Aprile-Giugno 2007 n. 2 Anno XXI Quaderni di Minimondo Rivista culturale Braille Periodico trimestrale Fascicolo I Direzione Redazione Amministrazione Biblioteca Italiana per i Ciechi 20052 Monza - Casella postale 285 c.c.p. 853200 - tel. 039/28.32.71 e-mail: [email protected] Dir. Resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Massimiliano Cattani, Antonietta Fiore, Ilaria De Cristofaro Pietro Piscitelli (Responsabile) Copia in omaggio Stampato in Braille a cura della Biblioteca Italiana per i Ciechi via G. Ferrari, 5/a 20052 Monza Sommario Giancarlo Galli: L'incognita dei Fondi pensione («Vita e pensiero» n. 1/07) Chiara Consiglio, Laura Borgogni: Burnout: la sindrome del fuoco spento («Psicologia contemporanea» n. 200/07) Luke A.J. O'Neill: L'altra immunità («Le Scienze» n. 442/05) Franco Di Maria, Ivan Formica: Gli inquilini dell'inconscio («Psicologia contemporanea» n. 201/07) Carlo Bordoni: La cultura come spettacolo («Prometeo» n. 96/06) Comunicato: Trascrizione personalizzata di opere (book on demand) Valeria Venza: Mantova: un fiume di storia («Ulisse» n. 267/07) Lietta Tornabuoni: Cinecittà: settant'anni di sogni («Specchio» n. 558/07) Oretta Zanini De Vita: Il cibo in giallo («Cucina & Vini» n. 85/07) Mauro Novelli: Omaggio a Piero Chiara («Letture» n. 633/07) Marina Verzoletto: Glenn Gould: il pianista che non amava il pianoforte («Letture» n. 636/07) L'incognita dei Fondi pensione - Il 2007 vedrà la rivoluzione del Tfr, una sfida che rende inquieti molti lavoratori. La previdenza complementare assicurerà davvero il nostro futuro? Quello americano può essere considerato un modello per i buoni risultati che ha fornito. - Proprio alla vigilia del nuovo anno, quasi a lenire le ansie di milioni d'italiani che s'apprestano (entro giugno) a decidere il futuro della loro tanto amata liquidazione ora ridotta a una sigla (Tfr, che significa Trattamento di fine rapporto), è giunta una notizia confortante. Mittente, la Covip, Commissione di vigilanza sui fondi di pensioni già esistenti per la previdenza complementare di alcune categorie. Messaggio: nell'ultimo triennio, intercorrente fra il 31 ottobre 2003 e la stessa data del 2006, il rendimento è stato del 17,8% rispetto al 7,8 del tasso di rivalutazione del Tfr lasciato nelle casse aziendali, e che le ditte utilizzano come finanziamento per le loro attività, a un costo decisamente inferiore a quello dei vari prestiti bancari. Detto così, la conclusione è sin troppo evidente, e gratificante: i 10-14 miliardi di euro che annualmente maturano per il Tfr potranno assicurare ai lavoratori pensioni integrative crescenti, ben più robuste che in passato. Quindi la legge appena entrata in vigore si prospetta come un ottimo affare, e i Fondi pensione dovrebbero mietere consensi, mentre coloro che eviteranno di scegliere affidandosi all'Inps o lasciando il peculio in azienda, dovranno accontentarsi. Tutto ciò, in teoria. In pratica, è arcinoto che nessuno fa regali. Non certo lo Stato, che con la riforma del Tfr pensa di cogliere due piccioni con un sol colpo: 1) i miliardi che finiscono all'Inps, cronicamente deficitario, alleggeriranno il bilancio statale costretto a pareggiare l'attuale divario entrate-uscite; 2) l'«integrativo» compenserà l'ormai certa riduzione progressiva della pensione ordinaria in rapporto sia a quanto versato sia all'ultima retribuzione sia in conseguenza della durata media della vita, in progressivo allungamento. Una constatazione al riguardo: allorché, sul finire dell'Ottocento, il cancelliere tedesco Bismarck varò per la Prussia divenuta Germania la «pensione generalizzata» (e non più solo concessa a dipendenti pubblici e militari), chiese al suo ministro delle finanze di fissare un'età. Risposta: 65 anni. Con l'aggiunta: ci arrivano in pochi... Ora, la «speranza di vita» supera gli 80 anni per le donne, e li sfiora per gli uomini. Mentre nel frattempo un susseguirsi di lotte sociali, accompagnate da rivendicazioni populiste e corporative e dal minor rigore delle finanze pubbliche, ha abbassato i termini di accesso alla pensione (in Italia, si discute sull'elevazione a 60 anni, nel Nord Europa e in Usa ci si proietta verso i 67-70). Comunque, è chiaro come il sole che l'attuale sistema non può reggere a lungo. Si dica allora quel che va detto, evitando funambolismi: anche la «nuova destinazione» del Tfr (all'origine, «retribuzione differita», sorta di salvadanaio-paracadute del quale il lavoratore finora ha goduto a conclusione delle sue prestazioni, lunghe o brevi che fossero) non costituisce un regalo. Semmai l'esatto contrario: una forma di risparmio-investimento, dal volto benevolo, in realtà coercitivo. Costellato da interrogativi, che le normative in fase di elaborazione non contribuiscono a chiarire. Non è tuttavia questa la sede per sviscerare la controversa questione della previdenza integrativa legata a doppio filo al futuro del Tfr. Il problema vero è di altra natura, finanziaria. Traduzione: riusciranno i nuovi Fondi pensione (o per quanto la riguarderà, l'Inps) a garantire una rivalutazione superiore a quella attuale? S'era detto all'inizio della «buona notizia» proveniente dalla Covip. Scavando, si scopre una situazione ben diversa. Comunque variegata. Ovvero: il citato tasso di rivalutazione triennale differisce da Fondo a Fondo: per gli obbligazionari puri (minimo rischio) il rendimento effettivo è stato di appena il 6,2%. Per andare oltre, sino al 26,2% degli azionari, occorre che i gestori assumano (con soldi altrui e lucrando cospicue provvigioni) le alee d'investimenti in Borsa. A questo punto, i pericoli sono dietro l'angolo, essendo i mercati finanziari soggetti a un andamento altalenante, una sorta di montagna russa, con forti impennate e paurosi tonfi. Ora, accade che dopo i crolli del 2000 (crack della New Economy) e del 2001 (11 settembre, attacchi terroristici in Usa) le Borse abbiano ampiamente recuperato. Qualcuna, Wall Street, la numero uno mondiale, toccando nuovi record: quota 12.463, rispetto al massimo del 29 febbraio 2000 (11.750), sebbene ancora sconti la débacle del Nasdaq (il mercato dei titoli dell'Alta tecnologia), fermo a 2.415 contro un top di 5.133. In sostanza, dopo una fase di appannamento, stanno tornando entusiasmo e fiducia fra i risparmiatori. «Raramente si era visto un consenso positivo così generalizzato sulle prospettive delle Borse», ha scritto per «24 Ore» Marco Liera, brillante analista (30 dicembre). Titolando: «Bond? No, meglio le azioni». Ma di questa manna, chi ha saputopotuto profittarne? Certamente i grandi finanzieri, e in non poca misura i cultori del «fai-da-te» (almeno due milioni di piccoli e medi risparmiatori che grazie anche a Internet fanno del trading, ovvero comprano-vendono sfruttando le fluttuazioni); assai meno quegli 11 milioni di famiglie italiane sottoscrittrici di Fondi comuni, una forma di risparmio assimilabile ai futuri Fondi che ospiteranno il Tfr. In proposito il «Corriere della Sera» (20 novembre 2006, inchiesta di Giuditta Marvelli e Francesca Monti) ha condotto un'interessante analisi, partendo da un'ipotesi: quel che sarebbe accaduto se fin dal 1988 gli italiani avessero potuto investire la liquidazione in un Fondo pensione integrativo, come all'epoca si cominciò a ventilare. Risultato: in diciotto anni, ben 77 Fondi comuni sugli 82 esaminati hanno battuto la tradizionale rivalutazione del Tfr (il 75% dell'inflazione più l'1,5%). La percentuale dei «vincitori» scende però vertiginosamente sulle scadenze più brevi. A cinque anni, meno di un Fondo su due ha battuto il rendimento garantito dal Tfr attuale. Pertanto, chi nel frattempo ha lasciato l'azienda, ha trovato un gruzzolo (subito e contante) spesso più pingue di un'analoga accumulazione attraverso un Fondo. Sapranno fare meglio i gestori dei nuovi Fondi pensione? L'interrogativo, in cui si mischiano speranze e dubbi, è al momento privo di risposte convincenti, salvo un dato fattuale, concreto. La devoluzione del Tfr, purtroppo obbligatoria per le imprese con oltre 50 dipendenti, risulterà a scadenza conveniente per il lavoratore solo nel caso di un investimento articolato, e con una robusta capacità d'iniziativa. Senza subire il condizionamento delle banche e delle compagnie assicurative che attualmente, in Italia, controllano la quasi totalità dei Fondi comuni esistenti. E apprestandosi a gestire i nuovi Fondi pensionistici. L'esempio più interessante viene dall'America, dove 80 milioni di famiglie, tre su quattro, si affidano per pensioni, rendite supplementari, assistenza sanitaria, a Fondi assolutamente autonomi. Come si trattasse di società in cui i soci-azionisti, oltre ad avere voce in capitolo, nominano o licenziano gli amministratori in base ai risultati. Mediamente eccellenti. Una ricerca della Ibbotson Associates ha documentato che nell'arco di 80 anni, fra il 1926 e il 2005, i vari Fondi hanno assicurato un rendimento annuo fra il 5,5 e il 10,4%, a seconda della loro abilità di muoversi fra azioni e obbligazioni. Non solo Wall Street, peraltro. È recente («Financial Times», 28 dicembre 2006) l'annuncio di un'iniziativa della primaria banca d'affari Goldman Sachs: il lancio di un Fondo da 6,5 miliardi di dollari (circa 5 miliardi di euro) principalmente riservato agli Enti pensionistici privati con l'intento di diversificare i rischi borsistici, investendo nelle grandi infrastrutture che assicurino, sul medio-lungo termine, una alta redditività. Porti, autostrade, aeroporti. Onde mettere al riparo i pensionati e gli assistenti dai pericoli rappresentati sia dalle oscillazioni di Wall Street sia dalle difficoltà incontrate dai Fondi aziendali (Enron in California, Ford e General Motors a Detroit). Fidarsi insomma della Borsa, ma anche agire in proprio. Perché allora, non prendere ad esempio, sia pure con le dovute cautele, il modello dei Fondi targati Usa? Evitando che i Fondi pensione si trasformino in una semplice cinghia di trasmissione di capitali all'interno del «sistema esistente». Comunque vada, i Fondi pensione in gestazione penalizzeranno i lavoratori. Complicato e parziale riscatto in caso di licenziamento o disoccupazione, malattia e urgenze familiari, incognite sulla rivalutazione. Da sommare a una domanda per nulla peregrina: che ne sarà dei 10-14 miliardi di euro annui accumulandi? Nell'attesa di risposte esaustive, poiché di «soldi nostri», di «retribuzione differita» trattasi, è opportuno che i lavoratori italiani siano messi nella condizione di valutare capendo. Chiamati come sono a un sacrificio. Evitando fumisterie legate agli andamenti borsistici, e guardando al bene comune. In tal senso, vanno prendendo forma iniziative di notevole interesse. Spicca quella del finanziere-imprenditore bresciano Romain Zaleski (all'onore delle cronache per le molteplici partecipazioni in banche e assicurazioni), proprietario della Metalcam in Val Camonica, 130 miliardi di fatturato in acciai speciali e piattaforme petrolifere e 270 dipendenti ai quali ha proposto: «Mettete il Tfr in azienda, e avrete un posto nel consiglio d'amministrazione». Quindi la creazione di una società ad hoc, la Lavoro spa, con i lavoratori in maggioranza (due su tre) nel consiglio. La Metalcam è impegnata il presidente Zaleski in persona - a sostenerne lo sviluppo anche attraverso prestiti bancari in modo che il Fondo marci su due gambe: la redditività aziendale e gli investimenti. Impossibile far pronostici, ma possiamo immaginare che l'Inps faccia meglio? Quella del Tfr, non nascondiamoci dietro un dito, è una piccola rivoluzione per chi lavora. Che si trasformi in uno «scippo» legalizzato o in un'opportunità dipende da come verrà concretamente gestito: da puntello per il deficit pubblico a strumento che può (potrebbe) risultare il punto d'inizio di un processo partecipativo dei lavoratori all'economia. Giancarlo Galli («Vita e Pensiero» n. 1/07) Burnout: la sindrome del fuoco spento A chi non è capitato di sentire le proprie energie completamente consumate e assorbite dagli impegni di lavoro? Di cominciare una nuova giornata lavorativa sentendosi già stanchi e senza risorse? Di avvertire l'inutilità del proprio operato di fronte alle difficoltà quotidiane, all'indifferenza dei propri colleghi e alle richieste pressanti dell'organizzazione? Di sentirsi totalmente insensibili di fronte al disagio e alle richieste di aiuto degli altri? Quando questa condizione non è più temporanea e occasionale ma diventa prevalente e si cronicizza nel tempo, parliamo di burnout, una vera e propria sindrome lavorativa che causa uno stato di malessere intenso al lavoratore e al tempo stesso gli impedisce di essere professionalmente efficace. Il termine stesso mette in evidenza alcuni tratti salienti della sindrome: burnout infatti rimanda a ciò che è bruciato, logorato, fuso, scoppiato. Non è un caso che una delle metafore a cui spesso fanno riferimento gli stessi lavoratori colpiti dalla sindrome sia quella di un fuoco che, un tempo acceso e bruciante di energia, si è ora spento, lasciando il posto a delle fredde ceneri. Il burnout è dunque un fenomeno caratterizzato dal completo esaurimento emotivo e psicofisico del lavoratore, accompagnato dal distacco, o da una vera e propria avversione verso il lavoro, i colleghi, i superiori, i clienti o gli utenti, ecc. Quali sono i segnali che permettono di riconoscere il burnout e in che modo si può intervenire? I sintomi del burnout Parlando di burnout, alcuni decenni fa si faceva riferimento esclusivamente ad alcune categorie di lavoratori: i medici, gli infermieri, gli insegnanti e, più in generale, gli operatori sociali. Infatti la forma più classica della sindrome si manifesta nelle professioni cosiddette «di aiuto», quelle che si svolgono all'interno dei contesti sociosanitari e scolastici, in cui l'obiettivo dell'attività lavorativa è la cura, l'aiuto, l'educazione o la riabilitazione. Christina Maslach è la studiosa che più si è occupata di burnout ed è a lei che dobbiamo la sistematizzazione teorica più nota della sintomatologia del fenomeno. Questa si caratterizza per tre segni distintivi, contemporaneamente presenti: 1) Esaurimento emotivo: la persona avverte di aver «bruciato» tutte le sue energie; si sente stanca, svuotata, senza più risorse fisiche ed emozionali per affrontare l'attività lavorativa. 2) Depersonalizzazione: la persona manifesta un atteggiamento freddo e cinico nelle relazioni con gli altri, che sono sempre più caratterizzate da indifferenza e annullamento delle emozioni. Al concetto di depersonalizzazione si è venuto progressivamente a sostituire quello di disaffezione. La differenza è notevole: mentre con il concetto di depersonalizzazione si poneva l'accento su una risposta disfunzionale agli utenti, con il concetto di disaffezione si pone l'accento su una risposta disfunzionale al lavoro in sé e per sé. 3) Riduzione dell'efficacia professionale: la persona avverte un crescente senso di inadeguatezza, una diminuzione, o perdita, della propria competenza professionale e una mancanza di fiducia nelle proprie possibilità. Vi possono poi essere numerosi altri sintomi, come umore depresso, ansia, instabilità emotiva, senso di colpa, bassa tolleranza alle frustrazioni, disturbi psicosomatici ed anche aumento dei comportamenti rischiosi. Secondo i primi studi i soggetti più esposti al burnout sarebbero quelli più empatici, idealisti e tendenti ad identificarsi con gli altri, ma anche quelli più introversi, ansiosi, ossessivi e altamente entusiasti. Spesso sono proprio questi tratti di personalità ad orientare la scelta di intraprendere una professione di aiuto, con una passione e un entusiasmo inizialmente notevoli, che poi però non trovano sufficiente riscontro nella realtà lavorativa. Non tutte le persone sono ugualmente esposte al burnout; può capitare che su due colleghi che lavorano nello stesso reparto per uno stesso periodo di tempo, affrontando quotidianamente le medesime difficoltà lavorative, uno sia colpito da burnout e l'altro no. In casi del genere spesso è l'efficacia personale, ossia la convinzione della persona di riuscire a gestire con successo le situazioni, anche quelle complesse, a rappresentare il fattore determinante. Il lavoratore con un'elevata efficacia personale vedrà le difficoltà lavorative come delle sfide davanti alle quali insistere e aumentare l'impegno e i fallimenti come occasioni di apprendimento e stimoli a migliorare. Il lavoratore con bassa efficacia personale sarà invece portato a vedere le difficoltà come ostacoli insormontabili e tenderà ad arrendersi, a vedersi già sconfitto in partenza, ed anche davanti alle situazioni incerte sarà portato a mettere meno impegno e ad avere sempre meno fiducia in sé. In breve: un basso livello di efficacia personale è un fattore predisponente alla manifestazione della sindrome del burnout, laddove un alto livello costituisce un fattore particolarmente protettivo. Negli ultimi tempi, oltre al passaggio dal concetto di depersonalizzazione a quello di disaffezione, si sono anche estesi i contesti di osservazione del burnout. Con il tempo ci si è infatti resi conto che il fenomeno poteva riguardare non solo gli operatori sanitari ed educativi, ma anche molti altri lavoratori sottoposti a forte e costante stress quotidiano. Specialmente oggi, in un contesto di mercato globale e competitivo, caratterizzato da estrema precarietà e instabilità del lavoro e dell'economia stessa, e al tempo stesso da forte velocità, in un mondo in cui non ci sono più certezze, tranne il fatto che occorre costantemente adattarsi ai cambiamenti e correre per battere la concorrenza, tutte le professioni possono essere esposte al burnout. Consideriamo anche il fatto che il lavoro nella nostra società è sempre più centrale per l'identità personale, tanto nei suoi risvolti affettivi quanto in quelli relazionali e sociali. In esso vengono investite molte delle proprie risorse in termini di energie, tempo, motivazioni e capacità. Le conseguenze del burnout non sono solo individuali (depressione, disturbi psicosomatici, abuso di sostanze, insoddisfazione, ecc.), ma anche organizzative: assenteismo, calo delle performance e della qualità del servizio, abbandono. Appare dunque importante e quanto mai attuale che le organizzazioni si preoccupino di tutelare le proprie risorse umane, sostenendole nel fronteggiare lo stress, che può ripercuotersi nella qualità della vita personale, ma anche nella prestazione lavorativa, nel rapporto con i colleghi, i clienti e gli utenti. Diventa allora fondamentale pianificare e realizzare strategie di prevenzione del disagio lavorativo, intervenendo su ciò che può essere fonte di benessere e di coinvolgimento. L'organizzazione Studi recenti evidenziano che il burnout può essere compreso e affrontato solo se lo si considera come un problema che coinvolge l'intera organizzazione in cui si manifesta. Le disfunzioni organizzative possono avere un peso molto rilevante nell'insorgenza della sindrome. L'organizzazione, infatti, definisce i vincoli e le risorse che le persone hanno a disposizione ed è nel contesto lavorativo che si strutturano i rapporti con gli altri e si definiscono le regole che li sostengono. Vi sono dunque svariati aspetti - strutturali, culturali, relazionali e di ruolo - che hanno un forte impatto sull'incidenza e sul grado di burnout che può manifestarsi in un'organizzazione. A questo proposito Maslach e Leiter (1997) hanno approntato uno strumento di analisi della vita lavorativa. Si tratta del Maslach Burnout Inventory, di cui è oggi disponibile anche l'adattamento italiano (Questionario di Check-up Organizzativo: Borgogni et al., 2005). Tale strumento esplora: a) la relazione personale con il lavoro, b) le principali aree della vita lavorativa e c) i processi di gestione. a) La relazione con il lavoro riguarda il livello di «job engagement». Con tale espressione ci si riferisce a tre dimensioni antitetiche a quelle caratterizzanti il burnout: 1) energia (vs esaurimento), 2) coinvolgimento (vs disaffezione), 3) efficacia (vs inefficacia). La persona «engaged» (ossia impegnata, coinvolta) svolge il proprio lavoro con grande energia, si sente coinvolta a livello emozionale e affettivo in quello che fa e contemporaneamente percepisce di riuscire nel proprio lavoro e di dare con esso un contributo importante all'organizzazione. b) Le aree della vita lavorativa riguardano: 1) il carico di lavoro, 2) il controllo sulla propria attività lavorativa, 3) il riconoscimento (economico e psicologico), 4) l'integrazione sociale, 5) l'equità dell'organizzazione, 6) la congruenza tra valori personali e organizzativi. Se la persona avverte una mancanza di sintonia tra sé ed una o più di queste aree, può incappare nel burnout. c) I processi di gestione riguardano più specificamente le aree dell'intervento. Esse sono: 1) il cambiamento, 2) la leadership, 3) lo sviluppo delle competenze, 4) la coesione di gruppo. Burnout ed engagement non dipendono solo dalle persone e neppure solo dalle organizzazioni, ma sono l'effetto combinato di caratteristiche individuali, fattori relazionali, ambientali e sociali che interagiscono tra loro. Sono senza dubbio rilevanti sia le motivazioni e le aspettative della persona circa l'attività lavorativa, sia il tipo di ambiente più o meno favorevole in cui essa viene a trovarsi, nonché la compatibilità tra l'organizzazione e le caratteristiche individuali. Al tempo stesso diviene centrale la capacità della persona di affrontare le situazioni frustranti, di reagire positivamente alle difficoltà, di contribuire al cambiamento proprio e dell'ambiente lavorativo. Il sovraccarico relazionale Come si vede, il grande merito del nuovo approccio al burnout è quello di aver proficuamente allargato l'interesse tanto ai lavoratori quanto al contesto organizzativo nel suo insieme, e quindi anche alla possibilità di prevenire e curare la sindrome a più livelli. C'è però da dire che tale approccio rischia di offuscare quella relazione dell'operatore con l'utente di cui parlavamo prima e che in origine caratterizzava ampiamente l'analisi del burnout. Eppure bisogna tenere presente che gli aspetti relazionali costituiscono un elemento molto importante nei contesti organizzativi attuali, perché le persone sono continuamente esposte a situazioni interpersonali difficili, se non proprio conflittuali, ad esempio sono obbligate al confronto con persone provenienti da culture diverse e portatrici di valori nuovi, situazioni che tendono ad incrementare la diffidenza e la complessità dei rapporti. Inoltre, mai come oggi nelle organizzazioni appare indispensabile il lavoro in partnership con il cliente, del quale in ogni settore viene costantemente monitorato il livello di soddisfazione. Siamo passati da organizzazioni fondate sul prodotto tecnico a organizzazioni fondate sull'orientamento al cliente, perché si è visto che in definitiva è quest'ultimo a premiare e garantire la sopravvivenza dell'organizzazione. Per questo il nostro gruppo di ricerca sta introducendo nello studio del burnout una nuova dimensione, che abbiamo definito «sovraccarico relazionale» (Borgogni et al., 2006). Lo scopo è quello di recuperare la sostanza di quel concetto di depersonalizzazione che si è venuto negli ultimi tempi dissolvendo. Il concetto di sovraccarico relazionale orienta il monitoraggio delle pressioni degli altri, clienti o utenti che siano, sui lavoratori e dei loro conseguenti sentimenti di fastidio e di indifferenza. Il sovraccarico relazionale può emergere in tutti i contesti in cui sia rilevante, per il conseguimento degli obiettivi organizzativi, la relazione interpersonale e può riguardare non solo il rapporto con il cliente o l'utente, ma anche quello con i superiori, i colleghi e i collaboratori. L'intervento Che fare? Quali possono essere gli interventi per uscire dal burnout e promuovere l'engagement? Se tutta l'organizzazione è coinvolta e motivata a prevenire o ridurre il burnout, si può pensare ad un'azione globale che, attraverso il potenziamento della capacità delle persone di far fronte agli stressor negativi, si ponga l'obiettivo di incrementare la propensione dell'individuo a lavorare con energia, ad essere emotivamente coinvolto e a sentirsi efficace nel proprio lavoro. Lavorando per il potenziamento dell'efficacia personale e per lo sviluppo del job engagement è infatti possibile creare le condizioni per stimolare il coinvolgimento nel lavoro e migliorare la prestazione del personale, contribuendo contemporaneamente a migliorare la vita lavorativa delle persone. Ma come si può articolare un vero e proprio intervento di questo tipo? Intanto si può lavorare su più fronti, sia nell'ambito della prevenzione che della riduzione del fenomeno. A livello organizzativo è importante conoscere la condizione attuale attraverso un'analisi del contesto. Il checkup dell'organizzazione individua le variabili significativamente intrecciate con il burnout. Queste costituiscono gli elementi da cui partire per «proteggersi» dalla sindrome. Può trattarsi, ad esempio, delle relazioni con colleghi e superiori, del carico di lavoro, della percezione del management, ecc. In tal caso gli interventi possono prevedere cambiamenti strutturali, come ad esempio la ridefinizione dei ruoli e dei carichi di lavoro, o programmi di formazione rivolti ai responsabili per lo sviluppo delle capacità gestionali. A livello individuale è possibile prevedere programmi di sviluppo dell'efficacia personale, data la sua rilevanza come fattore di protezione. Si tratta soprattutto di interventi di coaching e counseling individuale volti a rafforzare la capacità di gestione delle emozioni e dello stress, delle relazioni interpersonali e il time management. Altre azioni possono interessare lo sviluppo dell'interdipendenza, del sostegno reciproco e della gestione del conflitto attraverso la formazione al lavoro di gruppo. Nei contesti sociosanitari sono risultati efficaci interventi di formazione per medici e infermieri, orientati allo sviluppo della relazione con il paziente e in particolare di specifiche competenze psicologiche per la gestione della comunicazione e della relazione con il paziente e con i familiari, nonché gruppi di self-help guidati per condividere tra gli operatori le criticità vissute ed individuare possibili azioni per fronteggiarle. Complessivamente, alla luce delle ricerche e dei diversi filoni d'intervento prospettati, sembra raccomandabile considerare il burnout come un fenomeno complesso e multideterminato, in cui gioca un ruolo significativo il peso congiunto dei diversi fattori (individuali, relazionali e organizzativi), più che di ogni singolo aspetto preso da solo. Ancor più utile è intervenire prima che il fenomeno insorga e in questo la ricerca condotta negli ultimi anni ci aiuta molto. Si possono infatti creare le condizioni individuali e di contesto per prevenire il burnout o, meglio ancora, per rafforzare l'impegno e il coinvolgimento nel lavoro e nell'organizzazione. Le professioni d'aiuto Gli operatori sanitari, medici e infermieri, e gli insegnanti sono le figure più tipicamente colpite da burnout. Chi non ha avuto modo di osservare, almeno una volta, qualche infermiere o qualche medico che si comportava in modo scorbutico e insensibile nei confronti dei pazienti, come se questi fossero degli oggetti piuttosto che delle persone? Oppure qualche insegnante che non credeva più nel suo lavoro, che non prestava attenzione ai suoi studenti, dai quali era anzi quasi infastidito, che si limitava a ripetere in modo routinario e stereotipato il programma, senza alcun coinvolgimento o interesse? Il fatto è che queste professioni richiedono un notevole dispendio di energia fisica e psicologica, perché comportano grande disponibilità e pazienza verso gli altri, comprensione delle loro difficoltà e capacità di offrire supporto in qualsiasi momento. Tutto ciò può essere particolarmente faticoso nei contesti ospedalieri, quando ci si confronta con pazienti difficilmente recuperabili, portatori di malattie che mettono a nudo i limiti della scienza e delle buone intenzioni, oppure quando il carico di lavoro è particolarmente elevato. In queste situazioni l'operatore avverte un senso di frustrazione per l'incapacità di portare a termine l'obiettivo fondamentale del suo lavoro, ossia la cura e la guarigione del paziente. Quando le richieste diventano particolarmente pesanti o eccessive, il lavoratore è costretto ad investire quantità crescenti di energia, pur ricevendo ben poco in cambio, tanto sul piano relazionale (gratitudine da parte degli utenti, sostegno da parte dei colleghi, gratificazioni da parte dei superiori) quanto su quello organizzativo (remunerazione, crescita professionale, ecc.). Man mano che passa il tempo l'operatore può non farcela più a sostenere le richieste e può cercare di proteggersi sviluppando un graduale distacco, che può tramutarsi progressivamente in insofferenza verso il lavoro e l'utenza. Pessimismo e disillusione possono facilmente diventare modi di fronteggiare il vissuto di fallimento. Molti studi hanno dimostrato che nei contesti ospedalieri le figure maggiormente a rischio di burnout sono gli infermieri. Questi operatori trascorrono più tempo dei medici con i pazienti, per cui si confrontano di più con la sofferenza e il disagio. Rispetto ai medici, probabilmente, può esserci anche una minore identificazione nel lavoro. Va detto che non tutti i reparti sono uguali: particolarmente esposti sono gli operatori del pronto soccorso, dei reparti di neurochirurgia, cardiologia e oncologia, dove l'impatto con la sofferenza è maggiore e dove la possibilità di riuscita è talvolta indipendente dal proprio operare. Nella scuola gli insegnanti più a rischio sono quelli che si trovano a gestire classi molto numerose, di sedi collocate in periferia o in luoghi svantaggiati, o che devono confrontarsi con alunni portatori di problematiche specifiche (bullismo, iperattività, handicap fisici e mentali) che possono avere ripercussioni su tutto il sistema classe. Ma dalle ricerche è emerso che sono in gioco anche altri fattori. I rapporti con i colleghi e i superiori, ad esempio, costituiscono due elementi cruciali, capaci di favorire l'insorgenza e modulare l'intensità della sindrome: un rapporto di collaborazione, sostegno reciproco e confronto costruttivo con i colleghi e la dirigenza, può aiutare a vivere più serenamente il disagio lavorativo e a trovare, anche attraverso il confronto, strategie appropriate per fronteggiare il proprio malessere. Può essere anche il solo ascolto reciproco a ridurre il rischio di burnout, perché in tal modo si acquista una maggiore forza e fiducia in se stessi, ritrovando nell'altro uno specchio su cui riflettere le proprie incertezze, paure, intolleranze. Chiara Consiglio Laura Borgogni («Psicologia contemporanea» n. 200/07) L'altra immunità - A lungo trascurata dalla scienza, la risposta immunitaria innata è il primo sbarramento difensivo dell'organismo. Scoperte sorprendenti sul suo funzionamento potrebbero portare a nuove terapie. Un uomo sta rientrando a casa con il treno della sera quando il passeggero che gli siede accanto inizia a tossire. Mentre si scherma dietro al giornale augurandosi che il vicino non abbia nulla di serio, il suo sistema immunitario si mette al lavoro. Se il microbo che il suo malaticcio vicino sta diffondendo nell'aria è uno di quelli che il nostro pendolare ha già incontrato in precedenza, un intero battaglione di cellule immunitarie addestrate - la fanteria del cosiddetto sistema immunitario adattativo - si ricorderà di quel particolare aggressore e lo spazzerà via nel giro di poche ore, senza che il nostro pendolare si accorga di essere stato contagiato. Se però il virus o il batterio è tra quelli contro cui non ha mai combattuto, interverrà un tipo diverso di risposta immunitaria. Questo sistema immunitario «innato» riconosce famiglie generiche di molecole prodotte da un'ampia gamma di agenti patogeni. Quando individua le molecole estranee, il sistema innato scatena una risposta infiammatoria in cui alcune cellule deputate a difendere l'organismo cercano di isolare l'invasore bloccandone la diffusione. l'attività di queste cellule e delle sostanze chimiche che producono accelera il processo di arrossamento e il gonfiore che compaiono nel sito dell'infezione, e giustifica allo stesso tempo la comparsa della febbre, i dolori muscolari e gli altri sintomi pseudoinfluenzali che accompagnano molte infezioni. L'aggressione di tipo infiammatorio è sferrata inizialmente da recettori detti Toll-like (TLR), un'antica famiglia di proteine cui spetta il compito di modulare l'immunità innata negli organismi, dai granchi all'uomo. Se i recettori TLR falliscono, l'intero sistema immunitario si sgretola, lasciando il corpo in balia dell'infezione. Tuttavia, anche un eccesso di attività dei recettori può causare disturbi che si manifestano con una cronica e pericolosa infiammazione, come l'artrite, il lupus e addirittura le malattie cardiovascolari. La scoperta dei recettori TLR ha suscitato tra gli immunologi un'euforia generale, e oggi un gran numero di ricercatori si è dedicato a questa linea d'indagine nella speranza di trovare la spiegazione ai molti misteri che ancora ammantano l'immunità, le infezioni e le malattie che coinvolgono anomalie nelle difese immunitarie. Lo studio dei recettori TLR e degli eventi molecolari che hanno luogo dopo che queste molecole sono entrate in contatto con un agente patogeno sta iniziando a rivelare potenziali bersagli per farmaci che potrebbero incrementare l'attività protettiva dell'organismo, rafforzare i vaccini e curare un'ampia gamma di malattie devastanti e potenzialmente mortali. La cenerentola delle immunità Fino a cinque anni fa, parlando del sistema immunitario la parte del leone spettava al sistema di difesa adattativo. I libri di testo fornivano dettagliate descrizioni sulla capacità dei linfociti B di produrre anticorpi che si legano a specifiche proteine, gli antigeni, presenti sulla superficie degli agenti patogeni invasori. Ma davano molto spazio anche ai linfociti T, cellule che espongono sulla loro superficie recettori in grado di riconoscere frammenti proteici di origine patogena. Questa risposta è chiamata adattativa perché nel corso di un'infezione si adatta in modo da gestire in maniera ottimale il particolare microrganismo responsabile della malattia. L'immunità adattativa si è conquistata spazio sotto i riflettori anche perché fornisce il sistema immunitario di memoria: una volta eliminata un'infezione, i linfociti B e T specificamente addestrati rimangono nei paraggi, e istruiscono il corpo a respingere aggressioni successive. È questa capacità di ricordare le infezioni pregresse che consente ai vaccini di proteggerci dalle malattie di origine virale o batterica. I vaccini, infatti, espongono l'organismo a una versione indebolita di un patogeno (o a suoi frammenti del tutto innocui), ma il sistema immunitario reagisce come reagirebbe nei confronti di un'aggressione reale, generando cellule memoria con funzione protettiva. Grazie alla presenza di linfociti T e B, dopo che un organismo ha incontrato un microbo e gli è sopravvissuto non ne sarà sopraffatto una seconda volta. Il sistema immunitario innato, al confronto, appariva piuttosto scialbo. I ricercatori erano convinti che i suoi componenti compresi gli enzimi ad azione antibatterica presenti nella saliva e un gruppo di proteine collegate fra loro (chiamate collettivamente «complemento») che uccidono i batteri nel flusso sanguigno - fossero meno sofisticati degli anticorpi specifici e dei linfociti T killer, anche perché il sistema immunitario innato non modula le proprie risposte allo stesso modo di quello adattativo. Ma liquidando la risposta immunitaria innata come noiosa e priva di interesse gli immunologi trascuravano una scomoda realtà: il sistema immunitario adattativo non può funzionare se manca la più «grezza» risposta innata. Il sistema innato produce proteine segnale, le citochine, capaci non solo di indurre l'infiammazione, ma di attivare anche i linfociti B e T necessari per la risposta adattativa. Per funzionare in modo ottimale il sistema più sofisticato ha bisogno del suo compagno più umile. Alla fine degli anni novanta gli immunologi disponevano di un'enorme quantità di informazioni sul funzionamento del sistema immunitario adattativo, ma avevano solo una vaga idea dell'immunità innata. In particolare, non capivano in che modo i microbi attivassero la risposta innata, o precisamente in che modo questo tipo di stimolo contribuisse a guidare la risposta adattativa dei linfociti T e B. Di lì a poco, però, compresero che buona parte della risposta si celava nei recettori TLR, prodotti da diverse cellule del sistema immunitario. Tuttavia, per riuscire a caratterizzare queste proteine gli scienziati hanno dovuto seguire un percorso tortuoso, che ha attraversato i processi di sviluppo del moscerino della frutta, la ricerca di nuovi farmaci contro l'artrite e addirittura il neonato campo della genomica. Una proteina stravagante Il cammino iniziò nei primi anni ottanta con la scoperta delle citochine. Queste proteine con funzione di messaggero sono prodotte da diversi tipi di cellule immunitarie, fra cui i macrofagi e le cellule dendritiche. I macrofagi pattugliano i tessuti dell'organismo a caccia di segnali che indicano un processo infettivo, e quando captano una proteina estranea danno inizio alla risposta infiammatoria. In particolar modo, inglobano e distruggono l'invasore che espone quella proteina e producono una serie di citochine, alcune delle quali lanciano un allarme che richiama altre cellule nel sito dell'infezione, mettendo tutto il sistema immunitario in stato di allarme. Le cellule dendritiche fagocitano i microbi invasori e intercettano i linfonodi, dove presentano frammenti delle proteine del patogeno ad armate di linfociti T, e liberano citochine. Tutte queste attività concorrono ad attivare la risposta immunitaria adattativa. Per studiare le funzioni delle singole citochine i ricercatori dovevano trovare la maniera di indurne la produzione. Il modo più efficace per stimolare i macrofagi e le cellule dendritiche a produrre queste molecole in laboratorio, si è scoperto, è esporre queste cellule ai batteri, o ancora meglio, a specifiche componenti batteriche. In particolare, a stimolare una potente risposta immunitaria è una molecola prodotta da un'ampia gamma di batteri, chiamata lipopolisaccaride (LPS). Nell'uomo, l'esposizione a LPS scatena la febbre e può portare a shock settico, una sorta di cortocircuito vascolare mortale causato da un'azione dirompente e distruttiva delle cellule immunitarie. LPS evoca questa risposta infiammatoria stimolando macrofagi e cellule dendritiche a liberare due citochine: il fattore di necrosi tumorale-alfa (TNF-alfa) e l'interleuchina-1 (IL-1). In effetti, è stato dimostrato che sono proprio le citochine a regolare la risposta infiammatoria stimolando le cellule immunitarie all'azione. Se non sono tenute sotto controllo, queste molecole possono accelerare la comparsa di disturbi come l'artrite reumatoide, una malattia autoimmune caratterizzata da un'eccessiva infiammazione che provoca la distruzione delle articolazioni. Perciò i ricercatori ipotizzarono che, riuscendo a limitare gli effetti di TNF-alfa e di IL-1, si sarebbe potuto rallentare la progressione della malattia, alleviando al contempo la sofferenza dei pazienti. Per mettere a punto una simile terapia, però, c'era bisogno di maggiori informazioni sul funzionamento di queste molecole, così il primo passo fu quello di identificare le proteine con cui esse interagiscono. Nel 1988, John Sims e i suoi colleghi della Immunex di Seattle scoprirono un recettore proteico che riconosce IL-1. Questo recettore è ancorato sulla membrana di molte cellule diverse dell'organismo, tra cui anche i macrofagi e le cellule dendritiche. La porzione recettoriale che sporge all'esterno della cellula si lega a IL-1, mentre il segmento che giace all'interno trasmette il messaggio che indica che IL-1 è stata captata. Sims ha esaminato con attenzione la porzione interna del recettore per IL-1, nella speranza di ricavarne indizi sul modo in cui la proteina trasmette il suo messaggio: sperava, per esempio, che lo studio del recettore gli rivelasse quali sono le molecole segnale che esso attiva all'interno delle cellule. Invece il dominio interno del recettore umano per IL1 si è rivelato diverso da ogni altro recettore che i ricercatori avevano analizzato in precedenza, cosa che li ha confusi non poco. Poi, nel 1991, mentre lavorava alla risoluzione di un problema completamente diverso, Nick Gay dell'Università di Cambridge ha fatto una strana scoperta. Stava cercando proteine simili a una proteina sintetizzata dal moscerino della frutta, chiamata Toll, che in tedesco significa «bizzarro, stravagante». Toll era stata identificata a Tubinga, in Germania, da Christiane Nusslein-Volhard, che l'aveva battezzata così perché le drosofile che ne sono prive hanno un aspetto piuttosto strano. Questa proteina aiuta l'embrione di drosofila in via di sviluppo a differenziare le regioni apicali da quelle basali, tanto che il corpo dei moscerini in cui la proteina è assente appare a soqquadro, come se gli insetti avessero perduto la lateralizzazione. Gay passò in rassegna il database che conteneva tutte le sequenze geniche conosciute a quel tempo, alla ricerca di geni che presentassero un'elevata omologia di sequenza con il gene che codifica per Toll, e che potessero quindi codificare per proteine simili, o Toll-like. Alla fine scoprì che una parte della proteina Toll mostra una sorprendente somiglianza con la porzione interna del recettore umano per IL-1, il segmento che aveva meravigliato così tanto Sims. In un primo momento, la scoperta parve priva di significato: per quale motivo una proteina coinvolta nei processi infiammatori umani avrebbe dovuto somigliare a una proteina che indica all'embrione di drosofila qual è la regione apicale? La scoperta rimase un mistero fino al 1996, quando Jules A. Hoffmann e i suoi collaboratori del CNRS di Strasburgo dimostrarono che la drosofila usa le proteine Toll per difendersi dalle infezioni fungine. Nella drosofila, almeno in apparenza, Toll svolge numerose funzioni ed è coinvolta tanto nello sviluppo embrionale quanto nell'immunità adulta. Pulci d'acqua, stelle marine ed esseri umani La somiglianza fra il recettore per IL-1 e la proteina Toll riguarda esclusivamente i segmenti proteici inseriti all'interno della cellula. I domini esposti all'esterno, invece, sono abbastanza diversi fra loro. Questa osservazione ha indotto i ricercatori a cercare delle proteine umane che somigliassero completamente a Toll. Dopo tutto, solitamente l'evoluzione conserva le strutture che funzionano meglio, e se Toll era in grado di mediare le risposte immunitarie nel moscerino della frutta era probabile che proteine simili avessero un'analoga funzione anche nell'uomo. Nel 1997, su suggerimento di Hoffmann, Ruslan Medzhitov e Charles Janeway Jr. della Yale University scoprirono la prima di queste proteine, che chiamarono «Toll umana». Nel giro di sei mesi Fernando Bazan e i suoi colleghi della DNAX di Palo Alto, in California, identificarono cinque proteine Toll umane, a cui diedero il nome di recettori Toll-like (TLR). Uno di questi, TLR4, era la stessa proteina Toll umana descritta da Medzhitov e Janeway. In quel momento, i ricercatori non sapevano ancora con precisione quale poteva essere il contributo dei recettori TLR all'immunità umana. Janeway aveva scoperto che riempiendo di recettori TLR4 la membrana delle cellule dendritiche si induceva la produzione di citochine; tuttavia non era in grado di precisare in che modo TLR4 era attivato durante un'infezione. La risposta giunse alla fine del 1998, quando Bruce Beutler e collaboratori, allo Scripps Institute di La Jolla, in California, scoprirono che topi mutanti incapaci di rispondere allo stimolo di LPS hanno una versione difettosa del recettore TLR4. Mentre i topi normali muoiono di sepsi nel giro di un'ora dall'iniezione di LPS, i mutanti sopravvivono e si comportano come se non fossero neppure stati esposti alla molecola. In altre parole, la mutazione nel gene che codifica per il recettore TLR4 rende questi animali resistenti a LPS. La scoperta confermò in modo inequivocabile che il recettore TLR4 si attiva quando interagisce con LPS, dal momento che il suo compito è proprio quello di avvertire la presenza di questa molecola. Questa constatazione costituì un importante progresso nel campo della sepsi, poiché svelò il meccanismo molecolare che sta alla base dell'infiammazione, fornendo al contempo un nuovo possibile bersaglio per la cura di un disturbo per cui vi era una drammatica urgenza di terapie efficaci. Nel giro di due anni i ricercatori stabilirono che la maggior parte dei recettori TLR - di cui attualmente si conoscono dieci varianti umane - riconosce molecole che risultano importanti per la sopravvivenza di batteri, virus, funghi e parassiti. Il recettore TLR2, per esempio, si lega all'acido lipoteicoico, una componente della parete cellulare batterica. Il recettore TLR3 riconosce il genoma dei virus mentre il TLRS riconosce la flagellina, una proteina che forma i flagelli ondulati usati dai batteri per nuotare. Il TLR9, infine, riconosce una sequenza genetica segnale chiamata CpG, presente nei batteri e nei virus sotto forma di lunghe stringhe e in una forma chimica diversa dalle sequenze CpG che caratterizzano il DNA dei mammiferi. È evidente che i recettori TLR si sono evoluti per riconoscere e reagire a molecole che rappresentano componenti fondamentali degli organismi patogeni. L'eliminazione o l'alterazione chimica di uno qualsiasi di questi elementi potrebbe menomare un agente infettivo e impedire ai patogeni di schivare i recettori TLR mutando fino a che queste componenti diventano irriconoscibili. E dal momento che molti microrganismi hanno in comune un gran numero di questi elementi, bastano appena dieci TLR per proteggerci praticamente da ogni patogeno conosciuto. L'immunità innata non è un'esclusiva dell'uomo. Questo sistema, infatti, è molto antico: anche le mosche hanno un sistema di risposta immunitaria innato, come pure le stelle marine, le pulci d'acqua e quasi ogni altro organismo esaminato finora, molti dei quali utilizzano i recettori TLR come innesco. I vermi nematodi hanno un sistema che consente loro di percepire i batteri infettivi e nuotare in direzione opposta per evitarli. Anche le piante sono ricche di TLR: il tabacco ne ha uno chiamato proteina N, che gli serve per difendersi dal virus del mosaico del tabacco. La piantina Arabidopsis ne ha più di 200. Molto probabilmente, le prime proteine Toll-like hanno avuto origine in un organismo unicellulare che è stato l'antenato comune di piante e animali, e forse queste molecole hanno addirittura contribuito alla nostra evoluzione, agevolandola. Se fossero stati privi di un efficace mezzo di difesa dalle infezioni, probabilmente gli organismi pluricellulari non sarebbero neanche riusciti a sopravvivere. Assalto al castello Un tempo si pensava che il sistema immunitario innato offrisse una protezione non molto più sofisticata di quella delle mura di un castello: l'azione vera e propria sarebbe cominciata solo dopo che il nemico aveva fatto breccia e le truppe all'interno del castello i linfociti T e B - cominciavano a combattere. Oggi sappiamo che le mura del castello sono costellate di sentinelle, i recettori TLR, che identificano gli invasori e suonano l'allarme per mobilitare le truppe e preparare lo spiegamento difensivo necessario a contrastare vigorosamente l'aggressione. In altre parole, i recettori TLR scatenano sia il sistema innato sia quello adattativo. Il quadro che ne emerge è più o meno il seguente. Quando un patogeno entra per la prima volta nell'organismo, uno o più recettori TLR, come quelli presenti sulla superficie dei macrofagi sentinella e delle cellule dendritiche, si lega alle molecole estranee - per esempio a LPS presente sui batteri gram-negativi. Una volta in azione, i TLR inducono le cellule a liberare particolari serie di citochine. Queste proteine messaggero reclutano quindi ulteriori macrofagi, cellule dendritiche e altre cellule coinvolte nella risposta immunitaria affinché abbattano e aggrediscano in maniera non specifica il microbo predatore. Allo stesso tempo, le citochine secrete da queste cellule possono produrre i classici sintomi dell'infezione, tra cui febbre e i dolori muscolari tipici dell'influenza. I macrofagi e le cellule dendritiche che hanno fatto a pezzi un agente patogeno ne espongono i frammenti sulla loro superficie, assieme ad altre molecole che indicano la presenza di un organismo nocivo. I frammenti così esposti, assieme alle citochine liberate in risposta ai TLR, finiscono per attivare i linfociti T e B. Queste cellule riconoscono quelle specifiche porzioni proteiche e, nell'arco di diversi giorni, sono stimolate a proliferare e a sferrare un attacco potente ed estremamente mirato contro quel particolare invasore. Senza l'effetto di innesco dei recettori TLR, i linfociti B e T non si attiverebbero e l'organismo non sarebbe in grado né di montare una risposta immunitaria completa, né di conservare alcun tipo di memoria relativa alle infezioni precedenti. Dopo l'infezione iniziale, sul campo di battaglia resta un numero sufficiente di linfociti T e B «memoria», che permettono all'organismo di affrontare in modo più efficace l'invasore nel caso si ripresenti. Quando un microbo ricompare, le cellule memoria che lo riconoscono iniziano a proliferare con rapidità, rinforzando le difese in modo che possano facilmente sopraffare l'avversario. La rapidità con cui agisce questo esercito di cellule memoria è tale che il processo infiammatorio può addirittura non manifestarsi. Di conseguenza, la vittima non si rende conto di essere ammalata e può addirittura non notare l'infezione quando questa si ripresenta. Dunque, l'immunità innata e l'immunità adattativa fanno parte dello stesso sistema che riconosce ed elimina i microbi, e l'interazione reciproca fra questi due sistemi è l'elemento che rende così forte il nostro sistema immunitario. La scelta dell'arma Per comprendere appieno in che modo i recettori TLR controllino l'attività immunitaria, gli immunologi devono identificare le molecole che trasmettono segnali dai TLR attivati ancorati sulla superficie della cellula fino al nucleo, mettendo in moto geni che codificano per citochine e altri attivatori dell'immunità. Questa linea di ricerca sta impegnando molti laboratori, e noi abbiamo già effettuato alcune affascinanti scoperte. Oggi sappiamo che i TLR, come molti recettori situati sulla superficie cellulare, si assicurano l'aiuto di una nutrita schiera di proteine segnale che portano il messaggio fino al nucleo, un po' come i pompieri di una squadra che si passano i secchi d'acqua di mano in mano fino all'incendio. Tutti i TLR, con la sola eccezione di TLR3, trasmettono il loro segnale a una proteina adattatore chiamata MyD88. Quale sia la proteina successiva incaricata di trasmettere più in là il segnale dipende dal tipo di TLR: il mio laboratorio studia la proteina Mal, da noi scoperta, che aiuta a trasportare i segnali generati da TLR4 e TLR2. Per trasmettere il segnale, TLR4 ha anche bisogno di altre due proteine, Tram e Trif, mentre TLR3 fa affidamento sulla sola Trif. Shizuo Akira, dell'Università di Osaka, ha dimostrato che i topi ingegnerizzati geneticamente in modo da non produrre nessuna di queste proteine segnale mediatrici non riescono a rispondere ai prodotti batterici: questa osservazione suggerisce che le proteine associate ai TLR potrebbero rappresentare nuovi bersagli per nuovi agenti antinfiammatori o antimicrobici. L'interazione con gruppi diversi di proteine segnale consente ai TLR di attivare diversi set di geni che perfezionano le risposte cellulari in modo che corrispondano meglio al tipo di patogeno che incontrano. TLR3 e TLR7, per esempio, percepiscono la presenza dei virus. Quindi danno il via a una successione di interazioni molecolari che inducono la produzione e il rilascio di interferone, la principale citochina ad azione antivirale. TLR2, attivato dai batteri, stimola il rilascio di una miscela di citochine tra le quali non figura l'interferone, che però risultano più adatte ad attivare un'efficace risposta antibatterica da parte dell'organismo. La scoperta che i TLR possono individuare diversi prodotti microbici e contribuire a modulare la risposta immunitaria per ostacolare il nemico sta rivoluzionando le teorie che vedevano nel sistema immunitario innato solo una barriera statica e incapace di discriminazione. In realtà, si tratta di un sistema dinamico che controlla quasi ogni aspetto dell'infiammazione e dell'immunità. Dalla Legionella al Lupus Una volta riconosciuto il ruolo di primo piano dei TLR, i ricercatori hanno subito sospettato che numerosi disturbi di natura infettiva e collegati all'immunità potevano dipendere dalla presenza di forme tronche o eccessivamente attive di questi recettori. L'intuizione si è rivelata corretta: i difetti nell'immunità innata determinano una maggiore suscettibilità nei confronti di virus e batteri. Nel corso di uno studio durato vent'anni, è emerso che chi è dotato di una forma ipoattiva del recettore TLR4 ha il 50 per cento di probabilità in più di contrarre banali infezioni quotidiane, come raffreddori e influenza. Invece, chi muore a causa del cosiddetto morbo del legionario spesso è portatore di una mutazione nel gene per il recettore TLR5 che disattiva la proteina, compromettendone la risposta immunitaria innata e rendendola incapace di annientare il batterio Legionella. D'altro canto, una risposta immunitaria troppo zelante può essere altrettanto funesta. Negli Stati Uniti e in Europa oltre 400.000 persone all'anno muoiono di sepsi, complicazione che deriva da un'eccessiva risposta immunitaria guidata dai TLR4. Altri studi puntano in direzione del ruolo dei TLR nelle malattie autoimmuni come il lupus eritematoso sistemico e l'artrite reumatoide. In questi casi i TLR possono reagire ai prodotti derivanti dalle cellule danneggiate, diffondendo una risposta infiammatoria inappropriata e promuovendo una reazione errata da parte del sistema immunitario adattativo. Nel lupus, per esempio, si è scoperto che TLR9 reagisce contro il DNA dell'organismo. L'immunità innata e i TLR potrebbero avere un ruolo anche nelle malattie cardiache: sembra infatti che le persone che hanno una mutazione nei TLR4 siano meno inclini a sviluppare malattie cardiovascolari. Lo spegnimento del recettore TLR4 potrebbe avere un effetto cardioprotettore, perché sembra che l'infiammazione contribuisca alla formazione delle placche che occludono le arterie coronarie. Perciò, la manipolazione del TLR4 potrebbe costituire un altro approccio in grado di prevenire o di limitare questa condizione. Regolare il volume La maggior parte delle grandi aziende farmaceutiche è interessata a utilizzare i TLR e le proteine segnale loro associate, poiché queste molecole potrebbero essere un bersaglio per farmaci in grado di curare infezioni e disturbi legati all'immunità. Con il diffondersi della resistenza agli antibiotici, la comparsa di virus nuovi e più virulenti e la minaccia crescente del bioterrorismo, è sempre più urgente riuscire a sviluppare nuovi metodi per aiutare il nostro organismo a combattere le infezioni. Le ricerche sui TLR, per esempio, potrebbero condurre allo sviluppo di vaccini più sicuri e più efficaci. La bontà della maggior parte dei vaccini dipende dall'inclusione di un adiuvante, una sostanza che dà il via alla risposta infiammatoria, che a sua volta aumenta la capacità del sistema adattativo di produrre le cellule memoria auspicate. L'adiuvante impiegato nella maggior parte dei vaccini odierni non provoca una risposta adattativa completa, ma favorisce piuttosto i linfociti B rispetto ai linfociti T. Per scatenare una risposta più energica, diverse aziende hanno messo gli occhi sui composti che attivano TLR9, un recettore che riconosce un'ampia gamma di batteri e di virus e che determina una consistente risposta immunitaria. I TLR, inoltre, ci stanno insegnando a difenderci da armi biologiche come il virus del vaiolo. Questi virus, che rappresentano un'arma potenziale nell'arsenale dei bioterroristi, possono inattivare i TLR evitando così di essere individuati ed eliminati. In collaborazione con Geoff Smith dell'Imperial College di Londra, i miei collaboratori hanno scoperto che rimuovendo la proteina virale che inattiva i TLR riuscivamo a produrre un virus indebolito, che poteva fungere da base per un vaccino che difficilmente avrebbe provocato un'infezione accidentale e fatale di vaiolo. Disponendo di adeguate conoscenze sui TLR e sull'immunità innata, i medici potrebbero riuscire a prevedere quali sono i pazienti che reagiscono debolmente durante un'infezione e a curarli in maniera più aggressiva. Se, per esempio, dei pazienti arrivassero in ospedale con i sintomi di un'infezione batterica e si scoprisse che hanno una forma mutata del recettore TLR4, il medico potrebbe bombardarli di antibiotici o di sostanze capaci, in qualche modo, di sostenere la loro risposta immunitaria per impedire all'infezione di causare danni duraturi. Naturalmente, bisogna trovare un equilibrio tra l'esigenza di stimolare una risposta immunitaria sufficiente a eliminare il microbo e il rischio di accelerare una risposta di tipo infiammatorio che provocherebbe più danni che benefici. Analogamente, qualunque farmaco somministrato con l'intento di attenuare l'infiammazione reprimendo l'attività dei TLR e il rilascio delle citochine non deve, allo stesso tempo, ridurre le difese dell'organismo contro le infezioni. I farmaci antinfiammatori che interferiscono con il TNF-alfa, una delle citochine prodotte in seguito all'attivazione di TLR4, offrono un quadro che invita alla cautela. Il TNF-alfa prodotto durante un'infezione e un'infiammazione può accumularsi nelle articolazioni dei pazienti affetti da artrite reumatoide. I composti antinfiammatori alleviano l'artrite, ma alcune persone che li assumono finiscono con l'ammalarsi di tubercolosi. È probabile che l'infezione sia latente, ma contenendo la risposta infiammatoria si corre il rischio di soffocare le risposte patogeno-specifiche permettendo al batterio di riemergere. In breve, i TLR sono come la manopola per regolare il volume di un impianto stereo, poiché bilanciano l'immunità adattativa e l'infiammazione. I ricercatori e le compagnie farmaceutiche stanno ora cercando la maniera per regolare questi controlli, in modo che riducano l'infiammazione senza mettere fuori combattimento l'immunità. Considerando che fino a sette anni fa dei TLR non si sentiva nemmeno parlare, possiamo senz'altro dire che i ricercatori hanno compiuto enormi progressi nella comprensione del ruolo che queste proteine giocano sul fronte avanzato delle difese dell'organismo. L'immunità innata, che per molto tempo è rimasta avvolta dall'oblio, è diventata all'improvviso la reginetta del ballo. Le pulci di Mechnikov La scoperta dei recettori Toll e Toll-like ha ampliato una linea di ricerca iniziata oltre un secolo fa, quando il biologo russo Ilya Mechnikov scoprì, in pratica, l'immunità innata. Negli anni ottanta dell'Ottocento, Mechnikov staccò alcune spine da un albero di mandarino e le infilò in una larva di stella marina. Il mattino seguente notò che le spine erano circondate da cellule mobili che, così egli suppose, stavano inglobando i batteri introdotti assieme ai corpi estranei. Successivamente Mechnikov scoprì che la pulce d'acqua (Daphnia) esposta a spore fungine attiva una risposta analoga. Questo processo, chiamato fagocitosi, è il fulcro attorno a cui ruota l'immunità innata, e la sua scoperta meritò a Mechnikov il premio Nobel nel 1908. Luke A.J. O'Neill («Le Scienze» n. 442/05)