FRONTALITA' e TEATRO (Introduzione al brainstoming di Luigi Maria Musati) S. Miniato “Le Parole del Teatro” Estate 2001 La mia introduzione al nostro brainstorming non vuol essere una relazione quanto la definizione del "campo di gioco" nel quale vi invitiamo a giocare per generare, attraverso l'intrecciarsi libero e anche felicemente disordinato delle nostre competenze, le linee teoriche e anche organizzative del convegno del prossimo anno. Il tema, come sapete, è "FRONTALITA". Questa parola ha un significato chiave per quanto riguarda la pratica scenica ed è da questo punto di vista che introduco i lavori. Cosa "significa" per il teatro questa parola? Quali premesse abitano il concetto della "frontalità" nel teatro e quali conseguenze ne scaturiscono sul piano teoretico e operativo? Non senza riflettere (anzi l'idea di questo brainstorming e del convegno successivo è nata proprio a partire da questa riflessione) sul fatto che la frontalità nella storia del teatro occidentale si afferma come modalità principale (se non esclusiva) della drammaturgia e della pratica scenica proprio a partire dal secolo in cui nasce la scienza galileiana, a partire dalla seconda metà del’500. Sarò il più possibile descrittivo e, come s'addice a una relazione introduttiva di un brainstorming, sommario e partigiano. Per il teatro, oggi, la Frontalità è uno dei più problemi più seri. Si tratta infatti di una modalità prossemica che coinvolge direttamente l'architettura scenica, la pratica drammaturgia, l'arte e la pratica dell'attore e di tutti i mestieri del Teatro, l'arte e la pratica dello spettatore, predeterminandone o addirittura surdeterminandone modi, mezzi, fini e stili. Potremmo definirla la "forma simbolica" che è sottesa alla concezione dominante del Teatro a partire dal ‘500 fino al ‘900 o che addirittura la genera, né sembra che a tutt'oggi sia prossima ad esaurire la sua influenza. Eppure la pratica scenica delle Avanguardie, in tutto il secolo passato, trova nella "frontalità" l'obiettivo principale di polemica e il concetto (e l'oggetto) scenico da demolire per primo. Negli anni Sessanta e Settanta, a partire dalle esperienze della cosiddetta "Seconda Avanguardia" (come per esempio nel complesso movimento dello Happening e della Performace, area di perfetta interrelazione tra arte visiva, musica a teatro) il modello del "teatro frontale" è sottoposto a una critica demolitoria serratissima, i cui temi furono espressi con chiarezza e radicalità, tra gli altri, negli scritti di Sheckner sulla "cavità teatrale". La "frontalità" in questo senso diventa la "tradizione negativa", il "nemico", come sostanza di una prassi scenica fondata sulla separazione tra spettatori e attori, che ha indebitamente (e malignamente...) trasformato il fatto teatrale in un fenomeno rappresentativo (e quindi di natura estetica). Ad esso viene contrapposto un modello non frontale dove l'istanza principale è quella comunicazione e quella partecipazione che il modello frontale sembra reprimere o negare. Sinteticamente, con uno slogan che sarebbe stato graditissimo in quel periodo, con-ludere vs in-ludere. L'azione dell'avanguardia sperimentale, soprattutto americana (penso al Living, ma non solo) si proietta decisamente in un gioco che mira a un coinvolgimento globale di attori e spettatori in una unica esperienza. Si abbandona quindi il dominio dell'Estetica, come si era costituita a partire dal settecento, per dirigersi verso l'Etica e, almeno in qualche caso, addirittura la Metafisica e la Cosmologia. Se prendiamo in esame la spazialità come documento e al tempo stesso come oggettivazione di una pratica scenica, nella pratica del teatro occidentale si individuano successivi modelli, storicamente riconoscibili, che sommariamente percorreremo, sempre in relazione all'oggetto del nostro incontro. Il primo è quello fondante del teatro greco tragico, che possiamo esemplificare attraverso il primo teatro di Atene, il cosiddetto Dioniso I, costruito sull'Acropoli, a fianco dei grandi Templi. Ma prima di accennare brevemente alla sua struttura debbo sottolineare che la focalizzazione della mia attenzione sul "teatro tragico" piuttosto che sul "teatro comico" non è né casuale né innocente, e che, in sede di relazione congressuale, dovrò necessariamente affrontare il problema di "quell'altro spazio e quell'altro senso", per altro senza contraddizioni rispetto al discorso attuale, anzi, con ulteriori arricchimenti. A grandi linee, la forma dell'edificio teatrale tragico è costituita dall'abbraccio di un trapezio di legno, il koilon (su cui vengono disposti gli spettatori), con un cerchio, 1'orkéstra (all'interno del quale avviene l'azione del Coro), al quale è tangente una pedana orizzontale parallela al trapezio, il proskènion (in cui avviene l'azione degli attori). Il proskènion è semplicemente una pedana blandamente rialzata che permette una relazione stretta e diretta tra l'azione dell'attore e quella del coro nell'orkèstra. Delimita il proskènion la skenè, una modesta capanna per l'attrezzeria, che funge anche da "camerino" per gli attori, e fa da sostegno a una scenografia elementare che rappresenta con legno e pelli quella che convenzionalmente viene chiamata la "facciata della reggia arcaica", con le famose tre porte. Le dimensioni mediocri dell'edificio e della scenografia da esso sostenuta lasciano aperto e libero lo sguardo sul monte e sul mare. Il complesso dell'edificio è anti-monumentale. Il teatro è dissimulato nell'ambiente circostante, giacché le gradinate del koìlon poggiano su un declivio naturale interpretandolo, modificandolo, senza sopraffarlo. Il luogo su cui sorge è "sacro", isolato dallo spazio profano della città, all'interno di quella dinamica tra sacro e profano che è stata magistralmente esplorata da Mircea Eliade. Il passaggio dalla struttura in legno alla pietra non modifica sostanzialmente questo complesso, anzi ne sottolinea ancor di più alcune valenze. Il trapezio si trasforma in un arco di cerchio che abbraccia ancora più significativamente l'area circolare del Coro e si connette ad abbracciare il proskènion attraverso le strutture architettoniche delle pàrodoi (le porte d'ingresso del Coro nell' orkèstra). In questo tipo di spazio i luoghi "topici" dell'evento teatrale sono fortemente correlati l'uno all'altro, suggerendo a chi osserva una cospirazione comune di attori, coreuti e pubblico in un momento comune, cospirazione sottolineata dalla funzione del Coro nella drammaturgia tragica greca quale personificazione del pubblico nell'azione scenica. Se l'azione degli attori nel Teatro greco può considerarsi "frontale", si tratta di una frontalità ben diversa da quella che si sviluppa, con parossismi architettonici, nel modello successivo, quello del Teatro romano, attraverso l'intermediazione del modello ellenistico, che pur assomigliando a quello greco ne perverte (o ne converte) radicalmente le premesse introducendo ben diversi significati e con essi ben diverse prassi sceniche. E' in ambito romano che possiamo verificare per la prima volta l'equazione frontalità/ separazione. La separazione informa tutta la struttura architettonica del teatro romano, dal concetto di edificio individuabile come monumento nel tessuto urbano, all'ipertrofia schiacciante dello scaenae frons che chiude il proscenium separando totalmente l'interno del teatro dal mondo esterno, alla forma perfettamente semicircolare che nega la possibilità di una interrelazione dinamica degli spazi. Il Teatro romano è solenne architettura, solenne tanto da raggiungere spesso la sublimità. L'inverso del Teatro greco, la cui semplicità è solenne perché è sublime. Dicevo che la skené nel teatro greco non impedisce, né può impedire, la visione del mondo naturale intorno: come a Delphos, come a Epidavros, come a Siracusa lo spettatore ha davanti a sé non tanto e non soltanto proskenion e skenè, e quello che davanti ad essa e su di esso si svolge, ma valle e campo e alberi e mare. Così risulta evidente che ad assistere o, meglio, a partecipare all'evento sono chiamati anche le forze numinose della natura, gli Dei, come suggerisce anche l'isolamento sacrale del luogo, e che gli Dei giocano un ruolo decisivo all'interno di quanto accade in questo evento. Spazio aperto all'indicibile e al più-che-umano il Teatro tragico greco immette la comunità degli uomini (spettatori, attori e coro) in un gioco che si proietta verso l'infinito e verso l'abisso, il mare. La presenza dell'uomo è fragile e timida, e pur forte proprio per la sua fragilità, forte per la sua sfida, forte perché parla in presenza di forze titaniche che non parlano. Nel teatro romano tutto questo non esiste più: tutto parla il linguaggio dell'uomo. La rozza skené dell'epoca tragica arcaica, trasformata in una facciata monumentale a più ordini, dove colonne , rientranze, porte, nicchie, statue, testimoniano ricchezza, opulenza, forza, allude ad un universo tutto controllato e controllabile dall'uomo. Quello che forse non è controllabile è la strapotenza dell'uomo, non certo la presenza misteriosa di qualcosa che non s'intende e che è espresso nell'universo naturale che sta intorno a sovrastare lo spazio greco. Giungono poi i secoli delle invasioni barbariche e come sapete il teatro come pratica consapevole sparisce dall'orizzonte culturale occidentale, riprendendo, tra l'Ottocento e il Mille nelle forme del rito paraliturgico, del Dramma liturgico e poi della Sacra Rappresentazione. Qui gli elementi sono totalmente diversi: siamo in presenza di una fortissima rottura di continuità. Quello che noi chiamiamo Teatro medievale non ha pressoché nulla in comune con lo spazio e le pratiche grecoromane, come poco avrà in comune con il Teatro moderno, che nascerà alla fine del `400. Tra l'altro non possiamo applicare al complesso del Teatro medievale la distinzione tra "tragedia" e "commedia", termini, che, com'è noto, in quel periodo vanno ad identificare gli stili "alto" e "mediocre" e non tipologie drammaturgiche né tipologie spaziali, né prassi in qualsiasi modo connesse con il Teatro. Nell'indistinzione tra "tragedia" e "commedia" (forse per una certa qual impossibilità del "tragico" nella cultura cristiana?) il Teatro medievale si apparenta al contemporaneo "dramma", ma le affinità si fermano tutte qui. Il Teatro medievale è un'azione senza spazio definito a priori. Si agisce nella chiesa, sul sagrato, nella piazza, quindi in luoghi di incontro che esistono in quanto tali prima e dopo l'evento teatrale che ospiteranno. E' importante notare come "l'azione" si frammenti in una serie di sequenze legate tra loro da un rapporto di prima/dopo e non da un rapporto di causa/effetto. Le sequenze si svolgono in "spazi deputati", anch'essi spazialmente posti in sequenza, isolati l'uno dall'altro, frammentati, la cui ricomposizione in unità è affidata totalmente all'azione del pubblico che li attraversa, e, attraversandoli, ricompone le unità di tempo e di luogo, muovendosi insieme agli attori da una mansion a un'altra, da un luogo deputato a un altro luogo deputato. L'unità di luogo e di azione non va dunque ricercata nel "testo teatrale", ma nel suo concreto prodursi. E' quindi una esperienza che viene fisicamente e materialmente compiuta insieme da pubblico e attori a fondare l'unità (e l'unicità!) dell'evento, senza il supporto di una struttura drammaturgia unitaria, né tanto meno di una struttura scenografica unitaria. Unitario è, come il "popolo" che compie l'azione, il luogo in cui essa si svolge, ma esso è lo spazio reale dell'esperienza, non lo spazio fittizio dell'azione scenica. In questo spazio reale si colloca il reale movimento del "popolo" che è immagine e metafora del pellegrinaggio in Terrasanta, che è a sua volta immagine e metafora del pellegrinaggio dell'uomo sulla terra. Questo movimento ha un suo punto focale, cui tutto tende. Ma esso non è un "punto di vista", come sarà nella scenografia prospettica. Monte della Passione, Grotta della Natività, Grotta della Resurrezione, esso è un punto metafisico, cosmologico e qualche volta magico, meta della Storia dell’uomo e quindi meta del "viaggio del popolo", che è viaggio insieme nel tempo e nello spazio. L'unico elemento, ma a mio avviso fortissimo, che può congiungere questo Teatro con quello greco tragico è proprio il fortissimo senso della "comunità", in questo caso Popolo di Dio, nell'altro pòlis e ellenichè oikumène, entrambe caratterizzate da significati metapolitici che trovano il loro fondamento narrativo in un complesso mitologico condiviso. Quello che accade in quel fatidico 1508 che vede la nascita del Teatro moderno è un'autentica rivoluzione. Così come accadrà di li a poco con la Camerata dei Bardi, e, lo si consenta, con quel Cristoforo Colombo, che andò per cercare il continente antichissimo e trovò il nuovissimo, così vennero ricercate le modalità drammaturgiche del teatro antico e fu inventato un teatro che non era mai esistito prima. Ma, prima di spingermi oltre, credo sia necessario sottolineare come questa ricerca poggiasse soprattutto sulla drammaturgia "scritta" e sulle riflessioni ad essa inerenti o comunque sempre lette in questa chiave. Vengono quindi "restaurati" i generi letterari "tragedia", "commedia" e "dramma satiresco", interpretando quest'ultimo come "favola pastorale". Viene invece ignorata o del tutto subordinata ogni questione relativa alla prassi scenica arcaica dell'attore e del pubblico. Grande attenzione viene data all'architettura teatrale, in riferimento agli scritti teorici (ad esempio Vitruvio) e ai resti monumentali, ma questa attenzione risulta per noi viziata profondamente dal suo approccio di fondo. D'altra parte è proprio questo "non intendere come" che rende necessario l'avvio di quella sperimentazione che porterà, in fasi successive, al moderno professionismo teatrale, al moderno edificio teatrale e, per altri versi, alla nascita di nuove prassi, quali il melodramma. Mi sembra che anche in questo campo il Rinascimento italiano produca, come alcuni affermano, una decisiva obliterazione dell'Arcaico, proprio quando ne va alla ricerca sotto la forma dell' "Antico", determinando il vero e proprio inabissamento di una Tradizione che, pur trasformandosi nelle forme, era continuata fino al Medioevo. In questo processo risultano coinvolte etica, politica e religione, non meno del teatro. Considero inoltre non secondario che la ricerca fondante di Ariosto parta dalla commedia latina e che negli anni successivi, nonostante le sperimentazioni ad esempio di Giraldi Cinzio, si sviluppi una polemica sulla possibilità che la lingua italiana possa farsi strumento di una scrittura tragica. La nuova prassi teatrale si incardina su due fenomeni, uno architettonico e l'altro drammaturgico, sempre strettamente interdipendenti, che con forza decisiva impongono una nuova e più forte frontalità come condizione dell'esistenza dello spettacolo, ponendo i fondamenti di una più forte deriva della frontalità stessa verso le più radicali forme della separazione. Per quel che riguarda la drammaturgia, a partire da "La Cassaria", si codificano le unità di azione, di tempo e di luogo con una stretta "convenzionale" ben più normativa di quanto non fosse nelle intenzioni dello scrittore della Poetica, chiunque egli sia, riproponendo al centro della composizione del drama il rapporto di causa/effetto, mentre la concezione della drammaturgia come opera letteraria che precede la prassi scenica o addirittura prescinde da essa, focalizza il drama, l'azione, esclusivamente nell' "intreccio" della vicenda narrata. L'evento teatrale, il suo rendersi presente nel tempo e nello spazio, viene separato dalla drammaturgia, acquistando un significato autonomo o eterogeneamente connesso, sia esso la celebrazione collettiva del Principe o l'accorrere di un pubblico a pagamento. Così contestualmente si separa quanto accade nello spazio della fictio da quanto accade nell'edificio teatrale e si individuano di conseguenza due spazi separati, uno deputato alla "realtà" (la sala) e l'altro deputato alla "finzione" (il palcoscenico). Si offuscò forse per sempre quella organicità che fa della drammaturgia un progetto di comunicazione e si insediò al centro della prassi teatrale il concetto di rappresentazione, quale comunemente lo si dice. Per quanto riguarda l'architettura, la "Cassaria", mentre risolve del tutto empiricamente il problema dell'edificio teatrale nel suo complesso (che troverà nei decenni successivi la sua forma più definitiva), segna la nascita di una pratica che ne marcherà in maniera indelebile i destini. Essa è la scenografia in senso moderno, con il suo corollario illuminotecnico, animata da una concezione allora innovativa il cui significato simbolico è stato sì fortemente esplorato che è sufficiente qui nominarla per coglierne tutte le implicazioni: la prospettiva. La scena nella quale si svolge la Cassaria è la prima vera e propria scenografia della storia del teatro. Essa "rappresenta" una città, o meglio l'icona della Città. La rappresenta in forma prospettica e illusionistica con un unico punto di fuoco, per cui soltanto in un punto esatto della sala (che così sta diventando il rovescio simmetrico e speculare del palcoscenico), la visione della scena sarà perfetta, nel punto in cui si collocherà il seggio del Principe. La moltiplicazione dei punti prospettici spingerà la rappresentazione illusionistica della scenografia ai più estremi virtuosismi e la progressiva "democratizzazione" della sala non ne muterà il significato fondamentale. Progressivamente lo spazio teatrale a partire dagli esordi cinquecenteschi definirà i suoi segni sempre di più nel senso di una separazione netta tra il luogo che è occupato dagli spettatori e ciò che vi accade, rispetto al luogo che è abitato "dall'illusione" e ciò che vi accade. L'atto definitivo, dal punto di vista architettonico, è la costruzione del boccascena, che comporrà il quadro illusionistico in una vera e propria visione frontale oggettivata, totalmente distaccata dall'osservatore, che infine verrà nell'ottocento teorizzata con l'ideologia della "quarta parete", in cui la separazione viene celebrata nel massimo della sua potenza. Credo che la centralità della narrazione in forma drammatica (e cioè dell'invenzione di una storia rispetto alla riviviscenza di un evento), la dominante compositiva del rapporto causa/effetto, la dominante del concetto di illusione (sia come "finzione" di uno spazio che come "finzione" di una azione e "finzione" di persone) siano parti integranti di un unico sistema di pensiero non solo teatrale e che il loro "organo" sia un concetto di frontalità intesa come separazione, che consacra la rappresentazione in quel ruolo centrale chenel teatro greco arcaico e nel teatro medievale era, a mio avviso, tenuto dalla presentificazione. Come credo anche di fondamentale importanza la traduzione di mìmesis con "imitazione" e, nello specifico teatrale, "rappresentazione". In questo itinerario, che è sostanzialmente solidale dall'inizio del XVI secolo fino alle soglie del XX, brilla una eccezionale diversità: quella dello spazio elisabettiano e della drammaturgia ad esso congiunta. Lo spazio elisabettiano non è uno spazio illusionistico, ma concettuale e convenzionale. Il palcoscenico elisabettiano si organizza in "categorie" spaziali: davanti, dietro, fuori, dentro, sopra, sotto, né si occupa di descrivere le qualità accidentali dello spazio. Il palcoscenico inoltre si proietta in mezzo al pubblico ed è totalmente circondato da esso. Gli attori non hanno nessuna possibilità di vivere la loro azione come separata, ma la vivono intrinsecamente, globalmente connessa con la realtà della reazione del pubblico. Anche se l'azione è ficta , cioè ci sia una trama , uno svolgimento di un racconto in forma drammatica, da un lato esso contraddice sistematicamente le "regole" delle tre unità cosiddette aristoteliche e si offre "aperta" alla comunicazione, chiamando la "fantasia" del pubblico a partecipare all'azione, (come esplicitamente fa il Prologo di "Enrico V") perché si trasformi in "vita vera" e non resti povera finzione. Gli studi sul teatro elisabettiano hanno più volte sottolineato la sua continuità con la scena medievale e insieme il suo debito alla sperimentazione italiana. Siamo davanti ad un fenomeno totalmente originale di ibridazione culturale. Mi limito qui ad evocare soltanto quanto da più parti è stato ipotizzato circa l'influenza del pensiero e della presenza di Giordano Bruno in Inghilterra in quegli anni e l'amicizia (forse il sodalizio) tra Shakespeare e John Dee. Non è ignoto ad alcuno, d'altra parte, come il teatro elisabettiano viva lo spazio di un mattino come il progetto politico cui è legato, dagli ultimissimi anni di re Enrico VIII fino ai primi anni di Giacomo I. Sparisce prima ad opera della repressione puritana, poi, con la Restaurazione, ad opera del soverchiante modello frontale italiano, importato dagli Stuart "infranciosati". Sparirono insieme la pratica scenica, il suo fondamento architettonico, le sue basi pratiche operative e anche la sua scrittura. Analoghe vicende vive il Teatro spagnolo. L'egemonia culturale della macchina teatrale inaugurata da Ariosto per gli Estensi impone progressivamente in tutta Europa l'identità tra la sala frontale e il Teatro tout-court. Non esisteranno più pratiche teatrali, o almeno pratiche teatrali "degne" se non in quel luogo e la pratica teatrale elabora le sue forme (la drammaturgia, l'illuminazione, il comportamento degli attori, le tecniche di recitazione), sulle necessità determinate da questo tipo di struttura architettonica, il cui significato dominante, lo ripeto, è la separatezza e il cui organo è la frontalità e la cui finalità è l'illusione. Quando poi, nella seconda metà dell'800, l'introduzione della luce a gas (e poi elettrica) permetterà il buio in sala e le meraviglie dell'illuminotecnica, la separazione sarà assoluta. Si potrà finalmente "fingere" che il pubblico non esista, e si arriverà al paradosso: ciò che esiste (la collettività pubblico/attori) si finge non esistente, ciò che esiste per "finzione" (il personaggio e la sua azione) si fingerà esistere. La condizione di questo paradosso, anzi il prezzo che l'evento teatrale deve pagare per questo paradosso, è uno spazio separato, segregato, liminare e assoluto, che ha il tempo, anzi la durata dell'azione scenica, che viene dal buio e nel buio ritorna. La crisi di questo modello si apre contemporaneamente con quella vera e propria crisi di civiltà che l'Europa vive nel trapasso tra l'Ottocento e il Novecento. Dapprima è una crisi che si manifesta a livello drammaturgico, nelle opere di Ibsen, Checov, Strindberg e soprattutto Pirandello, poi coinvolgerà tutto il pensiero teatrale con diversi esiti di radicalità, dal Teatro espressionista a Brecht alle Avanguardie. Arriviamo al momento in cui la crisi si fa più acuta, nella seconda metà degli anni Cinquanta, quando dall'interazione tra le cosiddette arti plastiche e il teatro più volte postulata nell'Ottocento e già impostata dall'Avanguardia storica, nasce a New York un movimento la cui esemplarità a mio avviso non è stata ancora completamente focalizzata, cioè il movimento degli "happening". Gli "happening" al loro comparire non vogliono essere teatro, vogliono proprio essere un'altra cosa. Non vogliono cioè assomigliare in nulla a quello che la pratica e la coscienza comune definiva "teatro", spazio, prassi e ruoli insieme. Ma proprio questo voler fare e essere "altro", si apre poi a definire questo "altro" come un "teatro alternativo", in tutti i sensi, anche e non secondariamente dal punto di vista politico, al "teatro tradizionale, borghese e frontale". E sarebbe importante investigare fino in fondo il ruolo di intermediazione tra l'una e l'altra concezione/ condizione che viene svolto dalla drammaturgia di Pirandello, di cui è episodio decisivo la fase del "teatro nel teatro", che è forse l'atto di morte certificato della frontalità: non credo sia per caso che le prime esperienze registiche di uno dei padri fondatori del "teatro alternativo", Julian Beck, siano pirandelliane. Nello "happening" noi troviamo pratiche e concetti molto più antichi della New York che ospita questi eventi. Prima di tutto la ricomparsa della sequenzialità , che sostituisce del tutto la logica compositiva fondata sul "plot". Lo "happening" è una sequenza di azioni che si susseguono nello spazio e nel tempo senza ordine apparente. Questa sequenza coinvolge progettualmente nello stesso atto coloro cui è attribuita da parte del progetto una azione determinata e definita, che non potrei chiamare "attori", ma piuttosto "promotori di una interattività" e altri, egualmente implicati nell'azione, ai quali è altrettanto difficile e improprio applicare la definizione di "pubblico", per i quali l'azione è non elisa nella forma di una spettatore "passivo" e presupposto inesistente, ma è soltanto meno determinata e meno definita . Quello che il teatro frontale definisce "pubblico" è infatti elemento fondante della drammaturgia dello Happening. Ad esempio lo happening stabilisce progettualmente come e dove si collocheranno le persone e il luogo dove siederanno le persone o dove staranno in piedi o dove si muoveranno determinerà una qualità della partecipazione diversificata. La frontalità garantiva o almeno voleva garantire una visione unica e generalizzata (e anche qui una storia della scenografia e dello spazio frontale potrebbe utilmente sottolineare la progressiva "democratizzazione" del punto di vista, dal privilegio del principe a quello dei palchettisti e poi all'intero pubblico), una unica, totale visibilità in una fruizione passiva che è "uguale per tutti". Nello happening invece è definito che nessuno veda la stessa cosa, così come è definito che la reazione del pubblico determini diversificazioni dell'evento, con il necessario intervento dell'alea, una alea che è momento previsto in fase progettuale e quindi entra a far parte della scrittura, come il silenzio e il vuoto. E varrebbe la pena di soffermarsi su quanto tutto ciò corrisponda da un lato ai principi che stanno alla base della democrazia liberale e borghese e dall'altro ai principi della democrazia diretta e del "movement" e come tutto "si tenga" nel concetto marcusiano di "sistema". Insistendo sull'intervento dell'Alea, che tanta parte ha nell'arte contemporanea, vale la pena di sgombrare il campo da uno degli equivoci ancora più diffusi sullo happening, cioè pensare che un Happening sia qualche cosa che accade senza nulla di preordinato. Lo happening è al contrario compositivamente coerente, ha un vero e proprio testo, che è consegnabile alla stampa in "parole" e "didascalie", in legomena e dromena, e non uso accidentalmente questa terminologia che viene in genere usata da alcuni antropologi per descrivere il rito. Il testo dello Happening predetermina un quadro generale delle operazioni: l'uomo rosso entra dalla porta di destra, fa tre passi, emette un grido e si abbatte al suolo. In questo istante, sei uomini vestiti di bianco che siedono in mezzo agli spettatori che sono sul lato sinistro, si alzano in piedi e in coro dicono: "Aristippo!" o "Margherite!". Esaminate "18 happening di 6 parti" di Allan Kaprow, che diede il nome a tutto il movimento, e vedrete una strutturazione formale, una drammaturgia, precisa e coerente, ma non rigida, non chiusa, aperta all'alea. In qualche caso più, in qualche caso meno, la presenza dell'alea, comunque, è qualificante. Così come la diversificazione del rapporto. Non c'è un rapporto unico e non c'è un comportamento unico, né degli "attori", né degli "spettatori" (chissà, potremmo chiamarli meglio "promotori" e "partecipanti"?). Tutto questo perché quello che si cerca è qualcosa che è radicalmente diverso dalla visione, che sia essa una visione statica o critica, ha poca importanza. Si cerca la condivisione di un'esperienza. Lo happening è qualche cosa che accade, ma non accade solo per gli attori, accade per tutti. E' appunto un accadimento. Da tutto questo nasce un movimento che , come dicevo, non casualmente si coniuga strettamente con il "movement", cioè con le vicende del movimento politico. Non a caso la critica al teatro frontale diventa critica alla borghesia. Nel teatro frontale l'avanguardia vede la celebrazione del pensiero borghese in tutti i suoi aspetti: la negazione del corpo, la negazione della festa, la negazione del gioco, la negazione del coinvolgimento, l'obbligo a comportamenti codificati, l'insignificanza sociale di quello che accade sul palcoscenico. Quello che accade sul palcoscenico, inizia e finisce sul palcoscenico. Viene trasportato fuori in un ambito "segregato" che viene definito "culturale", ma non modifica in alcuna maniera l'esistenza di chi vi ha partecipato, né può interferire con "la realtà", se non in ambiti strettamente e ristrettamente personali, dove il "personale" non è né deve essere "politico", ma soltanto squisitamente "psicologico". Contro la frontalità il teatro degli anni sessanta e settanta del secolo appena concluso ha messo in opera strategie diversificate, ma tutte sostanzialmente convergenti. Prima tra tutte la sperimentazione del concetto che qualunque spazio, di qualunque natura esso sia, e non soltanto la sala frontale, possa essere abitato da un evento di natura teatrale. Questo è ormai un fatto acquisito, tanto che se ne è perso il senso innovativo e polemico. Ormai possiamo partecipare a un fatto teatrale che avviene in un appartamento, così come avviene per la strada. E' interessante ricordare alcuni esperimenti "topici", come, ad esempio, il "teatro invisibile" di Augusto Boal. Il "teatro invisibile", che è un teatro "politico" per eccellenza, consta di azioni, semplici e dure, che avvengono in mezzo alla gente senza essere preavvertite: immaginate di camminare in una strada di Rio ed ecco, all'improvviso un gruppo di poliziotti aggrediscono un passante, lo circondano e lo colpiscono. Quello grida disperatamente "che volete da me? Non ho fatto niente!", quelli lo insultano dandogli del sovversivo e finalmente lo portano via. Sia il passante che i poliziotti sono attori, ma nessuno lo sapeva. Quello che tutti hanno vissuto è un episodio di ordinaria violenza, che è stato "teatralizzato" e "straniato" proprio per combattere l'assuefazione allo spettacolo della sopraffazione. Tutto lo sviluppo del teatro latinoamericano con la dominante, per esempio, del concetto di creación colectiva , come si sviluppa soprattutto per opera di Enrique Bonaventura, se da un lato sembra disinteressarsi a questioni estetiche e formali, drammaturgicamente nega in maniera radicale la separatezza e la separazione tra l'evento scenico (quello cioè compiuto dagli attori) e l'evento partecipativo da parte degli spettatori. Un altro diverso esempio può essere "Orlando Furioso" di Luca Ronconi. Oggi Luca Ronconi ama dire (credo non senza una certa civetteria) che si è trattato di un incidente di percorso nella sua attività di regista, ma 1' Orlando rimane uno degli eventi teatrali epocali del 1968. E' uno spettacolo che riecheggia la festa rinascimentale e al tempo stesso contiene dentro di sé molti degli elementi che, come abbiamo accennato, sono presenti in uno happening. I carrelli, sopra i quali recitavano gli attori, correvano in mezzo alla folla, qualche volta incespicavano, si fermavano o si muovevano in maniera incontrollata (memorabile la rappresentazione nella piazza di Vigevano). La casualità dell'incontro dello spettatore con i carrelli, che percorrevano tutto lo spazio fittamente popolato, la frammentazione gioiosa dello scambio attori/pubblico, la solennità della festa, lo sforzo performantico degli attori aggrappati ai loro veicoli o pericolosamente in bilico su di essi, tutto questo era parte organica della rottura radicale di quel rapporto frontale che garantisce un prodotto che deve e vuole essere valutato sul piano della composizione estetica, a favore di un fatto che invece va vissuto come una festa e come un evento irripetibile, che segni in maniera irreversibile la vita di chi vi partecipa. Il discorso che ho incominciato a tessere è, a mio avviso, davvero cruciale per il nostro teatro. Se dovessi definire quello che accade in Italia, ma non solo in Italia, dalla fine degli anni 70 ad oggi, direi che prima di tutto abbiamo assistito e assistiamo a un progressivo scollamento degli uomini e dei cittadini da quello che a loro accade. Quello che nel sociale banalmente (e con una malcelata soddisfazione da parte di qualcuno) si chiamò negli anni ottanta "riflusso", che oggi si chiama disaffezione alla politica, nel teatro vede rinascere e celebrare trionfalmente una nuova frontalità , una testualità che torna alle dinamiche compositive del "plot", della tranche de vie, delle categorie del realismo addirittura minimale, delle categorie del rappresentativo, realizzando una messa in oblio non soltanto di 70 anni di pratica politica, ma anche di 70 anni di pratica artistica e scenica. Allo stesso modo nelle arti abbiamo visto in questi anni ritornare il figurativo, con un valore analogo, non perché l'arte figurativa sia in sé stessa frontale, ma perché la fruizione frontale dell'opera d'arte è quella che ha creato la nostra cultura museale. E' un'esperienza molto forte attraversare un museo messicano e paragonarlo a un museo romano o parigino. Andare al Louvre e andare al Museo di antropologia e di storia in Messico, sono due esperienze radicalmente diverse. Lo spazio espositivo del Louvre è dominato dalla frontalità dell'opera d'arte e dalla fruizione dell'opera d'arte come fatto estetico. Nel museo antropologico di Città del Messico, le opere d'arte sono contestualizzate in un percorso che le concepisce e le fa rivivere come testimonianza del comportamento umano, non a caso si chiama "museo nazionale di antropologia" e non "museo nazionale di archeologia" o di "arti plastiche". Un esempio. La Pietra della Luna, cioè la pietra su cui precipitavano i corpi degli uccisi dall'alto del Gran Teocalli è dal punto di vista estetico formale, un capolavoro assoluto e dal punto di vista tecnico e dal punto di vista della composizione. Questa figura femminile (perché indubitabilmente è una donna, sono molto marcati gli elementi sessuali che la caratterizzano in quanto tale) corre in circolo su se stessa, completamente snodata e allacciata a se stessa all'interno del cerchio gigantesco di pietra, presentifica il complesso simbolico del corso perenne della luna che rincorre se stessa nel suo movimento. Questo oggetto è presentato in modo che possa essere vissuto come parte di un comportamento generale della civiltà azteca, e non soltanto del suo livello artistico. Ben diverso è, sempre per esemplificare, come si vede la Gioconda al Louvre. O dovremmo dire piuttosto come non si vede? giacché nel parossismo della frontalità viene smarrito perfino il senso per cui la si costituisce. La Gioconda è forse oggi l'oggetto più frontale che esista ed è totalmente infruibile. E' esperienza drammatica che abbiamo fatto tutti quella di sfilare per 3 secondi davanti a qualcosa che non si vede e che potrebbe tranquillamente non esistere (una fotocopia?). Mentre al Louvre si celebra il rito della venerazione di un "genio" trasformato in feticcio, blindato in una frontalità forsennata, il museo antropologico di Città del Messico è un "percorso da fare" nell'uomo messicano. Ricorderò tra l'altro, che le sale sono disposte su due piani. Al piano inferiore sono disposte quelle che noi chiameremmo "testimonianze archeologiche" oppure "opere d'arte", articolate per civiltà: c'è il padiglione azteco, il padiglione tolteco, il padiglione maya, e così via. Al piano superiore, che corre parallelo, ci sono le testimonianze della vita quotidiana di quegli stessi popoli oggi. E' evidente che il teatrum del museo radicalmente diverso dal Louvre o dai fondamentale è spostato dalla fruizione individuale) di un'opera concepita come esclusivamente visivo e separato, certe antropologico di Città del Messico,è Musei capitolini. In esso il valore individuale (ed ecco l'ultima parola: un fatto estetico e, direi, pressoché volte in maniera drastica (oltre alla Gioconda, ricordate il cristallo blindato che ormai separa noi dalla Pietà di Michelangelo in San Pietro). Una separazione che riduce l'opera d'arte a uno "spettacolo", nel senso in cui usa questa parola Guy Debord, qualche cosa che è l'assoluta negazione della vita. Pensate invece alla possibilità di vivere in un rapporto organico con questo "oggetto" come un messaggio lanciato da una civiltà a un'altra civiltà. Non da un uomo a un altro uomo ma da una civiltà a un'altra civiltà, sostituite a ogni rappresentazione un rapporto di comunicazione. Ecco che ciò che è morto si trasforma in vita e non gratifica più la nostra vanità culturale, ma alimenta la nostra stessa vita quotidiana, la modifica e la arricchisce. La frontalità teatrale trova il suo culmine nel "buio in sala", dove la fruizione non soltanto è passiva ma individuale, dove lo spettatore perde la stessa nozione di essere parte di una collettività, parte di un comportamento culturale collettivo, che lo interpreta e che lui stesso interpreta. Non è un caso il fatto che tutto il lavoro delle avanguardie si proietti quindi verso il recupero di una sensorialità complessa, che rompe i rapporti finto sacrali condensati nel "l'opera d'arte non si tocca". Nel nostro teatro frontale, come nei nostri musei la distanza è d'obbligo. E ancora, cosa sono i nostri "siti archeologici" oggi, se non dei luoghi di spettacolo frontale? Impercorribili, inabitabili e inabitati. Mi è capitato tempo fa di avere un profondo senso di solitudine e un profondo senso di insonnia, quindi ho preso la macchina e mi sono messo a girare per Roma. Era tarda notte, le due o le tre, in questo percorso mi sono imbattuto -forse non del tutto casualmente- con una creatura che proveniva da un'altra zona della terra, dalla Nigeria. L'ho caricata in macchina e le ho detto "ma hai mai visto Roma?" e lei ha detto "no,mai." Abbiamo fatto il giro di Roma per due ore, nella notte. Passando davanti al Colosseo le ho detto "questo è il Colosseo, uno dei monumenti più importanti dell'impero romano!" e capivo che per lei "Impero romano" era una parola priva di senso. Ma è stata bellissima la sua domanda!: "chi ci abita?" e veramente non sapevo cosa rispondere!! "mah.. nessuno!" e lei mi guardava con una faccia come dire "come!?cosa ci sta a fare questa roba qui se non ci abita nessuno!" C'è una frase di Paracelo, nel "Coelum philosophorum", che è estremamente chiara anche per chi non si dedichi all'alchimia: domus enim semper mortua, inhabitans vivus. La casa, infatti, è sempre morta, colui che la abita è vivo. La frontalità finisce per popolare la nostra vita come il palcoscenico di larve che non esistono, che si proiettano su qualcuno che non esiste, e trasforma il teatro in un luogo di morte. Concludo con una ultima nota, fin troppo breve, specificamente dedicata all'attore. Il comportamento dell'attore, come è facile intuire, non può essere lo stesso, non è la stessa cosa la "recitazione" in un contesto che è dominato dalla frontalità, rispetto a contesti in cui la frontalità è abolita, oppure è modificata o alterata. Qui il problema delle tecniche diventa decisivo.Di quali tecniche stiamo parlando quando parliamo di tecniche? Di quali fondamentali dell'attore parliamo, quando parliamo di fondamentali dell'attore? Per quale macchina? Il palcoscenico e l'edificio teatrale all'italiana sono una macchina che esiste indipendentemente da chi la usa, viene prima, pre-forma contenuti e comportamenti, detta le condizioni del suo uso, come tutte le macchine. E come tutte le macchine tende a rappresentare il primato dell'inanimato sul primato del vivente, il quale è notoriamente caotico, aleatorio, stocastico e si definisce volta per volta in forme di composizione , ma mai si afferma in una forma che si irrigidisce, se non quando è cadavere.