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MUSSOLINI
DAL MITO ALLA STORIA
Il 10 giugno del 1940 l’Italia entrava nella seconda guerra mondiale. Tanto
popolare era stata la guerra etiopica e tanto impopolare apparve sin dai
primi mesi quella a fianco della Germania. La generazione nata e cresciuta
col fascismo ne fu protagonista e vittima. sui campi di battaglia.
Nel giugno del 1945, al rientro dalla prigionia in Germania, m’imbattei
in un’Italia quasi dimentica della sua storia degli ultimi venti anni. Non
c’era discussione in salotto, articolo di giornale, pubblico dibattito in cui il
nome di Mussolini non era associato ad un’ingiuria: l’uomo, che aveva
sedotto e compromesso l’intera Nazione, era stato un imbecille, un
megalomane, un folle, un sanguinario, un venduto, un vile, un inetto.
Eppure era l’uomo che il Re aveva incaricato di formare il governo senza
infrangere la prassi istituzionale; era l’uomo che in poche ore aveva
costituito l’esecutivo , riservando agli oltre duecento eletti in un
disomogeneo listone i due terzi dei ministeri.
Nel suo discorso d’investitura Mussolini non fu uno specchio di formale
rigore parlamentare: memorabile il suo sarcastico “avrei potuto fare di
quest’Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli”. La Camera non parve
risentirsene troppo, e in assoluta libertà accordò al nuovo capo del governo
la fiducia con 316 voti a favore e 119 contrari; né parve risentirsene il
Senato, interamente di nomina regia e quindi non succube degli umori
dell’elettorato, che concesse una fiducia plebiscitaria con 196 voti a
favore e 19 contrari.
.
Il voto delle due Camere fu, prima e dopo, suffragato da autorevoli
dichiarazioni Il più volte presidente del consiglio Giovanni Giolitti si
disse del parere non doversi ostacolare Mussolini che aveva tratto il Paese
dal fosso in cui stava per imputridire; l’ex presidente del consiglio d’area
radicalsocialista Francesco Saverio Nitti ammonì sulla necessità di lasciar
compiere indisturbato l’esperimento fascista; il leader liberale, Giovanni
Amendola, riconobbe l’opportunità di consentire a Mussolini di ristabilire
la legalità; un personaggio estroso e focoso come Gaetano Salvemini
augurò a Mussolini di poter riuscire a spazzar via le mummie e le canaglie
della vecchia classe politica; Filippo Turati, storico capo dei socialisti,
espresse la convinzione che soltanto Mussolini era in grado di ottenere la
pacificazione nazionale.
A Bologna, nel 1926, qualcuno spara contro Mussolini in Piazza
Maggiore: la folla crede d’identificare l’attentatore in un giovane di
sedici anni, Anteo Zamboni, di famiglia anarchica, che fu immediatamente
linciato.
Nei giorni successivi si scatena il linciaggio morale d’alcuni suoi
familiari, cui seguiranno processi e condanne a trenta anni di carcere , e
però qualche anno dopo, la grazia. L’unico assolto, un fratello di Anteo,
beneficerà delle sovvenzioni di Mussolini per poter proseguire gli studi
universitari.
Se in ogni tempo inclinano all’imbarbarimento i regimi democratici
quando la lotta politica sfiora la guerra civile, è fatale che inclinasse
all’imbarbarimento il fascismo nell’imperversare degli attentati e degli
scontri. L’attentato di Bologna induce Mussolini (ma si sa quanto abbiano
influito sulle sue decisioni i consigli e le pressioni d’uomini di pensiero e
anche dalla manganellata facile) ad introdurre il confino di polizia contro
gli avversari politici; a istituire il tribunale speciale per la difesa dello
Stato sottraendo al giudice naturale gli imputati; a ripristinare la pena di
morte, espulsa dal codice penale quaranta anni prima; a sciogliere i
partiti politici, a reintrodurre la retroattività della norma penale
calpestando l’antica cultura giuridica.
Nel dopoguerra saranno gli antifascisti a varare norme penali retroattive
contro i fascisti: chi non ricorda la corsa alle epurazioni?
A Mussolini non piacciono le leggi.-stralcio: il suo regime ha bisogno di
un codice penale organico; e i giuristi nell’arco di pochi anni gliene
approntano uno; in un quarantennio il regime repubblicano non è riuscito
a darsene uno nuovo, ispirato ai canoni della Costituzione. (n.d.a
quest’articolo è stato scritto nel 1983)
Gli strali dell’antifascismo contro il codice penale fascista sembrano
punture di spillo rispetto a quelli scagliati contro Mussolini all’indomani
della firma dei Patti Lateranensi e annesso Concordato. Si disse, si scrisse,
si urlò che lo Stato laico aveva capitolato, i pilastri della tradizione liberale
e risorgimentale erano caduti in frantumi, le istituzioni si erano
confessionalizzate e il Tesoro si era svenato versando nelle casse vaticane
un miliardo e settecentocinquanta milioni di lire, come risarcimento dei
danni inferti alla Chiesa dalle “leggi eversive” dell’epoca cavouriana
Con l’avvento della Repubblica antifascista la Chiesa godrà di ben altri
benefici: la parte più cospicua della Sinistra, auspice Palmiro Togliatti,
costituzionalizza i Patti Lateranensi votando l’articolo 7: la decisione
viene esaltata come un atto di suprema saggezza civile e politica.
Lo sdegno dell’antifascismo sulla capitolazione della monarchia laica e
giacobina è incontenibile quando, quasi a suggello di quei Patti, il Re e la
Regina si recano in Vaticano a rendere omaggio a Pio XI, successore dei
successori di quel Pio IX che, nel bel mezzo delle lotte del Risorgimento,,
aveva scomunicato Vittorio Emanuele II.
Dimentichi di tante disavventure, appena insediati, i Presidenti della
Repubblica si recano in visita al Vaticano: vi si sottrarrà soltanto Sandro
Pertini, che allaccerà col Papa una privata amicizia, memore forse di
quella fra “Voltaire e “l’illuminista”Benedetto XIV, più noto come
Cardinale Lambertini.
Con addosso la corazza del Concordato del ’29, e con la Chiesa ora alleata,
ora neutrale, col codice penale a difesa della legalità del suo regime,
Mussolini si avvia a festeggiare il primo decennale della sua ascesa al
potere, e può affacciarsi al balcone di Palazzo Venezia per annunciare al
mondo che “fra dieci anni l’Europa se non sarà fascista sarà fascistizzata”.
Gli eventi in Italia e in Europa sembrano dargli ragione.
Mussolini, consigliato dal filosofo Giovanni Gentile nel 1932, chiede ai
professori universitari il giuramento di fedeltà al suo regime: soltanto in
undici rifiutano di giurare. Si chinano al giogo uomini come Bobbio
Calamandrei.
In Europa c’e’ qualcosa di nuovo
Un certo Adolf Hitler in Germania avanza, prima a passi stentati, poi a
passi da gigante. Nel ’32, in soli dieci mesi, la sua rappresentanza al
Reichstag sale da 105 a 230 deputati.
E’ sicuramente un grande eversore, ma la costituzione di Weimar, forse la
più democratica di tutti i tempi, che la Germania s’è data dopo la catastrofe
nella prima guerra mondiale, gli garantisce libertà di azione.
Ammiratore non ricambiato del dittatore italiano, Hitler conquista il potere
con il consenso del popolo tedesco, e con la legittimante investitura, nel
gennaio del 1933, dell’eroe nazionale della prima guerra mondiale,
Hindeburg.
In tutta Europa, la lotta politica sembra evolvere verso forme autoritarie:
resiste, e il miracolo non stupisce, la Gran Bretagna (nel suo quadro
politico ha uno scarso peso il partito fascista di Mosley). “O Roma o
Mosca” Mussolini sentenzia, definendo “il comunismo un
supercapitalismo di stato portato alla sua più feroce espressione”.
Profeta o impostore?
Mussolini è filotedesco? Sino alla vigilia della guerra d’Etiopia il
revanscismo tedesco non lo trova consenziente, e i primi tentativi di Hitler
di sconvolgere l’equilibrio europeo lo trovano schierato con Gran Bretagna
e Francia. Quando nel ’34 Hitler, da un anno al potere, tenta un colpo di
Stato per annettersi l’Austria, le due grandi democrazie protestano, mentre
Mussolini mobilita le sue truppe alla frontiera del Brennero.
La politica estera di Mussolini subisce una grave perturbazione con
l’aggrovigliarsi della questione etiopica: Francia e Gran Bretagna, non c’e’
dubbio, sono superpotenze coloniali; né c’e’ dubbio che l’una e l’altra
abbiano tratto il maggior profitto dalla prima guerra mondiale. Il loro tono
predicatorio nei confronti delle pretese dell’Italia sull’Etiopia appare
irritante: col regime coloniale o con il regime dei protettorati e dei mandati
la sola Inghilterra controlla quasi la metà delle terre emerse.
Il contrasto con le grandi democrazie europee isola Mussolini e apre la
strada alle crescenti rivendicazioni di Hitler, che approfitta della crisi
dell’equilibrio europeo per rioccupare le zone smilitarizzate del Reno e
spazzar via l’indipendenza dell’Austria. Gran Bretagna e Francia, come
nel 1934, stanno a guardare; ma stavolta sta a guardare anche Mussolini.
Una verità è inoppugnabile: con la guerra d’Etiopia Mussolini e la sua
politica guadagnano il plebiscitario consenso degli italiani. Si dichiarano
in suo favore Papini e Bontempelli, Marconi e Ungaretti, Savinio e De
Chirico, Palazzeschi e Pirandello, vecchie e forti voci dell’antifascismo si
affievoliscono, Benedetto Croce versa all’ammasso dell’oro per la patria la
sua medaglietta di senatore, Vittorio Emanuele Orlando, il Presidente della
Vittoria, con un telegramma si mette a disposizione del Duce.
Voci di consenso contro l’arroganza delle grandi democrazie si levano
anche da settori dell’emigrazione antifascista.
Il dissenso da Mussolini comincia a manifestarsi con il suo intervento
nella guerra civile spagnola. Nell’arco di pochi mesi, il conflitto si
internazionalizza e si ideologizza.
Le folle oceaniche non gremiscono più le piazze neanche quando, entrato
vittoriosamente a Madrid, il generale Franco seppellisce la democrazia
spagnola: al di qua delle Alpi, in quella circostanza, esulta invece il Papa,
inviando un messaggio al vincitore generale Franco, vincitore di una
guerra fratricida, costata un milione di morti.
Le folle non scendono nelle piazze all’annuncio delle inattese leggi razziali
e antisemitiche. Noi giovani universitari ricordavamo le polemiche della
stampa fascista di qualche hanno prima contro il razzismo e
l’antisemitismo hitleriano, e anche le vignette di sdegno sui periodici
umoristici.
Sono, questi, gli anni in cui in mezzo al dilagante conformismo, dalla
stampa universitaria e dai Littoriali della cultura, e da alcune riviste, buon
ulimo arriverà Primato, si levano le voci del dissenso: un dissenso spesso
generico, qualche volta puntuale: il longanesiano Mussolini ha sempre
ragione, non fa più testo.
Si discute, si ha il coraggio di discutere, di tutto e di tutti, e soprattutto
degli uomini del potere. Dalla stampa giovanile si levano le voci per
invocare uomini nuovi. Non è, quella dei giovani, un’invocazione da poco:
il fascismo al potere sostiene di essere una novità nella storia dell’Italia e
del mondo e i suoi protagonisti scadono nella fiducia della gioventù
cresciuta nel clima del Littorio.
L’invocazione dei giovani suscita divisioni e contrasti nell’alta gerarchia
del fascismo: una conseguenza, questa, di sicuro significato politico che
non contribuisce alla stabilità del regime.
E’ forse per dare una risposta allo scontento dei giovani che Mussolini
insedia al vertice del partito Aldo Vidussoni, non ancora trentenne,
valoroso combattente, ma non certamente un genio del cambiamento.
Fra le voci del dissenso (mi sia consentito un ricordo personale) ci fu
anche la mia. Le occasioni me le offrirono il giornalismo universitario e i
Littoriali della cultura.
La stampa universitaria godeva di qualche privilegio, ma nulla sfuggiva
all’occhio dell’apparato poliziesco che prendeva di mira le eresie.
I littoriali della cultura, sui quali il giudizio dell’antifascismo è stato spesso
ispirato da preconcetti faziosi, proponevano temi dell’ortodossia del
regime, ma gli svolgimenti dei giovani sfidavano spesso l’intrusione della
gerarchia e denunciavano la piaga del conformismo.
Sfogliavo di recente alla Biblioteca Nazionale di Roma la stampa giovanile
del Ventennio (n.d.a. Ricordo che scrivo nel 1983), soffermandomi su
quelle del settimanale più autorevole, alludo a ROMA FASCISTA,
settimanale dell’Ateneo locale, con diffusione nazionale. Vi scoprii
articoli di ripugnante servilismo, ma anche note, corrispondenze, rubriche
di grande acutezza. Molte delle firme degli autori non conformisti sono
riapparse nella stampa e nella letteratura del dopoguerra. Ne cito alcune
del centinaio ricordate da Ugo Indrio, ultimo direttore del settimanale, nel
suo bel libro “Da Roma Fascista al Corriere della Sera”:
Giacomo Primo Augenti, Gabriele Baldini, Italo Calvino, Adolfo Celi,
Agostino degli Espinosa, Dino Del Bo, Julius Evola, Diego Fabbri, Enzo
Forcella, Salvatore Gatto, Nino Guglielmi, Ruggero Iacobbi, Carlo
Lizzani, Mario Landi, Gaetano La Terza, Milena Milani, Antonio
Marzotto, Franco Molteni, Mariano Pintus, Corrado Petroni, Giuseppe
Preziosi, Sergio Panunzio, Angelo Maria Ripellino, Franco Rusconi,
Edgardo Sulis, Regdo Scodro, Carlo Sylos Labini, Luigi Squarzina,
Luciano Salce, Eugenio Scalfari, Nino Tripodi, Mario Tedeschi, Ferruccio
Troiani, Turi Vasile, Vittorio Zincone.
Fra questi nomi è stato compreso quello mio, ENZO PEZZATI,
sconosciuto collaboratore di periferia, gratificato quasi subito dell’onore
della prima pagina.
La mia collaborazione venne bruscamente interrotta da un veto di
Fernando Mezzasoma (mi raccontò il direttore Ugo Indrio): il veto era
stato la conseguenza di un punto interrogativo attribuito alla matita verde
di Mussolini su un mio neretto, intitolato Deflazione, comparso fra
l’articolo di fondo del direttore e la spalla di Ferruccio Troiani.
Avevo venti anni e aveva osato scrivere in chiusura di quel neretto:
”E’ tempo che all’ordine fittizio subentri l’ordine morale”.
Avevo osato scrivere, polemizzando sulla parola d’ordine “Credere,
obbedire, combattere”: Con la fede obbligatoria si cade nella
degenerazione morale, nel pervertimento collettivo, originando una
perniciosa e deleteria abulia, tomba dei popoli e delle dottrine”
Avevo osato scrivere, in tempi in cui si rivendicavano militanze fasciste
anteriori alla Marcia su Roma: “I credenti, anche se tesserati di vecchia
data, sono spesso credenti all’acqua di rose, che al primo alitar di
vento rinnegano la loro fede, i loro capi, se stessi”.
E qui va detta una parola di gratitudine ad alcuni maestri che mi avevano
educato all’anticonformismo; e va anche ricordato che nel trascorso
quarantennio repubblicano si è spesso voluto colpevolmente ignorare
che liberi maestri nella scuola fascista ci furono, e molti: la luce della
ragione che irradiarono dalle cattedre del liceo della mia Palermo, maestri
come Gaetano Giafaglione ed Eugenio Garin, in me non si è mai
affievolita.
I Littoriali della Cultura, giudicati con sdegnosa sufficienza
dall’Antifascismo del dopoguerra, furono una palestra d’esaltazione del
fascismo e di Mussolini?
Non c’è dubbio che i temi dei convegni erano ispirati alla celebrazione del
regime, ma scorrendo le classifiche delle edizioni susseguitesi dal 1934 al
1940 sorprendono molti nomi di partecipanti e di vincitori, balzati poi alla
notorietà, ed alcuni alla fama, nella vita culturale e politica della
Repubblica.
L’elenco è lungo, ma io ne cito soltanto alcuni¸
Nel convegno sulla DOTTRINA DEL FASCISMO” si distinsero: Giorgio
Prosperi, Emilio Paolo Taviani, Vittorio Zincone, Giuliano Vassalli, Luigi
Preti , Felice Chilanti, Giuseppe Codacci Pisanelli, Yvon De Begnac,
Guido Carli, Aldo Moro, Marco Zagari, Nino Tripodi;
nel convegno di GIORNALISMO si affermarono: Gianni Granzotto,
Giorgio Almirante, Carlo Perrone Capano, Alberto Giovannini, Ugo
Indrio, Luigi Firpo;
emersero al convegno di POLITICA ESTERA Ercole Melati, Luigi Preti,
Aldo Airoldi, Giancarlo Vigorelli, Giovanni Calendoli, Leo Wollenborg,
Francesco Crispi (omonimo del bisnonno);
nella POESIA si distinsero Attilio Bertolucci, Pietro Ingrao, Vittorio
Sereni, Giorgio Bassani, Dino Del Bo;
nel SETTORE MONOGRAFICO, che abbracciava decine di discipline,
dalle corporazioni alle arti figurative, alla critica teatrale, agli studi
coloniali, rivelarono vigoroso talento Achille Corona, Luciano Anceschi,
+Alberto Mondatori, Roberto Ducci, Guido Pallotta, Alberto Lattuada,
Riccardo Malipiero, Gianandrea Gavazzoni, Giuseppe Dessì, Carlo Bo ,
Pietro De Francisci, Lino Businco, Ugo Guerra, Antonello Trombadori,
Michelangelo Antonioni, Giorgio Bassani, Mario Alicata, Renato Cantoni,
Edilio Rusconi, Antonio Amendola (fratello di Giorgio), Carlo Muscetta,
Sandro Paternostro, Giaime Pintor, Amerigo Gomez, Gaetano Tumiati,
Luigi Romersa, Vincenzo Buonassisi, Turi Vasile, Jader Jacobelli,
Ugoberto Grimaldi, Renzo Renzi, Maria Corti,Anna Maria Ortese, Milena
Milani, Mariella Tabellini, Franco Modigliani.
Nel 1940 chiudono i battenti i Littoriali e vede la luce il periodico
PRIMATO, fondato e diretto dal veterano del fascismo Giuseppe Bottai.
Vi si cimentano fra i tanti:
Nicola Abbagnano, Sibilla Aleramo, Mario Alicata, Corrado Alvaro,
Cesare Angelini, Guido Carlo Argan, Riccardo Bacchelli, Gabriele
Baldini, Antonio Banfi, Piero Bargellini, Antonio Barolini, Arrigo
Benedetti, Carlo Bernari, Romano Bilenchi, Enzo Biagi, Walter Binni
Arnaldo Bocelli, Vitaliano Brancati, Dino Buzzati, Vincenzo Cardarelli,
Alessandro Bonsanti, Massimo Bontempelli, Giovanni Comisso,
Gianfranco Contini, Dino Del Bo, Gaetano della Volpe, Filippo De Pisis,
Giuseppe Dessì, Enrico Emanuelli, Enrico Falqui, Francesco Flora, Carlo
Emilio Gadda, Alfonso Gatto, Giovanni Gentile, Renato Guttuso,
Francesco Jovine, Mino Maccari, Paolo Monelli, Eugenio Montale, Indro
Montanelli, Mario Morandi, Carlo Muscetta, Francesco Olgiati, Enzo Paci,
Pietro Pancrazi, Ercole Patti, Cesare Pavese, Camillo Pellizzi, Sandro
Penna, Giaime Pintor, Guido Piovene, Vasco Salvatore Quasimodo, Luigi
Russo, Luigi Salvatorelli, Vittorio Sereni, Vasco Pratolini, Mario Praz,
Giaime Pintor, Guido Piovene, Leonardo Sinisgalli, Sergio Solmi, Giorgio
Spini, Ugo Spirito, Mimmo Sterpa, Gianni Stuparich, Giovanni Titta Rosa,
Mario Tobino, Giuseppe Ungaretti, Nino Valeri, Orio Vergani, Franco
Valsecchi, Luigi Volpicelli, Cesare Zavattini.
Il dibattito fra i giovani è in pieno fermento quando scoppia la seconda
guerra mondiale e toccherà ad essi portarne sulle spalle il peso maggiore.
La guerra risuscita qua e là qualche entusiasmo ma si scopre che la
generazione del Littorio, soprattutto quella delle Università, la guerra la
subisce. I volontari sono pochi, e Mussolini dichiara volontari gli
universitari chiamati alle armi per leva. In quanti credevano nella vittoria?
La guerra se vinta sarebbe stata una conquista della Patria comune o del
fascismo? Malgrado dubbi, incertezze, divisioni, contrasti, la gioventù
nella guerra si comportò con onore e dignità: ne sono testimonianza il
sacrificio e il valore sui campi di battaglia.
Con la deposizione di Mussolini, o se si preferisce con il colpo di Stato,
o con il pronunciamento dei pretoriani, nella notte del 25 luglio 1943 si
annuncia il disastro. In quella notte, Mussolini parve assommare in sé
tutte le debolezze del carattere italiano, provando forse più vergogna che
risentimento. I congiurati poteva farli uscire tutti morti dalla sala del Gran
Consiglio, e invece egli corse dal Re a presentargli le dimissioni: il che
prova, al di là di ogni intendimento apologetico, che Mussolini era di ben
altra stoffa del suo amico Hitler e del suo nemico Stalin.
Il 25 luglio fallisce il ventennio di Mussolini, ma fallisce anche la
riscossa dell’antifascismo: non un solo provvedimento del governo di
Badoglio (obiettivamente da considerare antifascista), dopo l’uscita di
scena del dittatore tentò di salvare il salvabile. Nei quarantacinque giorni
di “governo” antifascista il problema avrebbe dovuto essere uno e uno
solo: organizzare la resistenza alla prevedibile e legittima Strafe,
punizione, di Hitler. E invece il governo, il re, i comandanti militari
abbandonarono gli italiani alla mercè dello straniero. Oltre seicentomila
soldati italiani presero la via dei Lager di Germania.
La liberazione di Mussolini e il suo forzato ritorno al potere non poteva
che sboccare nella guerra civile.
Come dilettanti allo sbaraglio l’antifascismo si è ostinato sino ad oggi a
chiacchierare di parte giusta e di parte sbagliata nella guerra civile,
perpetuando oltre ogni limite decente le avversioni e l’odio nel Paese.
Cade oggi (nda: siamo sempre nel 1983) il centenario dela nascita di
Benito Mussolini: per alcuni del personaggio troppo si è parlato, per
altri poco. Ma l’importante non è il parlarne poco o molto, ma come
parlarne. Una verità è incontestabile: Mussolini e il Fascismo, piaccia o
non piaccia, fanno parte della storia d’Italia. E la storia va scritta tutta,
senza futili salti nel tempo; solo che per scrivere la storia del fascismo
e di Mussolini che ne incarnò le alterne vicende, occorre ricercare, per
la corretta composizione del mosaico, come ha ammonito il più
autorevole storico del fascismo Renzo De Felice, tutte le tessere, anche
le più minute, ignorando quanti, animati dal disgusto, pensano che il
loro silenzio abbia virtù chiarificatrici.
Non si può pretendere di sradicare dalla storia italiana UN INTERO
VENTENNIO; insomma, non si può parlare storicamente, cioè
criticamente, del fascismo e di Mussolini, come se l’uno e l’altro
fossero stati mostri che tutto inghiottirono; occorre discernere le
varietà di correnti, di movimenti, di tendenze, di persone e personaggi,
d’interessi economici, di illusioni, di fantasie, di incoscienze che permisero
a Mussolini di conquistare nel modo in cui lo conquisto’ il potere, e poi di
tenerlo e di conservarlo; come anche occorre la varietà e le
differenziazioni di idee, di concezioni politiche, di interessi che ci furono
sul versante opposto dell’antifascismo.
Se non si comincia a guardare nella vicenda storica – ha avvertito
Benedetto Croce – e se si tiene fermo solo a quegli schemi generali, si
corre il rischio di perdere il senso delle proporzioni e delle prospettive,
tanto di quelle vicine che di quelle lontane, e di cadere nel piu’ repellente
dei moralismi: quello storico - politico.
Un fascismo preso in blocco, un antifascismo preso in blocco,
indifferenziato questo, indifferenziato quello, non ci potrà ricordare la
STORIA POLITICA di quegli anni, ammettiamo sino al 1926, parlando
della simpatia dei liberali per Mussolini, senza essere accusati di voler far
ricadere su costoro le responsabilità del fascismo; non si potrà cercare di
indicare le differenze che c’erano fra Grandi e un Bottai, o fra Mussolini e
un Farinacci; oppure non ci si potrà rifiutare di considerare
aprioristicamente tutto e unicamente negativo quel periodo senza essere
accusati di nostalgia.
E’ (alla rovescia in qualche caso) in varie maniere deformato, il gioco di
certuni che continuano a riprodurre vecchie fotografie, di questo o di
quell’uomo politico di oggi, vestito in divisa di avanguardista; ciò può
servire alla polemica quotidiana, ma solo al di sotto di un certo livello.
Approcci siffatti non servono né a comprendere la storia del fascismo, né
quella dell’antifascismo, né la storia politica italiana recente.
Benedetto Croce (l’abbiamo già accennato), richiesto perché non avesse
scritto ancora una storia dell’Italia, ammonì che ove vi si fosse risoluto
NON AVREBBE MAI DIPINTO UN QUADRO TUTTO NERO, TUTTO
VERGOGNA ED ERRORI, e poiché la storia è storia di quel che l’uomo
ha prodotto di positivo, avrebbe toccato del male solo per accenni
necessari al nesso del racconto DANDO PIUTTOSTO RISALTO
al bene che, molto o poco, allora venne al mondo, e alle buone intenzioni e
ai tentativi; avrebbe altresì reso giustizia a coloro che si dettero al nuovo
regime mossi non da bassi AFFETTI MA DA SENTIMENTI NOBILI e
generosi.
In queste affermazioni del Croce c’è forse la chiave per comprendere
perché per gran parte degli Anni Cinquanta mancò in Italia una vera
storiografia sul fascismo e su Mussolini, e perché un avviamento c’è stato
a mano a mano che ha cominciato ad affacciarsi una nuova generazione di
ricercatori che non avendo veramente vissuto il fascismo né conosciuto
Mussolini si è posta liberamente di fronte ad essi senza inibizioni
psicologiche e con la volontà di riportarlo all’unità della storia nazionale.
Ripensiamo allora la nostra storia ricordando che alla posterità, del nostro
passato appartiene tutto: le glorie e le sventure.
Togliamoci le lenti deformanti e leggiamo la STORIA CON OCCHIO
LIMPIDO. Ci aiuterà a restituirci a noi stessi, e ci eviterà forse di ripetere
gli stessi errori.
SE MUSSOLINI E’ SICURAMENTE USCITO DAL MITO E’
ALTRETTANTO SICURAMENTE ENTRATO NELLA STORIA.
Scusatemi se mi firmo dando la precedenza ad un famoso distico
manzoniano:
“Vergin di servo encomio
e di codardo oltraggio”.
PIERLIBERO (Enzo Pezzati)
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