CLINICA COMUNITARIA

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La cura e la guarigione
Verso un nuovo paradigma di gruppo e comunitario nel lavoro clinico con la grave patologia
mentale
Simone Bruschetta, Raffaele Barone
a Franco Fasolo …
La grave patologia mentale
L’OMS (2001) definisce la “grave patologia mentale” come una condizione psicopatologica che
può portare al suicidio, alla morte per incidente dovuto alla inabilità conseguente o ad una tragica
riduzione della qualità e dell’aspettativa di vita del paziente.
In genere si considera quindi “Patologia Mentale Grave e Persistente” (Severe and Persistent
Mental Illness – SMI), una patologia mentale che ottenga una indice di Valutazione Globale del
Funzionamento – VGF1 – inferiore ai 50 punti, ed la necessità di una presa in carico da parte dei
servizi di salute mentale di almeno 2 anni.
La letteratura internazionale, in linea con le direttive dell’OMS (2001), si riferisce quindi con
questo termine principalmente ai disturbi psicotici, ai disturbi dell’umore ed alle dipendenze
patologiche. Sono queste, ad esempio, le prime tre patologia che in Europa “pesano”, in assoluto
più di tutte le altre (comprese tutte quelle non psichiatriche, e quindi anche malattie infettive come
HIV o cronico-generative come quelle cardio-vascolari) sulla perdita di anni di vita a causa di
incidenti dovuti all’inabilità nella fascia d’età tra i 15 ed i 44 anni.
2. La povertà e la vulnerabilità psico-sociale
L’OMS nel rapporto redatto nel 2001 mette in risalto la stretta connessione esistente tra fattori
biologi, psicologici e sociali nel determinare patologie sia fisiche che mentali. Il fattore di rischio
sociale al quale viene dato maggiore risalto è senza dubbio la povertà, condizione che raccoglie
tutti gli elementi sociali potenzialmente patogeni individuati e viene analizzato nella sua complessa
relazione con l’insorgenza, il mantenimento, l’aggravarsi e il perpetuarsi di disagi e patologie
psicologiche.
“La relazione tra povertà e salute mentale è complessa e multidimensionale. Nella sua definizione più
stretta, la povertà si riferisce alla mancanza di denaro o di beni materiali” (OMS, 2001).
Ma nel significato più ampio, e forse più appropriato per la discussione collegata ai disturbi
mentali, la povertà può anche essere concepita come una condizione di mezzi insufficienti, che
includono la mancanza di risorse sociali ed educative. La povertà e le connesse condizioni come la
disoccupazione, la scarsa educazione, le privazioni e la mancanza di casa, non sono diffuse soltanto
nei paesi poveri, ma riguardano anche una considerevole minoranza di paesi ricchi.
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La Global Assessment of Functioning - GAF (Valutazione Globale del Funzionamento - VGF nella traduzione
italiana), è stata inserita nel DSM-III-R e nel DSM-IV (APA, 1994) come Asse V della classificazione multiassiale.
1
La grave condizione di deprivazione, connessa alla povertà, include secondo le categorie dell’OMS
(2001) tre fattori di base:
- livelli minori di acquisizione educativa,
- disoccupazione e, in casi estremi,
- mancanza di una casa in cui vivere.
Se le malattie psichiatriche sono biopsicosociali ne deriva che i problemi mentali e i
comportamenti sociali sono strettamente legati alle politiche economiche. Risulta, pertanto,
soltanto un artificio metodologico distinguere tra miglioramento della salute e sviluppo economico.
Un buon programma di salute mentale non potrà che essere una integrazione concertata dei vari
livelli presenti nella polis (amministrativi, economici, culturali, sanitari, ecc.) al fine di coinvolgere
numerosi attori del tessuto sociale locale nella ricerca di soluzioni idonee per il proprio territorio.
Il concetto di “disagio psico-socio-economico” (Barone, Bellia, Bruschetta, 2010) mette così ancor
meglio in evidenza la stretta relazione tra i fattori psicologici, sociali ed economici nella
spiegazione e nella comprensione dell’eziopatogenesi, degli aggravamenti e del perdurare dei
disturbi mentali, ma anche, e forse soprattutto, nella costruzione dei dispositivi terapeutici utilizzati
nella presa in carico del disagio mentale (Barone, Bruschetta, 2008b; Bruschetta, Pezzoli, 2009).
La salute mentale community based propone infatti una pratica clinica comunitaria che non può
espletarsi in luoghi sociali e mentali omologanti, rappresentati da asettici spazi architettonici o
rigide istituzioni sanitarizzate, ma che al contrario, per definizione, deve essere “localizzata” in
contesti e spazi vissuti2 di grossa ricchezza relazionale. Contesti che, ancora oggi, sono definiti
gruppoanaliticamente con il termine comunità (Barone, Bellia, Bruschetta, 2010).
“Gruppi sociali fondamentali quali la famiglia, il clan o perfino una nazione intera. In tali gruppi i
membri sono interdipendenti; come classe vengono meglio definiti comunità” (Foulkes, Anthony, 1957,
tr. it. )
Oggi infatti è ancora forte la tendenza alla cura della grave malattia in luoghi a forte designazione
sanitaria-residenziale (reparti ospedalieri, strutture riabilitative, case di cura, ecc.) (Basaglia,
Ongaro Basaglia, 1966). É come se, attraverso di essi, si continuassero a proporre per la persona
sofferente, invece di luoghi pensati, desiderati e co-progettati dai cittadini, luoghi programmati e
“preconfezionati” da apparati tecnocratici che propongono un’idea omologante dell’essere umano,
inteso esclusivamente come cliente-utente-consumatore.
I luoghi ed i metodi proposti dalla pratica clinico-sociale indicata dall’OMS (2001; 2005), sono
invece quelli che ancor oggi si continuano a definire Comunità Terapeutica3 o, con linguaggio più
moderno Psicoterapia di Comunità (Barone, Bellia, Bruschetta, 2010); cioè contesti di vita e di
lavoro in cui paziente e operatore clinico non sono soli, ma immersi in una rete relazionale che li
attraversa e che li trasforma.
Questa pratica si ispira anche ai principi di quella tradizione empirica di interventi psico-sociali di
community development4. La quale, riconoscendo anch’essa l’esistenza del un circolo vizioso
2
Lo spazio vissuto (espace vécu) è stato inteso da Minkowski (1953) come un concetto in grado di identificare lo
spazio abitato umanizzato.
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Comunità Terapeutica qui intesa, non come Residenza Sanitaria, ma come metodologia di cura, così come è stata
elaborata nel secondo dopoguerra in dalla Psicoanalisi e dalla Psichiatria inglese (Barone, Bruschetta, Giunta, 2010).
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Lo Sviluppo di Comunità, può essere gruppoanaliticamente inteso come Sviluppo Sociale di Comunità Locale, e cioè
come l’insieme di processi psico-socio-economici che sostengono la maturazione e la diffusione di sempre più ampi
ambiti di cittadinanza per i membri di un determinato contesto territoriale, attraverso il costante e graduale
miglioramento non solo delle condizioni di vita materiale e di benessere personale, ma anche e soprattutto delle
condizioni della vita sociale e di salute mentale di comunità – di volta in volta definite come “coesione sociale”,
2
esistente tra povertà economica, emarginazione sociale e patologia mentale, mira oggi a sviluppare
dinamiche politico-ambientali di integrazione socio-sanitaria, attraverso azioni di intermediazione
sociale e di sviluppo delle risorse umane, ponendosi come obiettivi ultimi non soltanto la coesione
sociale, ma che l’incremento del capitale sociale. Il raggiungimento di questi ultimi obiettivi si
fonda anche su una pratica di formazione psico-sociale rivolta agli abitanti della comunità locale ed
ai suoi operatori sociali, al fine di sviluppare le competenze socio-professionali necessarie ad
incrementare la partecipazione democratica ed a promuovere il coordinamento tra i servizi pubblici,
i movimenti di opinione ed i gruppi sociali (Zani, 1996).
3. Mentalizzazione e socializzazione nel processo di guarigione
Nell’ottica della salute mentale community based, curare i disturbi mentali significa co-costruire
contesti socio-professionali nei quali operatori e pazienti abbiano la possibilità di vivere relazioni
significative ed affettivamente investite. È la rete costituita da tali relazioni che rende disponibile
quel sostegno sociale che è diretto agente dell’empowerment personale e che favorisce una
evoluzione culturale e civile che esita, a sua volta anche per ciascun paziente, in una forma di vita il
più possibile gratificante e soddisfacente: in una vita che vale la pena vivere.
Sembra infatti essere questo il “motto” che ispira il concetto di guarigione dalla patologia mentale,
proposto dell’OMS (2001; 2005). Per guarigione si intende infatti non soltanto la guarigione clinica
e quindi l’eliminazione dei sintomi psichiatrici, ma anche la guarigione sociale e quindi il recupero
di un processo di ripresa (recovery) dalla sofferenza e dal disagio, incominciando dal miglioramento
della qualità della vita, attraverso la cura ed il sostegno delle relazioni affettive e dell’inserimento
lavorativo (Strauss, et. al., 1987, McGorry, 1992).
Guarigione quindi intesa, non tanto come un ritorno impossibile ad un ipotetica condizione di salute
precedente la malattia (restituzio ad integrum), ma come la riattivazione di un processo evolutivo di
apertura al nuovo, al diverso, in poche parole all’alterità (restituzio ad interim) (Jervis, 1975;
Fasolo, 2002).
Per questo motivo diventa terapeutico per il paziente sperimentare, a partire dal contesto
terapeutico, nuovi ruoli sociali, diversi da quelli prefissati nella sua condizione di malato, per essere
nuovamente presente all’interno di una dimensione relazionale fondata sul riconoscimento
dell’altro, sull’apertura allo scambio con esso e sull’attribuzione sempre a quest’ultimo di intenzioni
e convinzioni, possibilmente anche sbagliate.
Recuperare l’inclusione nella propria comunità di riferimento (sia essa una struttura terapeutica
residenziale, sia la propria comunità locale di appartenenza) sembra quindi essere il passaggio
determinante verso la guarigione. Fondato quest’ultimo sullo sviluppo delle competenze
mentalistiche5 (Fonagy, Target, 1997) necessarie a costruire rappresentazioni intenzionali delle
relazioni umane (metarappresentazioni) e poter quindi intrecciare nuove - e riparare vecchie - reti
sociali (primarie o secondarie che siano).
“legame sociale”, “sostegno sociale”, “partecipazione comunitaria”, “appartenenza territoriale”, “attaccamento ai
luoghi”, “capitale sociale”, ecc.
Secondo Fonagy et al. (2002), la capacità di mentalizzare permette l’attivazione di un processo automatico ed
inconscio, direttamente connesso ai processi di funzionamento della memoria procedurale (e di quella che la ricerca
neuro-cognitiva chiama Theory of Mind), consente di riconoscere la differenza esistente tra la percezione degli altri,
associata ad una rappresentazione della loro figura, e ciò che le altre persone sono nella realtà. Da qui deriva lo sviluppo
di quella funzione mentale detta funzione riflessiva (Fonagy ,Target, 2001), che permette di rispondere quindi, non solo
al comportamento degli altri, ma anche ad una propria concezione dei lori sentimenti, desideri, credenze, speranze,
aspettative, progetti, motivazioni: in altre parole, del loro mondo interno.
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Questo passaggio non può quindi che fondarsi metodologicamente su di una socializzazione6 del
disagio e degli accadimenti ad esso collegati. Soltanto studiando e trattando l’individuo nei gruppi
naturali, in primis nella famiglia, è possibile scoprire che i problemi di ciascun paziente sono
soltanto un aspetto di un problema gruppale-comunitario più complesso che si ramifica
orizzontalmente, tra le condizioni materiali del mondo circostante, e verticalmente, dall’eredità del
passato allo sviluppo durante la vita (Foulkes, 1948).
“Il punto di vista gruppoanalitico sosterrebbe che tutti questi processi di interazione intervengono in un
campo mentale unificato di cui gli individui che lo compongono sono una parte (…). Questa rete è un
sistema psichico come intera rete e non un sistema di interazione sociale sovrimposto in cui
interagiscono le menti individuali” (Foulkes, 1973).
La mentalizzazione, nel processo terapeutico, consiste quindi nella traduzione dei sintomi in un
medium sociale, il linguaggio, che permetta la comunicazione del disagio ad essi collegato e quindi
la riflessione sul conflitto o squilibrio comunicativo che avviene nel campo totale di interazione
intorno al paziente. Questo campo totale è quindi un campo mentale composto da una gruppalità di
individui, variamente interconnessi ed interagenti in questa matrice comunicativa, che se si struttura
come gruppo di lavoro clinico, sul disagio del paziente, si può trasformare in un campo mentale
terapeutico.
“La malattia mentale esprime in sostanza una difficoltà di integrazione nella comunità, un disturbo della
comunicazione. (…) Diventare consci, verbalizzare e comunicare, sono parti integranti del processo
terapeutico. È estremamente probabile che descrivano lo stesso processo” (Foulkes, Anthony, 1957, tr.
it. 1998).
4. Guarigione e ripresa dei processi evolutivi
Il concetto di guarigione viene oggi riproposto anche in termini di processi di ripresa post-acuzie
del percorso evolutivo e maturativo di una persona che ha attraversato un grave episodio
sintomatologico, psicotico, maniacale o depressivo, e che riesce a reintegrarlo in un progetto
esistenziale compatibile e sostenibile.
Il concetto di ripresa è, anche in questo caso utilizzato come traduzione scientifica del termine
inglese recovery, e cioè, seguendo l’originaria l’elaborazione di Strauss e coll. (1987), con il
significato di processo di guarigione e non con quello di guarigione definitiva, intesa come esito, ne
con quello di completa remissione dei sintomi.
Alcuni dei punti di riflessione in merito, proposti da McGorry (McGorry, 1992; Edwards, McGorry,
2002) sostengono inoltre che attraverso un trattamento specifico, precoce e ben organizzato, si è
ormai dimostrato possibile:
- prolungare di molto la fase prodromica della grave patologia mentale, iniziando a prendersi cura
dei primi sintomi visibili e dei primi comportamenti insoliti correlati all’esordio della patologia,
ma anche ritardando la manifestazione dei sintomi critici, rilevanti e patognomici della stessa,
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La socializzazione, oltre ad essere uno specifico fattore terapeutico gruppoanalitico, che permette al trattamento di
svilupparsi all’interno di una gruppo di persone che rappresentano e personificano proprio quelle situazioni sociali nelle
quali il paziente agisce identicamente tanto nella vita reale quanto nella situazione gruppoanalitica (significato in atto),
è anche una specifica condizione fenomenologica della menta umana che permette, attraverso l’osservazione delle
dinamiche di gruppo, di considerare un disturbo psico(pato)logico come la manifestazione di un disturbo della
comunicazione tra una gruppalità di persone (localizzazione del disturbo), configurandolo come una gestalt che emerge
in figura, lasciando sempre comunque un gruppo-comunità sullo sfondo (configurazione) (Foulkes, 1948; Foulkes,
Anthony, 1957).
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Raggiungere, nell’80% dei casi, la completa remissione sintomatologia entro un anno dal primo
episodio psicotico, maniacale o depressivo.
É quindi opportuno valorizzare la definizione di recovery come ripresa post-acuzie del processo
evolutivo attraverso l’attivazione di un processo terapeutico che miri alla guarigione. Il processo di
guarigione deve essere cioè distinto dalla riabilitazione – intesa in modo tradizionale – per due
ragioni: il ruolo attivo giocato dal paziente; la sua caratteristica di processo dinamico. É
fondamentale distinguere anche fra il processo di guarigione dal primo episodio psicotico e quello
dal periodo di cronicità conclamata dalle successive ricadute.
Per la maggior parte dei soggetti affetti da una grave patologia mentale cronicizzata, l’andamento
della malattia è caratterizzato infatti da ricorrenti ricadute, anche se essi passano una parte notevole
della loro vita in uno stato relativamente stabile. Il processo di guarigione è infatti detto “dinamico”,
in quanto caratterizzato da una qualità “plastica”. Dopo ogni regressione operativa caratterizzata
dalla cosiddetta ricaduta, il paziente cerca di riprendere le fila del suo processo di crescita e di
sviluppo, cercando di ripartire da quelle parti sane che sono sopravvissute alla crisi. Come se le
ricadute servissero ad eliminare le distorsioni sviluppatesi dalle parti immature del sé, che non sono
state in grado di evolvere correttamente.
È questa una concezione epistemologica che considera la malattia mentale come una conseguenza
di un disturbo nella crescita psicologica, e quindi come una cristallizzazione o una distorsione dello
sviluppo dell’organizzazione della personalità, prima ancora che della struttura psichica di un
individuo (Foulkes, 1975b). Qualsiasi trattamento terapeutico non può quindi che essere inteso
come la riattivazione di un processo evolutivo di soggettivazione dell’essere umano nei propri
contesti socio-culturali di origine ed appartenenza.
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5. Conclusioni
In conseguenza di tutto ciò, la guarigione non può più essere vista come il semplice prodotto finale
di un processo di cura, ma piuttosto come un processo nel suo complesso; dentro al quale viene reistituita una relazione innovativa ed insatura tra sé stessi, la propria vita, il proprio ambiente (Jervis,
1975; Fasolo, 2002).
Alcuni pazienti possono quindi avere una guarigione detta appunto “sociale”. Possono cioè
continuare ad avere i sintomi del processo psicopatologico che li coinvolge esistenzialmente, senza
però essere disturbati nella stessa misura o nello stesso modo degli esordi. Mentre invece altri
pazienti possono guarire “clinicamente”; nel senso che non hanno più i sintomi e che diventa quindi
possibile sospendere i trattamenti sanitari.
Il rinvenimento di un significato sulla propria sofferenza è quindi un elemento centrale del processo
di guarigione. Probabilmente un fattore discriminante tra la guarigione sociale e quella clinica. Esso
rappresenta la possibilità di dare, non tanto una spiegazione sul “perché”, quanto sul “come” la vita
di una persona è diventata quello che è. E di conseguenza poter dare una risposta soggettiva sul
“cosa” si può fare per trasformarla.
La questione autentica del processo di guarigione, non consiste nello scoprire la verità, ma nel
costruire un significato nuovo sulla propria malattia ed sulla guarigione da essa; donando di
conseguenza un senso soggettivo nuovo alla propria vita ed a quella degli altri.
Curare per guarire la grave patologia mentale significa co-costruire un contesto nei quali operatori e
pazienti abbiano la possibilità di vivere relazioni significative, affettivamente investite che possano
favorire, in entrambi, una evoluzione psichica e sociale che possa a sua volta esitare, lo ripetiamo,
in una forma di vita per cui vale la pena vivere.
Questo cambiamento di paradigma si presenta oggi come un superamento del modello medico della
cura attraverso lo sviluppo di un nuovo modello, detto della guarigione e della recovery, così come
qui di seguito indicato.
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Modello della cura
Psichiatria
Storia Clinica
Sviluppo del disturbo
Evidence-Based
Qualità della Vita
Tutela
Identifica la persona con il suo disturbo
Vulnerabilità genetica
Combattere la malattia
Basato sui trattamenti offerti
La professione da potere
Diagnosi Nosografica
Coscienza di Malattia
Riabilitazione psico-sociale
Fondato sulle procedure scientifiche
Trattamento Terapeutico
Adesione alle proposte di trattamento
Metanalisi
Studi randomizzati controllati
Ritorno alla normalità
Conduzione professionale
Stabilizzazione sintomatologica
Appropriatezza professionale
Decontestualizzato e asettico
Modello della guarigione
Salute Mentale
Storia Familiare
Biografia
Community-Based
Sviluppo Economico
Empowerment
Include la persona nel suo contesto
Vulnerabilità psico-sociale
Promuovere la salute
Basato sulle risorse della persona
L’esperienza rende autorevoli
Ricerca del Significato
Comprensione del Disagio
Inclusione socio-lavorativa
Fondato sui diritti umani
Crescita e Scoperta
Co-costruzione dei dispositivi terapeutici
Studi longitudinali
Resoconti personali
Trasformazione
Auto-gestione personale
Crisi evolutive
Responsabilità personale
Contestualizzato nella cultura locale
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