere, l’appannaggio, la competizione, il miracolismo) e meno
alla scuola del sentirci perfetti, dell’essere arrivati. Nel concreto, è
vivere la nostra vulnerabilità nella comunità e con le persone, è
iniziare a condividere la nostra vita, è comunicare i nostri
sentimenti, i nostri bisogni, le nostre paure e le nostre ansie. È
condividere le nostre ferite, le nostre debolezze, i nostri fallimenti, le
nostre inadeguatezze, i nostri cocenti interrogativi, le nostre
solitudini. Come pure le nostre scoperte, le nostre gioie, le nostre
conquiste. Il dono più grande che possiamo farci è «lavarci i piedi a
vicenda». Solo se siamo stati feriti potremo a nostra volta
comprendere ed accettare gli altri, anzi là dove c’è una situazione di
vulnerabilità reciproca, lì c’è vita, lì c’è possibilità di misericordia.
Invece, quante energie sprecate, quanta stupidità e ridicolaggine,
nel cercare di corazzarci sempre di più!
Mi avvio alla conclusione, se siamo “un solo corpo e un solo spirito”
non possiamo disinteressarci di quello che si vive nelle nostre
comunità parrocchiali, nei condomini, nella famiglia che ci abita
accanto, siamo chiamati ad interrogarci e a cambiare mentalità
chiedendoci: “Dov’è mio fratello? Che cosa possiamo fare noi?”.
Non possiamo glissare, di fronte alla nostra coscienza che ci
interpella.
Chiediamo al Signore la forza e la grazia di potere essere inquieti di
fronte alle sfide che la società d’oggi ci pone e di poter fare
qualcosa nel nostro piccolo. Donaci o Maria la capacità di lasciarci
modellare e sfidare da Te per poter formare in noi il volto del tuo
Figlio prediletto. Amen
- Quali le vostre risonanze emotive e le vostre considerazioni.
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