DEVIANZA SOCIALE E PSICOPATOLOGIA. ASPETTI CLINICI, DINAMICI E DIAGNOSTICI DEL LEGAME TRA MALATTIA MENTALE E REATO Simone Bitti Il rapporto tra malattia mentale e devianza è stato al centro di diverse ricerche, visto che la mente umana e le sue disfunzioni hanno sempre esercitato un'attrazione particolare per chi era alla ricerca di una risposta immediata al problema della devianza. Oggi si può affermare che i disturbi psicopatologici e psichiatrici non costituiscono una particolare causa idonea alla spiegazione del comportamento criminale. Ci sono una serie di studi che hanno sistematicamente falsificato i tentativi di correlare la delinquenza alla malattia mentale. Come quelli condotti su soggetti dimessi da istituzioni psichiatriche, che hanno messo in evidenza come la percentuale dei reati commessa da queste persone non fosse superiore a quella del resto della popolazione. Altre ricerche hanno preso in considerazione i comportamenti violenti, tra cui in particolare l'omicidio, e non hanno riscontrato connessioni dirette tra sindromi psicopatologiche e pericolosità (Bandini, Gatti, 1987; Traverso, 1987). Può risultare comunque utile lavorare in questa direzione, studiare questo tipo di interazione, sia perché sul piano clinico i casi possono talvolta evidenziare tali problematiche, sia perché si tratta di un campo di ricerca ancora molto rilevante, sia perché infine, a livello di senso comune, l'idea stereotipata per cui la malattia mentale è strettamente collegata con il crimine, con la pericolosità sociale, è ancora forte e profondamente radicata. La malattia mentale non può essere considerata una causa diretta di comportamento criminale di tipo deterministico, per la ragione di carattere generale, per cui esso è un comportamento finalizzato, che presuppone una dimensione esperienziale organizzata. Il malato mentale, con tutta la varietà delle situazioni che la psichiatria include in tale concetto, può mettere in atto comportamenti aggressivi, violenti, che possono costituire anche reato dal punto di vista penale, ma tali reati non possono essere riferiti esclusivamente e linearmente alla malattia mentale e devono essere invece analizzati in termini di dinamica interattiva, situazionale con la vittima, con gli altri partecipanti, con il contesto. Ricostruendo questo tipo di dinamica si può evidenziare quale ruolo, quale funzione la malattia mentale abbia avuto non solo all'interno dell'individuo, ma anche nella situazione, nelle interazioni, permettendo di enucleare un significato esplicativo profondamente diverso dall'affermare che la malattia mentale ha prodotto, determinato quel comportamento. La malattia mentale in sé non produce dei comportamenti sociali di alcun genere e quindi neppure quelli violenti, aggressivi. 1 La grande importanza attuale del discorso sulle interazioni tra problematiche psicopatologiche, psichiatriche e criminalità è data anche dalla rilevanza che esso ha in campo giuridico e giudiziario in rapporto alla categoria della capacità di intendere e volere e della pericolosità sociale. Nel nostro sistema legislativo il motivo principale che può inficiare l'imputabilità è, come in molti altri paesi, la malattia mentale. Questo problema è venuto ad assumere in campo giudiziario una rilevanza esplicativa di tipo eziologico, ossia la malattia mentale viene in tale contesto a essere considerata una determinante rispetto al comportamento deviante, mentre sotto il profilo scientifico, come accennato, la funzione esplicativa delle varie forme di disagio mentale è decisamente diversa. Accertare se un malato mentale è capace di intendere e di volere è una questione che va comunque affrontata caso per caso, e non può essere generalizzata ai fini della spiegazione e della comprensione del comportamento criminale. Se un soggetto che ha commesso un crimine viene dichiarato incapace di intendere e volere in quanto malato mentale, ciò non equivale a dire da un punto di vista scientifico, né che la malattia mentale, anche limitatamente a quel caso, sia stata la causa lineare, diretta ed esclusiva in relazione a quel tipo di comportamento, né che i malati mentali in genere siano incapaci di intendere e di volere e che il loro disagio influisca in modo meccanicistico sui loro comportamenti problematici. Le tipologie psichiatriche e psicopatologiche come la nevrosi, le psicosi, la personalità psicopatica, sono state considerate dalle letterature che hanno trattato queste questioni, come cause o indicatori di predisposizione e orientamento a comportamenti criminali. Queste categorie, pur non avendo una rilevanza criminologica in sé, hanno un certo peso nella letteratura, nella teoria e possono essere utili per il lavoro critico e di chiarificazione concettuale di cui c'è bisogno. Tra le principali difficoltà che si incontrano nell'affrontare queste tematiche, troviamo la mancanza di una terminologia universalmente accettata e le innumerevoli controversie della letteratura psichiatrica (Mannheim, 1975); si tratta di tipologie e categorie molto discusse, anche se tutt'ora presenti. Inoltre, gli studi svolti sono inficiati da un vizio metodologico di base legato al fatto che queste ricerche partono da errati presupposti di rappresentatività e generalizzabilità. Vengono infatti scelti dei casi o gruppi di soggetti che si trovano in carcere o in manicomio criminale, che hanno commesso dei reati e nel momento della commissione del reato, o prima o dopo, presentano una sintomatologia psicopatologica evidenziata, definita, diagnosticata dagli psichiatri. Per quanto riguarda la psicosi, le varie forme di questa sindrome sono state messe in rapporto con tendenze criminali, con comportamenti violenti, aggressivi, con atteggiamenti antisociali. Alcuni sintomi come deliri, allucinazioni, disorganizzazione, distacco dalla realtà, assenza di controllo interiore ecc., hanno indotto a credere che l'imprevedibilità della condotta degli psicotici avrebbe potuto sfociare in comportamenti criminali (Schafer, 1976). 2 Tra le varie forme di psicosi sono state prese in considerazione soprattutto la schizofrenia e la paranoia. L'esperienza schizofrenica, caratterizzata da profonde alterazioni della struttura della personalità e da una conseguente compromissione e rottura del rapporto con la realtà, può provocare atteggiamenti bizzarri, disordinati, incongrui, abnormi e fra questi possono emergere azioni definite devianti. Ciò però non vuol dire che lo schizofrenico è un soggetto sempre e comunque pericoloso e che la sua pericolosità è una conseguenza diretta e necessaria di quei disturbi. Bisogna considerare anche un altro ordine di problemi legato alla difficoltà e ai disagi personali che derivano dalle alterazioni della percezione e delle rappresentazioni mentali, molto frequenti in queste sindromi; i vari aspetti significativi della realtà non vengono più colti con certezza e ugualmente risulta difficile capire il senso dei rapporti sociali in cui il soggetto si trova coinvolto. L'aggressività dello schizofrenico potrebbe essere la conseguenza dell'aspetto minaccioso che, per lui, assume la realtà mutata, i suoi reati potrebbero essere coerenti con questa sua visione erronea, inoltre nella sua pericolosità si potrebbe vedere una forma di risposta all'alienazione, all'emarginazione, a un atteggiamento eccessivamente ostile dell'ambiente circostante (Ponti, 1980). Ugualmente, la rigidità dei convincimenti che si sviluppano nel paranoico con carattere di delirio e i suoi sentimenti di grandezza e persecuzione possono esporre il soggetto a sollecitazioni comportamentali di tipo aggressivo, violento e quindi anche quel tipo di aggressività e violenza che costituiscono reato; questi passaggi andrebbero però esaminati dal punto di vista dell'interazione che si instaura fra paranoico e ambiente, fra paranoico e gli altri, soprattutto gli altri significativi. Valutare la situazione secondo un'ottica processuale, dinamica, interattiva ci permette di vedere cose diverse dal considerare semplicemente, linearmente il crimine come effetto della paranoia. Il crimine non è un effetto puro e semplice della paranoia, ma è la risultante di un processo che può essere ricostruito e in cui la vittima può magari aver svolto anche una parte attiva (De Leo, 2002). L'analisi processuale è importante sia per esaminare la situazione, sia per vedere come si sono formate e organizzate nel soggetto le rappresentazioni e le idee deliranti di persecuzione. Secondo alcuni autori si tratta di una costruzione che nel tempo si alimenta anche attraverso segni ben radicati nella realtà. Il contenuto dell'idea delirante è, specialmente nella schizofrenia, la descrizione metaforica della situazione psicologica del delirante e dei suoi rapporti interpersonali. Ad esempio non è raro che il delirio di persecuzione indichi, in termini di 3 rappresentazione drammatica, una sottile, reale, persecuzione psicologica da parte dei familiari (Jervis, 1975). Questi deliri, anche se non hanno un'evidenza e non contengono una minaccia precisa come quella che il soggetto si rappresenta, esprimono però molto spesso tendenze all'esclusione, all'emarginazione, forme di aggressività simboliche che, nelle interazioni , soggetti di questo genere ricevono in maniera crescente, in funzione dell'essere percepiti come malati, psicotici, schizofrenici, paranoici. Oltre l'aspetto psichiatrico è importante svolgere un'analisi processuale a più livelli che tenga conto di come la malattia mentale si inserisce nel rapporto tra soggetto e comportamento, e tra soggetto, comportamento e risposta degli altri nelle interazioni sociali, in modo da avere una spiegazione e una comprensione maggiore e più completa sia della malattia mentale che del comportamento deviante. In ambito peritale si dà sempre minore importanza al legame tra devianza e nevrosi. La difficoltà che si incontra nel trattare questo rapporto è quello relativo alla definizione dello stesso termine di nevrosi. Si tratta infatti di una categoria molto vasta, vaga, troppo spesso generalizzata e confusa. E' difficile individuare le componenti nevrotiche che possono caratterizzare la personalità di un delinquente in quanto i disturbi nevrotici (ansie, insicurezze, fobie, rituali ecc.) fanno parte della realtà quotidiana di tutti e possono diventare particolarmente evidenti nei periodi di maggiore stress. Vi sono peraltro particolari situazioni che potrebbero avere un qualche nesso con meccanismi nevrotici, per esempio la cleptomania, l'acting-out nevrotico, la delinquenza per senso di colpa, la piromania, ecc.; si tratta comunque di comportamenti in qualche caso sostenibili, ma non generalizzabili. La questione di fondo è che la nevrosi non agisce in termini diretti, deterministici sul comportamento criminale. Si tratta di una difficoltà personale che produce una tensione cognitiva del soggetto, produce ansia, insicurezza; questi problemi si ripercuotono nell'ambiente circostante, nella famiglia, nel lavoro creando disagi nei rapporti che possono aggravare e accentuare le difficoltà del soggetto. La nevrosi influisce quindi, in termini indiretti, nelle relazioni e queste influiscono, a loro volta, sulla nevrosi, per cui sono di nuovo questi i livelli che vanno soprattutto considerati in una prospettiva criminologica e che ci fanno vedere come il comportamento deviante sia il risultato di processi di interazione. Uno dei concetti più tradizionali e frequentemente usati nel campo della psicologia della devianza, è quello di personalità psicopatica. Si tratta di una categoria con una lunga storia alquanto travagliata, molto discussa e discutibile sia da un punto di vista criminologico che psichiatrico. E' stata definita una “pattumiera psichiatrica” (Jervis, 1975) in quanto consente di assorbire carenze della teoria e della ricerca, cioè i luoghi 4 oscuri, le zone comportamentali, caratteriali che non hanno spiegazione né all'interno della categoria delle psicosi, né delle nevrosi e che non trovano neanche una definizione razionale in termini di normalità; si tratta quindi di un concetto assolutamente residuale. Per personalità psicopatica si intende una sindrome che presenta una serie di caratteristiche psicologiche comunemente non accettate come normali (mancanza di senso morale, incapacità di apprendere dall'esperienza e dalle punizioni, assenza di sensi di colpa, anaffettività, impulsività, labilità emotiva, ecc.) che la rendono quindi costantemente fonte di sofferenza per sé e per gli altri. Lo psicopatico, conservando lucidità intellettiva e cognitiva, sarebbe incapace di stabilire relazioni approfondite, di prevedere gli effetti dei propri comportamenti, di mettersi nei panni degli altri; tutte queste caratteristiche farebbero di lui un soggetto portato al comportamento deviante e criminale. Si tratta di un'evidente semplificazione tautologica in quanto la psicopatia è stata inventata come categoria per designare comportamenti anomali, i quali vengono spiegati con la stessa categoria; è un processo di pensiero circolare che non permette di approfondire la storia della persona, né i rapporti tra storia e processo in azione, è quindi un concetto che, in realtà, non ha nessuna validità esplicativa. Ci sono alcuni casi, in età evolutiva, anche se rari di personalità psicopatica; il problema consiste nel fatto che queste situazioni particolari vanno riconcettualizzate, non serve utilizzare una categoria così inquinata sul piano storico e teorico, possono essere definiti casi difficili, possono essere definiti in vario modo, ma è bene non includerli in un ambito concettuale che orienterebbe in maniera deformata l'analisi, le ipotesi esplicative e l'atteggiamento dello studioso (De Leo, 2002). E' stata spesso sottolineata una caratteristica dello psicopatico riguardante la ripetitività degli atteggiamenti e comportamenti, una ripetitività che può anche coinvolgere atti dannosi per gli altri. La domanda da porsi è perché questi comportamenti tendono a ripetersi, che cosa stabilizza questa ripetitività, ricostruendo la storia del soggetto, le sue relazioni, collegare i processi di interazione con le rappresentazioni mentali e le elaborazioni cognitive. Tenendo conto che la rigidità e le ripetitività del soggetto non sono mai totali, ma riguardano solo alcune aree comportamentali, per il resto egli può mantenere livelli significativi di disponibilità al rapporto e al cambiamento. Un tema che in altri momenti storici ha avuto una certa importanza è quello del rapporto tra intelligenza e criminalità e devianza; si riteneva cioè che la maggior parte dei criminali fossero anche persone con deficit intellettivi, con un'intelligenza scarsa, debole e perfino subnormali. Molte sono state le critiche rivolte a questo tipo di ricerche, soprattutto per l'inadeguatezza metodologica. Gli studi più recenti hanno anche dimostrato il contrario; per alcuni tipi di reato, infatti, come frodi, truffe, falsificazioni, sono stati trovati indici di intelligenza superiori alla media. Certamente esiste il problema del debole di mente, esistono persone che presentano 5 carenze nell'esprimere le proprie potenzialità intellettive, che hanno una debole capacità di simbolizzazione e concettualizzazione, tutti aspetti che possono causare difficoltà, momenti di irrigidimento e di conflitto nelle relazioni con gli altri, in quanto queste persone, non avendo sviluppato le più astratte competenze cognitive, simboliche, concettuali, possono usare più direttamente il passaggio all'atto con modalità di difesa e risoluzione dei problemi; ciò però non significa che il debole di mente sia più portato a commettere reati. Ancora una volta il discorso ci rimanda a dinamiche processuali, interattive e situazionali. Questo tipo di tematica attualmente ha una pura rilevanza clinica, casistica, cioè in qualche caso, particolari situazioni di deficit intellettivo possono essere collegate con la dinamica interattiva che ha portato al comportamento criminale, ma il deficit non è una causa rilevante e significativa. Per quanto riguarda l'età evolutiva e l'adolescenza il riferimento alla dimensione psichiatrica e psicopatologica è molto meno frequente e meno rilevante, sia perché si preferisce considerare gli aspetti evolutivi piuttosto che quelli psicopatologici, sia perché l'esperienza clinica e gli studi in questo campo ci mostrano che, in questa fase evolutiva, le problematiche psicopatologiche, quando sono presenti, hanno comunque un carattere meno strutturato e meno definito; sia infine perché le grandi malattie mentali, come la psicosi, si affacciano generalmente nella vita dell'individuo in età più avanzata. Nell'adolescenza la correlazione tra condotta sintomatica e problemi psichiatrici è limitata; più che in qualsiasi altra età, molto raramente, in questo periodo si manifestano quadri patologici ben definiti. Potrebbero insorgere dei disturbi psicotici, ma che conservano comunque una notevole potenzialità di reversibilità e di evolutività. Riguardo la nevrosi è difficile fare una diagnosi ben precisa di questo di tipo in adolescenza, si preferisce invece parlare di modalità nevrotiche che hanno un carattere temporaneo e che frequentemente tendono a sfumare e a scomparire nell'adulto (Bracconier, Marcelli, 1985). E' fuorviante usare le categorie della personalità psicopatica per la delinquenza minorile. Definire un minorenne come psicopatico significa trascurare le sue potenzialità evolutive, anche quando siano presenti grosse rigidità di personalità e di carattere; significa inoltre favorire un atteggiamento dello studioso e del clinico di grave semplificazione e di elusione dell'approfondimento del caso, ignorando una ricostruzione della storia del ragazzo, della situazione e dell'azione (De Leo, 2002). Nell'ambito della classificazione nosografica proposta dal DSM-IV dell'American Psychiatric Association, gli interrogativi di maggior rilievo sull'adolescenza, accanto alla questione dell'oggettivizzazione dei dati raccolti, riguardano il tipo di continuità 6 esistente fra le condotte problematiche insorte in questa o in precedenti fasi evolutive e il successivo adattamento sociale. La questione è posta in termini strettamente statistico-probabilistici, riducendo la complessità del concetto di età evolutiva, a quello di decorso e previsione degli esiti del disturbo (De Leo, Leone, Termini, 2002). La trattazione in questo senso non è intesa a suggerire l'esistenza di alcuna chiara distinzione tra i disturbi della fanciullezza e dell'età adulta. Nel valutare un bambino piccolo, un fanciullo o un adolescente, il clinico dovrebbe prendere in considerazione le diagnosi incluse in questa sezione ma fare anche riferimento ai disturbi descritti altrove nel DSM-IV. Anche agli adulti può essere diagnosticato un disturbo incluso nella sezione per i Disturbi Solitamente Diagnosticati per la Prima Volta nell'Infanzia, nella Fanciullezza o nell'Adolescenza se il loro quadro soddisfa criteri diagnostici degni di rilievo. Si tratta di una scelta strettamente coerente con il presupposto epistemologico di ateoreticità del DSM, che taglia fuori qualsiasi possibilità, tanto sul piano clinicoapplicativo quanto su quello teorico, di dar luogo e significato alla specificità propria della condizione di “soggetto in età evolutiva”. La classificazione delle condotte socialmente inadeguate ad esordio infantile e adolescenziale rientra all'interno della categoria di “Disturbi da Deficit di Attenzione e da Comportamento Dirompente” che fa riferimento a quei quadri caratterizzati da una persistente interazione disturbata tra il giovane e il contesto sociale. Vi rientrano in particolare: Il “Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività”, il “Disturbo della Condotta”, il “Disturbo Oppositivo-Provocatorio”. La prima di queste condizioni (da/di) conosciuta anche come “ipercinetica” include una serie di manifestazioni che esordiscono in genere prima dei 7 anni e si presentano nelle situazioni di gruppo più frequentemente rispetto alla maggioranza dei coetanei: irrequietezza vissuta o agita, volubilità attentiva, inadeguata finalizzazione del comportamento, invasione nell'attività altrui, difficoltà a rispettare il proprio turno nella relazione o nel gioco strutturato. Diverse ricerche hanno cercato di mettere a fuoco la correlazione tra le osservazioni relative al comportamento iperattivo e a quello antisociale, al fine di precisare la possibilità di un'evoluzione a distanza dell'instabilità verso un vero e proprio disturbo di personalità antisociale. Le controversie sorte sembrano aver suggerito al DSM-IV una cautela maggiore rispetto alla precedente edizione (DSM-III-R) secondo cui il decorso della sindrome era destinato a complicarsi in un numero di casi ritenuto significativo. Come rilevato da uno studio longitudinale (Mannuzza, G. Klein, H. Konig, Giampino, 1989), su una popolazione di bambini diagnosticati come iperattivi, solo un quarto del campione prescelto ha mostrato una relativa stabilità e coerenza delle manifestazioni dissociali nel corso del successivo sviluppo. Per il DSM-IV, nel caso dell'adolescente, l'iperattività motoria precocemente diagnosticata tenderebbe in genere ad attenuarsi o a scomparire, 7 lasciando il posto ad una irrequietezza spesso confinata alla sfera del vissuto e a una difficoltà nel controllo degli impulsi che possono sfociare in una “infrazione delle regole familiari, interpersonali e scolastiche”. Nel tentativo di indicare un esito possibile del disturbo, tale descrizione situa su uno stesso livello di analisi fenomeni di ordine diverso, sovrapponendo il complesso processo di interazioni simboliche, sociali e normative all'instabilità iniziale. La costante preoccupazione prognostica che il disturbo costituisca una condizione “a rischio” e tenda a persistere o a complicarsi con l'età, affrontata dagli autori del DSM in termini di frequenza casistica, porta come inevitabile conseguenza quella di eludere di prendere in considerazione il rapporto tra contesti (affettivi, normativi, sociali) e processi di sviluppo all'interno del quale la condotta si definisce e acquista significato interpersonale. Solo attraverso un mutamento di prospettiva che dia maggior rilievo a quegli aspetti di apertura evolutiva che rimangono trascurati nella metodologia di indagine del DSM-IV è possibile spostare l'accento sui processi e sugli scambi comunicativi del disturbo mettendo tra parentesi il problema eziologico, e considerando che i comportamenti irruenti si alimentino piuttosto all'interno di un ambiente con scarse competenze comunicative il più delle volte poco tollerante o rifiutante per l'instabile. L'idea di una limitazione di base dello sviluppo e delle possibilità adattive che l'instabilità sembra aver prodotto acquista ulteriore evidenza e consistenza nella categoria diagnostica di “Disturbi della Condotta”. Vi rientrano quadri comportamentali che trovano la loro specificità nel conflitto sociale: ripetute e persistenti aggressioni, menzogne, disobbedienze, furti che si accompagnano a fenomeni di vandalismo, dropout scolastico o professionale, fughe da casa, precocità sessuale, abuso di alcolici e droghe. Il significato della cattiva condotta può variare in realtà sensibilmente sia in relazione agli ambiti sociali entro cui insorge, che alle diverse età nelle quali cambia la cognizione degli effetti prodotti. Tuttavia il suo mostrarsi attraverso forme riconosciute di aggressione o violazione è sufficiente a configurare la diagnosi: un comportamento simile a quelli già descritti, che duri per un periodo di almeno sei mesi, legittima l'American Psychiatric Association ad utilizzare la categoria di Disturbo della Condotta. Non si tratta dunque di atti isolati o di intemperanze banali ma di forme strutturate di comportamento, diventate problema sociale, prima ancora che clinico. Tali problematiche infatti tendono ad emergere e vengono di solito segnalate più frequentemente in epoca scolare, nella fase, cioè, di sperimentazione delle appartenenze extra-familiari. L'assunto nosografico, che assimila tali forme ad una patologia specifica dell'età evolutiva, traduce in questo modo il conflitto sociale in problema individuale, legittimando spesso valutazioni e interventi centrati sul soggetto portatore del disturbo: modi caratteristici di problematizzare le situazioni sociali, insieme alla loro eventuale rilevanza criminosa, suggerirebbero l'esistenza di un processo psicopatologico sottostante in questi soggetti, tale da giustificare la trattazione comune in una tipologia. 8 La gravità sociale e l'abitualità della violazione sono così tradotti in categorie diagnostiche, confondendo livelli di analisi diversi: giuridico-normativo da un lato, clinico dall'altro. Numerose ricerche sono state inoltre avviate proprio per verificare il significato predittivo dei disturbi precoci della condotta in relazione allo sviluppo di comportamenti devianti durante l'adolescenza e nell'età adulta. L'interesse prognostico del DSM-IV si è spostato così sull'età di esordio (fanciullezza e adolescenza) rispetto ai modi del loro manifestarsi (solitari/in gruppo) riformulando la classica suddivisione in sottotipi di questa categoria. Le manifestazioni ad esordio adolescenziale si presentano più comunemente in forme socializzate, sembrano più lievi e tendono a risolversi negli anni. Le manifestazioni precoci, invece, comparse prima del decimo anno di età, sono caratterizzate in genere dalla predominanza di un comportamento fisicamente aggressivo verso gli altri, da conseguenti difficoltà di integrazione sociale e mostrano un maggiore rischio di residuare il disturbo anche in età adulta. Questo secondo gruppo, prevede rispetto al primo, una probabilità maggiore di sviluppare un successivo “Disturbo di Personalità Antisociale”. Questa proposta classificatoria e le sue indicazione prognostiche precisano l'orientamento interpretativo già evidenziato: se il momento dell'adolescenza sembra giustificare e temperare la gravità della condotta aggressiva insorta in questa fase, una storia puntuale di precedenti anamnestici può, all'opposto, confermarla, rendendo più sfumato il confine tra sintomo e aspetti costitutivi, legati a un'alterazione stabile della personalità. Scarsa tolleranza alla frustrazione, irritabilità, temperamento esplosivo, irrequietezza sono considerati tratti frequentemente associati ai disturbi della condotta. Questi, accanto ad altri tratti caratteriologici maggiormente distintivi, che delimitano più precisamente il quadro, quali mancanza di empatia, mancanza di senso di colpa o di rimorso per le sofferenze procurate agli altri, non fanno altro che indicare una linea di continuità con le costellazioni sociopatiche e riproporre nell'indagine clinica un'ipotesi di impronta costituzionalista. Le forme ostili, negativiste, litigiose, ma che non mostrano ripetute aggressioni e violazioni delle norme, sembrano delineare rispetto alle sindromi esposte, un'area problematica meno severa, codificata dal DSM-IV come “Disturbo OppositivoProvocatorio”. Tipicamente queste forme assumono rilevanza clinica tra l'ottavo anno di età e la prima adolescenza. La comparsa dell'oppositività, invece nell'adolescenza vera e propria, viene riferita al bisogno di autonomia e di individuazione affettiva che caratterizza questa fase della vita ed è ascritta pertanto, dal DSM-IV, ad un ambito riconosciuto di normalità e di significato evolutivo. Anche in questo caso l'attenzione è però focalizzata sul controllo e sulla previsione. Se la relativa stabilità delle manifestazioni oppositive, la loro frequenza rispetto ai coetanei e la menomazione delle 9 abilità sociali che ne consegue, sono le condizioni richieste per differenziare e porre questo tipo di diagnosi, proprio questi stessi elementi sembrerebbero in grado di tradurre le attribuzioni di rischio nel lavoro di prognosi. La perdita del controllo, la disubbidienza, i propositi vendicativi, gli atteggiamenti di sfida delle regole o delle richieste degli adulti, pur mostrando una valenza comunicativo-espressiva ben precisa all'interno di specifici campi relazionali, testimoniata dall'assenza di continuità del disturbo in contesti diversi, si rivelerebbero allo sguardo del DSM come precursori clinici del Disturbo della Condotta in una significativa porzione di casi. Una conclusione di questo tipo si allontana da un utilizzo della diagnosi come processo conoscitivo. In un movimento di indagine che procede dal generale al particolare, la rilevanza clinica di tali manifestazioni non rimanda ad altro che alla loro osservabilità e all'entità del danno sociale che ne consegue. Subordinato a finalità di ordine predittivo, il repertorio nosografico di queste condotte ad insorgenza precoce non lascia spazio all'imprevedibilità delle variabili biografiche che le sottendono ed all'analisi dei contesti relazionali in cui si producono. Il modo con cui vengono prese in considerazione alcune caratteristiche proprie del sistema familiare ne è un valido esempio: Il Disturbo Oppositivo-Provocatorio ha maggiore prevalenza nelle famiglie in cui l'accudimento del bambino è turbato da un susseguirsi di diverse persone preposte all'accudimento stesso, o in famiglie in cui sono comuni pratiche educative rigide, incoerenti o distratte (DSM-IV, 1996). Oltre alla sezione dei disturbi che di solito sono diagnosticati nell'infanzia, nella fanciullezza o nell'adolescenza, troviamo altre categorizzazioni nosografiche di più stretto interesse psicologico e criminologico-giuridico nell'ambito dei cosiddetti “Disturbi del controllo degli Impulsi”. Tali diagnosi possono esser utilizzate anche per i soggetti in età evolutiva. Nessuna effettiva distinzione teorica è posta dai curatori del DSM tra i disturbi della fanciullezza e quelli dell'età adulta. Si tratta di una distinzione operata solo per comodità. Pertanto, proprio introducendo i “Disturbi Solitamente Diagnosticati per la Prima Volta nell'Infanzia, nella Fanciullezza o nell'Adolescenza”: Nel valutare un bambino piccolo, un fanciullo o un adolescente, il clinico dovrebbe prendere in considerazione le diagnosi incluse in questa sezione ma fare anche riferimento ai disturbi descritti altrove (DSM-IV, 1996). Ritornando ai “Disturbi del Controllo degli Impulsi”, si tratta di una categoria meno comune rispetto alle precedenti ma certo non di minore interesse. Essa fa riferimento a quelle situazioni in cui un carattere di incoercibilità e di non controllabilità di atti che risultano nocivi al soggetto o ad altri si accompagna a un quadro generale tale da non 10 soddisfare i criteri di altre diagnosi. A differenza delle compulsioni vere e proprie, con le quali condivide la caratteristica di particolare persistenza e invasività, il comportamento impulsivo si accompagnerebbe a un'esperienza detensiva di piacere, gratificazione o liberazione al momento in cui viene agito. Benché sentimenti di colpa o di autorimprovero possano scaturire in un secondo momento, la resistenza conscia all'atto o, all'opposto, la sua premeditazione, non sarebbero criteri determinanti per porre questo tipo di diagnosi, che rimane invece centrata sulla natura impulsiva del comportamento e sulle capacità di ridurre la tensione o il disagio crescenti. Scendendo nel particolare abbiamo: il “Disturbo Esplosivo Intermittente”, caratterizzato da crisi brevi ed episodiche di perdita del controllo dell'aggressività, e tali da poter sfociare in seri atti distruttivi nei confronti delle proprietà; la “Cleptomania” definita come la ricorrente incapacità del soggetto di resistere alla tentazione di rubare oggetti indipendentemente dalla loro immediata utilità e dal valore commerciale; la “Piromania” cioè, la tendenza deliberata e finalizzata a produrre incendi. Tale connotazione psicopatologica di queste condotte – solo all'apparenza incongrue rispetto a qualsiasi fattore scatenante di tipo psicosociale – esclude la possibilità di una loro analisi che faccia riferimento ai più ampi contesti di significato in cui in realtà si originano e alle finalità strumentali ed espressive che le sottendono. Una trattazione a parte merita la categoria di “Disturbo della Personalità”. Sebbene il primo manifestarsi di un comportamento disturbante durante l'adolescenza o già nell'infanzia può assumere il significato di indicatore precoce della patologia antisociale del carattere, quest'ultima non può subito venire considerata diagnosticabile come tale. In linea generale, qualora una modalità disadattiva di rapportarsi a sé e agli altri non rimanga confinata ad uno stadio dello sviluppo, ma tenda a irrigidirsi e stabilizzarsi nel tempo, causando un marcato disagio personale e uno scadimento delle competenze sociali, costituisce secondo il DSM-IV un “Disturbo di Personalità”. Le difficoltà evidenziate dai sistemi diagnostici standardizzati nel riferimento al concetto di personalità implicano fondamentalmente la scelta teorica dei criteri rappresentativi delle regolarità da inferire a partire dall'osservazione clinica. Tale scelta presuppone una chiara e precisa definizione teorica del concetto di personalità. Non sembra essere questa in realtà la strada intrapresa dal DSM che, situando l'analisi del comportamento umano al di fuori del complesso rapporto di relazioni circolari tra l'individuo e il contesto si trova costretto a far affidamento su una nozione di “tratto” che, proprio perché non adeguatamente chiarita e definita, finisce per scivolare verso il vecchio approccio di tipo personologico al comportamento umano e alle presunte regolarità delle sue manifestazioni. Come chiarisce il manuale: La caratteristica essenziale di un Disturbo di Personalità è un modello costante di 11 esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell'individuo, e si manifesta in almeno due delle seguenti aree: cognitiva, affettiva, funzionamento interpersonale o controllo degli impulsi (DSM-IV, 1996). E' possibile notare però come questa, solo apparentemente semplice ateorica definizione del criterio generale preso in considerazione per porre la diagnosi di “Disturbo di Personalità”, non consiste che in una giustapposizione di due livelli di analisi differenti, statistico da un lato e culturalista dall'altro, da riferire ad aree diverse dell'esperienza anch'esse semplicemente accostate e di cui viene lasciata in sospeso la questione del loro rapporto. Delle diverse diagnosi proposte ne prenderemo in considerazione soltanto due: “Disturbo Antisociale di Personalità” e il “Disturbo Borderline di Personalità”. Il DSM-IV delimita il quadro del Disturbo Antisociale di Personalità, raggruppato insieme a quello Borderline, Istrionico e Narcisistico nel cluster B, all'interno di una modalità pervasiva e stabile “di inosservanza e di violazione dei diritti degli altri che si manifesta sin dall'età di 15 anni” (DSM-IV, 1996). Tratti caratteristici di tale categoria sono: inadattabilità alle norme sociali o agli standard del gruppo di appartenenza, tendenza all'inganno, incapacità di pianificare o di riflettere sul proprio comportamento, irritabilità o aggressività, negligenza e irresponsabilità, mancanza di rimorso. E' possibile evidenziare come su queste basi, elementi biografici come il disadattamento lavorativo, la litigiosità o i comportamenti suscettibili di arresto, assurgono a criterio diagnostico in quanto contrassegni di uno stile e di una disposizione individuali. Viene in tal modo a riproporsi, assieme alla categoria definitoria dell'antisocialità, la sua debolezza esplicativa e la discutibilità dei presupposti su cui essa si fonda. Pur con le recenti modifiche dei suoi criteri, tendenti a decentrare il focus del disturbo dal comportamento illegale sanzionato, l'assetto nosografico del DSM-IV si struttura su aspetti che in realtà vengono riscontrati nei soggetti socialmente svantaggiati, nei confronti dei quali si è prodotta nel tempo una maggiore attenzione da parte delle agenzie di controllo sociale. La scoperta della correlazione esistente tra le uniformità strutturali del carattere e il particolare destino sociale di questi individui sembra fondare un riduzionismo sociale: ricercati gli indici di patologia individuale nelle carriere di vita socialmente anomale si definisce il senso di queste ultime attraverso le prime. Quanto afferma il manuale stesso, e cioè che l'accertamento clinico dei tratti antisociali non dovrebbe prescindere dalla valutazione del contesto socioculturale di appartenenza del soggetto, sembra in effetti intuitivamente circoscrivere una fonte di errore diagnostico, rappresentata dai contesti normativi di riferimento e al tempo stesso rinsaldare l'assunto che il decadimento sociale possa comunque riflettere una struttura personologica di base. In sintesi, ciò che non viene preso in considerazione è la possibilità di un'indagine clinica posta su di un piano diverso da quello del rapporto tra caratteristiche 12 personologiche ed ordine normativo, che consenta di approfondire quali dinamiche processuali orientino e stabilizzino le carriere sociali. La tendenza attuale, sostenuta dai nuovi programmi di ricerca e ampiamente condivisa da clinici di diverso orientamento teorico, è quella di inquadrare i comportamenti francamente antisociali degli adolescenti nell'ambito della sindrome borderline, caratterizzata da una condizione di instabilità interpersonale e affettiva, accompagnata da impulsività notevole ma anche da un marcato disturbo dell'identità personale: condotte potenzialmente dannose per sé e per gli altri, minacce ricorrenti o accessi bruschi e incontrollati di collera, impulsività nelle spese, disturbi alimentari, pratiche sessuali indiscriminate, abusi di sostanze, guida spericolata, ecc. Un senso di sé incoerente e scarsamente integrato è alla base delle pervasive sensazioni di vuoto e di noia in questi soggetti. Le intense oscillazioni dell'umore testimonierebbero pertanto una marcata labilità della sfera affettiva e in questo senso reazioni talora violente sembrerebbero scaturire da un fondo disforico, irritabile e ansioso. La presenza di rabbia come emozione prevalente sembra evidenziare una vita relazionale intensa ma precaria, soggetta all'alternanza tra l'iperidealizzazione e la svalutazione dell'altro e dominata dal timore di un potenziale o temporaneo abbandono che spesso finisce con il trasformare i forti vissuti di dipendenza in risentita ostilità. In questa cornice lo stile comportamentale di tipo manipolatorio del borderline è conseguenziale alla vulnerabilità, alla separazione, alla difficoltà a tollerare l'isolamento e in definitiva alla sensazione di scarso controllo sulla realtà esterna; stile che può a sua volta alimentare il temuto fallimento dei rapporti interpersonali e sfociare in minacce di suicidio o agiti autolesivi di varia natura. Il comportamento clamoroso di rottura, come espressione di ritorsione affettiva o richiesta di attenzione, non sarebbe infatti inusuale in circostanze di rifiuto, di esclusione e di abbandono. Proprio quest'ultima caratteristica viene attualmente posta come criterio diagnostico differenziale rispetto al “Disturbo antisociale”, nel quale l'attitudine manipolatoria scaturirebbe invece da una polarizzazione cognitiva tra un sistema di valori fortemente autocentrato e una concezione degli altri come vulnerabili e sfruttatori (Beck e Freeman, 1990). Così, mentre gli altri ai quali il borderline rapporta la propria condotta risulterebbero funzionali al suo bisogno di dipendenza o alla temporanea conferma di un senso di autostima o di identità, sia pure deviante, l'ostilità degli altri, cui l'antisociale riferisce il suo diritto a infrangere le regole, deriverebbero invece da una radicata concezione di sé come solo, autonomo e forte. La precisione clinica di questi rilievi però non sembra poter essere adeguatamente valorizzata a prescindere da un'ottica sistemico-processuale di studio che ne evidenzi la circolarità dei livelli coinvolti e oltrepassi le semplificazioni 13 esplicative che la tipologia psichiatrica sembra suggerire. E' in questa stessa direzione che possono essere interpretati i sintomi dissociativi o le ideazioni paranoidi “legati allo stress” (criterio n. 9) introdotti nell'ultima edizione del manuale. Le distorsioni e le rigidità cognitive improntate all'ostilità e alla sospettosità, così come i comportamenti aggressivi che queste talvolta sollecitano, devono essere intesi come effetti che emergono e assumono significato nell'interazione con diversi contesti produttori di norme, prescrittive ed interpretative, piuttosto che come corollario di un'affettività distorta; come strategie funzionali e simmetriche di comunicazione all'interno di particolari strutture di potere interpersonale, non sempre formalizzate o rese esplicite. Se consideriamo il rapporto circolare e comunicativo tra ideazione soggettiva, comportamento di rottura e risposte sociali, è possibile non limitare tale cambiamento di prospettiva ad un semplice spostamento di punteggiatura del problema. In certi casi l'adolescente potrebbe coinvolgere, con i suoi atteggiamenti e le sue azioni, quegli altri significativi che hanno problematizzato le sue esigenze di svincolo o disconfermato l'alternativa che egli propone all'identità del nucleo familiare cui appartiene (Cancrini, La Rosa, 1991). Su un piano più generale le percezioni e le scelte d'azione che egli realizza entro schemi condivisi di regole e di codici affettivi potrebbero realizzare funzioni di equilibrio del proprio sé in relazione ai contesti rilevanti di appartenenza (De Leo, Patrizi, 1989b). Quella del DSM appare una strumentazione orientata da criteri ordinativi, descrittivi del fenomeno che risulta inappropriata a cogliere il senso in cui gli adolescenti (ma non solo) e gli specifici contesti di appartenenza costruiscono percorsi sociali anomali e disturbanti. Una valida risposta a questo problema di fondo non è fornita neanche dall'adozione, da parte del DSM, di un criterio multiassiale di valutazione, secondo cui ogni quadro diagnostico dovrebbe tener conto di diverse variabili – cliniche, ambientali, personologiche, somatiche, sociali – codificare in cinque assi principali di riferimento non gerarchici. Tale approccio propone un'analisi del comportamento umano in termini fortemente positivistici; una lettura scompositiva in variabili, multifattoriali, in cui ciò che va perso è proprio l'aspetto più strettamente simbolico, comunicativo del comportamento umano, che rimanda a un continuo scambio, a una continua transazione tra l'individuo e il suo contesto di riferimento. Seppure con un più cauto determinismo, aperto a definire l'evoluzione di ciò che descrive su matrici dimensionali multiple, il sapere psichiatrico e la sua prassi riaffermano in realtà un sistema di conoscenza in base al quale la devianza dell'adolescente viene ricondotta alla natura intrinseca dell'oggetto di studio. Perdendo 14 l'azione ogni suo significato tanto soggettivo quanto sociale, l'autore stesso scompare (De Leo, 2002). 15