Maurizio Ceccarelli

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In: Moser, Genovese (a cura di): La dimensione relazionale in psicoterapia cognitiva,
Curcu & Genovese ed., Trento, 2005
4.5 Per una psicopatologia della coscienza.
Maurizio Ceccarelli
L’obiettivo di questo contributo è di esporre la psicopatologia della coscienza derivante dal
modello teorico descritto nel cap.w [“per un modello biopsicosociale della coscienza”].
Secondo tale modello, la coscienza si costituisce nell’attività riflessiva emergente dalla
dinamica ricorsiva insita nel rapporto tra le diverse funzioni mentali, per cui ogni funzione mentale
(percezione, emozione, linguaggio, coscienza) è in sé dotata di attività cosciente (vedi fig. 6,
cap.w.). In quest’ottica la mente comprende diverse forme di coscienza, che rappresentano livelli
di complessità crescenti della capacità, da parte del soggetto, di differenziare la relazione tra i
diversi livelli dell’organizzazione di sé e i corrispondenti diversi livelli dell’organizzazione
dell’ambiente (vedi fig. 7, cap W). Essendo la capacità di differenziazione sè-ambiente la
necessaria premessa per la modulazione intenzionale del comportamento, l’utilità clinica di una
psicopatologia della coscienza è di fornire una mappa sulle qualità riflessive e irriflessive della
relazione che il Soggetto instaura con il Mondo e, di conseguenza, una mappa sulla percorribilità
dei diversi strumenti terapeutici.
Il discorso psicopatologico proposto è articolato in un percorso tematico la cui prima tappa
coincide con la definizione di un modello relativo alla fisiologia della coscienza, che costituisce il
necessario fondamento per la definizione di un modello relativo alla fisiopatologia della
coscienza. All’interno della tematica fisiopatologica sono esposte alcune considerazioni, di
carattere generale, sull’eziopatogenesi, sulla nosografia e sulla terapia dei disturbi della coscienza.
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L’ultima tappa tematica coincide con l’analisi di alcuni disturbi mentali, interpretati secondo il
modello fisiopatologico della coscienza, al fine di segnalarne la plausibilità e utilità sul piano
clinico.
Fisiologia della coscienza.
Al termine dello sviluppo, gli elementi nucleari della fisiologia della coscienza derivanti dal
modello teorico precedentemente esposto possono essere così formalizzati: le diverse funzioni
mentali, e le correlate forme di coscienza, hanno tra esse una relazione gerarchizzata, al cui apice
è posta l’autocoscienza; il livello di coscienza che costituisce il centro operativo attuale del
sistema è costantemente mutevole, dipendendo dalla relazione dinamica tra la memoria (della
relazione con l’ambiente) e la categorizzazione (della relazione con l’ambiente).
Nella letteratura psicopatologica classica, un’analoga formalizzazione della fisiologia della
coscienza è rintracciabile, a mio giudizio (Ceccarelli e Chouhy 1997; Ceccarelli 2004a), nelle
riflessioni dello psichiatra Henri Ey (1968, 1975, Ey et al. 1978)1. Il pensiero di Ey è focalizzato
sull’analisi della coscienza classicamente intesa (autocoscienza):
“il sostantivo ‘coscienza’, il quale limita la ‘coscienza’ alla proprietà spazio-temporale che ho, ci
nasconde, con il suo stesso singolare, un’altra modalità dell’essere o divenire conscio: quella di
qualcuno che io sono. Compaiono così l’ordine delle strutture sincroniche dell’essere conscio (il
campo della coscienza come attualità dell’esperienza vissuta con il suo indice di realtà), e l’ordine
diacronico dell’essere conscio (l’essere cosciente di sè in quanto persona che si identifica come
autore della propria storia)” (Ey, 1975; trad. it., pag. 190).
In altre parole, Ey afferma che la coscienza, classicamente intesa, comprende in sé due
distinti elementi: il primo elemento si identifica con l’autocoscienza, che rappresenta l’asse
costitutivo dell’identità personale; il secondo elemento si identifica con l’orientamento attuale nel
mondo, che rappresenta l’asse costitutivo del campo di coscienza della semeiotica psicopatologica
classica (con le annesse caratteristiche relative all’ampiezza, alla lucidità, all’orientamento
1
Le riflessioni di Ey affondano le loro radici nel pensiero neurobiologico di John Hughlings Jackson, da un lato, e in
quello psicologico di Pierre Janet, dall’altro, per approdare alla fondazione di una teoria “organodinamica”, cioè
biopsicosociale, della malattia mentale, del tutto sintonica con il paradigma multidimensionale (cfr. capW.)
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temporo-spaziale del campo stesso). Con i termini ‘sincronia’ e ‘diacronia’ l’Autore sottolinea la
diversa proprietà temporale dei due elementi della coscienza: mentre l’autocoscienza (identità
personale) si organizza all’interno di una dimensione temporale storico-evolutiva, processuale
(diacronia), il campo di coscienza si struttura all’interno di una dimensione temporale sinteticoattuale, di stato (sincronia). Contemporaneamente, Ey segnala che la coscienza è costituita
dall’inestricabile congiunzione dei due elementi, ponendosi al punto di convergenza tra l’attività
diacronica e l’attività sincronica: “in fondo è proprio lo stesso (...) dire che io sono cosciente di
qualcosa solo se io sono qualcuno”.
E’ plausibile sostenere la sovrapposizione concettuale tra la ‘diacronia’ di Ey e la ‘memoria’
di Edelman (cfr. cap w.), entrambe inscritte nell’organizzazione del sistema, e tra la ‘sincronia’ di
Ey e la ‘categorizzazione’ di Edelman (cfr. cap. w.), entrambe inscritte nella strutturazione del
sistema (Farina 1999; Ceccarelli 2004a; Ceccarelli et al. 2004). In quest’ottica, sia per Ey che per
Edelman, l’organizzazione è l’elemento necessario, ma non sufficiente, dell’autocoscienza, tanto
quanto la strutturazione è l’elemento necessario, ma non sufficiente, del campo di coscienza. E’
grazie alla dinamica ricorsiva che caratterizza il rapporto tra organizzazione e strutturazione che
l’un l’altra costituiscono reciprocamente l’elemento sufficiente per l’emergere riflessivo della
coscienza2.
Fisiopatologia della coscienza.
Secondo il modello fisiologico esposto, la fisiopatologia delle funzioni mentali e delle
correlate forme di coscienza riconosce come elemento nucleare invariante l’alterazione del
rapporto tra l’organizzazione (memoria) e la strutturazione (categorizzazione) del sistema. Inoltre,
2
Esemplificazioni osservative del fondamento costitutivamente biunivoco della coscienza sono rappresentate, da un
lato, dal rapido estinguersi della coscienza nelle condizioni in cui vi è una drastica riduzione dei processi di
categorizzazione dell’ambiente, come accade nelle situazioni sperimentali di deprivazione sensoriale (cfr. Wright et al.,
1970) e, dall’altro, dall’impossibilità di effettuare nuove categorizzazioni coscienti nei casi in cui vi sia l’incapacità di
effettuare memorizzazioni che vadano oltre la memoria a breve termine, come accade in caso di lesioni al sistema
ippocampale (cfr. LeDoux, 2002).
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essendo il sistema organizzato il livelli gerarchici, costruiti nel corso dello sviluppo individuale,
posti tra essi in rapporto dinamico, ne consegue sia che l’alterazione di un livello abbia effetti
diversi sull’intero sistema a seconda della fase evolutiva in cui compare l’alterazione, sia che
l’alterazione comporti, sempre, una riorganizzazione dell’intero sistema.
Questo tipo di concettualizzazione della fisiopatologia della coscienza è sintonica con il
pensiero di Ey, un pensiero che, in particolare in ambito psicopatogenetico, fa esplicito riferimento
alle riflessioni effettuate, verso la fine dell’Ottocento, dal neurologo John Hughlings Jackson.
Secondo Jackson, tanto nel corso dell’evoluzione della specie quanto in quello dello sviluppo
dell’individuo, le funzioni mentali si articolano in livelli diversi di complessità, secondo una
direzione che va dal più al meno semplice, dal più al meno automatico, dal meno al più integrato
(Jackson 1895)3.
All’interno di questa scenografia gerarchica, per Jackson la patologia è l’espressione della
“dissoluzione” del sistema, intesa come l’inverso dell’evoluzione4. Ogni dissoluzione si
accompagna a effetti “negativi”, espressione del disordine del livello interessato dal processo
patologico, e a effetti “positivi”, connessi all’integrità dei livelli sottostanti a quello lesionato, la
cui attività non sarà più modulata dall’incapsulamento da parte del livello soprastante, e
dall’integrità dei livelli soprastanti a quello lesionato, la cui attività non sarà più ancorata alle
3
Le funzioni dei livelli inferiori, dette integrate o strumentali, sono localizzabili in specifici siti neuroanatomici; le
funzioni superiori, dette integranti, essendo espressione dell’attività concertata di vasti settori del sistema, non sono
identificabili in specifici siti neuroanatomici. Nella neurobiologia contemporanea Goldberg (2001) sostiene la
compresenza, nell’organizzazione del sistema nervoso, di funzioni inferiori, organizzate modularmente, reciprocamente
indipendenti, dotate di attività automatica ed evoluzionisticamente antiche, e di funzioni superiori, non modulari, dotate
di attività integratrice, evoluzionisticamente recenti.
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La dissoluzione viene distinta in due tipi: locale, attinente ai disturbi delle funzioni integrate, che rappresentano
l’ambito clinico proprio della neurologia classica; uniforme, attinente ai disturbi delle funzioni integranti, che
rappresentano l’ambito clinico proprio della psichiatria classica. L’attenzione alla costitutiva ricorsività tra i diversi
livelli del sistema, permette di comprendere il rapporto dinamico tra funzioni inferiori (integrate) e superiori
(integranti), rendendo inconsistente, come ci insegna la moderna osservazione neuropsicologica (cfr. Sacks 1973,
1984), la distinzione di natura tra disturbi neurologici e disturbi psichiatrici.
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fondamenta relative al livello sottostante (cfr. fig. 5, cap. w.). Il sintomo, quindi, è l’espressione
della riorganizzazione dell’intero sistema5.
Sul piano eziologico, l’affermazione, propria del modello esposto nel cap. w., secondo cui
la funzione mentale, e il correlato livello di coscienza, sono proprietà emergenti del sistema
costituito dalla “struttura-in-relazione-con-l’ambiente”, permette di sostenere che la patologia
mentale è, sempre, espressione dell’alterazione del rapporto tra la struttura e l’ambiente, per cui
può dipendere tanto da fattori inerenti la struttura (i classi fattori causali endogeni) quanto da
fattori inerenti l’ambiente (i classici fattori causali esogeni). Inoltre, l’organizzazione
intrinsecamente sistemica della funzione mentale e la costruzione evolutiva delle stesse comporta
sia che il medesimo esito patologico possa essere determinato da costellazioni causali (bio-psicosociali) diverse, sia che costellazioni causali (bio-psico-sociali) identiche possano determinare esiti
patologici diversi. In quest’ottica l’eziologia può solo segnalare una tendenza, mai definibile
deterministicamente in modo univoco, a organizzare il funzionamento mentale secondo certe
caratteristiche formali (sindromi)6. La ricerca eziologica costituisce, quindi, il campo relativo alla
definizione dei fattori di rischio, sia organogenetici che psicosociali, che influenzano il percorso
psicopatologico7. I fattori di rischio sono, ad un tempo, aspecifici per la singola forma
psicopatologica, e specifici per il singolo caso clinico espressione di quella forma psicopatologica.
5
“La sintomatologia è relativamente indipendente dal disturbo negativo (‘scarto organo-clinico’), mentre ne è sempre
patogeneticamente dipendente (...) l’idea di dissoluzione si ordina attorno al più o al meno automatico. Sicchè è la
nozione di automatismo quella che implica contemporaneamente la componente positiva e la componente negativa
della patologia nervosa (…) (la patologia del sistema nervoso è la) patologia della libertà” (Ey 1975; trad. it., pp. 4951). L’automatismo è assimilabile, concettualmente, alla irriflessività delle funzioni mentali (cfr. cap. w.).
6
“Una classificazione eziologica (...) è logicamente impossibile per un modello organodinamico della psichiatria che
considera le diverse modalità o specie di malattie mentali come gli effetti di una disorganizzazione del corpo psichico,
indipendentemente dall’eziologia -mai specifica- di questo processo. Ne consegue che la psicopatologia del corpo
psichico può trarre i vari tipi clinici non già dai diversi fattori eziologici, ma dall’ordine architettonico diversificato
della sua organizzazione” (Ey 1975; trad. it., pag 223)
7
La relazione costitutivamente dinamica tra fattori di natura diversa (bio-psico-sociali) nel determinare la qualità del
comportamento è segnalata da brillanti ricerche sperimentali, quali quelle svolte da Bennett e coll. sul rapporto tra
assetto genetico e condizioni di allevamento in una popolazione di macachi (Suomi 2000) e da imponenti ricerche
epidemiologiche, quali quelle effettuate da Tienari e coll. (1985, 1989). Del resto, la concettualizzazione attualmente
prevalente dell’eziologia della patologia mentale è di tipo multifattoriale (bio-psico-sociale), con l’annesso tentativo di
definire modelli psicopatologici complessi, fondati sull’organizzazione ricorsiva (cfr. Ciompi 1989).
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Ciò significa che mentre si afferma che la ricerca della specificità e univocità della causa del
disturbo mentale è una ricerca priva di senso, contemporaneamente si afferma l’assoluta rilevanza
dell’identificazione della specifica costellazione eziologica per il singolo caso al fine di
comprenderne la peculiarità del percorso patogenetico.
La proposizione secondo cui la funzione mentale è una proprietà emergente del sistema
costituito dalla “struttura-in-relazione-con-l’ambiente” sostiene, in ambito terapeutico, la
proposizione secondo cui una modificazione della funzione può essere conseguita tanto con
interventi diretti a modificare la struttura (terapie somatiche in senso lato, il cui effetto consisterà
nella modificazione del rapporto con l’ambiente) quanto con interventi diretti a modificare
l’ambiente (terapie psicosociali in senso lato, il cui effetto consisterà nella modificazione della
struttura)8. L’equivalenza concettuale tra terapie somatiche e terapie psicosociali nel trattamento
dei disturbi mentali sarà poi, pragmaticamente, differenziata tenendo conto sia delle differenze
relative alla conoscenza dell’efficacia delle singole terapie, e delle loro sottospecificazioni, nei
diversi disturbi, sia della percorribilità dell’attuazione delle singole terapie, percorribilità che
attiene alla costruzione e alla gestione della relazione terapeutica (Ceccarelli 2004b). In altri
termini, così come la patologia della persona è l’espressione di uno tra i tanti possibili percorsi
eziopatogenetici, declinato nella singolarità della traiettoria evolutiva biopsicosociale della
persona, altrettanto l’intervento terapeutico è l’espressione del singolare percorso di cura possibile
per quella persona (Lupoi et al. 1995).
Secondo il modello esposto nel cap. w., qualsiasi tipo di disturbo mentale si associa
inevitabilmente ad un disturbo di coscienza, per cui è possibile classificare i disturbi mentali
secondo il tipo di disturbo di coscienza prevalente. La concettualizzazione della nosografia dei
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E’ ormai noto il dato della relazione biunivoca tra interventi farmacologici e interventi psicosociali sulla
modificazione dell’organizzazione e della strutturazione neurobiologica (Kandel, 1998): le tecniche di visualizzazione
in vivo dell’attività cerebrale hanno dimostrato che sia i trattamenti farmacologici sia le terapie cognitivocomportamentali sono in grado di modificare i substrati neurodisfunzionali correlati a diversi tipi di disturbo mentale
(Baxter et al. 1992; Viinimaki et al. 1998).
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disturbi mentali come disturbi di coscienza è stata formulata da Ey e ispirata dal pensiero di
Jackson:
“si potrebbe dire che in certi casi di alienazione non vi è difetto di coscienza. Penso però che non
sempre si tenga conto dei gradi leggeri di affezione negativa di coscienza; sembra quasi si
supponga che, al di sopra della perdita, o di ciò che chiamiamo perdita, di coscienza, non vi siano
gradi più leggeri di affezione negativa di coscienza. Un malato ricoverato in manicomio può
scrivere lettere o occuparsi in altro modo, può discutere il proprio caso con il medico con notevole
pertinenza. Non diciamo che in un paziente del genere vi è perdita di coscienza, ma che vi è
difetto, leggero, di coscienza. Penso, d’altronde che il linguaggio popolare ammette nel malato di
mente un certo difetto di coscienza che è invece rifiutato dalla terminologia tecnica. Possiamo dire
che un malato è perfettamente cosciente, e tuttavia dichiararlo indeciso, smemorato, non chiaro
nelle sue osservazioni e apatico. Ma quest’asserzione particolareggiata riconosce in lui una
deficienza di volontà, di memoria, di ragione e di emozione, e siccome queste facoltà sono gli
elementi (distinti artificiosamente) della coscienza, l’asserzione equivale a dire che il malato ha un
certo grado di affezione negativa della coscienza” (Jackson 1895: in Ey 1975, pag. 86-87).
Ey distingue, in modo logicamente semplice e clinicamente pregnante, i disturbi mentali in
acuti e cronici.
I primi sono espressione della destrutturazione della coscienza e attengono,
principalmente, alle alterazioni dell’assetto sincronico della coscienza, con la connessa prevalenza
clinica delle alterazioni del campo di attualità. Queste alterazioni si manifestano nelle reazioni
nevrotiche acute, nelle crisi di mania e malinconia, nelle psicosi deliranti acute, nelle psicosi
confusionali, nell’epilessia. I secondi sono espressione della disorganizzazione della coscienza e
attengono, principalmente, alle alterazioni dell’assetto diacronico dell’essere conscio, con la
connessa prevalenza clinica delle alterazioni dell’organizzazione di personalità del soggetto.
Queste alterazioni si manifestano nei disturbi di personalità, nelle nevrosi, nelle psicosi deliranti
croniche, nelle psicosi schizofreniche, nelle demenze, nelle oligofrenie.
La distinzione tra disturbi che sono espressione dell’alterazione della strutturazione
(‘acuti’) e disturbi che sono espressione dell’alterazione dell’organizzazione (‘cronici’) non può
che essere, data la dinamica costitutivamente ricorsiva tra struttura e organizzazione da cui
dipende l’attività dell’intero sistema, sempre relativa e parziale. In altre parole, la destrutturazione
comporta sempre un certo grado di disorganizzazione, così come la disorganizzazione comporta
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sempre un certo grado di destrutturazione. Simili considerazioni, derivanti dal modello
fisiopatologico, ben si accordano con i dati relativi alla pratica clinica, nella quale l’osservazione
di condizioni che rispondono a criteri diagnostici non univoci, oppure il passaggio, nel corso del
tempo, da una condizione diagnostica ad un’altra, costituiscono più la regola che non l’eccezione
clinica. In tal modo questa nosografia definisce “entità patologiche” che sono da intendere
primariamente come espressione di “forme”, tanto specifiche quanto fluide, di alterazione della
coscienza9.
Clinica dei disturbi di coscienza.
In ambito clinico, la validazione del modello fisiopatologico esposto necessita, in primo
luogo, dell’analisi di quei disturbi mentali che sono associati ad alterazioni strutturali localizzate,
in quanto, secondo il modello gerarchico-dinamico delle funzioni mentali (cfr. cap. w.),
l’alterazione di un definito livello strutturale comporta l’alterazione di una definita funzione
mentale e una definita riorganizzazione dell’intero sistema mentale. La categoria dei cosiddetti
“disturbi neuropsichiatrici”, cioè i disturbi mentali la cui insorgenza è secondaria a danni
strutturali causati da traumi, accidenti vascolari, tumori, etc., rappresenta, quindi, la categoria
ideale per esplorare la plausibilità del modello fisiopatologico della coscienza in ambito clinico.
L’eventuale validazione del modello fisiopatologico tramite le osservazioni relative ai disturbi
secondari a danni strutturali localizzati conforterebbe la plausibilità dell’applicazione dello stesso
modello fisiopatologico all’ambito delle osservazioni relative alle alterazioni diffuse della struttura
che si rilevano tipicamente nei disturbi psichiatrici.
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Il riferimento ad una nosografia quale quella proposta da Ey comporta una scelta di campo ben definita relativamente
alle problematiche connesse alla nosografia delle malattie mentali: la nosografia di Ey poggia su principi dimensionali,
tanto quanto la nosografia esposta nelle varie edizioni del noto Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi mentali
(DSM) poggia su principi categoriali. Stante l’indubbia utilità dei principi categoriali nel favorire una omogeneità
relativa alla accuratezza nello scambio di informazioni tra gli operatori del campo della salute mentale, il rischio
culturale di tali nosografie è quello di veicolare modelli concettuali tendenti a dare consistenza naturale alle entità
nosografiche (Ballerini 1993).
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In accordo con queste premesse, applicherò dapprima il modello fisiopatologico all’analisi
di un classico disturbo neuropsichiatrico e, successivamente, applicherò il modello ad un classico
disturbo psichiatrico (Ceccarelli 2004c).
Il disturbo di coscienza nella pseudopsicopatia.
Il disturbo neuropsichiatrico prescelto attiene alla patologia relativa alle lesioni dell’area
frontoorbitoventromediale e l’esposizione clinica sarà mutuata dalla superba descrizione effettuata
da Antonio Damasio (1994).
Dall’osservazione della vita quotidiana di questi pazienti emerge un quadro clinico che può
essere riassunto nel seguente modo.
Sul piano comportamentale si rileva apatia di fondo, per cui l’attività è di regola successiva
ad una sollecitazione esterna. Inoltre, è assai difficile interrompere l’azione iniziata in quelle
situazioni che richiedono l’attuazione di una sequenza in cui alternare azioni diverse per
raggiungere l’obiettivo. Infine, il paziente ha difficoltà a terminare un’attività, in quanto tende ad
effettuare azioni che risultano marginali o estranee rispetto all’obiettivo proprio dell’azione
iniziale.
Sul piano emotivo il paziente non mostra malessere per la propria condizione di malattia,
di cui peraltro vi è consapevolezza, ed esprime una ridotta capacità empatica.
Sul piano cognitivo si rileva la difficoltà ad effettuare decisioni su obiettivi a medio-lungo
termine, per cui il paziente ha una ridotta capacità di modulare il proprio comportamento attuale
subordinandolo ad un progetto.
Complessivamente, lo stile di vita quotidiano del soggetto è governato da stimoli e
obiettivi immediati e concreti, e ciò determina il progressivo decadimento delle condizioni
personali e sociali rispetto al livello precedente la comparsa della malattia. Il quadro clinico
rievoca le caratteristiche delle “personalità psicopatiche” della nosografia psichiatrica classica, da
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cui il termine “pseudopsicopatia” (Blumer e Benson, 1975) con cui viene denominata la patologia
secondaria a lesioni dell’area frontoorbitoventromediale.
Il quadro descritto, relativo all’osservazione del paziente nella vita quotidiana, contrasta
nettamente con il quadro clinico che emerge dalla valutazione delle funzioni mentali dello stesso
paziente effettuata tramite test. La valutazione tramite test, infatti, oltre a rilevare l’integrità delle
funzioni percettive e linguistiche, della memoria, dell’attenzione, dei processi logici, rileva
l’integrità dei processi decisionali relativi a obiettivi a medio-lungo termine (test relativi a dilemmi
etici e finanziari in situazioni sociali complesse) e dei processi emotivi (test relativi alla
descrizione degli stati emotivi propri e altrui nel commento di storie, filmati, fotografie). In
conclusione, la clinica dei test evidenzia l’integrità di quelle funzioni che la clinica della condotta
quotidiana evidenzia deficitarie.
Il quadro clinico suddescritto costituisce il dato empirico sul quale effettuare la validazione
del modello fisiopatologico della coscienza precedentemente esposto. Secondo tale modello, la
lesione strutturale comporta una riorganizzazione dell’intero sistema funzionale, riorganizzazione
dipendente dalla combinazione tra (fig. 1):

l’integrità delle funzioni relative ai livelli strutturali sottostanti quello lesionato (percezione
ed emozione semplice) con annessa ridotta modulazione della loro attività da parte del
livello soprastante;

il deficit delle funzioni relative all’area strutturale frontoorbitoventromediale (emozioni
complesse);

l’integrità delle funzioni relative ai livelli strutturali soprastanti quello lesionato
(linguaggio e coscienza classicamente intesa) con annesso ridotto ancoraggio esperenziale
da parte del livello sottostante lesionato.
I tipi di relazione con l’ambiente permessi dai livelli strutturali che sostengono le funzioni
relative alla percezione e all’emozione semplice sono (cfr. cap. w.) l’interazione ciclica con gli
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oggetti adattivi rispetto ai bisogni alimentari e sessuali e il rapporto diadico episodico con i propri
simili all’interno delle dinamiche dell’attaccamento, dell’accudimento, dell’agonismo. Entrambe
le tipologie relazionali attengono ad una modalità di relazione concreta e diretta con l’ambiente.
L’integrità di queste funzioni, nei pazienti con lesioni dell’area frontoorbitoventromediale, è
testimoniata, clinicamente, dalle osservazioni sulla condotta di vita quotidiana: la rilevanza
dell’attività dipendente dallo stimolo concreto (da cui l’apatia di fondo, la necessità di
stimolazione esterna per iniziare l’attività, la distraibilità), un’attività adeguata rispetto alla
soddisfazione immediata dei bisogni di base; dall’emotività episodica e fugace, connessa alle
vicissitudini delle dinamiche interpersonali diadiche. Nei termini propri del modello della
coscienza esposto nel cap.w., in questi pazienti è integra la coscienza nucleare, cioè è integra la
capacità di differenziare riflessivamente la relazione tra il sé (vegetativo-sensomotorio) e
l’oggetto, una differenziazione che però, per sua natura, è fugace e instabile.
Il tipo di relazione con l’ambiente sostenuta dal livello strutturale lesionato è, secondo il
modello, la relazione concreta e diretta con il gruppo di appartenenza, una relazione in cui
l’emozione
complessa
permette
la
modulazione
(attivazione/inibizione)
del
proprio
comportamento in funzione degli obiettivi gruppalmente condivisi e delle correlate regole
contestuali. Il deficit di questo tipo di funzione è testimoniato clinicamente, nelle osservazioni
sulla condotta di vita quotidiana, dall’impossibilità di organizzare il proprio comportamento
all’interno di uno schema sequenziale il cui obiettivo è posto al di là dell’azione immediata, da cui
il deficit di progettazione e il progressivo decadimento delle condizioni di vita personali e sociali
rispetto al livello raggiunto precedentemente all’esordio della malattia. Inoltre, essendo l’emozione
complessa responsabile della costruzione della coscienza estesa, cioè della differenziazione
riflessiva della relazione tra il sé (viscero-motorio) e l’altro, il deficit di una tale differenziazione è
testimoniato tanto dalle ridotte capacità empatiche e dalla correlata indifferenza emotiva per la
propria condizione di malattia, quanto dall’impulsività, espressione del mancato effetto
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modulatorio sulle attività proprie dei livelli strutturali sottostanti. In altre parole, nelle relazioni
interpersonali
diadiche
il
soggetto
agisce
irriflessivamente
le
dinamiche
sostenute
dall’attaccamento, dall’accudimento, dall’agonismo.
Il tipo di relazione con l’ambiente permessa dai livelli strutturali soprastanti quello
lesionato, che sostengono le funzioni relative al linguaggio e alla coscienza classicamente intesa, è
la relazione astratta e indiretta con l’ambiente sociale e culturale, fondata sul possesso del
patrimonio semantico connesso alla simbolizzazione di tipo linguistico e culturale. L’integrità di
questo patrimonio, nei soggetti con lesioni frontoorbitoventromediali, è l’espressione della
memoria costituitasi nel corso della vita precedentemente alla lesione, memoria che può essere
riattivata nelle condizioni in cui l’ambiente la sollecita, cioè nelle interazioni linguistiche
all’interno di relazioni sociali strutturate secondo copioni di ruolo. Questo è quanto accade nelle
usuali condizioni di colloquio clinico e, soprattutto, di test, per cui in tali condizioni si evidenzia
l’integrità della riattivazione della memoria semantica relativa al patrimonio simbolico linguisticoculturale, patrimonio che permette a questi pazienti di offrire risposte adeguate ai contesti di
interazione astratta e indiretta tra sé e l’ambiente, per cui risultano integri i processi decisionali
astratti relativi a progetti a medio-lungo termine e i processi di decodifica semantica indiretta
degli stati emotivi propri e altrui. L’autocoscienza, responsabile dell’astratta differenziazione
riflessiva della relazione tra il sé (identità personale) e l’ambiente culturale, è, dunque, integra.
Tale livello di coscienza, però, a causa della lesione strutturale, non può essere alimentato, come
accade indirettamente e fisiologicamente grazie al rapporto con il livello relativo alla coscienza
secondaria, dall’ancoraggio esperenziale della relazione diretta e concreta con l’ambiente gestita
dalle emozioni complesse, tanto quanto non può modularla. L’effetto sia del mancato ancoraggio
sia della mancata modulazione è clinicamente testimoniato dal dato più eclatante di tale
condizione morbosa, cioè dall’incongruenza tra i dati clinici relativi alla condotta di vita
quotidiana e i dati clinici relativi ai test, incongruenza che, secondo il modello, esprime la
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dissociazione, sostenuta dalla lesione, tra le funzioni mentali e i relativi livelli di coscienza che
mediano le capacità relazionali di tipo concreto e diretto con l’ambiente e le funzioni mentali e i
relativi livelli di coscienza che mediano le capacità relazionali di tipo astratto e indiretto con
l’ambiente.
In conclusione, tali pazienti non possono declinare a livello esperenziale ciò che
astrattamente conoscono di sé e del mondo, così come non possono utilizzare a livello astratto ciò
che esperenzialmente vivono.
Il tentativo di validare clinicamente il modello fisiopatologico della coscienza, è
ulteriormente sostanziato, a mio giudizio, dalle ipotesi fisiopatogenetiche sulla “pseudopsicopatia”
effettuate da Antonio Damasio (1994). L’Autore ha focalizzato l’attenzione sulla dinamica
intercorrente tra l’attivazione somatica e il comportamento dei pazienti per comprendere la
discrepanza tra il quadro clinico relativo all’osservazione della vita quotidiana e quello relativo
all’osservazione tramite test. A tale scopo Damasio ha effettuato una serie di rilievi sulle
caratteristiche
della
risposta
elettrodermica
dei
pazienti
con
lesioni
dell’area
frontoorbitoventromediale rispetto ai sani e a pazienti affetti da altri disturbi neuropsichiatrici, i
cui risultati possono essere così riassunti. Nei test in cui vengono presentate storie, filmati e
fotografie i pazienti descrivono adeguatamente lo stato emotivo proprio e dei personaggi,
analogamente ai soggetti sani, ma, a differenza di questi ultimi, si nota l’assenza della risposta
elettrodermica, per cui è ipotizzabile che non presentino quelle modificazioni dello stato somatico
che normalmente si accompagnano all’elaborazione semantica di un contenuto emotivo. In altre
parole, l’assenza della risposta elletrodermica segnala che in questo tipo di test le risposte verbali
sono l’espressione, per così dire, “pura” dell’attivazione del patrimonio semantico, un patrimonio
svincolato dall’attivazione emotiva corrispondente.
Sottoposti al cosiddetto “test del gioco d’azzardo”, in cui si vince nella misura in cui si
apprende dall’esperienza a orientare le proprie scelte in prevalenza su mazzi di carte a bassa entità
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di vincita/perdita rispetto ai mazzi di carte ad alta entità di vincita/perdita, sia i pazienti che i sani
mostrano, nelle fasi iniziali del gioco, attivazione elettrodermica successivamente alla scelta e in
concomitanza dell’essere premiati o puniti, il che segnala la presenza di meccanismi che associano
l’azione effettuata alle risonanze emotive relative agli effetti, positivi o negativi, dell’azione stessa.
Successivamente alle prime prove, quando i sani stanno per compiere una scelta, si rileva un picco
di risposta elettrodermica precedentemente all’azione, a testimonianza che la modificazione dello
stato somatico successiva alle precedenti scelte funziona come elemento di orientamento nelle
scelte future, aumentando tale picco tanto più quanto più il soggetto effettua la scelta sui mazzi ad
alto rischio di vincita/perdita; nei pazienti, invece, non si rileva alcuna attivazione anticipata, a
testimonianza dell’impossibilità di utilizzare la modificazione dello stato corporeo successivo
all’esperienza come elemento di valutazione che interviene nell’orientare la scelta futura.
L’assenza dell’elemento somatico di valutazione comporta, in ambito decisionale, che la scelta
effettuata da tali pazienti sia, nelle condizioni in cui interagiscono concretamente e direttamente
con l’ambiente (come sollecitato dal “test del gioco d’azzardo”), vincolata alla forza dello stimolo
(alta entità di vincita/perdita), oppure, nelle condizioni in cui interagiscono astrattamente e
indirettamente con l’ambiente (come sollecitato nei test relativi a dilemmi etici e finanziari o nel
commento a storie e filmati), vincolata esclusivamente al patrimonio semantico di matrice
socioculturale.
Nei termini propri del modello gerarchico-dinamico delle funzioni mentali, l’emozione
complessa si fonda sulla categorizzazione dell’emozione semplice, per cui i prodotti di
quest’ultima funzione, costituiti dall’attivazione viscero-somatica, rappresentano i dati primari
elaborati dalla prima funzione. In altri termini, nell’azione sostenuta dall’emozione complessa
l’attivazione somatica precede l’azione stessa, tanto quanto nell’azione sostenuta dall’emozione
semplice l’attivazione somatica è temporalmente coincidente con l’azione stessa. Dal punto di
vista fisiopatogenetico, secondo il modello gerarchico-dinamico, nella relazione di tipo concreto e
14
14
diretto con l’ambiente il deficit dell’emozione semplice dovrebbe associarsi all’assenza
dell’attivazione somatica che precede l’azione, come dimostrato dal “test del gioco d’azzardo”.
Inoltre, e infine, la lesione strutturale dovrebbe comportare l’impossibilità, nella relazione di tipo
astratto e indiretto con l’ambiente, di attivare, da parte dei livelli strutturali superiori, tramite un
meccanismo up-down, i livelli strutturali inferiori, responsabili dell’attivazione somatica, come
dimostrato dall’assenza della risposta elettrodermica nel commento di storie e filmati a contenuto
emotigeno (vedi fig. 1).
In conclusione, l’analisi interpretativa relativa alla clinica delle lesioni dell’area
frontoorbitoventromediale conforta, a mio giudizio, la plausibilità del modello gerarchicodinamico delle funzioni mentali, e ciò sostiene i tentativi di interpretare, alla luce di questo
modello, la fisiopatologia dei disturbi di tali funzioni anche negli ambiti sostenuti da alterazioni
diffuse del sistema. Offrirò ora due esemplificazioni di tale operazione: la prima relativa, secondo
la terminologia psichiatrica classica, alla psicopatia, la seconda ai disturbi affettivi.
Il disturbo di coscienza nella psicopatia.
L’attenzione alla “psicopatia” deriva principalmente dal fatto che la clinica dei disturbi
secondari a lesioni dell’area frontoorbitoventromediale presenta, come detto, numerose
somiglianze con la clinica della psicopatia di classica pertinenza psichiatrica. Gli elementi che
sostengono l’identità clinica tra le due condizioni sono costituiti dal vincolo del comportamento al
presente, dal deficit empatico, dall’indifferenza emotiva; le differenze consistono nel fatto che,
nella psicopatia, si rileva una maggiore intensità, di regola, dell’aggressività, della reattività
emotiva, e una maggiore povertà del patrimonio semantico.
L’interpretazione fisiopatologica delle somiglianze e delle differenze tra pseudopsicopatia
e psicopatia, effettuata secondo il modello gerarchico-dinamico delle funzioni mentali, conduce ad
affermare che nella psicopatia si rileva un’alterazione, oltre che delle funzioni relative al livello
15
15
frontoorbitoventromediale (emozioni complesse) compromesse nella pseudopsicopatia, anche di
quelle proprie dei livelli superiori (linguaggio e coscienza classicamente intesa), integre nella
pseudopsicopatia.
La storia naturale del disturbo psicopatico, come quella di molti altri classici disturbi
psichiatrici cronici, evidenzia che tale disturbo si palesa in età evolutiva, per cui è sostenibile,
secondo il modello esposto nel cap. w, che un alterato sviluppo, per fattori endogeni e/o esogeni,
del livello relativo alla corteccia frontoorbitoventromediale possa compromettere l’adeguato
sviluppo dei livelli superiori e delle relative funzioni, compromissione assente nella
pseudopsicopatia.
Sul versante strutturale, recentemente è stata rilevata, a conferma di quanto appena
affermato,
l’elevata similarità clinica tra la psicopatia di pertinenza psichiatrica e i disturbi
correlati a lesioni frontoorbitoventromediali (per traumi, tumori, etc.) occorse in età evolutiva
(Anderson et al., 2000). In questi casi, in accordo con il modello fisiopatologico, l’alterazione di
un determinato livello strutturale compromette l’adeguato sviluppo dei livelli successivi. Inoltre, le
indagini di brain imaging segnalano spesso, nella psicopatia, alterazioni strutturali e/o funzionali
di vario tipo, interessanti prevalentemente l’area frontoorbitoventromediale (Brower e Price, 2001)
.
Sul versante ambientale, secondo il modello teorico (cfr. cap. w.), l’ambiente di sviluppo
proprio delle emozioni complesse è costituito dalle dinamiche interpersonali gruppali,
primariamente rappresentate, evolutivamente, dalla famiglia di origine. E’ ipotizzabile, quindi, che
la qualità delle relazioni familiari e del contesto socioambientale di riferimento costituiscano i
fattori ambientali di maggiore significatività per un adeguato sviluppo delle emozioni complesse
del soggetto. In particolare, contesti gruppali caratterizzati dalla povertà delle regole di
modulazione contestuale del comportamento dovrebbero costituire il fattore di rischio
maggiormente significativo per la psicopatia. Tali considerazioni ben si coniugano con il noto dato
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epidemiologico di una significativa correlazione tra psicopatia e ambienti di sviluppo disgregati
e/o marginali dal punto di vista sociale. In simili condizioni socioambientali, l’alterato sviluppo
delle funzioni relative ai livelli strutturali superiori (linguaggio e coscienza classicamente intesa)
dipende, quindi, sia dal deficit connesso all’alterato sviluppo dell’emozione complessa sia dalle
ridotte risorse attinenti al patrimonio socioculturale, che si esprime nella povertà del patrimonio
semantico di tipo linguistico e culturale rilevabile tipicamente nella psicopatia.
In conclusione, in termini di disturbo di coscienza, la psicopatia si caratterizza per la ridotta
differenziazione riflessiva della relazione tra sé e l’altro, tra sé e il gruppo, tra sé e il contesto
socioculturale, da cui la prevalenza del comportamento automatico e impulsivo, fortemente
stimolo (endogeno e/o esogeno) dipendente, rilevabile nella psicopatia. La centralità patogenetica,
sostenuta dal modello fisiopatologico, della ridotta modulazione delle funzioni realtive alla
percezione all’emozione semplice, è confortata dal noto dato, sul versante degli strumenti
terapeutici, della maggiore efficacia degli interventi gruppali e della maggiore percorribilità dei
contesti di tipo comunitario fondati sul primato della condivisione delle regole dell’azione.
Conclusione.
Quanto esposto in questo contributo ha un valore essenzialmente euristico, la cui
ambizione ultima è di definire, nel solco concettuale tracciato da Henri Ey, la patologia del/i
livello/i di coscienza correlata/i ai diversi disturbi mentali. Questa prospettiva psicopatologica
dovrebbe permettere di delineare una mappa sia del tipo che della qualità della relazione che il
Soggetto instaura con il Mondo. Una simile mappa consentirebbe al clinico di valutare i limiti e le
opportunità relazionali connesse al quadro psicopatologico, limiti ed opportunità la cui definizione
costituisce il fondamento di qualsiasi progetto terapeutico.
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BIBLIOGRAFIA
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Il disturbo di coscienza nei disturbi affettivi.
I disturbi affettivi costituiscono, clinicamente, un’entità assai variegata. In ambito
nosografico, tale dato sostiene la categorizzazione dei disturbi affettivi come un insieme di diverse
e distinte entità morbose. Proporrò che, secondo il modello gerarchico-dinamico delle funzioni
mentali, la diversità clinica dei disturbi affettivi può essere fisiopatologicamente interpretata come
espressione del rigido primato organizzativo di un livello funzionale sugli altri livelli.
A) il primato delle emozioni di fondo.
Lo stretto e diretto rapporto tra strutture rettiliane e sistemi omeostatici metabolicoendocrino dovrebbe comportare, in caso di disfunzione, la primaria alterazione dei comportamenti
connessi ai ritmi dell’attività biologica di base, in particolare del ciclo sonno-veglia, di quello
alimentare (anoressia o iperfagia) e di quello sessuale (ipo o iperattività). Inoltre, la stretta
correlazione tra sistemi edonici e sistema sensomotorio dovrebbe comportare, in caso di
disfunzionalità dei primi, l’alterazione dei secondi (inibizione o eccitazione sensomotoria).
Sul piano squisitamente affettivo, se le strutture rettiliane sostengono i sistemi edonici di
base (emozioni di fondo: ‘malessere-benessere’), la loro alterazione dovrebbe esprimersi con
l’accentuazione di intensità delle stesse, una intensità che pervade irriflessivamente, per sua natura
(‘sèconl’oggetto’: cfr. fig. 6, cap. w.), la relazione con il mondo10. Secondo quest’ottica, i processi
di elaborazione della relazione con l’ambiente connessi alle emozioni primarie e secondarie, e i
correlati livelli di coscienza, verrebbero destrutturati a causa dell’alterazione delle emozioni di
fondo su cui si alimentano.
Analogamente, l’alterazione dei processi cognitivi, sotto forma di idee prevalenti o di deliri,
costituirebbe l’inevitabile effetto secondario della disfunzione edonica, espressione del tentativo di
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21
darsi e di dare un senso a ciò che, in sé, senso, cioè significato condiviso, non può avere. Sul piano
del contenuto ideativo, si dovrebbe rilevare la povertà dello stesso, cioè la ridotta articolazione, a
contrasto con la pervasività. La destrutturazione dei livelli di coscienza connessi alle funzioni
cognitive potrebbe comportare la comparsa dell’alterazione del campo di coscienza classicamente
inteso, sotto forma di stato crepuscolare, oniroide, confusionale.
In ambito relazionale, essendo tale livello funzionale preposto alla regolazione del mondo
intraindividuale, si dovrebbe rilevare la scarsa responsività, sia in senso negativo che positivo,
delle dinamiche inteindividuali sull’affettività del soggetto e, conseguentemente, anche
sull’ambito cognitivo e comportamentale.
Infine, la fisiologica attivazione di tipo ciclico delle strutture rettiliane, nonché il fisiologico
accoppiamento di tale attivazione con i cicli della natura, dovrebbero comportare il rilievo di una
durata limitata, eventualmente stagionale, del disturbo dell’affettività avente la cartteristiche
psicopatologiche e cliniche sopra descritte, nonché la possibilità del periodico ripresentarsi, nello
stesso soggetto, di episodi della stessa natura (non necessariamente dello stesso tipo polare), con,
nei periodi intercritici, ‘restitutio ad integrum’ delle condizioni complessive dello stato mentale
del soggetto.
In conclusione, secondo questa modellizzazione fisiopatologica, una disfunzione delle strutture
relative al livello rettiliano sarebbe responsabile di quel tipo di quadro psicopatologico e clinico
che, nosograficamente, rientra nell’ambito dei Disturbi dell’Umore classificati, secondo il DSMIV-TR, Disturbo Depressivo Maggiore e Disturbo Bipolare.11
La disorganizzazione del livello relativo alla funzione percettiva
b) disturbi affettivi correlati al primato delle emozioni semplici.
L’analisi fenomenologica ha magistralmente descritto la qualità ‘cosale’ della relazione del soggetto con il mondo nei
disturbi dell’umore (Binswanger, 19)
11
Il modello patogenetico descritto sembra in accordo con i modelli neurofisiologici correnti relativi a questo tipo di
disturbo dell’umore, che individuano il nucleo fisiopatologico di esso in una disfunzione diencefalica, nonché con quegli
orientamenti, come quello della scuola di Berner, che tendono a correlare l’origine endogena dei disturbi dell’umore con
la presenza di disturbi bioritmici (cfr. Poli et al. 1999)
10
22
22
In via speculativa, il deficit delle funzioni limbiche dovrebbe comportare una ridotta modulazione
dell’attività rettiliana, mentre l’iperattività dovrebbe comportare una cristallizzazione polare, da
quello positivo (“gioia”) a quello negativo (“tristezza”, “paura”), della fisiologica mutevolezza
delle emozioni semplici.
Nel primo caso, l’espressività clinica del disturbo affettivo dovrebbe essere sovrapponibile a
quanto esposto nel paragrafo precedente. Nel secondo caso si dovrebbe rilevare una maggiore
responsività del quadro clinico alle vicissitudini interpersonali, sia in senso negativo che positivo:
in altre parole, pur all’interno di una ridotta modulazione affettiva, si dovrebbe rilevare un certo
grado di correlazione tra stato dell’umore e vicende esistenziali, in particolare interpersonali.
Inoltre, sempre in questa seconda categoria, è presumibile che il mantenimento, seppur
disfunzionale, di una certa modulazione dell’attività rettiliana, si esprima con una minore
compromissione dei ritmi connessi ai ritmi biologici di base (sonno-veglia; alimentazione;
sessualità), dell’attività sensomotoria e delle alterazioni cognitive.
Dal punto di vista eziopatogenetico, secondo il modello gerarchico-dinamico delle funzioni
mentali, in entrambi i casi –ridotta modulazione dell’attività rettiliana, cristallizzazione polare
dell’attività libica- dovrebbe essere attribuita una maggiore significatività, rispetto a quanto
teoricamente ipotizzabile nelle condizioni sostenute dal primato delle emozioni di fondo, alle
vicissitudini relative alle dinamiche interpersonali del soggetto, sia storiche che attuali. Ciò
dovrebbe comportare, nei casi di ridotta modulazione dell’attività rettiliana (Disturbo Bipolare e
Disturbo Depressivo Maggiore) il rilievo di un grado ridotto di modulazione emotiva anche nei
periodi intercritici; e, nei casi di cristallizazione polare dell’attività libica, una tendenza alla
cronicità delle manifestazioni cliniche. In termini di livello di coscienza, la ridotta riflessività delle
relazioni interpersonali diadiche, pur non compromettendo l’esercizio dell’intenzionalità nella
relazione con l’ambiente, ne ridurrebbe l’estensione e l’articolazione.
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In conclusione, secondo questo tipo di modellizzazione fisiopatologia, una disfunzione delle
strutture limbiche sarebbe responsabile, nei casi di cristallizzazione polare, di quel tipo di quadro
psicopatologico e clinico che, nosograficamente, secondo il DSM-IV-TR, rientra nell’ambito del
Disturbo Distimico e del Disturbo Ciclotimico.
c) disturbi affettivi correlati al primato delle emozioni complesse.
In via speculativa, il deficit delle funzioni neocorticali relative alle emozioni complesse dovrebbe
comportare una ridotta modulazione dell’attività libica, mentre l’iperattività dovrebbe comportare
la cristallizzazione polare, da quello positivo (“trionfo”, “orgoglio”, etc.) a quello negativo
(“vergogna”, “colpa”, etc.), della fisiologica mutevolezza delle emozioni complesse,.
Nel primo caso, l’espressività clinica del disturbo affettivo dovrebbe essere sovrapponibile a
quanto esposto nel paragrafo precedente. Nel secondo caso si dovrebbe rilevare una maggiore
responsività del quadro clinico alle vicissitudini relazionali gruppali, sia familiari che
extrafamiliari. Inoltre, sempre in questa seconda categoria, è+ presumibile che il mantenimento,
seppur disfunzionale, di una certa modulazione dell’attività libica, permetta l’espressione
pressoché normale dei comportamenti connessi ai ritmi biologici di base (sonno-veglia,
alimentazione, sessualità) e all’attività sensomotoria; infine, è presumibile che le alterazioni
cognitive si limitino ad essere eccessivamente focalizzate sul tema del “valore” personale, veicolo
del sentimento di accettazione/rifiuto sociale.
In entrambi i casi –ridotta modulazione dell’attività libica, cristallizzazione polare dell’attività
frontoorbitoventromediale- però, dovrebbe rilevarsi, nella storia del soggetto, una certa
significatività delle vicissitudini relazionali, in particolare familiari. Ciò dovrebbe comportare, nei
casi di Disturbo Distimico e Disturbo Ciclotimico, la presenza di tratti di personalità di tipo
“inibito” o “espansivo”, tratti che, nei casi di cristallizzazione polare, carraterizzano
significativamente la personalità del soggetto.
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24
In conclusione, per questo tipo di modello fisiopatologico la disfunzione del livello neocorticale, la
cristallizzazione polare dell’attività dovrebbe esprimersi secondo quel quadro psicopatologico e
clinico che, nosograficamente, rientra nell’ambito dei Disturbi di Personalità, approssimabili ai tipi
Evitante-Dipendente (sul versante “inibito”) o ai tipi Istrionico-Narcisistico (sul versante
“espansivo”) secondo il DSM-IV-TR.
I modelli patogenetici descritti esprimono forme “pure” di disturbo dell’umore che, in quanto tali,
appartengono più al campo della patologia generale che a quello della clinica. Nondimeno tali
modelli permettono di sostenere che il mondo affettivo è l’espressione dell’articolarsi e combinarsi
di livelli strutturali diversi, di ampie reti interagenti la cui diffusione e sovrapposizione giustifica,
appunto, l’impurità espressiva delle forme cliniche dei disturbi dell’umore.
Il disturbo di coscienza nell’anoressia mentale
Secondo il modello biopsicosociale della coscienza esposto nel cap. w., i comportamenti
relativi all’alimentazione (e alla sessualità) dipendono, al termine dello sviluppo della mente, dal
livello strutturale che, in un determinato momento, assume il ruolo di centro organizzativo del
sistema. In altre parole il comportamento alimentare è, fisiologicamente, potenzialmente
espressione di una pluralità di funzioni e di relazioni con l’ambiente, così formalizzabili:

la prima funzione, attinente al livello strutturale rettiliano, è relativa alla percezione
dell’oggetto alimentare, strumento relazionale della soddisfazione delle necessità
metaboliche dell’organismo;

la seconda funzione, attinente al livello strutturale limbico, è relativa alle emozioni
semplici, strumenti relazionali, evolutivamente, del rapporto di attaccamento-accudimento
prima e, successivamente, dei rapporti diadici di tipo agonistico e cooperativo;

la terza funzione, attinente al livello strutturale neocorticale inferiore, è relativa alle
emozioni secondarie, strumenti relazionali delle dinamiche gruppali;
25
25

la quarta funzione, attinente al livello strutturale neocorticale superiore, è relativa al
linguaggio e alla coscienza classicamente intesa, strumenti relazionali del mondo dei
significati socioculturalmente condivisi.
Secondo quest’ottica, il comportamento alimentare è, in sé, semanticamente aperto, e la
definizione univoca è frutto della funzione che, in quel momento, assume il ruolo di centro
organizzativo del sistema, un ruolo dipendente dall’incontro tra la memoria e l’attualità della
relazione in atto tra Soggetto e Mondo. In tal modo possiamo alimentarci ora sotto
l’organizzazione prevalente dei bisogni metabolici, e del connesso senso di fame; ora sotto quella
delle dinamiche affettive diadiche, per cui il cibo è veicolo dei sentimenti di cura offerta e
ricevuta, di affermazione della propria dominanza/sottomissione, di segnalazione della
condivisione cooperativa; ora sotto quella delle dinamiche gruppali, per cui le modalità relative
alla consumazione conviviale del cibo sono il veicolo dell’adesione alle regole che testimoniano
l’appartenenza/individuazione di sé al gruppo; ora sotto quella delle dinamiche socio-culturali, per
cui l’arte culinaria e le consumazioni rituali veicolano i significati relativi al rapporto tra sé e il
mondo. In altre parole, l’intrinseca libertà semantica del comportamento è l’espressione di un
sistema i cui livelli strutturali sono organizzati secondo una gerarchia dinamica, tale da garantire la
fisiologica parziale associabilità e dissociabilità dei vari livelli tra essi.
Secondo questo modello, quindi, i disturbi del comportamento alimentare sono
l’espressione di una fissità organizzativa che rende il comportamento alimentare monotono e
rigido, insensibile alle fluttuazioni connesse alla mutevole relazione tra il Soggetto e il Mondo.
All’interno di questa prospettiva, tenterò ora di interpretare la clinica dell’anoressia mentale, di
tipo restrittivo, secondo il modello fisiopatologico della coscienza precedentemente esposto.
La clinica dell’anoressia può essere sinteticamente riassunta nel seguente modo.
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Sul piano comportamentale si rileva la drastica riduzione dell’assunzione del cibo e la
tendenza all’evitamento della dimensione conviviale (gruppale) connessa alla consumazione del
cibo.
Sul piano emotivo si rileva la centralità dei vissuti relativi alle emozioni complesse: il
senso di trionfo connesso alla mancata assunzione del cibo e il senso di colpa connesso
all’avvenuta consumazione o al superamento del limite alimentare autoimposto; la vergogna come
sentimento di fondo nelle interazioni sociali. Le emozioni semplici, invece, sono di regola assai
poco rappresentate, tanto da configurare la tipica piattezza/indifferenza emotiva dell’anoressica,
con la correlata fissità mimico-posturale.
Sul piano cognitivo si rileva il dominio della rappresentazione della propria corporeità
rispetto al complesso delle altre rappresentazioni della propria identità. In questa rappresentazione
corporea il binomio magrezza-obesità costituisce il riferimento concettuale dicotomico e assoluto
delle diverse rappresentazioni positive-negative di sé: magrezza è sinonimo di intelligenza,
bellezza, forza, successo, etc., tanto quanto obesità è sinonimo di stupidità, bruttezza, debolezza,
insuccesso, etc. E’, quindi, in primo piano l’aspetto simbolico della propria corporeità, che
costituisce il rappresentante univoco e onnicomprensivo della propria identità.
Secondo il modello gerarchico-dinamico delle funzioni mentali, la clinica dell’anoressia è
interpretabile come espressione della fissità organizzativa derivante dal primato delle funzioni
relative alle emozioni complesse rispetto alle altre funzioni mentali, primato che,
fisiopatologicamente, potrebbe costituire l’effetto di una iperattività funzionale. E’ proprio di tale
livello funzionale, infatti, instaurare una relazione con il mondo secondo i processi di
simbolizzazione di tipo mimico-corporeo. L’ipotetica iperattività funzionale di tale livello ben si
associa con una eccessiva modulazione, di tipo inibitorio, dei livelli sottostanti, per cui la funzione
percettiva e quella emotiva semplice vengono del tutto subordinate a quella emotiva complessa: di
qui la nota riduzione della sensibilità rispetto alle sensazioni di fame e di sazietà, la nota
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distorsione percettiva, ai limiti della percezione delirante, relativa alla corporeità, nonché
l’anestesia emotiva nelle relazioni diadiche. Inoltre l’ipotetica iperattività di tale livello ben si
associa con la scarsa incidenza modulatrice delle simbolizzazioni proprie dei livelli superiori
(linguistiche e culturali) su quella simbolico-corporea, come testimoniato da un lato dalla loro
integrità (alla base delle note capacità intellettive e di apprendimento delle anoressiche) e,
dall’altro, dalla non significatività della consapevolezza degli effetti del comportamento
alimentare sul comportamento stesso.
La supposta iperattività del livello realativo alle emozioni complesse ben si associa, inoltre,
con il dato relativo all’età di insorgenza del disturbo, età in cui è in primo piano la fase di
differenziazione dal proprio gruppo naturale (la famiglia) e di integrazione con il gruppo sociale.
Inoltre, tale ipotesi ben si accorda con il dato, di solito rilevabile nelle famiglie dell’anoressica, di
una particolare attenzione della cultura familiare all’immagine sociale, e al dato anamnestico di
una completa adesione della futura anoressica, alle regole di comportamento contestuale nella
seconda infanzia.
Sul piano della differenziazione della relazione tra sé e il mondo, l’anoressica
testimonierebbe la difficoltà a differenziarsi, cioè appartenere e individuarsi, all’interno delle
dinamiche grippali (sènelgruppo). Tale ipotesi patogenetica tende a sottolineare la ‘ratio’ degli
interventi tesi a favorire l’analisi delle interazioni grippali, tanto di tipo familiare che
extrafamiliare.
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