una buona pallottola per il gatto di schrödinger - Digilander

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Paolo Musso
UNA BUONA PALLOTTOLA PER IL GATTO DI SCHRÖDINGER
"Quando sento parlare del gatto di Schrödinger metto mano alla pistola", pare sia uso dire Stephen
Hawking. Non mi capita spesso, ma per una volta sono d'accordo con lui. Il problema è che finora
nessuno dei molti che condividono con noi (o hanno condiviso in passato) tale atteggiamento nei
confronti del protagonista del più famoso paradosso della fisica quantistica è ancora riuscito a trovare la
pallottola adatta per farlo fuori una volta per tutte. Ciò è proprio quanto mi riprometto di fare con l'esperimento
che andrò ora a proporre.
Si badi bene, però: nessun malanimo da parte mia nei confronti del povero felino. Semmai era
Schrödinger ad avercela coi gatti, visto il marchingegno infernale in cui è andato a cacciarlo e che ora mi
costringe a tentare pietosamente di ucciderlo per sottrarlo al drammatico limbo, di gran lunga peggiore
della morte, in cui egli l'ha collocato. Come è noto, infatti, l'esperimento ideale immaginato dal
diabolico Erwin (e successivamente sfruttato -contro le intenzioni del suo ideatore, che fu sempre un
convinto assertore del realismo- dai fautori della cosiddetta "scuola di Copenaghen" per sostenere la loro
interpretazione idealistica della meccanica quantistica) era il seguente.
Si prenda un gatto e lo si ponga in una scatola ermeticamente chiusa con le pareti non trasparenti. Nella
scatola viene posta anche un'ampolla di cianuro e un meccanismo a martello collegato con un dispositivo di
rilevamento di un singolo evento quantico (per esempio il passaggio di un fotone in A piuttosto che in B)
avente una probabilità esattamente del 50%. Il meccanismo è predisposto in modo tale che se l'evento
si verifica lascia cadere il martello sull'ampolla, che si spezza liberando così il cianuro, che uccide il gatto;
se invece l'evento non si verifica il meccanismo non scatta e il povero animale salva la pelle.
Il punto è che la teoria quantistica ci dice che in una situazione del genere noi non possiamo sapere
cosa è successo dentro la scatola in nessun altro modo che andandoci a guardare. E qui sorge il problema.
Infatti i seguaci della "scuola di Copenaghen" sostengono che è proprio l'atto dell'osservazione da parte di
un soggetto umano cosciente che fa sì che la funzione d'onda "collassi" (vale a dire che il fotone "scelga"
una delle due possibilità, a priori equiprobabili, che aveva davanti). Ma siccome ciò può avvenire anche
successivamente al momento del verificarsi dell'evento quantico, in quest'ottica l'atto di osservazione
determinerebbe retroattivamente la "scelta" del fotone e, quindi, lo stato del gatto. Il quale, di conseguenza,
fino a quel momento e per tutto il tempo che trascorre tra il verificarsi dell'evento quantico e l'atto
d'osservazione stesso (tempo che, ovviamente, può essere reso grande a piacere) si troverebbe sospeso
in una situazione ibrida costituita da due stati di morte e di vita sovrapposti.
Naturalmente a questa interpretazione idealistica estrema si è da sempre obiettato che in realtà ciò che
fa "decidere" il fotone è l'interazione con il
rivelatore. Ma i "Copenagheniani" hanno
replicato semplicemente applicando anche ad esso lo stesso argomento usato nei confronti del gatto:
anche il rivelatore, cioè, si troverebbe in uno stato ibrido di "scattato" e "non scattato", che solo il nostro
atto di osservazione cosciente può rendere determinato in un senso o nell'altro.
Una tale asserzione è ovviamente del tutto gratuita, perché non ha nessuna conseguenza empirica
rilevabile. Ma -ahimé- proprio per questo motivo è anche assolutamente inconfutabile, almeno sul piano
sperimentale. Per questo motivo fino ad oggi la discussione è rimasta sempre su un piano
escusivamente filosofico ed epistemologico e l'enorme mole di argomenti portati in favore dell'una o
dell'altra posizione a nulla è valsa se non, paradossalmente, a far sì che, almeno come entità teorica, se
non nella realtà, il gatto di Schrödinger abbia effettivamente avuto il destino immaginato per lui dal suo
ideatore: quello di essere nello stesso tempo per alcuni vivo e per altri morto, con in più l'aggravante di non
avere neanche una scatola per andarci a guardare dentro.
O almeno così si credeva.
Io affermo infatti che è invece possibile dimostrare che l'interpretazione di Copenaghen conduce a
conseguenze sperimentali contradditorie. A questo scopo ho bisogno che mi venga concesso un solo
punto teorico, che peraltro non solo nessuno dei seguaci di tale scuola si è mai sognato di negare, ma che
anzi costituisce un elemento essenziale delle loro argomentazioni, e cioè che: un qualsiasi atto di
osservazione da parte di un essere umano cosciente eseguito su una parte qualsiasi del sistema
macroscopico il cui stato dipende da un evento quantico fa collassare in maniera irrereversibile la
funzione d'onda in modo tale che tutta la storia del sistema macroscopico stesso a partire dal momento
del verificarsi dell'evento quantico in questione risulta retroattivamente determinata in maniera univoca e
definitiva.
Prima di procedere oltre, però, vorrei rispondere ad una obiezione che spesso mi è stata fatta: molti infatti
ritengono scorretto o quantomeno impreciso attribuire tale interpretazione idealistica (di cui nessuno nega
l'esistenza, ma che secondo costoro sarebbe una stravaganza fortemente minoritaria e originatasi
successivamente) direttamente a Bohr e compagni. Ora, in primo luogo ciò non è del tutto esatto nemmeno
se ci atteniamo alla lettera di quanto da essi esplicitamente affermato. A parte Von Neumann, che la
sosteneva espressamente, si considerino per esempio le seguenti citazioni (tutte tratte dal corso di
Fondamenti della Meccanica Quantistica tenuto da Franco Selleri alla Scuola Estiva di Filosofia della scienza
a cura della SILFS, Cesena, 14-18 Settembre 1998, testi disponibili attualmente solo in dispense):
<<La normale separazione del mondo tra soggetto e oggetto, tra mondo interno e mondo esterno, tra
corpo e anima, non è più adeguata. [...] Tutti gli oppositori della interpretazione di Copenaghen concordano in
un punto. Sarebbe desiderabile, secondo loro, ritornare al concetto di realtà della fisica classica o, per usare
un termine filosofico, all’ontologia del materialismo. Essi preferirebbero ritornare all’idea di un mondo reale
oggettivo le cui particelle minime esistono oggettivamente nello stesso senso in cui esistono pietre e alberi,
indipendentemente dal fatto che noi le osserviamo o no.>> (Werner Heisenberg)
<<Il “passato” è teoria. Il passato non ha esistenza tranne che per l’essere registrato nel presente. [...] I
fenomeni resi esistenti da queste decisioni [di quali misure effettuare] si estendono all’indietro nel tempo nelle
loro conseguenze, [...] all’indietro fino ai primissimi giorni dell’universo. [...] Per quanto utile possa essere
nella vita di ogni giorno il dire che il mondo esiste “là fuori” indipendentemente da noi, questo punto di vista
non può più essere mantenuto [...] Sì, o universo, senza di te io non avrei potuto cominciare ad esistere.
Tuttavia tu, grande sistema, sei fatto di fenomeni; ed ogni fenomeno poggia su un atto di osservaione. Tu
non potresti mai nemmeno esistere senza atti elementari di registrazione come i miei>> (John Wheeler)
<<Resterà notevole, qualunque sia lo sviluppo futuro dei nostri concetti, che lo stesso studio del mondo
esterno abbia portato alla conclusione che il contenuto della coscienza è una realtà irriducibile.>> (Eugene
Wigner)
<<Veramente lei è convinto che la Luna esista solo se la si guarda?>> (Einstein riferendosi
all’interpretazione di Copenaghen, senza che nessuno dei suoi sostenitori, con i quali discuteva in
continuazione, abbia mai sentito il bisogno di spiegargli che li aveva fraintesi)
E si potrebbe continuare: ma mi pare superfluo, così come superfluo mi pare ogni commento.
Ma, soprattutto, tale obiezione si dimostra errata se consideriamo che l'idealismo è comunque la
conseguenza implicita, ma oggettivamente inevitabile, al di là delle intenzioni degli autori, della posizione
radicalmente fenomenistica e positivistica formalmente e reiteratamente proclamata da Bohr come la sola ed
unica sensata da tenere di fronte alla meccanica quantistica e come tale fatta propria senza riserve da tutta
la scuola di Copenaghen nel suo insieme. Infatti, come peraltro è noto da tempo, la distinzione stabilita dallo
stesso Bohr tra apparato di misura (macroscopico), per il quale valgono le leggi deterministiche della fisica
classica, ed evento quantistico (microscopico), per cui esse non sono più applicabili, è totalmente arbitraria
e, in ultima analisi, puramente convenzionale, essendo gli oggetti macroscopici ultimamente costituiti da
quelli microscopici. L'estensione dell'indeterminazione quantica all'apparato di misura (e all'apparato di
misura dell'apparato di misura, e così via all'infinito) non è dunque per niente affatto in quest'ottica una
stravaganza gratuita ed evitabile, ma, del tutto al contrario, la sua logica e necessaria conseguenza, che non
si può fare a meno di trarre non appena si superi il divieto, proclamato ancora da Bohr (ed esso sì
veramente gratuito), di porsi semplicemente la questione. Ma siccome la realtà macroscopica come noi la
percepiamo non è indeterminata, e poiché d'altra parte il ricorso ad una catena infinita di apparati di misura,
oltre ad essere inaccettabile logicamente, non risolverebbe comunque il problema, per spezzare
l'incantesimo non resta che riferirsi ad una realtà qualitativamente diversa, per rappresentare la quale il
migliore (per non dire l’unico) candidato è senza dubbio alcuno la mente (solitamente quella umana, ma la
cosa non è scontata e, d'altra parte, ai nostri fini non fa molta differenza). La responsabilità
dell'interpretazione idealistica della meccanica quantistica è dunque pienamente attribuibile alla scuola di
Copenaghen e, in ultima analisi, allo stesso Niels Bohr.
Ciò stabilito, passiamo alla dimostrazione, che si basa sulla possibilità di unire l'esperimento ideale
del gatto di Schrödinger ad un altro famosissimo esperimento della fisica quantistica (questo anche
realmente eseguito un'infinità di volte, con risultati sempre in accordo perfetto con le previsioni teoriche) e
cioè quello della doppia fenditura.
In breve si tratta di questo. Prendiamo una sorgente di luce ed uno schermo e frapponiamo tra di essi
una lastra opaca con due piccole fenditure. Se proiettiamo un fascio di luce continua sullo schermo
apparirà una caratteristica figura di interferenza. Facciamo ora partire dalla nostra sorgente un singolo fotone
alla volta e andiamo poi a guardare lo schermo dopo un certo numero di passaggi: vedremo ancora la
stessa figura di interferenza. Il fatto è già curioso perché in questo caso i fotoni non hanno potuto
interferire tra loro durante il tragitto, dato che li abbiamo inviati uno alla volta, eppure si sono andati a
disporre sullo schermo esattamente come se l'avessero fatto: sembrerebbe quindi che ogni singolo fotone
passi per entrambi i buchi, interferendo così con se stesso in modo che, statisticamente, il risultato finale
non cambi. Ma la cosa diventa ancor più paradossale se disponiamo in A e in B due rivelatori che
segnalino il passaggio dei fotoni senza assorbirli: in questo caso infatti le figure di interferenza non si
formano più e sullo schermo dopo un certo numero di passaggi appaiono due macchie rotonde in
corrispondenza dei due fori, più marcate al centro e più sfumate verso il bordo. (In realtà esiste sempre una
probabilità, per quanto piccola, che qualche fotone colpisca lo schermo nella regione intermedia tra le due
macchie, per quanto distanziate esse siano. Per essere assolutamente precisi dovremmo quindi dire che
abbiamo in ogni caso una singola macchia con due zone più marcate in corrispondenza delle due fenditure,
corrispondente alla somma di due classiche distribuzioni statistiche a campana. Ma per i nostri fini il discorso
non cambia e perciò possiamo attenerci senz'altro a questa descrizione, leggermente meno rigorosa, ma in
compenso più semplice.)
Naturalmente questo esperimento pone tutta una serie di difficilissimi e paradossali problemi, tuttora
irrisolti, ma che mi guarderò bene dall'affrontare: quel che qui ci interessa, infatti, è che nel secondo caso
la presenza dei rivelatori dà luogo ad una certa figura sullo schermo, quella priva di frange di interferenza,
ben determinata e riconoscibile. Ora, secondo l'interpretazione della scuola di Copenaghen a produrre
tale figura non è, ovviamente, la semplice interazione dei rivelatori con i fotoni, ma l'atto cosciente con cui
noi li osserviamo e facciamo sì che scatti, ad ogni passaggio, ora quello in A e ora quello in B: ciò fa
collassare la funzione d'onda prima dell'impatto con lo schermo, costringendo il fotone a passare solo da
uno dei due buchi ed eliminando così l'interferenza. Si badi bene, però, che -stante il principio teorico
precedentemente stabilito e che è poi lo stesso che ci permette, nel caso del gatto, di fare la nostra
osservazione indifferentemente sull'animale o sull'apparato rivelatore- noi possiamo altrettanto bene
osservare lo schermo, anziché i rivelatori: e anche in questo caso, secondo l'interpretazione di
Copenaghen, sarà il nostro atto di osservazione che determinerà, questa volta retroattivamente, il fatto
che sia scattato il rivelatore in A o quello in B, a seconda del punto di impatto di volta in volta osservato.
A questo punto, come detto, mettiamo insieme i due esperimenti: colleghiamo il rivelatore in A
all'apparato ammazza-gatto e lanciamo un fotone verso la lastra. Tutto è come prima, solo che ci siamo dati
una possibilità in più: se vogliamo, infatti, anziché direttamente il gatto (soprattutto se, a differenza di
Schrödinger, siamo teneri di cuore) per sapere cosa ne è stato di lui possiamo andare ad osservare lo
schermo: se constateremo un impatto corrispondente al rivelatore in A sapremo di poter preparare le
esequie per il povero micio, mentre potremo andare ad aprire la scatola col cuore più leggero, sapendo per
certo di trovarlo vivo, se lo rintracceremo nella zona corrispondente al rivelatore in B.
Fin qui niente di nuovo. La situazione è infatti concettualmente identica a quella precedente, il che ci
assicura che l'operazione svolta è perfettamente legittima.
Benissimo. Ma adesso introduciamo la modifica decisiva. Mandiamo il primo fotone ammazza-gatto,
esattamente come prima, ma poi, prima di andare a fare qualsiasi osservazione (ne abbiamo tutto il diritto:
ricordiamoci infatti che la lunghezza del tempo intercorrente tra l'evento quantico e la sua osservazione è
del tutto arbitraria), ne continuiamo ad inviare una certa quantità, uno dopo l'altro, come nell'esperimento
della doppia fenditura nella versione originale. Si badi bene che ciò è assolutamente ininfluente rispetto allo
stato del gatto: infatti noi avremo provveduto a tarare i rivelatori in modo tale che essi continuino a segnalare
il passaggio dei fotoni, ma che soltanto il primo faccia scattare (o no) il meccanismo a martello che
spezza l'ampolla col cianuro. Rispetto al gatto, dunque, nulla è cambiato. Ma le cose sono cambiate,
invece, e di molto, rispetto all'osservazione. Noi andremo ora ad osservare, infatti, esattamente come
prima (siamo sempre gente dal cuore tenero), lo schermo: solo che, questa volta, ci andremo non
immediatamente dopo il passaggio del fotone assassino, ma soltanto dopo un certo numero di passaggi
successivi. E cosa vedremo? Naturalmente non il segno dell'impatto del singolo fotone, corrispondente al
passaggio in A o in B, ma, come già detto in precedenza, le due macchie senza frange di interferenza
che caratterizzano l'esperimento della doppia fenditura in presenza di rivelatori. Ma perché si realizzi questo
tipo di figura è necessario che i rivelatori siano scattati: per la precisione, è necessario che ad ogni singolo
passaggio sia scattato o il rivelatore in A o quello in B. Secondo l'interpretazione della scuola di
Copenaghen, quindi, ciò significa che il nostro atto di osservazione finale ha fatto sì che ogni singolo
fotone abbia "deciso" in quell'istante, retroattivamente, se è passato da A o da B. Ma il punto è che anche
adesso noi continuiamo a non sapere dove è passato il fotone ammazza-gatto, perché non sappiamo quale
dei molti impatti che abbiamo sotto gli occhi è quello suo. E tuttavia la funzione d'onda è collassata, e
dunque, almeno da questo momento in poi, il gatto è, certamente, o vivo o morto. Ma noi continuiamo a non
saperlo e a trovarci esattamente nella stessa situazione di prima: per scoprire cosa gli è successo,
infatti, continuiamo a non avere altro mezzo che andare a guardare dentro la scatola. Ma, attenzione!,
stante il principio teorico prima stabilito, questa volta il nostro atto di osservazione non può più avere
alcuna influenza su quanto troveremo, perché la funzione d'onda non può collassare più di una volta e
quando lo fa deve perciò determinare tutto ciò che da essa dipende una volta per tutte e in maniera
irreversibile.
Si può ancora, a questo punto, sostenere che tuttavia è stato pur sempre il nostro atto di osservazione a
far uscire Micio dal suo limbo, anche se non è bastato per illuminarci sul suo destino? Certo, volendo si
può, come si può quasi tutto a questo mondo, compreso sostenere che la Terra è piatta e che le immagini
dei satelliti sono dovute ad una singolare coincidenza di effetti ottici o sono dei falsi costruiti in laboratorio.
E tuttavia i fautori dell'interpretazione di Copenaghen hanno sempre sostenuto che l'osservazione cosciente
aveva questo singolare privilegio proprio, appunto e soltanto in quanto cosciente (e per che altro, del
resto?): è perché è in grado di rendersi consapevole dell'informazione in essa contenuta, ci hanno
sempre detto questi autori, che la mente umana (ed essa soltanto) è anche in grado di far collassare la
funzione d'onda; è soltanto assumendo una realtà determinata nella mente umana che la particella
quantistica (e quindi la realtà tutta, che ultimamente da particelle quantistiche è costituita) passa da
un'esistenza solo virtuale ad un'esistenza determinata anche nel mondo oggettivo.
Ma in questo caso il nostro primo atto di osservazione, quello che dovrebbe essere responsabile del
collasso della funzione d'onda del sistema fotone assassino - gatto assassinato, non ci ha fornito alcuna
informazione a proposito dello stato assunto da essa. E allora che cosa potrà aver determinato tale stato,
che tuttavia ormai esiste e che noi andremo semplicemente a constatare (senza più poter determinare
alcunché, neanche dal punto di vista di Copenaghen) con la nostra seconda osservazione? Soltanto, mi
pare, un'interazione oggettiva, indipendente dalla nostra consapevolezza (benché la sua natura non ci sia
ancora chiara, e forse mai lo sarà) tra il fotone e uno dei due rivelatori.
Ovviamente speriamo quello in B.
Dipartimento di Filosofia - Sezione di Epistemologia
Università di Genova
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Paolo Musso
A GOOD SHOT FOR SCHRÖDINGER’S CAT
Abstract
A proposal for an experimental refutation of the idealistic interpretation of quantum mechanics is here
suggested.
With combinating Schrödinger’s cat famous experiment with the two-fissure classical one it becomes
possible to make an observation causing wave-function collapse without getting any information about which
way the killer-photon has taken and, therefore, about cat’s state (dead or alive). So, it becomes no longer
tenable Copenaghen School’s claim that it is our consciousness of a certain state of affairs to make real the
state of affairs itself.
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