Nuove proposte di lettura su Leopardi

NUOVE PROPOSTE DI LETTURA SULL’OPERA DI G. LEOPARDI
(queste note sono una rielaborazione dello studio di Elio GIOANOLA, Leopardi, la malinconia, Jaca Book,
Milano 1995)
1. Psicologia e poesia: 1819
Partendo dalla constatazione che vissuto, poetica e ideologia formano un tutt’uno armonico, mi
sembra opportuno porre all'inizio di queste riflessioni la data del 1819 come momento di svolta
dell'arte e della filosofia leopardiana. E' lo stesso Leopardi a rendersi conto della centralità di questo
scorcio temporale (lo testimoniano le lettere e le pagine dello Zibaldone, oltre che, ovviamente, i suoi
versi).
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Per capirne l'importanza, facciamo un excursus sull'ambiente familiare . Essere figlio di Monaldo e
di Adelaide Antici non era certo la cosa più piacevole del mondo. Il padre, o meglio la sua figura
simbolica, ha accompagnato Giacomo per tutta la vita, tanto che senza il padre per lui risulta
impossibile vivere. In termini di dinamiche psicologiche, Monaldo rappresenta, per il figlio, un
tiranno (e ciò, dati i tempi, è anche normale), ma si tratta di un tiranno buono, situazione, questa, che,
nonostante le apparenze, aggrava il quadro, perché (come insegnano Freud e tanti altri) il bambino
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diventa adulto solo quando uccide (metaforicamente) il padre-tiranno . Ora, se il tiranno è buono – e
la fama di Monaldo come di un buon padre di famiglia era ben nota presso i conoscenti: ma questi
sono i paradossi della vita! –, con che coraggio lo si potrebbe uccidere? E infatti Giacomo non l'ha
ucciso, anzi è morto prima di lui, e non solo anagraficamente. Sulla madre Adelaide cito un solo
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episodio (ricordato dallo stesso Giacomo in Zibaldone 353-355): per effetto del suo cristianesimo,
retrivo al limite del patologico (anzi, dello psicopatologico!), arrivava a sostenere che era meglio per i
suoi figli morire da piccoli per poter così essere sicuri di andare in Paradiso (sic!). Questo fatto
contribuì non poco a far nascere e crescere in Giacomo, il quale effettivamente vide molti suoi
fratellini morire piccoli, la convinzione che vivere fosse una colpa; da qui l'esigenza di una vita
virtuosa e da qui anche il rafforzamento della malinconia: devo essere virtuoso perché so di non
valere niente.
Torniamo al 1819. Come si sa, questa data segna due episodi, uno esterno e uno interno: il
tentativo di fuga da Recanati e la conversione filosofica. Soffermiamoci sul primo, intanto. Il tentativo
di fuga trova la sua attuazione pratica nel luglio del 1819, quando il Leopardi aveva da un mese
compiuto i ventuno anni: si tratta del passaggio alla maggiore età, cosa che consentirebbe a Giacomo
di possedere un passaporto e spostarsi così liberamente. E tuttavia non si capirebbe l'episodio senza
tener presente il ruolo svolto da Piero Giordani. E' noto che tra i due si sviluppò un intenso scambio
epistolare a partire dal 1817: il giovane Leopardi aveva inviato la sua traduzione del II libro dell'Iliade
a Vincenzo Monti, ad Angelo Maj e al Giordani (rappresentanti, rispettivamente, della poesia, della
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filologia e della prosa: fu proprio quest'ultimo a rispondere in termini entusiastici) . Le lettere del
Giordani rappresentarono per Leopardi l'unico modo per uscire dal suo isolamento (è chiaro che
Giacomo aveva idealizzato la figura di Piero): ai suoi occhi il piacentino rappresentava la letteratura,
la sete di gloria, il gusto del bello, tutti elementi che il Leopardi aveva posto come méta da
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raggiungere dopo la prima conversione, quella del 1816, che segna il passaggio dalla filologia alla
letteratura.
Per effetto della corrispondenza con il Giordani, in Leopardi si sviluppa una dicotomia interiore
che lo porta ad identificare Recanati come il luogo della malinconia, dell'assenza del bello e della
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letteratura, mentre il “fuori” è il luogo della salute, della fama, della gloria letteraria . Nel settembre
del 1818 il Giordani giunge finalmente, dopo reiterati inviti, a casa Leopardi, dove trova il suo
1
Per altre notizie, cfr. R. DAMIANI, Vita di Leopardi, Milano, Mondadori, 1992.
Si ricordi l'Ortis foscoliano; ma gli esempi sarebbero numerosi.
3 Altri se ne possono vedere in DAMIANI, op. cit.
4 Cfr. DAMIANI, cit., 103ss.
5 Si tenga presente che già a quindici anni il Leopardi era considerato uno dei filologi più eruditi d'Italia.
6 Non a caso, quando il padre gli dirà che "extra Recinetum nulla salus!", egli risponderà con un eloquente
"extra Recinetum una salus!".
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giovane amico ancora vestito con l'abito talare che indossava fin da piccolo: sono giorni di grande
fervore per Giacomo che ha l'occasione, per la prima volta nella sua vita, di recarsi a Macerata
(nientemeno!). È però certo che la presenza fisica del Giordani rompe certi equilibri tra padre e figlio:
mentre il secondo si convince sempre di più della necessità di lasciare le angustie recanatesi e
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familiari, l'altro non esita a pensare che il famoso letterato sia la rovina dei suoi figli . Per Monaldo il
Giordani rappresentava il diavolo, perché con lui erano entrati in casa sua il liberismo, l'italianismo
(siamo nello Stato Pontificio, non si dimentichi!), la letteratura "nuda" (cioè senza un fine
utilitaristico-pedagogico).
C'è anche da notare che il Giordani, accortosi del fermo desiderio di Giacomo di uscire da
Recanati, si spaventò non poco, perché era convinto che si sarebbe recato da lui costringendolo a
divenirne il responsabile, tanto che non esitò anch'egli a consigliare a Giacomo l'Accademia
Ecclesiastica per la quale faceva pressioni lo zio Carlo Antici. In ogni caso, il Giordani fu il primo a
riconoscere la grandezza di Leopardi, come testimonia questa sua lettera all'editore Brighenti:
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«Quando saremo insieme a quelle nostre confidenze, colle canzoni alla mano spero che potrò giustificare
la mia ammirazione per l'ingegno del Leopardi, che proprio mi pare stupendo; e la fortuna del Monti è che
ha 45 anni più dell'altro. Ma se Leopardi campa e se Monti fosse giovane anch'egli, credetemi che
Leopardi sarebbe un sole che eclisserebbe tutti. Crediatemi (ma tenetelo in confessione) che Monti,
Perticari, Maj (e se credete che il signor Giordani sia qualche cosa), riuniti tutti insieme, non fanno la metà
dell'ingegno e del sapere di questo giovane di ventuno anni. Dategli solo dieci anni di vita e di sanità e tiratelo
fuori degli orrori in cui vive, e ditemi il primo coglione della terra, da Adamo in qua, se nel 1830 in Italia e
in Europa non si dirà che pochi Italiani (nei secoli più felici) furono paragonabili al Leopardi».
L'episodio del fallimento della tentata fuga è assai significativo. Il passaporto, che doveva essere
recapitato a Giacomo in persona, capitò invece (e non a caso) nelle mani del padre, il quale, ancora
una volta, si comportò da tiranno-buono. Dandogli il passaporto, gli disse: "Se vuoi parti!". In termini
psicologici, questa si chiama "tattica del doppio vincolo", per effetto della quale lo invita a partire, ma
al tempo stesso lo trattiene. E Giacomo lo capisce fin troppo bene, quando scrive: «Io non esco s'egli
mi apre le porte, ma se me le chiude: e mio padre se n'è ben avveduto e perciò mostra di non oppormi
nessun ostacolo. Ma il cercare di ingannarmi non è aprirmi le porte e io lo considero fin da ora come un
nuovo chiavistello».
Abbiamo qui a che fare con un vero e proprio psicodramma: l'impossibilità di ribellarsi e di
dimostrare di essere diventato un uomo produce in Giacomo un ulteriore aumento della malinconia,
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che si esprime nella sua forma classica: la disistima di sé ; in altre parole, Giacomo si convince che
l'esistenza virtuosa non gli si addice più: «Io sono stato sempre spasimato dalla virtù: quello che io
voleva eseguire non era delitto: ma io son capace anche della colpa. Si vergognino che io possa dire che la
virtù m'è sempre stata inutile. Il calore e la forza dei miei sentimenti si poteano dirigere a bene, ma se
vorranno rivorgerli a male, l'otterranno. E' gran tempo che io so qual'è la via d'essere meno infelice in
questo mondo, e ne vedo gli esempi in questa stessa città. Non mi costringano ad entrarvi. Non fo gran
conto di me: pur mi parrà sempre formidabile chi avendo amata la virtù da che nacque, si consegna
disperatamente alla colpa». Ecco perché è così importante questo episodio della fallita fuga: esso
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rappresenta il punto di svolta, cioè la conversione filosofica , il passaggio dalla disperazione attiva a
quella inerte (sono parole sue), il che significa che non esiste più nemmeno la disperazione, ma solo il
vuoto, la noia, la malinconia. Lo scrive al Giordani: «Sono così stordito dal niente che mi circonda che
non so come abbia la forza di prender la penna per rispondere alla tua. Se in questo momento impazzissi,
io credo che la mia pazzia sarebbe di seder sempre con gli occhi attoniti, colla bocca aperta, con le mani
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tra le ginocchia, senza ridere né piangere, né muovermi altro che per forza dal luogo dove mi trovassi .
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Questa posizione non stupisce se si pensa che Monaldo era un alfiere dell'educazione domestica, tanto da curare
personalmente la formazione dei suoi figli, sul modello del Collegio gesuitico, in un periodo in cui la Societas
Jesu era stata disciolta.
8 Si tratta di All'Italia e di Sopra il monumento di Dante.
9 Cfr. S. FREUD, Lutto e malinconia.
10 Mentre la prima conversione lo fa passare dalla filologia alla poesia di immaginazione, questa lo fa passare
dalla poesia di immaginazione alla poesia di sentimento.
11 Faccio notare che questa è la tipica posizione del malinconico.
Non ho più lena di concepire nessun desiderio, né anche la morte, non perché io la tema in nessun conto,
ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita dove non viene più a consolarmi nemmeno il
dolore. Questa è la prima volta che la noia non solamente mi opprime e stanca, ma mi affanna e lacera
come un dolor gravissimo; e sono così spaventato dalla vanità di tutte le cose e della condizione degli
uomini, morte di tutte le passioni, come sono spente nell'animo mio, che ne vo fuori di me, considerando
ch'è un niente anche la mia disperazione».
Da quanto s'è detto, si capisce come il 1819 rappresenti lo spartiacque non solo per il Leopardi
uomo, ma anche per il Leopardi poeta e filosofo: la fallita fuga coincide con il fallimento delle
speranze, viene meno la voglia di combattere, svanisce l'azione e subentra il ghiaccio e il deserto. Per
capirlo, basta confrontare le prime due canzoni con Bruto e Saffo: mentre in All'Italia Leopardi
poteva dire L'armi, qua l'armi: io solo / combatterò, procomberò sol io (vv. 36-37), in Saffo dice virtù
non luce in disadorno ammanto (v. 54), e sottentra il morbo e la vecchiezza e l'ombra / della gelida
morte (v. 67-68). Ora, da cosa nasce l'idea dell'infinito se non dal rifiuto dell'azione (sul Tabor egli sta
immobile)? E, in secondo luogo, perché negli Idilli non ci sono verbi al futuro, ma sempre verbi
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"esistenziali", se non quelli che hanno a che fare con l'idea della morte e della distruzione ? E allora
si capisce anche perché il vero Leopardi, quello che è diventato uno dei più grandi poeti e pensatori
della storia, cominci solo dopo la tentata fuga, solo dopo la caduta delle illusioni (un tema questo che
attraversa tutta la sua lirica).
2. L'Infinito: testo archetipico
Il periodo della «grande glaciazione», del «deserto» si apre con la stesura de L'infinito (e di Alla
luna, testo gemello), nel settembre 1819, quindi qualche mese dopo la tentata fuga. Spero di mostrare
come questi 15 versi rappresentino il "cuore" di tutta la poetica leopardiana, l'archetipo appunto.
Il 1 luglio 1820 Leopardi scrive nello Zibaldone: «Nella carriera politica il mio spirito ha percorso lo
stesso stadio che lo spirito umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia e i miei versi erano
pieni di immagini, e delle mie letture poetiche io cercava sempre di profittare riguardo all'immaginazione.
Io era bensì sensibilissimo anche agli affetti, ma esprimerli in poesia non sapeva. Non aveva ancora
meditato intorno alle cose, e della filosofia non aveva che un barlume (...) Sono sempre stato sventurato,
ma le mie sventure di allora erano piene di vita e mi disperavano perché mi pareva che m'impedissero la
felicità, della quale gli altri credea che godessero. Insomma il mio stato era in tutto e per tutto come quello
degli antichi (...) La mutazione totale avvenni in me, e il passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si
può dire dentro un anno, cioè nel 1819 dove, privato dell'uso della vista e della continua distrazione della
lettura, cominciai ad abbandonare la speranza, a riflettere profondamente sulle cose (...), a diventare filosofo
di professione (da poeta che io era), a sentire l'infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla, e questo
anche per uno stato di languore corporale, che tanto più mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai
moderni. Allora l'immaginazione in me fu sommamente infiacchita, e quantumque la facoltà
dell'invenzione allora appunto crescesse in me grandemente, anzi quasi cominciasse, verteva però
principalmente sopra affari di prosa o sopra poesie sentimentali. E s'io mi metteva a fare versi, le
immagini mi venivano a sommo stento, anzi la fantasia era quasi disseccata; bensì quei versi traboccavano
di sentimento». Da queste parole, di una consapevolezza sconvolgente, si vede chiaramente
l'infiacchimento dell'immaginazione e il conseguente passaggio dalla poesia alla "filosofia": per uno
scherzo del destino, il Leopardi diventa vero poeta quando afferma di non esserlo più!
Già nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi italiani si vede l'identificazione della poesia
con la natura e l'opposizione natura vs ragione. Cos'è la poesia contemporanea? In cosa consiste? In
un primo momento, Leopardi sostiene che essa nasce dall'immaginazione sul modello degli antichi,
anche se il loro mondo è ormai passato. L'esigenza leopardiana è di evitare due pericoli (pericoli per
lui, ovvio!): lo scadimento nel patetismo tipico dei Romantici e il cedimento al potere della pura
ragione. E tuttavia, la crisi del 1819 lo convince che la poesia d’immaginazione è finita per sempre; da
qui l'impossibilità dei moderni di produrre poesia immaginativa a tutto vantaggio della poesia
sentimentale. Bisogna però anche precisare che, secondo il Leopardi, la poesia sentimentale non è la
"poesia dei sentimenti" (come per i Romantici), ma poesia del puro sentire, della sensibilità, una
poesia che nasce dall'angoscia dell'inappartenenza esistenziale (lo "stato di languore" di cui ha parlato
sopra). La sensibilità è fonte di poesia; più ancora, è presa di coscienza della vita come assoluta
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Si veda, per esempio, A se stesso.
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assenza in rapporto con la malinconia . Si rafforza in lui la convinzione che la poesia moderna non
possa che essere "malinconica". Qui sta la differenza tra il Romanticismo e Leopardi: per quest'ultimo
la vita è il luogo dell'assenza, mentre per i Romantici la vita è "piena" di sentimenti; per l'uno la
poesia nasce dal sentimento malinconico dell'assenza, per gli altri nasce da una specie di
"affollamento" di svariati sentimenti.
C'è un'altra considerazione che merita di essere menzionata. Leopardi è convinto, a ragione anche
questa volta, che la poesia antica nasca da un vero e proprio atto di creazione, cioè una nuova forma
di vita, un mondo che prima non c'era, mentre la poesia moderna dipende dal razionale il quale ha
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distrutto le illusioni che sono la "materia prima" del poeta . A dimostrazione della validità di questa
disamina, F. Nietzsche (finissimo lettore del Leopardi), qualche decennio dopo, dimostrerà che solo
per il mondo antico è possibile parlare di cultura (nel senso proprio di creazione ex novo di qualcosa
che prima non esisteva), mentre il mondo moderno (diciamo dal Cinquecento in poi) conosce soltanto
(e non può essere diversamente) la critica della cultura. Merito di Leopardi è di aver compreso che la
poesia immaginativa è finita per sempre: chi ancora vi indugia è fuori dalla modernità. Il motivo mi
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sembra chiaro: il sentimento non è imitabile .
A questo punto, stando a ciò che dice Leopardi, L'infinito o non è poesia oppure è poesia di un
genere assolutamente nuovo (in effetti non obbedisce ad alcun tipo di progetto). In Zibaldone 1861si
dice: «Tali lontane rimembranze, quanto dolci, tanto separate dalla nostra vita presente, ispirando della
poesia ec., non ponno che ispirare poesia malinconica, com'è naturale, trattandosi di ciò che si è perduto;
all'opposto degli antichi a cui tali immagini poteano ben fare minore effetto a causa dell'abitudine, ma
erano sempre proprie, presenti, né mai si consideravano come cose perdute o riconosciute per vane;
quindi la loro poesia dovea esser lieta, come quella che verteva sopra dei beni e delle dolcezze da loro
ancor possedute e senza timore». Da queste parole risulta, a conferma di quanto detto prima, che il
ricordo di ciò che si è perduto produce malinconia (cioè poesia malinconica, cioè poesia moderna),
mentre per gli antichi la poesia è fonte di gioia. Ne L'infinito si tenta di toccare la sensibilità allo stato
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puro , già nel titolo: ciò significa andare oltre le cose come sono per noi (il mondo fenomenico),
anche le più care, per cogliere la cosa in sé, il deserto da cui scompaiono i segni della vita. Ricordo
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che per Leopardi la vita è rimpianto assoluto, è desiderio e oblazione di desiderio .
L'idea dell'infinito ha a che fare con la malinconia (in questo senso parlavo archetipo). Ora, in
Leopardi la malinconia non è una condizione passeggera, come càpita a molti, ma, direi, esistenziale:
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ciò che si è perso non è qualcosa del mondo fenomenico, ma la Cosa . Essa è il mondo del nonsimbolico, è il pre-linguaggio, è la perdita originaria della madre; in altre parole, la Cosa è il reale che
si ribella alla significazione, è il tentativo di creare rapporti con qualcosa di primordiale. Si tratta del
Das Ding di cui parla Heidegger, che, a sua volta, risale alla distinzione kantiana tra fenomeno e
noumeno, al Wille di Schopenhauer, e in definitiva al tò pràgma autò («la cosa in sé») di Platone a cui
Aristotele opporrà la teoria del Primo Mobile. Per Leopardi la Cosa è la Natura di cui ha
un'irresistibile nostalgia; la Cosa implica l'idea di infinito, è la Cosa che sta prima delle cose e delle
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parole, è l'oggetto finito usato per indicare un oggetto infinito . Sta tutto qui il rapporto tra
malinconia e genialità: ripudiare il desiderio per sublimare il desiderio stesso (il desiderio diventa
poesia); è un desiderio infinito e di infinito che nessun piacere finito può appagare. La poesia nasce
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Non è un caso, anzi è rivelatore, che Leopardi usi indifferentemente la definizione di "poesia sentimentale" e
di "poesia malinconica", come dimostrano molti passi dello Zibaldone.
14 Da qui nasce l'identificazione poesia antica=natura; poesia moderna=ragione.
15 Si vedano in proposito le considerazioni dello Zibaldone, in data 8 marzo 1821.
16 Il tutto nasce, come detto, dal sentimento dell'assenza.
17 È necessario, in proposito, andare a vedere la leopardiana teoria del piacere, con il suo collegamento tra
desiderio del piacere e infinito.
18 Si veda in proposito le riflessioni di J. Lacan, in La Chose, uno dei suoi Sèminaires, e quelle della sua allieva
Julia Kristeeva, Il sole nero, tr. it., Milano, Feltrinelli.
19 Definizione diciamo noi appunto. De-finire = "smettere di dire il finito".
dal vuoto, dall'assenza, cioè dal desiderio, ma ha la pienezza di una forma formata. La poesia moderna
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ha a che fare con la parola indefinita e indeterminata .
Sulla base di tutto ciò che si è detto, L'infinito è la ricerca della Cosa perduta attraverso il "nonnominabile", cioè gli elementi pre-linguistici (suono e ritmo). E' incredibile come il Leopardi sia
riuscito a dire tutto ciò in soli quindici versi, di un'essenzialità unica. Lasciando da parte tutto ciò che
si è scritto su questo testo (fiumi di inchiostro!), soffermiamoci su due elementi fondamentali, cioè il
binomio sedendo e mirando. Per quanto concerne il primo, ci si può chiedere perché il poeta sottolinei
questo particolare: non certo, come si potrebbe pensare, perché la siepe è troppo bassa e quindi
costringe a sedersi (sarebbe troppo banale e Leopardi non è mai banale). In realtà, lo star seduto è la
posizione tipica del malinconico e, se ci si fa caso, il Leopardi degli Idilli è un soggetto lirico seduto:
con ciò si vuole indicare l'abolizione dell'azione e del movimento che prelude al viaggio verso la
Cosa, cioè l'uscita dal mondo fenomenico. Come s'è detto sopra, dopo il 1819 il Leopardi passa dalla
poesia attiva a quella passiva del richiamo verso la Cosa (profondissima quiete). Il sedendo anticipa
l'abolizione della spazio-temporalità e lo dice subito l'iniziale Sempre: si tratta di un "presente
onnivoro", per effetto del quale ha senso solo l'essere, la stasi che precede l'ex-stasis (questo è un
testo mistico).
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A proposito di mirando, si sa che esso indica un vedere tutto interiore : mirare (mondo
noumenico) è il contrario di vedere (mondo fenomenico); il mirare è accostamento alla Cosa. La
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poetica del Leopardi è una poetica del mirare: c'è la realtà e la sua trasfigurazione , si va dalla
presenza all'evento carico di senso. Nel vedere prevale l'azione, nel mirare la contemplazione (io nel
pensier mi fingo). Dopo la Cosa c’è il silenzio, l'afasia.
Un'ultima osservazione. L'annegare e il naufragare sono metafore dell'estasi e il fatto che non
compaiano più in seguito (sono infatti degli hapax legòmena) indica l'unicità del testo: in effetti,
tranne che in Alla luna che può essere considerato un testo gemello, il Leopardi non è più tornato sul
tema, perché l'infinito si coglie una volta sola. Cosa indica il naufragare se non la perdita della
fenomenicità? Non a caso, il naufragare leopardiano corrisponde, nel linguaggio mistico, al
contemptus mundi, cioè del transeunte, del fenomenico. Si capisce anche perché al tema dell'infinito è
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collegato quello della rimembranza : il ricordo è il luogo della Cosa. La rimembranza è un luogo
pieno di cose fenomeniche che, però, rimandano al noumenico: è un andare verso la Cosa restando
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nelle cose !
3. La filosofia leopardiana: il metodo
La filosofia leopardiana sta diventando parte integrante della rivisitazione critica.
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Dice Julia Kristeeva : «la malinconia mi dà una lucidità suprema, metafisica; alle frontiere della vita e
della morte ho talvolta il senso e la presunzione di essere testimone del non senso dell'essere; il mio dolore
è il volto nascosto della mia filosofia, il suo fratello maggiore, muto. Per questo, il malinconico è naturaliter
philosophus e filosofo del nulla essere del nulla». Noi sappiamo bene quanto il Leopardi si indignasse nel
sentirsi imputare il tenore della sua filosofia alle sue condisioni fisiche e psicologiche, tanto che è
diventato un luogo comune dire "pessimista perché malato".
Qui si pone il problema: come è possibile collegare condizione malinconica con filosofia se lo
stesso Leopardi invita a non commettere questo errore? Nessuno dei moderni lettori del Leopardi fu
libero dal pensare che ci fosse un collegamento tra malattia malinconica e filosofia, come non ne fu
libero il primo lettore del Leopardi, F. De Sanctis, il quale dice: "Questa non è ancora filosofia, è il
cattivo germoglio della disperazione, è la secrezione dell'umor nero" (tanto basta per segnare il
destino critico del Leopardi nel senso di una svalutazione della sua filosofia!); "mancano al Leopardi
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Si noti come Leopardi dica queste cose prima di Baudelaire, Pascoli, Ungaretti e compagnia!
Si veda lo studio di L. BLASUCCI, Leopardi e i segnali dell'infinito, Bologna, Il Mulino, 1985.
22 Tra l'altro, il monte Tabor è nell’evangelo il luogo in cui Gesù si trasfigura di fronte ai suoi discepoli i quali
dicono appunto: "È bello per noi stare qui":
23 Si veda Alla luna.
24 Nonostante le apparenze, Leopardi non è mai realistico, neppure quando parla di "gallina tornata in su la via".
25 Il sole nero, op. cit.
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le alte qualità di un ingenio filosofico!". E' stato poi, come si sa, il Croce ad estremizzare la posizione
desanctissina, quando dice: "Nell’intelletto del Leopardi si formava un giudizio che, a poco a poco,
prese veste di teoria filosofica, proeizione raziocinante del proprio stato infelice" (senza commento!).
Entrambi, come si vede, collegano il pensiero del Leopardi alla sua malattia, con il risultato di
svalutarne il pensiero, dicendo: questo non è pensiero! Più recentemente, si è assistito al fenomeno
opposto, cioè si è sganciato totalmente il pensiero leopardiano dalle circostanze concrete in cui è nato
(anche questa è un'operazione sbagliata!).
Quando la Kristeeva dice che il malinconico è filosofo per vocazione, non per questo significa che,
ispo facto, egli sia in grado di convertire creativamente, senza il misterioso dono della creatività, la
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propria sofferenza: il malinconico è un filosofo esistenziale , ma ciò non significa che sia un filosofo
creativo, come il Leopardi, nel quale la filosofia travalica la pura consequenzialità malattita-filosofia,
perché in Leopardi sussiste il misterioso dono della genialità. Già Aristotele diceva che la malinconia
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produce la genialità, così come il malumore, la malattia, la sofferenza .Ora, se è vero che tutta la
filosofia leopardiana può essere posta all'insegna del negativo, in rapporto con la malinconia, ciò non
implica davvero la negatività e quindi l'insignificanza di quel filosofare (come diceva Croce), perché
«non da nulla è questa filosofia del nulla!» (sono parole del Leopardi).
S. Timpanaro dice: «La malattia dette al Leopardi una coscienza particolarmente acuta e precoce del
pesante condizionamento che la natura esercita sull'uomo, dell'infelicità dell'uomo come essere fisico, per
cui essa è diventata un formidabile strumento conoscitivo». Si tratta però di uscire dal generico, dal
momento che questa malattia ha un nome e la filosofia possiede un'impronta autonoma e originale: la
condizione malinconica è un quadro di riferimento imprescindibile e il sistema filosofico, fatta salva
la genialità, non può non portare in sé il codice genetico e il corredo fenomenologico di quello status
esistenziale di cui è sublimazione speculativa. Si pensi, per esempio, al tema della noia e del nulla,
così centrali nel Leopardi: qui c'è davvero una consecuzione di omologie tra stile e contenuti del
pathos, cioè della sofferenza malinconica, e stile e contenuti del pensiero, così che nulla sul piano del
vissuto è senza senso in riferimento all'opera e nulla nell'opera si dà senza concreto radicamento in
quel vissuto, al di là di ogni determinismo.
Da ciò che si è detto, risulta chiaro come io mi stia muovendo in un'ottica non culturalista: sono
convinto che la condizione del Leopardi così connotata sia l'asse portante attorno a cui gira l'intero
universo della sua opera e della sua filosofia, la quale è originale nella misura in cui si dà come
inedita creazione di stile, e questo ha a che vedere con la configurazione complessiva dell'autore a
partire dalle prime esperienze psicologiche. E' solo a partire dalla fenomenologia del vissuto che si
può parlare non astrattamente (come ha fatto benissimo il Timpanaro) del pensiero leopardiano.
Siamo giunti all'opposto di quanto sosteneva il Croce: se Leopardi non fosse stato così, non sarebbe
stato il Leopardi. Lo stesso concetto di ragione non è tanto un prodotto dell'Illuminismo, come si dice
spesso, quanto piuttosto un prodotto di casa Leopardi: se ci si pensa bene, specialmente dopo quanto
si è detto, il razionalismo leopardiano è un razionalismo monaldiano, cioè derivante a Giacomo dal
padre Monaldo, perché, a motivo dell'educazione ricevuta, il Leopardi non ha sviluppato un Io
autonomo, ma delle qualità, soprattutto l'intelligenza: ciò è tipico del malinconico, di colui cioè che
dipende dagli altri (esattamente come Giacomo dipendeva dal padre).
La ragione, sia come distruttrice dell'errore sia come assassina delle illusioni (la strage delle
illusioni), è il fondamento stesso delle relazioni con il padre reale e con il padre fantasmatico, nella
devozione totale come nella rivolta impotente. Parlare allora di ascendenza illuminista del pensiero
leopardiano, con il suo corollario di sensismo e di naturalismo, è qualcosa di astratto. La ragione è
originariamente e soprattutto monaldiana: in nome di essa il ragazzo si è immolato, scoprendone il
potere devastante quando il distacco dal dominio paterno lo ha gettato nella malinconia; è stata la
devozione sacrificale al padre a fare di Giacomo una mente senza corpo, e la malattia è cominciata
con la disperata consapevolezza di questa condizione, così che la ragione è stata fatta colpevole della
rovina nel momento stesso in cui la sua tirannia è diventata ossessivamente una caratteristica stessa
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I depressi non fanno altro che elencare la fenomenologia della condizione dolorosa dell'uomo: chi li ha
frequentati lo sa bene!
27 Aristotele non era un malinconico, a differenza di Platone, il cui concetto di mania appare come l'esito di una
esorcizzazione della sapienza filosofica: non a caso i Neoplatonici del Rinascimento si erano scelti come patrono
Saturno.
della malattia. La malinconia può essere definita come pensiero dolente: il malinconico, infatti, è uno
che pensa troppo, è un pensatore in eccesso, che trasforma tutto in pensiero. A 17 anni Leopardi
scrive il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi: si tratta di un libro monaldiano, cioè una
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demolizione, sulla base della ragione, di tutti gli errori degli antichi, quindi di suo padre . Ciò è
importante perché le due conversioni, quella del 1816 e quella del 1819, hanno alla base il passaggio
dalla devozione verso la ragione alla consapevolezza che la ragione è colpevole di tutto, per cui
l'errore, che prima era considerato il peccato per eccellenza, diventa il positivo: cosa sono, infatti,
l'illusione e la fantasia se non un "errore", cioè qualcosa che fa "errare"? Tutto questo capovolgimento
avviene senza mai uscire dall'universo monaldiano che ha impiantato questa concezione. Ecco allora
che l'Illuminismo subentra solo in seconda istanza.
Quello del Leopardi è stato definito pensiero dolente: ciò è giusto perché nel malinconico il
collasso della vitalità fa tutt'uno con l'ipertrofia del razionale; e chi non vive, cioè non prova le
distrazioni potente dell'agire, non può fare altro che pensare –sino al dolore mentale– e pensare alla
propria condizione. L'attività del malinconico (il pensiero) non può che essere negazione di quella
stessa attività (pensiero ridotto a se stesso e privo di ogni raccordo con l'esteriorità). Leopardi diventa
filosofo nella misura in cui si afferma la sua malinconia, fino al punto di rottura rappresentato dalla
crisi del 1819, quando diventa, come dice lui, «filosofo di professione da poeta che io era».
Certo, anche la più filosofica della malattie, la malinconia, non basta a far diventare filosofi di
professione. Questa filosofia, che risulta così nuova da far credere a Croce che fosse inesistente,
attinge la propria originalità dal costituirsi, a partire dall'ipertrofia patogena del razionale, come teoria
dello scacco della ragione nel trionfo del razionalismo illuministico e idealistico, tra Kant ed Hegel.
Conviene allora soffermarsi sul nesso ragione-filosofia. Si tratta di due termini facilmente
sovrapponibili e il secondo tende ad assumere una funzione di trascendimento rispetto al primo, cioè:
dal momento che la filosofia non può identificarsi, pena la sua distruzione, con l'oggetto che intende
distruggere (la ragione), non si può credere che la filosofia leopardiana coincida con la ragione perché
altrimenti, siccome tutto il suo pensiero è volto verso la distruzione della ragione, sarebbe lo stesso
che morto alla distruzione della filosofia. Al di là delle varie opposizioni (natura vs ragione, illusioni
vs realtà, sistema del bello vs sistema del vero), rimane ferma la convinzione circa il potere distruttivo
della ragione. Subito all'inizio dello Zibaldone, infatti, Leopardi dice: «Qui voglio notare come la
ragione umana di cui facciamo tanta pompa sopra gli altri animali, e nel cui perfezionamento facciamo
consistere quello dell'uomo, sia miserabile e incapace di farci non dico felici ma meno infelici, anzi di
condurci alla stessa saviezza che par tutta consistere nell'uso intero della ragione (...) E' certissimo che
tutto ciò che noi facciamo lo facciamo in forza di una distrazione e di una dimenticanza, la quale è
contraria direttamente alla ragione. E tuttavia quella sarebbe una verissima pazzia, ma la pazzia la più
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ragionevole della terra, anzi la sola cosa ragionevole» . Della ragione la filosofia mantiene tutte le
caratteristiche negative e in effetti i due termini sono dati come equivalenti e intercambiabili: anche la
filosofia impoverisce la vita, la rende brutta e monotona, dissecca le fonti dell'immaginazione, induce
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all'inazione. Ragione e filosofia realizzano il tipico tratto malinconico dell'assenza di movimento .
A questo punto, la domanda è: se ragione e filosofia sono entrambe negative, che senso ha
filosofare? Sembra che in un primo momento il Leopardi non si renda conto di questa aporia, come il
suo filosofare sulla filosofia sia un trascendimento di fatto della pura negatività di cui tratta. In effetti,
non c'è sospetto di aporia fino a quando ragione e filosofia sono dati come equivalenti e il binomio
viene contrapposto al mondo dell'immaginazione. Bisogna tener presente che l'equivalenza ragionefilosofia vige fino a quando e nella misura in cui Leopardi ha in mente la filosofia moderna che è
essenzialmente critica, cioè demolitrice delle credenze antiche e scopritrice del vero, informandosi ai
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criteri della matematica e delle scienze . Ma colui che si è fatto filosofo di professione e che fa
filosofia sugli effetti devastatori della filosofia fa presto ad accorgersi della propria diversità rispetto
ai veri filosofi di professione, perché in qualche modo ha dovuto trascendere quella negatività per
accorgersi di essa e, per far questo, ha scosso l'identità tra ragione e filosofia. In secondo luogo: se
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Si ricordi a questo proposito l'importanza e il significato degli spaventi notturni di cui il Leopardi parla spesso.
Zibaldone, 103-104; ma si veda anche Zib. 4192, passo del 1824.
30 Si ricordi lo "star seduto" de L'infinito.
31 «La filosofia moderna non fa altro che disingannare e atterrare», afferma Leopardi.
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l'opposizione tra filosofia e poesia fosse assoluta, l'una rappresentativa della modernità e l'altra del
mondo antico, perché gli antichi furono anche grandi filosofi? È su questo punto che il Leopardi deve
distinguere tra filosofia e filosofia, perché c'è stato un tempo (l'antichità) in cui filosofare non
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significava rinunciare all'immaginazione e all'azione: il filosofo antico era creativo quanto il poeta ,
perché il suo pensiero era sintetico e costruttivo, non analitico e critico come quello dei moderni. Tutti
i pensatori antichi facevano della propria filosofia non una dottrina fredda, ma un modo di interpretare
la realtà, tanto da distinguersi dagli altri uomini per la loro vita singolare (si pensi a Socrate e ai
Cinici). In questo modo, dice Leopardi, la filosofia antica era vicina al pensare primitivo, affine alla
natura: «Ogni passo della sapienza moderna svelle un errore, ma non pianta niuna verità; dunque se
l'uomo non avesse errato sarebbe già sapientissimo. Ma chi non ragiona non erra. Dunque, chi non
ragiona o non pensa è sapientissimo. Dunque sapientissimi furono gli uomini prima della nascita della
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sapienza e del raziocinio sulle cose: sapientissimo è il fanciullo e il selvaggio che non conosce il pensare" .
Per il Leopardi quindi il migliore filosofo è colui che non pensa. Per uscire da questa situazione
paradossale (non si può certo dire che i filosofi antichi non pensassero!), bisogna mediare tra i due
termini dell'opposizione che di per sé conduce al paradosso: la mediazione consiste nel disancorare la
filosofia dalla coincidenza, tutta moderna, con la ragione.
Qual è allora la vera filosofia? Il razionalismo aristotelico o la filosofia di Platone che include
anche l'immaginazione? La domanda è parallela a quella sulla vera poesia perché, come la poesia vera
è quella antica, così la vera filosofia è solo quella moderna, con la possibilità che anche anticamente
si potesse filosofare razionalmente (Aristotele e seguaci) e che anche modernamente si possa fare
poesia in termini di sentimento. Si capisce quindi che il Leopardi, dopo aver puntato sull'opposizione
natura vs ragione, antico vs moderno, poesia vs filosofia, è costretto a porsi domande sulla natura del
proprio filosofare, dal momento che si rende conto di essere sia filosofo sia poeta. Ecco allora che
Leopardi conia un termine molto significativo: parla di ultrafilosofia. Essa è lo sforzo di
trascendimento della ragione pura, caratteristico di tutta la speculazione leopardiana, costantemente
alla ricerca di ciò che, sempre nell'uso rigoroso degli strumenti razionali, valga a scuotere
l'identificazione tra ragione e filosofia. Il superamento di tale identificazione non avviene in una
mescolanza di poetico e di filosofico, perché i due momenti sono ben distinti. Colui che è diventato
filosofo, in quanto vittima della ragione, ha cercato di svincolare la propria filosofia dalla coincidenza
con la ragione. Il Leopardi dice chiaramente che sola la ultrafilosofia ci libera dagli inganni della
filosofia; da ciò il paradosso secondo cui «nessuno è meno filosofo di chi vorrebbe tutto il mondo
filosofo». Il vero filosofo è, secondo Leopardi, colui che valorizza le proprie illusioni, proprio in virtù
del suo non essere illuso, mentre il filosofastro combatte le illusioni proprio perché è un illuso.
Insomma, il filosofare si presenta a Leopardi come necessità di un superamento dell'opposizione
filosofia-poesia, al punto che il fondamento della speculazione diventa la facoltà sensitiva; ne deriva
che la filosofia è per Leopardi la scienza della sensibilità, conoscenza intima del cuore umano. Si
tratta di un filosofare pre-esistenzialista (intendo dire in anticipo rispetto all'esistenzialismo di
Heidegger). Questo spiega anche perché da molti la sua filosofia sia stata considerata una nonfilosofia, perché non è affatto una gnoseologia e neppure un'etica: è una fenomenologia esistenziale!
Il nesso filosofia-poesia, assolutamente centrale in Leopardi, è problema metodologico assillante
nella misura in cui deve dare conto di quell’irriducibile "altro dalla ragione" che è la natura e la
grande novità di questa filosofia, così a lungo incompresa. La qualità tipica dell'ultrafilosofo è quella
che il Leopardi definisce il "colpo d'occhio", o "genio", che significa partecipare della sensibilità e
quindi della vitalità della natura. Questo lampo rivelatore che dischiude verità nascoste presuppone
quelle virtù di sensibilità e immaginazione che, trascendendo la ragione in quanto tale, costituiscono
la dote prima del grande poeta. Il vero filosofo immaginato da Leopardi è tanto raro da rischiare
l'inesistenza (il vero filosofo è lui e di Leopardi ce n'è uno solo!). Tutto questo però non significa che
poesia e filosofia si identifichino e che mescolino il loro linguaggio (anche se deriva dalla stessa
fonte): chi si dedica alla speculazione deve usare le armi del mestiere, facendosi "freddissimo
ragionatore" (com'era lui), anche se la sorgente della conoscenza viene dalla sua natura di
"ardentissimo poeta". E' lo stesso Leopardi che spiega questo paradosso dicendo: «È la contraddizione
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Si pensi ai poemi filosofici Peri physeos dei Presocratici.
Zibaldone 2710ss.
che involve in sé la ragione, la quale, per fare grandi effetti e decisi progressi, ha bisogno di quelle stesse
disposizioni naturali che ella distrugge o ne è distrutta: l'immaginazione e il sentimento». È quindi
sbagliato affermare che l'opposizione natura-ragione venga poi risolta, perché l'opposizione resta,
anche se sussiste un indissolubile vincolo tra le due facce che la compongono. In effetti, come si è
visto sul piano del vissuto (§ 1) e su quello della poetica (§ 2), si tratta degli strati di un'unica
condizione esistenziale: è il fuoco del desiderio e della nostalgia di vita, di cui si nutre la poesia, e il
ghiaccio della morte malinconica, di cui la ragione è il corrispettivo (ecco di nuovo l'ossimoro
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ghiaccio-fuoco) .
4. La filosofia leopardiana: una questione di stile
Dopo quanto si è detto, ci si potrebbe chiedere se il Leopardi sia da considerare un esponente della
cultura moderna o non presenti piuttosto una sorta di preumanesimo (o di antiumanesimo). Per
rispondere bisogna considerare che per lui i nomi che contano, quelli a cui si sente più legato, sono
proprio i fondatori del pensiero moderno: Machiavelli, Galileo, Cartesio, Newton, Locke. Ne deriva
che l'opposizione ragione vs natura, positivo vs negativo non comporta un riflusso preumanistico e
oscurantista, perché il Leopardi introduce il concetto intermedio di seconda natura: la ragione è la
seconda natura dell'uomo (si tratta dell'epoca moderna). In pratica, per il Leopardi tra l'età della natura
e quella della ragione c'è il passaggio intermedio della barbarie, un'epoca, cioè, in cui non esiste più
la natura prima (la felicità originaria degli antichi), ma al tempo stesso non esiste ancora la seconda
natura: esiste solo l'allegorico, il fantastico, la superstizione connessa con una filosofia razionalista
basata su premesse fantastiche (si tratta del Medioevo aristotelico che il Leopardi considera età della
barbarie). Il pensatore moderno, invece, è colui che scopre il vero, la "verità effettuale" di cui parla,
come è noto, Machiavelli: questa è la seconda natura («ancor che triste, ha i suoi vantaggi il vero!»,
dice Leopardi), cioè il vero come sistema filosofico. A dimostrazione di ciò basterà citare (tra i tanti
esempi) il Dialogo di Plotino e Porfirio: quando Plotino sostiene che il suicidio è contro natura,
Porfirio ribatte: «quella natura primitiva degli uomini antichi e delle leggi selvagge e incolte non è più la
nostra natura: ma l'assuefazione e la ragione hanno fatto in noi un'altra natura; la quale noi abbiamo, ed
avremo sempre, in luogo di quella prima». La prima natura, per cui il suicidio è illecito, non esiste più;
di conseguenza, per la seconda natura esso è lecito (anche se poi, come si sa, Porfirio –e lo stesso
Leopardi– non si suicida). La seconda natura, insomma, è il minore dei mali possibili: dicendo
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questo, viene meno l'interpretazione "progressiva" del Leopardi , secondo la quale la Ginestra
sarebbe l'atto conclusivo di un percorso evolutivo, mentre queste cose il Leopardi le diceva già nel
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1824 : si può dire, certo, che il Leopardi sia progressivo, ma non nel senso del progressismo
settecentesco.
Abbiamo visto come sia la linea idealista (Croce e seguaci) sia quella marxista (Binni, Timpanaro,
Luporini), abbiano travisato la filosofia leopardiana, perché non sono riuscite a coglierne la grandezza
(il Leopardi non è né positivista né marxista), cioè lo snodo basilare, che consiste nello stretto
legame tra pensiero e poesia (la sua è una poesia pensante e un pensiero poetante). A questo punto
non ci stupirà saper che gli unici a capire la filosofia leopardiana siano stati gli irrazionalisti tedeschi,
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Shopenhauer e Nietzsche . Che tra Leopardi, Shopenhauer e Nietzsche vi siano numerosi punti di
contatto non mette in conto dimostrare, essendo cosa nota per chi ha letto le loro opere e ne conosca il
pensiero. Mi soffermo solo (si fa per dire!) sull'aspetto secondo me fondamentale: il concetto di stile,
che significa non solo modo di scrivere, ma anche modo di pensare. Ora, sia Shopenhauer sia
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A questo proposito, c'è un'osservazione molto interessante del Leopardi circa il peccato originale:
contrariamente all'opinione comune, egli afferma che quello di Adamo e di Eva è il peccato dell'intelligenza,
perché essi hanno voluto essere come Dio assumendo per sé lo strumento dell'intelligenza (ma, come dice
Bergson, «la vita è più dell'intelligenza»).
35 Cfr. LUPORINI, Leopardi progressivo.
36 Si veda, oltre alle Operette morali, il Discorso sopra lo stato presente dei costumi italiani.
37 Da notare un fatto emblematico: già nel 1855, quando in Italia nessuno ne parlava, un esule russo, sulla rivista
Atheneum François, definiva il Leopardi «uno dei più geniali pensatori che ci offra la filosofia».
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Nietzsche (come Leopardi) sono, oltre che filosofi, anche grandi scrittori , e lo sono perché dietro lo
stile c'è il pensiero e il loro stile di pensiero si traduce in una scrittura artistica, stile del pensiero e
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pensiero sullo stile . Come dice Shopenhauer: «La conoscenza geniale non segue il principio di
ragione: l'uomo di genio non è intelligente, è un selvaggio; il filosofo ideale è colui che non pensa!».
È proprio a partire da qui che si capiscono i legami instaurati da Leopardi tra filosofia e poesia: la
filosofia è alleata della poesia e viceversa. Come per Schopenhauer e Nietzsche, anche per Leopardi il
principio di ogni conoscenza è estetico, non teoretico: la parola è sostanza del pensiero e il pensiero, a
sua volta, è un problema di stile, prima ancora che di conoscenza: conoscenza dello stile che diventa
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stile della conoscenza . In Leopardi, la poesia non è solo il contenuto, ma anche la forma della
filosofia: «immaginazione e intelletto sono tutt'uno», dice nello Zibaldone.
Prima di terminare accenniamo a due pilastri del sistema leopardiano:
a) assuefazione: indica l'acquisizione rispetto a ciò che è il dato originario, vale a dire ciò che
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l'uomo impara, cioè la cultura. «L'uomo è l'animale più assuefabile di tutti» . In questo senso, che
cos'è il talento se non la disponibilità a contrarre abitudini e attitudini? L'uomo, dice Leopardi, è il
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prodotto delle circostanze ambientali e delle manipolazioni che ha subìto . Ne consegue che la
filosofia leopardiana è radicata esistenzialmente (cfr. § 3) perché parte sempre dalla sua esperienza e
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per il fatto che porta in sé le stimmate dell'impianto malinconico .
b) relativismo: questo tema è legato strettamente al primo, perché, se tutto è assuefazione, tutto è
relativo, dal momento che tutto dipende dai condizionamenti ambientali che ci hanno plasmato; di
conseguenza, se tutto è costruito, niente è innato. «Ella è cosa certa e indubitabile: la verità, che una cosa
sia buona, che un'altra sia cattiva, vale a dire il bene e il male, si credono naturalmente assoluti, e non sono
altro che relativi. Questa è una fonte immensa di errori, e volgari e filosofici. Questa è un'osservazione
vastissima che distrugge infiniti sistemi filosofici ec.; e appiana e toglie infinite contraddizioni e difficoltà
nella gran considerazione delle cose, massimamente generale, e appartenente ai loro rapporti. Non v'è
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quasi altra verità assoluta se non che Tutto è relativo. Questa dev'essere la base di tutta la metafisica" . Il
relativismo comporta anche il crollo dell'idea di Dio («principio di tutte le cose e di Dio è il nulla»); non
si può tuttavia dire che Leopardi sia ateo, perché in lui c'è una distinzione tra il Dio dei filosofi (in
quanto idea) e il Dio di natura, per cui anche il problema di Dio, come si vede, si sposta dalla ragione
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alla natura . Giova anche ricordare che il malinconico è naturalmente portato all'ateismo perché la
malinconia produce il collasso della speranza, quindi della fede (che è, come dice Dante, sostanza di
cose sperate), quindi della carità.
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Del primo si veda quel delizioso libretto che è Sul mestiere dello scrittore sullo stile, tr. it. Milano, Adelphi,
1993
39 Si vedano i rilievi negativi mossi da Shopenhauer sul modo di scrivere di Hegel.
40 «Lo stile è la fisionimia dello spirito» (Shopenhauer, Sul mestiere, cit., pg. 42).
41 Zibaldone 1456.
42 Ciò spiega perché ci siamo soffermati sul vissuto del poeta: è lui stesso che ci invita a farlo, non solo l'amore
per la psicanalisi!
43 Come dice la Kristeeva (op. cit.), «la malinconia mi conferisce una lucidità straordinaria».
44 Zibaldone 452 del 22.12.1820. Faccio notare che per Leopardi metafisica corrisponde a filosofia in generale.
45 Cfr. Zibaldone 1619.