la parola della domenica Anno liturgico A omelia di don Angelo nella Solennità del Corpo e Sangue di Cristo secondo il rito ambrosiano 26 giugno 2011 Dt 8,2-3.14b-16a Sal 147 1Cor 10,16-17 Gv 6,51-58 Vi devo confessare che a volte mi succede di immaginare che nelle nostre chiese al momento dell’Eucaristia entri uno non aduso a partecipare ai nostri riti, un non credente. Mi domando che impressione ne riceverebbe. Non forse la sensazione di gente che dice parole e fa gesti lontani, estranei, avulsi dalla vita? Se lo lasciassimo parlare, forse ci direbbe: “Perdonate, ma non avete altro da fare, altro su cui confrontarvi, altro di più urgente, all’interno della chiesa, all’interno della società? Non sono altri i nodi da esplorare, civili, politici, ecclesiali? Non corriamo forse il rischio di essere fuori dalla storia? Ebbene rileggendo il brano del vangelo di Giovanni, quest’annno forse più che in altri anni, mi colpiva la connessione tra pane del Signore e vita. Per cui mi sono detto che è avvenuta una incredibile sconsacrazione con la riduzione dell’eucaristia a un tema privato che ha poco o niente a che fare con la vita, confinandola in una sorta di bolla, lontana, estranea. Impermeabile a ciò che avviene nella concretezza dei giorni. Il tema della vita sembra dominante nel discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao: il pane che lui dà è un pane vivo, e chi lo mangia vivrà, vivrà in eterno. Il pane che dà è per la vita, e non solo per la vita tua, è per la vita del mondo. Chi mangia il suo pane e beve il suo sangue, cioè chi si alimenta della sua vita, ha già da ora, “ha”, verbo al presente, 2la vita eterna2, cioè un modo profondo intenso di vivere che non subirà interruzione. Fino a dire: “Chi mangia questo pane” e alludeva a se stesso, chi si alimenta di me, dei miei sogni, delle mie passioni, del mio modo di vivere “vivrà in eterno”. E allora se un non credente entrasse qui in chiesa e ci chiedesse per che cosa siamo convenuti, forse dovremmo dirgli che ci appassiona la vita, che la vita va onorata con i colori, con la trasparenza, con la passione. E che noi siamo convinti di trovare qui alimento a tutto questo. In un pane che è pane “di vita”, di vita vera e non di una finta di vita. Forse potremmo dare ragione del nostro essere qui, dicendogli che qui avviene un memoriale e che per noi, per la nostra vita, ma forse per la vita di tutti, fare memoria è diventata una cosa di cui non sappiamo fare a meno, perché è come riportare nella nostra vita di oggi il sangue che abita le memorie. E’ essenziale. Per questo ci fa paura vivere e morire da smemorati. Il richiamo a ricordare - per vivere! - era luminoso oggi nel brano del libro del Deuteronomio, omelia di Mosè nella steppa prima di andarsene. Mosè detta parole sapienti per i giorni in cui lui non ci sarà e detta ripetutamente questo verbo al suo popolo, che non era già un’assemblea di spiriti raffinati, ma gente di carovane, di attraversamento di deserti, volti bruciati dal sole e dal vento: “Ricordati” ecco il verbo “Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere per questi quarant’anni nel deserto”. Non è stata una passeggiata. Il deserto, “luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua”. E tu che cosa hai intuito? Hai intuito, proprio dietro il dono della manna che ti veniva dal cielo, hai intuito, dice Mosè, che “l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca di Dio”. E dunque a chi ci chiedesse ragione del nostro essere qui potremmo dire: se tu ci vedi qui in ascolto della Parola di Dio, è perchè noi troviamo in questa parola una forza che ci fa vivere, che salva dal regredire, dal regredire nel rimpianto dei faraoni. Una parola che dovresti trovare in qualche misura sui nostri volti, volti di resistenti, di donne e uomini liberi. E qualora tu non la trovassi e trovassi volti pallidi e smunti, dovresti dedurre che da quella parola ci siamo allontanati, l’abbiamo dimenticata e tradita. Ma a un non credente dovremmo rendere ragione non solo della parola che qui ascoltiamo, ma anche del pane che qui spezziamo. E a questo riguardo una difficoltà, lasciatemelo dire, e non piccola, sta nel fatto che le nostre celebrazioni stentano ad apparire come un banchetto e ciò che consacriamo un pane, un pane spezzato fra tutti. Ed è un peccato perché Gesù, voi lo sapete, ancor prima che con le sue parole ha raccontato la notizia buona del vangelo con i suoi banchetti. I suoi banchetti erano vangelo. In modo specialissimo vangelo fu la sua ultima cena. Quella notte nella sala al piano superiore sembrò deporre in quel pane che spezzava e in quel calice del vino che faceva passare tra i discepoli tutto quello che lui era, tutto quello che aveva sognato, tutto quello che aveva insegnato, ultimo gesto, riassunto di tutta una vita, testamento per i nostri giorni, per tutti i giorni. Come dicesse: “In questo pane arde la mia vita consegnata, consegnata come un pane. Voi che lo prendete diventate anche voi pane, pane sulla mensa dell’umanità”. Il gesto di Gesù alludeva, voi mi capite, all’umile pane delle nostre case, un pane che non accetta esposizioni in vetrina: la sua esposizione, quella vera, è sulla tavola. Per tutti. Ai discepoli quella sera ricordò la regola del pane, che è alternativa radicale ai criteri mondani, che ci portano a vivere la vita preoccupandoci esclusivamente di noi stessi. Bellissime e impegnative, al riguardo, le parole che oggi abbiamo ascoltato dalla lettera di Paolo ai cristiani di Corinto: “Il pane che noi spezziamo” scrive Paolo “non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane”. Il gesto a quei tempi era di una evidenza luminosa, di una trasparenza bellissima. C’era sulla mensa un grande pane e veniva spezzato per tutti, a ognuno un pezzo. Lo prendevano, se ne cibavano, e per fedeltà alla regola del pane, si sentivano responsabili gli uni degli altri, come fossero un solo corpo. A questo ci impegna il pane dell’Eucaristia, a sentirci partecipi del bene comune, a sentirci responsabili del bene di tutti, a costruire sulla terra, là dove siamo, spazi di fraternità, di partecipazione, di condivisione. Se così non fosse, almeno nel desiderio, avremmo tradito l’eucaristia, avremmo dato, a chi ci chiedesse conto delle nostre celebrazioni, un motivo in più per pensare che l’eucaristia è un gesto fuori dalla vita. Ci aiuti il Signore a renderla segno, brace che arde. Per tutti. Per la riflessione Si è persa o quasi nell’eucaristia l’immagine di una cena. Che cosa ha comportato tutto questo nelle nostre celebrazioni? Le nostre cene non avrebbero qualcosa da dire alle eucaristie? E le nostre eucaristie, se fossero vere, non avrebbero qualcosa da dire alle nostre cene?