I problemi della tutela delle minoranze nell`Unione Eruopea

1
Incontro del 5 maggio 2000 sul tema
“I problemi della tutela delle minoranze nell’Unione Eruopea”
(introdotto dal Prof. Sergio Lariccia)
(Resoconto redatto dai dott.ri Adele Magro e Giannalberto Mazzei)
Sergio PANUNZIO presenta l’incontro odierno dedicato ai problemi della tutela delle minoranze
nell’Unione Europea. Il tema sarà introdotto da Sergio Lariccia, cui Panunzio dà la parola.
Sergio LARICCIA dichiara di aver accolto con molto piacere la proposta di introdurre il Seminario odierno
sul tema della tutela delle minoranze nell’Unione europea: un argomento che è sempre stato al centro della
sua attenzione e della sua attività didattica e scientifica. Nel suo manuale di Diritto ecclesiastico, edito in
prima edizione nel lontano 1974, e poi ripubblicato in successive edizioni nel 1982 e nel 1986, è contenuta
un’affermazione nella quale egli ha sempre creduto: “Il trattamento riservato da uno stato alle
organizzazioni sociali di minoranza è il terreno più sicuro per misurare lo spirito democratico di un
ordinamento”.
Osserva che l'argomento della condizione giuridica delle minoranze in Europa è sempre stato di particolare
complessità e oggi assume anche una maggiore importanza rispetto al passato, perché esso è collegato ad
altri temi di grande rilievo per il futuro dell’umanità come sono quelli dell’autodeterminazione dei popoli,
della protezione dei diritti umani nelle società europee contemporanee, delle nuove concezioni della
cittadinanza, o meglio delle diverse forme di cittadinanza, e delle possibili garanzie affidate a una
costituzione europea.
Ritiene però opportuno svolgere al riguardo alcune precisazioni preliminari.
L'esigenza di garantire una tutela nei confronti delle minoranze non è un problema soltanto europeo, è un
problema mondiale: ma è in Europa che la questione delle minoranze si è posta in modo particolarmente
acuto; ed è in Europa che il tema delle minoranze ha posto, nel periodo più recente, dei problemi di
grandissima attualità: è sufficiente ricordare il caso della Jugoslavia.
Il tema delle minoranze è materia in primo luogo di accertamento in quanto fenomeno della realtà sociale,
e, successivamente, soltanto successivamente, di qualificazione giuridica. Ove il problema lo si affronti dal
punto di vista giuridico, non è certamente indifferente la caratterizzazione ideologica dello Stato che
prevede una determinata disciplina normativa; tale caratterizzazione ideologica ha trovato la sua
realizzazione giuridicamente e istituzionalmente più stabile nella forma di Stato ispirata al modello del
costituzionalismo liberal-democratico classico.
Com’è noto il problema della tutela delle minoranze viene esaminato sotto vari profili. È infatti evidente
che se si definisce “minoranza” un gruppo di persone che si distinguono per qualche aspetto da tutti gli altri,
“in questa accezione il concetto di minoranza è infinito, perché infiniti sono i possibili elementi di
distinzione: si può appartenere a una minoranza in quanto uomo o in quanto donna, in quanto religioso o in
quanto ateo, in quanto analfabeta o in quanto laureato”
Anche se, dal punto di vista giuridico, assumono rilievo tutti i gruppi minoritari ai quali l'ordinamento
riserva un trattamento speciale, di favore o di sfavore, di solito, tuttavia, con il termine “minoranza” ci si
riferisce per lo più a gruppi di persone caratterizzati da una razza, da una lingua, da una religione, da una
etnia, che sono diverse rispetto a quelle prevalenti nella comunità statale di appartenenza.
Non vi è dubbio, osserva Lariccia, che la tutela dei diritti delle minoranze è uno degli aspetti significativi
del programma globale relativo alla protezione dei diritti umani nel mondo; ed è un problema che
presuppone la consapevolezza dell’importanza che assume la difesa delle identità e delle diversità per la
costruzione di società democratiche e pluraliste.
Nella nostra Costituzione c’è una disposizione che fa riferimento a questo obiettivo, quella dell’art. 8,
comma 3, nella quale è stabilito il principio della libertà delle confessioni religiose “diverse dalla cattolica”
di organizzarsi secondo i propri statuti. Questo obiettivo di valorizzazione della diversa identità di un
gruppo sociale rispetto agli altri esistenti nella società - un elemento che nella Carta costituzionale italiana
riguarda espressamente le sole minoranze religiose, poiché solo nei confronti di queste ultime si fa esplicito
riferimento all'elemento della “diversità” rispetto al culto cattolico prevalente in Italia - assume una grande
importanza per il problema della protezione di tutte le minoranze: quelle nazionali, etniche, culturali o
linguistiche. Queste ultime, le minoranze linguistiche, sono invece le uniche minoranze che nella
Costituzione del 1948 siano espressamente qualificate come tali, nella disposizione dell'art. 6, che impegna
la Repubblica a tutelarle con apposite norme.
Lariccia ricorda che l'ambito di protezione dei diritti umani nei vari sistemi nazionali tende a divenire
sempre più vasto. Esso comprende le c.d. libertà civili, i diritti politici e quelli economici, sociali e culturali,
i diritti delle minoranze e dei popoli (si pensi all'importanza che assume il problema, purtroppo di attualità
2
anche ai nostri giorni, della questione razziale nei vari paesi: in Italia, con la legge 25 giugno 1993, n. 205,
sono state adottate misure urgenti in materia di “discriminazione razziale, etnica e religiosa”), il diritto alla
pace (per l'ordinamento italiano assumono grande importanza le disposizioni costituzionali degli artt. 10 e
11 cost.), il diritto all'ambiente, concepito come diritto alla qualità della vita gradevole (per l'Italia, cfr. artt.
9 e 32 cost.), il diritto allo sviluppo della persona e dei popoli (cfr. in proposito la risoluzione generale
dell'assemblea generale delle Nazioni Unite del 4 dicembre 1986), il diritto al patrimonio comune
dell'umanità (diritto al patrimonio comune spaziale, marittimo, naturale e culturale: una convenzione
dell'Unesco del 23 novembre 1972 attribuisce alla “comunità internazionale” il compito di conservazione
di tale patrimonio), il diritto all'autonomo sviluppo dei bambini (l'art. 44 della convenzione di New York
del 1989 chiedeva agli stati aderenti di consegnare entro due anni un “rapporto sulle misure da essi adottate
per applicare i diritti riconosciuti [ ... ] e sui progressi compiuti nella realizzazione di tali diritti”, indicando
“i fattori e le eventuali difficoltà che impediscano di assolvere pienamente gli obblighi”), il diritto alla
libertà informatica, dopo che l'informatica è divenuto simbolo emblematico della nostra cultura.
La questione dei diritti delle minoranze rientra nella valutazione del più generale problema della protezione
dei diritti umani, ma assume un suo specifico rilievo. Gli eventi della storia europea, in particolare, hanno
dimostrato che la protezione delle varie e numerose forme di minoranza esistenti nei diversi paesi d’Europa
è essenziale alla stabilità, alla sicurezza democratica e alla pace nel continente europeo: questa
affermazione si legge nel preambolo della convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali,
approvata dal Consiglio d'Europa il 1° novembre 1995.
Lariccia prosegue col precisare che si può parlare di una protezione internazionale, sovranazionale e
nazionale delle minoranze. In questa sede il problema viene considerato con riferimento alla situazione
europea, e tuttavia saranno talora inevitabili alcuni richiami alla situazione rilevante sotto i diversi punti di
vista della protezione internazionale e nazionale.
Ritiene necessaria una premessa: la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo non contiene alcun
specifico riferimento ai diritti delle minoranze. La questione era stata dibattuta dall'Assemblea delle
Nazioni unite, ma la consapevolezza di quanto fosse complesso tale problema aveva consigliato di non
affrontare il tema; anche perché si era ritenuto che la protezione universale dell'uomo, della persona umana
in quanto tale, escludesse di conseguenza qualunque altra protezione di gruppi o di categorie e potesse
sostituirsi alla protezione delle minoranze annullandone ogni specifica esigenza: era infatti prevalsa la tesi,
sostenuta dagli Stati Uniti, secondo la quale la protezione delle minoranze non fosse altro che un problema
di protezione dei diritti dell'uomo e che l'eliminazione dell'oppressione dell'uomo avrebbe portato
necessariamente alla eliminazione dell'oppressione collettiva. Il rispetto dei diritti della persona umana e
dell'obbligo di non discriminazione avrebbe comportato la soluzione del problema delle minoranze: “se si
rispettano i diritti individuali dell'uomo - aveva sostenuto la signora Roosevelt alla Commissione dell'ONU
-, non vi sarà bisogno di proclamare i diritti delle minoranze”.
Nello statuto dell'ONU, il cui preambolo dichiara l'impegno dei popoli delle Nazioni Unite a proclamare “ ...
la fede nei diritti fondamentali dell'uomo nella dignità e nel valore della persona umana”, e nella
Dichiarazione universale adottata il 10 dicembre 1948, non figura alcun riferimento ai diritti delle persone
appartenenti a minoranze etniche, linguistiche o religiose, anche se nella risoluzione n. 217 c (III), adottata
nella stessa data, l'Assemblea generale dichiarava che le Nazioni Unite non intendevano restare indifferenti
alla sorte delle minoranze, ma aggiungeva che era difficile adottare una soluzione uniforme di questa
complessa questione che presentava aspetti specifici per ciascuno Stato nel cui contesto si trovavano le
minoranze.
Venne però istituita un'apposita sottocommissione per la prevenzione delle discriminazioni e la tutela delle
minoranze: ed è proprio a tale sottocommissione che si deve quello che sarà l'art. 27 del Patto
internazionale sui Diritti civili e politici, adottato dalle Nazioni Unite il 19 dicembre 1966, che contiene
un'esplicita norma a tutela delle minoranze, prevedendo che “In quegli Stati in cui esistono minoranze
etniche, religiose e linguistiche, agli appartenenti a queste minoranze non sarà negato il diritto di fruire, in
comunità con gli altri componenti del loro gruppo, della loro propria cultura, di professare e praticare la
propria religione, di usare la propria lingua”: quindi c u l t u r a , r e l i g i o n e , l i n g u a . La
disposizione non fornisce alcun criterio per una definizione delle espressioni utilizzate e la ragione di tale
omissione, come è stato precisato dalla dottrina che ha considerato tale disposizione, deve individuarsi
nella esigenza politica intesa a evitare che attraverso l'attribuzione di diritti “collettivi” alle minoranze si
potessero creare o alimentare antagonismi tra gruppi (in proposito occorre ricordare che l'art. 8.4. della
Dichiarazione dell'Onu manifesta espressamente “il timore che una politica di favore per i gruppi minoritari
possa suggerire aspirazioni secessionistiche o attentati all'esistenza e all'unità degli Stati”); l'orientamento
dell'ONU deve valutarsi tenendo presente la logica che presiede a un sistema di protezione di diritti della
persona umana, nel quale i soggetti beneficiari della protezione sono gli individui piuttosto che i gruppi.
A questo proposito Lariccia ritiene opportuno ricordare l'esperienza che si è avuta in Italia con riferimento
all'art. 2 della nostra costituzione, nella quale sono previsti il riconoscimento e la garanzia dei diritti
3
inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali nelle quali si svolge la sua personalità.
Tale disposizione che, interpretata letteralmente, non comporta un riconoscimento e una garanzia anche
delle formazioni sociali nelle quali si sviluppa la personalità individuale - e tra le formazioni sociali
rientrano le varie forme di gruppi minoritari - è stata tuttavia ben presto interpretata dalla dottrina e dalla
giurisprudenza nel senso di una disposizione posta a garanzia anche delle formazioni sociali.
Tornando al tema della protezione internazionale delle minoranze, Lariccia ricorda che nel 1971 la
sotto-commissione per la lotta contro le misure discriminatorie e per la protezione delle minoranze incaricò
il prof. Francesco Capotorti di redigere un rapporto sullo stato concreto delle situazioni alle quali si riferiva
la citata disposizione dell'art. 27 del Patto internazionale dei diritti civili e politici: sulla base di tale
rapporto si perverrà nel 1992 all'approvazione della Dichiarazione sui diritti delle persone appartenenti
alle minoranze nazionali o etniche, religiose e linguistiche. Con riferimento a tale rapporto, è da ricordare
che, secondo Capotorti, il concetto di “non-discriminazione” va distinto da quello di “protezione delle
minoranze”, nel senso che il primo implica la garanzia formale dell'uniformità di trattamento di tutti gli
individui ai quali spettano i medesimi diritti e i medesimi doveri, mentre il secondo, quello relativo alla
protezione delle minoranze, implica l'adozione di misure speciali a favore dei membri delle minoranze al
fine di permettere loro di conservare le loro caratteristiche (“discriminazione positiva”).
Prima di prendere in esame le posizioni emerse nella politica europea negli anni più recenti, Lariccia ritiene
necessario soffermarsi sull'analisi del significato che può attribuirsi, per la tutela delle minoranze, alla
disposizione contenuta nell'art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
Gia nella prima sessione del 1949, dedicata al progetto di convenzione europea dei diritti dell'uomo, il
Consiglio d'Europa ritenne importante affrontare il tema delle minoranze nazionali. Alla relazione
presentata all'assemblea consultiva (doc. n. 77 del 1949) dalla commissione per le questioni giuridiche era
allegato un progetto di risoluzione nel quale si raccomandava che il progetto della Convenzione contenesse
una disposizione volta a escludere qualsiasi discriminazione fondata sull'appartenenza a una minoranza
nazionale. L’Assemblea richiamava anche l'attenzione del Comitato dei Ministri sull'esigenza di una più
ampia protezione dei diritti delle minoranze; il testo definitivo della convenzione si limiterà tuttavia a
garantire, nell'art. 14, il divieto di ogni forma di discriminazione, fondata fra l'altro sull'appartenenza a una
minoranza.
La Convenzione stabilisce infatti nell'art. 14 che il godimento dei diritti e delle libertà riconosciute nella
Convenzione medesima deve essere assicurato senza alcuna distinzione ( nel testo inglese si usa invece
l'espressione w i t h o u t d i s c r i m i n a t i o n ) di sesso, razza, colore, lingua, religione, opinioni
politiche o di altra natura, origine nazionale o sociale, fortuna o nascita, appartenenza a una minoranza.
Un'ulteriore garanzia a tutela di eventuali distinzioni è individuabile nella versione consolidata del Trattato
che istituisce la Comunità europea, il cui art. 13 (ex art. 6 A) prevede che, fatte salve le altre disposizioni del
Trattato medesimo e nell'ambito delle competenze da esso conferite alla Comunità, “il Consiglio,
deliberando all'unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo,
può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o
l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'età e le tendenze sessuali”. L'art. F del
Trattato sull'Unione europea del 7 febbraio 1992 stabilisce, nel paragrafo 2, che l'Unione europea rispetta
tutti i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea del 1950, come risultano dalla tradizione
costituzionale degli Stati membri, in quanto assurgano a principi generali di diritto comunitario.
A proposito dell'art. 14 della CEDU, osserva Lariccia, è necessario però ricordare che, secondo un'opinione
ormai consolidata nella dottrina e nella giurisprudenza, l'art. 14 della Convenzione europea dei diritti
dell'uomo, nel prevedere un “divieto di discriminazione”, non garantisce un diritto indipendente e
autonomo rispetto alle altre garanzie contemplate nella Convenzione, in quanto tale divieto deve
interpretarsi in collegamento con il godimento dei diritti e delle libertà previsti e garantiti nella prima parte
della Convenzione stessa: è questa un'affermazione pacifica in giurisprudenza, anche se può senz'altro
ritenersi che nel corso degli anni si sia allargato l'ambito di applicazione dell'art. 14 e si sia invece allentato
il rapporto di accessorietà che lega l'art. 14 ai diritti “sostanziali” riconosciuti dalla Convenzione. Tale
accessorietà, occorre ricordare, non significa che la tutela prevista dall'art. 14 sussista solo quando vi sia
una contemporanea lesione di un diritto sostanziale garantito nella prima parte della Convenzione; è vero
anzi il contrario, in quanto, come ha stabilito la Corte in una decisione del 1979, “Se la Corte non individua
una violazione autonoma di uno degli articoli che sono stati invocati o autonomamente o in combinazione
con l'art. 14, essa deve esaminare il caso anche in relazione all'art. 14. D'altra parte, tale esame in genere
non è richiesto quando la Corte individua una violazione dell'articolo precedente preso da solo” (Corte, 9
ottobre 1979, “Airey c. Irlanda”, Serie A, n. 32).
I criteri accolti nell'interpretazione dell'art. 14 sono stati fissati dalla Corte in una prima decisione che risale
al 1968 e che riguardava il caso del regime linguistico dell'insegnamento in Belgio (Corte, 23 luglio 1968,
“Regime linguistique de l'enseignement en Belgique”, Serie A, n. 6); in tale decisione si precisava:
- che l'art. 14 non ha un'applicazione indipendente, ma, come s'è detto, vale solo in relazione ai diritti e alle
4
libertà della sezione I della Convenzione;
- che l'art. 14 va interpretato nel senso più preciso in cui è espresso nel testo inglese della Convenzione
(“without discrimination”), anziché nella versione meno vincolante del testo francese (“sans distinction
aucune”) (ma vi sono anche autori che ritengono, invece, più rigorosa e stringente l'espressione del testo
francese);
- che la differenza di trattamento diventa “discriminazione”, con conseguente violazione dell'art. 14,
quando la distinzione non ha una giustificazione obiettiva e ragionevole;
- che l'art. 14 risulta violato quando manchi una ragionevole relazione di proporzionalità tra i mezzi
impiegati e il fine perseguito.
La Convenzione europea dei diritti dell'uomo del 1950 non contiene dunque alcun principio di protezione
delle minoranze, sia perché la disposizione che contempla il divieto di discriminazioni (art. 14) non
rappresenta la fonte di un diritto indipendente e autonomo, sia perché è senz'altro da condividere l'opinione
già ricordata, autorevolmente sostenuta da Capotorti, che divieto di discriminazione non significa tutela
delle minoranze, la quale richiede anzi, per potersi pienamente realizzare, alcune forme di “discriminazioni
positive”.
Dopo l'entrata in vigore della Convenzione, il problema della protezione delle minoranze venne ripreso
dall'Assemblea. Nella Risoluzione n. 136 del 29 ottobre 1957, adottata sulla base di un rapporto della
Commissione per le questioni giuridiche sulla situazione delle minoranze nei vari paesi membri, pur
constatando che l'art. 14 della Convenzione garantisce in forma adeguata gli individui appartenenti a
minoranze nazionali, l'Assemblea ribadisce tuttavia l'esigenza di concedere alle minoranze “ ... il
soddisfacimento dei loro interessi collettivi nella misura compatibile con la salvaguardia degli interessi
essenziali dello Stato al quale esse appartengono”. Tale auspicio non trovò tuttavia alcun seguito nel
Comitato dei ministri. Così come non ebbero alcun seguito, per un lungo periodo, altre iniziative intese a
individuare l'esistenza di diritti propri delle minoranze nazionali e l'esigenza di una loro specifica tutela
[cfr. soprattutto il rapporto sulle minoranze nazionali in Europa del 1959 (doc. n. 1002 del 30 febbraio
1959), la Raccomandazione n. 213 del 17 settembre 1959, il Rapporto Lannung dell'Assemblea (doc. n.
1299 del 26 aprile 1961), la Risoluzione del Comitato dei ministri n. 15 del 25 maggio 1961].
Lariccia prosegue sostenendo che gli ordinamenti costituzionali dell’Europa occidentale non offrono
modelli consolidati e univoci di tutela nei confronti delle minoranze ed è questa una delle ragioni per la
quale per molti anni è risultata assai carente la disciplina riguardante la protezione delle minoranze.
Tuttavia, pur mancando un idem sentire europeo in materia di tutela minoritaria, si è ben presto avvertita,
soprattutto dopo i noti eventi dell’anno 1989, la consapevolezza di quali rischi comportasse, per la pace e la
sicurezza in Europa, la difficoltà di trovare idonee soluzioni per il problema della protezione dei gruppi
minoritari nei diversi paesi del continente europeo. Già nell'Atto finale di Helsinky del 1975 veniva
riconosciuta, sia pure nella logica dell'inviolabilità delle frontiere e dell'integrità territoriale degli Stati, una
tutela alle persone appartenenti alle minoranze nazionali. Il VII principio del Decalogo dichiarava: “Gli
Stati partecipanti nel cui territorio esistono minoranze nazionali rispettano il diritto delle persone
appartenenti a tali minoranze all'uguaglianza di fronte alla legge, offrono loro la piena possibilità di godere
effettivamente dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e, in tal modo, proteggono i loro legittimi
interessi in questo campo”.
Nella Carta di Parigi per una nuova Europa, approvata dalla Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione
in Europa (CSCE) il 21 novembre 1990, viene ripresa la formula con la quale veniva contemplata la
protezione nei confronti delle minoranze dall'art. 27 del Patto internazionale sui Diritti civili e politici. Nel
quadro dei diritti dell'uomo, della democrazia e dello Stato di diritto, la Carta di Parigi afferma infatti che
l'identità etnica, culturale, linguistica e religiosa delle minoranze nazionali sarà protetta e che le persone
appartenenti a tali minoranze hanno il diritto di esprimersi, di preservare e sviluppare la loro identità senza
alcuna discriminazione e in piena eguaglianza di fronte alla legge.
Nel Documento approvato nel giugno 1990 nella riunione di Copenhagen sulla Dimensione umana della
Conferenza, gli Stati membri della Conferenza stessa si impegnano a migliorare la situazione delle
minoranze, riconoscendone il contributo prezioso per la vita delle loro società. Si afferma che le questioni
relative alle minoranze nazionali possono essere risolte solo in un quadro politico democratico, basato sullo
Stato di diritto, e che il rispetto dei diritti delle persone appartenenti alle minoranze nazionali è un fattore
essenziale per la pace, la stabilità e la democrazia degli Stati. La tutela dei diritti delle persone appartenenti
alle minoranze non può essere considerata un affare puramente interno degli Stati, poiché il loro rispetto è
imposto dall'inclusione di tali diritti nell'ambito dei diritti universali dell'uomo. Un altro importante
documento viene approvato nell’apposita riunione di esperti convocata a Ginevra nel luglio 1991.
Con il documento conclusivo della riunione di Helsinky del 1992 si decide di istituire l'Alto Commissario
per le minoranze nazionali, con il compito di individuare le aree di crisi che coinvolgono minoranze
etniche, attraverso consultazioni politiche al fine di prevenire conflitti suscettibili di pregiudicare la pace e
la sicurezza internazionale e indicare le più opportune soluzioni. Tale attività si svolge attraverso
5
raccomandazioni e pareri non vincolanti per i governi ma significativi a livello politico.
Non è dunque mancata, nel corso degli anni, secondo Lariccia, l’elaborazione di importanti documenti
riguardanti il problema della protezione a livello europeo delle minoranze nazionali esistenti nei diversi
paesi d'Europa, ma si è trattato di documenti impegnativi più sul piano politico che su quello giuridico,
cosicché la responsabilità per un intervento più risolutivo è spettata al Consiglio d’Europa, sulla base di una
consolidata tradizione nella protezione dei valori di libertà e di democrazia.
Com'è noto, fanno parte del Consiglio d'Europa gli Stati membri della Comunità europea e dell'Europa
occidentale e orientale: Lariccia richiama lo scopo del Consiglio d'Europa, che è quello di “conseguire una
più stretta unione fra i suoi membri per salvaguardare e promuovere gli ideali e i principi che costituiscono
il loro comune patrimonio e di favorire il loro progresso economico e sociale” (art. 1 del Trattato istitutivo),
attraverso la predisposizione di convenzioni relative al diritto internazionale, alla procedura penale e ai
diritti umani sia economici che sociali, sia civili che politici.
Su iniziativa del Consiglio d'Europa, nel luglio 1992 il Consiglio dei ministri a Strasburgo approva, nella
forma di una convenzione, la Carta europea delle lingue regionali e minoritarie, che attribuisce alle
minoranze il diritto all'utilizzazione della propria lingua nei settori della giustizia, dell'amministrazione, dei
servizi pubblici, dei media, delle attività culturali, della vita economica e sociale e degli scambi
transfrontalieri. Trattandosi di una Convenzione, occorre naturalmente che i paesi membri del Consiglio
d'Europa la approvino e la ratifichino: finora la convenzione non è stata approvata e ratificata da molti
paesi, come, ad esempio, l'Italia e la Francia.
A proposito delle minoranze linguistiche, Lariccia ritiene opportuno ricordare in questa sede che, dopo un
lungo iter parlamentare che ha avuto inizio sin dall'ottava legislatura, è stata recentemente approvata dal
Parlamento italiano la legge 15 dicembre 1999, n. 482, che prevede uno statuto giuridico modulabile a cura
dei poteri locali e rivolto a tutte le minoranze linguistiche espressamente enumerate. L'art. 2 della legge
impegna la Repubblica a tutelare la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche,
greche, slovene, croate e delle popolazioni che parlano il francese, il franco-provenzale, il friulano, il
ladino, l'occitano e il sardo. Il legislatore ha ritenuto opportuno legare il tema della identità linguistica e
culturale a quello del decentramento territoriale (art. 3), individuando nel Consiglio provinciale il soggetto
incaricato di provvedere ad adottare le misure di protezione, previo parere dei Comuni interessati.
Perplessità suscita la scomparsa delle popolazioni zingare dal novero delle comunità minoritarie meritevoli
di protezione.
Si tratta di una legge attuativa di un principio fondamentale della Costituzione (art. 6), coerente con le
indicazioni fornite dalla giurisprudenza costituzionale. Con riferimento al tema oggetto dell'esame odierno,
Lariccia ricorda che la valorizzazione delle lingue e culture ammesse a tutela anche al di là dei confini
nazionali nei territori in cui sono diffuse e a condizione di reciprocità (art. 19) è coerente con il principio,
già sancito dal Consiglio d'Europa nell'art. 18, comma 2 della Convenzione quadro per la protezione delle
minoranze nazionali, che riconosce nella promozione della cooperazione transfrontaliera e interregionale e
nella stipulazione di intese con Stati esteri, ove sono stanziate comunità di lingua italiana, lo strumento più
idoneo a rafforzare i vincoli comuni e a preservare le rispettive identità linguistiche e culturali dal rischio
della assimilazione alle culture maggioritarie (art. 19, comma 2).
Tuttavia, per quanto riguarda le lingue alloglotte d'Italia, cui ha inteso provvedere la recente legge n. 482
del 1999, occorre riflettere sui pericoli di una ghettizzazione in un campanilismo fuori della storia (il “natio
borgo selvaggio”); e sono giustificate alcune domande in proposito: esistono grammatiche d'uso di quelle
lingue? Vi sono persone in grado di insegnarle agli scolari? Esiste, per ognuna di queste lingue, una varietà
generalmente riconosciuta come modello da tutti i parlanti?
Come già rilevato, la Carta europea delle lingue regionali e minoritarie del 1992 non è stata ancora
sottoscritta e ratificata da parte dei Governi dell'Italia e della Francia: con riferimento alla Francia va anzi
ricordato l'atteggiamento tradizionalmente negativo delle autorità francesi nei confronti delle situazioni
linguistiche minoritarie, ribadito dalla recente decisione n. 99-412 del 15 giugno 1999, con la quale il
Consiglio di Stato francese, su ricorso del Capo dello Stato, ha giudicato non conforme alla Costituzione la
ratifica della Carta europea delle lingue regionali e minoritarie, le cui disposizioni si porrebbero in
contrasto con i principi della indivisibilità della Repubblica, di eguaglianza e di unità del popolo francese
(art. 1), nonché con la proclamazione del carattere ufficiale della lingua francese.
Passando ad esaminare l'azione del Consiglio d'Europa negli anni più recenti, Lariccia fa presente che è
stato soprattutto dopo il 1989 che il problema della protezione delle minoranze europee è apparso urgente
per il programma di costruzione di una sempre più estesa e sviluppata società democratica in Europa.
Nei due anni 1992 e 1993 il Consiglio d’Europa si era impegnato nell’individuare il tipo di strumento
internazionale idoneo ad assicurare un intervento efficace nel campo della tutela minoritaria. Si trattava in
definitiva di individuare una soluzione delle controversie in atto, o almeno di quelle non ancora degenerate
in conflitti armati. Il tema delle minoranze venne trattato nella riunione, svoltasi a Lugano nel giugno 1993,
del Consiglio dei Ministri della Giustizia dei Paesi del Consiglio d'Europa, nella quale si auspicava che la
6
protezione delle minoranze non portasse a un'eccessiva frantumazione, non favorisse l'etnocentrismo e si
sviluppasse in armonia con le costituzioni degli Stati interessati.
Il lavoro di approfondimento della questione riguardante la protezione delle minoranze si concluse nel
vertice dei capi di Stato e di governo dei paesi membri del Consiglio d’Europa tenutosi a Vienna
nell’ottobre 1993, nel quale si sottolineò il principio di eguaglianza e non discriminazione fra le diverse
comunità linguistiche, culturali, religiose ed etniche in uno stesso territorio e venne da tutti condivisa la
consapevolezza del legame intercorrente fra la protezione delle minoranze nazionali e la stabilità e la
sicurezza democratica nel nostro continente.
Il 1° novembre 1995 il Consiglio d'Europa ha approvato la Convenzione quadro per la protezione delle
minoranze nazionali, nella quale si attribuisce ai membri delle minoranze nazionali, accanto ai diritti
individuali fondamentali in regime di eguaglianza con gli altri cittadini dello Stato, anche alcuni diritti
“speciali”. Tra questi, il diritto a un'identità distinta, il diritto di creare e gestire le proprie istituzioni
religiose, organizzazioni, associazioni, strutture private di insegnamento e di formazione; il diritto di
ricevere o comunicare informazioni o idee nella lingua minoritaria senza ingerenza delle autorità pubbliche
e senza considerazioni di frontiera; il diritto a non essere discriminate nei media; il diritto a utilizzare la
propria lingua e il proprio nome; il diritto a esporre in pubblico insegne o altre informazioni private nella
lingua minoritaria; il diritto a stabilire e mantenere relazioni con persone dello stesso gruppo oltre frontiera.
Inoltre, nelle regioni densamente popolate da una minoranza, gli Stati dovranno impegnarsi, nei limiti del
possibile, a esporre denominazioni tradizionali o indicazioni topografiche nella lingua minoritaria e a dare
ai membri delle minoranze la possibilità di ricevere un’istruzione in tale lingua o quanto meno di impararla.
A questo punto, Lariccia osserva che se il problema del trattamento riservato alle minoranze c.d. “storiche”
è esaminato in un complesso di documenti elaborati in un lunghissimo periodo, più recente è l'attenzione
dedicata a quelle che possono definirsi le “nuove” minoranze. Con tale espressione si definiscono i nuovi
gruppi di minoranza che risiedono, spesso da più generazioni, sul territorio di uno Stato, la cui tutela pone
problemi di non facile soluzione. Anche a tale proposito occorre rilevare che vi sono forme di protezione
che si rivolgono assai spesso ai singoli individui e che solo indirettamente si rivolgono ai gruppi di
minoranza in quanto tali: questa constatazione può farsi con riferimento:
- al rispetto delle convinzioni religiose (art. 9 CEDU), in presenza della molteplicità delle confessioni
religiosi presenti nelle società europee contemporanee;
- al diritto alla libertà di espressione e alla corrispondente garanzia di un'eventuale differenza linguistica nei
confronti di minoranze residenti nel territorio di uno Stato;
- alla protezione delle minoranze consistente eventualmente nel reprimere manifestazioni di intolleranza o
la diffusione di opinioni estremiste di carattere xenofobo (art. 10 CEDU).
Un problema interessante è stato esaminato nel 1978 dalla Commissione europea nell'esame di due ricorsi
da parte di due cittadini olandesi, i quali erano stati condannati per avere diffuso volantini nei quali si
propugnava una politica di espulsione massiccia degli stranieri dai Paesi Bassi, e in particolare di tutti gli
stranieri che non fossero di razza bianca. La Commissione ha respinto il ricorso, in applicazione dell'art. 17
della CEDU, che pone un limite invalicabile all'esercizio dei diritti e delle libertà, ove tale esercizio sia
suscettibile di mettere in pericolo i diritti e le libertà di tutta la popolazione, e dell'art. 3 del quarto
Protocollo CEDU, che vieta le espulsioni collettive di stranieri. La Commissione ha ritenuto che la politica
auspicata nei volantini conteneva elementi di discriminazione razziale contraria alla Convenzione e che se
le autorità olandesi avessero tollerato la diffusione di tali idee avrebbero incoraggiato tale discriminazione
Questioni di difficile soluzione pone la protezione degli stranieri e dunque indirettamente dei gruppi ai
quali essi appartengono, che in determinate circostanze può essere sviluppata con riferimento al diritto di
asilo politico e al rispetto della vita privata. L'allontanamento di uno straniero può sollevare problemi sotto
il profilo dell'art. 3 della CEDU, ove sussistano seri motivi che inducano a ritenere che lo straniero possa
essere sottoposto nel paese di destinazione a trattamenti vietati dallo stesso articolo, e dell'art. 8 della CEDU,
che prevede il rispetto della vita privata e familiare.
È certo comunque che dalla lettura di molti documenti europei e dei numerosissimi commenti dedicati alla
loro interpretazione appare evidente che, soprattutto negli anni più recenti, il problema della tutela delle
minoranze si collega alla questione della politica europea nei confronti degli stranieri, con particolare
riferimento alla condizione da riconoscere nei riguardi degli stranieri extracomunitari.
Non mancano gli strumenti legislativi volti a realizzare una politica concertata fra i Governi dei vari paesi
europei. Dall'estate del 1999 è in vigore il Trattato di Amsterdam su diritti di asilo e immigrazione, ma
ciascun paese segue le proprie piccole opportunità: la Gran Bretagna non ha firmato il Trattato di Schengen,
e il Belgio, che lo aveva firmato, ne è uscito nel gennaio 2000. La bibliografia che riguarda la condizione
dello straniero nei vari paesi d’Europa è veramente sconfinata ed assume grande interesse per lo studioso
del problema della protezione delle minoranze, anche perché essa riguarda i temi, ampiamente discussi
anche in questo Seminario, della cittadinanza europea, della doppia cittadinanza e della c.d. cittadinanza
“senza nazione” e del significato da attribuire alla costituzione europea e alla formazione di una vera e
7
propria cultura europea.
Occorre però subito precisare, secondo Lariccia, che se si volesse utilizzare la nozione tradizionalmente
accolta dagli internazionalisti, sulla base dello studio già ricordato di Francesco Capotorti, la protezione nei
confronti delle minoranze dovrebbe escludere gli stranieri; infatti, secondo la nota definizione di Capotorti,
minoranza è “un gruppo numericamente inferiore al resto della popolazione di uno Stato, in posizione non
dominante, i cui membri – essendo di nazionalità dello Stato – possiedono caratteristiche etniche, religiose
o linguistiche che differiscono da quelle del resto della popolazione, e mostrano, anche solo implicitamente,
un senso di solidarietà, diretta a preservare la loro cultura, tradizioni, religione o lingua”.
Questa definizione perfeziona e sviluppa il concetto tradizionale di minoranza, che Mario Toscano, autore
di un’importante monografia sulla protezione delle minoranze edita nel 1931, identificava come “quella
parte della popolazione permanente di uno Stato che, legata da tradizioni storiche ad una porzione
determinata del territorio, e fornita di una cultura propria, non può essere confusa colla maggioranza degli
altri sudditi, a causa della diversità della razza, della lingua o della religione”.
Se è vero che la nozione tradizionale di minoranza riguarda i gruppi i cui membri in quanto “cittadini”
hanno la nazionalità di un determinato Stato, occorre però dire che sono sempre più numerosi e convincenti
i tentativi volti a comprendere nell’ambito della protezione garantita nei confronti delle minoranze una
serie di gruppi sociali che meritano tutela, pur essendo costituiti da individui “stranieri”: in proposito
occorre richiamare l'attenzione su un graduale ma sicuro superamento della concezione tendente a
escludere gli stranieri dall’ambito di tutela tradizionale riguardante le minoranze.
Sebbene gli atti internazionali e soprattutto le convenzione di recente emanate si riferiscano essenzialmente
alle minoranze c.d. tradizionali, da tempo si è aperto un importante dibattito nel quale è emersa la tendenza
a estendere alcune forme di tutela previste nei confronti delle minoranze c.d. “storiche” o “autoctone”
anche alle minoranze c.d. “nuove”.
Per quanto riguarda il trattamento giuridico degli stranieri nei paesi d’Europa, è noto che in Italia è
intervenuta a regolare la materia la legge 6 marzo 1998, n. 40, contenente la Disciplina dell’immigrazione e
norme sulla condizione dello straniero. Tale disciplina si presenta di particolare complessità per quanto
riguarda sia la sua interpretazione che la sua applicazione, se si considera che essa comprende disposizioni
su molti problemi di difficile valutazione come sono quelli dell’ingresso, del soggiorno e
dell’allontanamento dal territorio dello Stato, della disciplina sul lavoro, del diritto all’unità familiare e
della tutela dei minori, delle norme in materia sanitaria, dell’istruzione, dell’alloggio, della partecipazione
alla vita pubblica e dell’integrazione sociale: tutti temi sui quali vi è un dibattito politico assai vivo.
Lariccia ricorda che il problema delle minoranze richiede la valutazione di una questione che sta ponendo
molti e complessi problemi alle società dell'Europa occidentale, intendendo con ciò riferirsi ai problemi
derivanti dalla crescente presenza dei musulmani in Europa, che presuppone la necessità di decidere quali
siano le forme di accoglienza da prevedere, in Stati laici e in società di tradizione cristiana, nei confronti di
gruppi che non sempre accettano i principi di laicità e di separazione tra lo Stato e le chiese, e hanno
valutazioni diverse rispetto alle nostre circa la distinzione, fondamentale negli stati democratici
contemporanei, tra le sfere del sacro e del profano. In queste condizioni si pone la domanda se sia possibile
instaurare con l'Islam relazioni pattizie simili a quelle che riguardano i rapporti tra lo Stato e le altre
confessioni religiose, o se sia preferibile ricercare altre soluzioni idonee a disciplinare i diritti religiosi e
culturali delle minoranze islamiche.
Nel dicembre 1997 Lariccia ebbe occasione di partecipare in Spagna, insieme ad altri cinque colleghi
italiani e a tre colleghi spagnoli, a una riunione organizzata dalla Direzione Generale degli Affari religiosi
del Ministero della Giustizia spagnolo. In quella circostanza venne loro sottoposto un questionario di
cinque quesiti riguardanti i maggiori problemi che pone l’adeguamento ai nostri ordinamenti giuridici
occidentali delle caratteristiche proprie delle diverse minoranze non cristiane, con particolare riferimento
alle minoranze islamiche: poligamia, carattere non religioso dei riti matrimoniali, condizione giuridica dei
ministri di culto, festività, tempi delle preghiere, condizione delle donne, macellazione degli animali,
politicizzazione dell’insegnamento religioso ecc.,
Su alcuni di questi problemi vi sono importanti indicazioni anche a livello europeo: si ricorda ad esempio
che la Convenzione europea sulla protezione degli animali da macello del 10 maggio 1979 autorizza
deroghe alle disposizioni della convenzione per “l’abbattimento secondo riti religiosi” (art. 17.1), così
come fanno le direttive comunitarie n. 71/118, 74/577, 75/431 e 78/50 – rese esecutive in Italia con l. 2
agosto 1978, n. 439 e d.p.r. 8 giugno 1982 – in relazione al rispetto di “metodi di macellazione particolari
richiesti da alcuni riti religiosi”: su questa base in Italia il d.m. 11 giugno 1980 autorizza la macellazione
secondo il rito islamico (come anche secondo il rito ebraico).
Comunque è necessario considerare che in Iran è attualmente in corso una trasformazione della mentalità
che potrebbe presto favorire una forte evoluzione verso la democrazia. Come ha osservato di recente uno
dei massimi studiosi dell'islamismo, il ciclo storico del fondamentalismo e dell'islamismo radicale è ormai
8
finito e il mondo musulmano sta ormai imboccando una strada diversa rispetto al passato: questo processo,
se verrà confermato, avrà ripercussioni anche sul problema delle politiche europee nei confronti degli
immigrati musulmani.
Deve inoltre ricordarsi che, nel dibattito senza fine su Islam, democrazia e modernità, il fatto nuovo è l'aver
preso atto che la presenza dei musulmani in Europa è un fattore di trasformazione del pensiero islamico.
Alcuni libri recenti sull'Islam in Europa dimostrano in modo diverso che si sta affermando una
secolarizzazione del mondo musulmano e che sono realizzabili alcune forme di coesistenza capaci di
evitare i due estremi, ambedue criticabili, rappresentati dall'assimilazione integrale e dal separatismo più
assoluto.
Se, a conclusione delle considerazioni qui esposte, ci si propone di valutare quali siano le possibili soluzioni
da adottare da parte di chi intende perseguire l’obiettivo di una maggiore tutela delle minoranze esistenti nei
paesi europei, secondo Lariccia si può richiamare l’attenzione su alcuni problemi, la cui soluzione appare
prioritaria per la protezione delle minoranze stesse.
Innanzi tutto, è necessario abbandonare la concezione secondo la quale il diritto alla diversità viene
esclusivamente riconosciuto ai singoli, come individui e come appartenenti ai vari gruppi sociali, e non
anche ai gruppi medesimi, che, a suo avviso, dovrebbero invece ritenersi titolari di veri e propri diritti
“collettivi”.
È un problema assai complesso perché la tendenza a considerare il tema della tutela delle minoranze con
esclusivo riferimento alla condizione degli individui appartenenti ai gruppi minoritari, anziché ai gruppi in
se stessi considerati, si collega una lunga e forte tradizione nella prassi internazionale; ma egli ritiene che
abbia un'importanza fondamentale l'obiettivo di attribuire agli stessi gruppi di minoranze la titolarità di
situazioni giuridiche soggettive.
Occorre inoltre riflettere sul diritto all'autodeterminazione dei popoli: tale diritto, in tutto il secolo che si è
da poco concluso, ha assunto quasi il valore di una divinità oggetto di venerazione, ma la previsione e la
speranza di un ordine mondiale fondato sull’attuazione di tale diritto hanno incontrato sempre maggiori
ostacoli per la loro realizzazione.
“Se ogni gruppo etnico pretendesse uno Stato – avvertì Boutros Ghali nel 1992 – sarebbe sempre più
difficile raggiungere la pace, la sicurezza e l’impegno nei diritti umani, con una speciale sensibilità ai diritti
delle minoranze etniche, religiose, linguistiche”. In proposito si è giustamente osservato che se il Palazzo di
vetro fosse stato conseguente, non avrebbe patrocinato con tanta precipitazione quell’indipendenza a Timor
Est che ha riattivato in Indonesia le tendenze secessioniste.
L’esperienza insegna che assai spesso, nella pratica delle relazioni internazionali, si tendono a perseguire
obiettivi in contraddizione tra loro. Pur essendo assai vivace il dibattito a proposito dei reali obiettivi che
hanno motivato l’intervento occidentale in Bosnia e nel Kosovo, può convenirsi che quell’intervento ha
certamente sottratto alla “pulizia etnica” le popolazioni della Bosnia e del Kosovo, ma ha anche
determinato forti rischi per la conservazione dei relativi confini, rendendo tutt’altro che improbabili gli esiti
della secessione e della spartizione: in molti casi la tendenza a preservare i confini tra gli Stati e
l'aspirazione a impegnarsi per fermare l’aggressione nei confronti delle minoranze sono risultati due
obiettivi in contrasto tra loro.
Probabilmente hanno ragione coloro che ritengono sia giunto il momento di affrontare una questione
cruciale: se cioè le teorie dei diritti umani, della sottomissione a tali diritti del principio di sovranità
nazionale e dello stesso principio di autodeterminazione dei popoli non debbano essere sottoposti a una
revisione radicale.
In una situazione nelle quale diventa sempre più difficile schivare onde d’urto in un mondo migrante e
globalizzato, gli orientamenti delle diplomazie occidentali divengono sempre meno coerenti e sempre più
evidente appare la difficoltà di trovare criteri di decisione logici e razionalmente convincenti. Durante la
guerra in Cecenia le tendenze che possono definirsi iper-realiste hanno ispirato l’acquiescenza alle violenze
russe e dunque all’esercizio illimitato del principio di sovranità nazionale; in Kosovo le stesse diplomazie
hanno invece favorito una direzione opposta, nel senso di ritenere preferibile una resa al diritto illimitato di
autodeterminazione, se è vero che di recente sempre più spesso si sostiene che un Kosovo indipendente sta
diventando la soluzione più realistica.
La verità è, secondo Lariccia, che appaiono sempre più arbitrari i criteri che fondano i confini tra gli Stati e
la definizione dei popoli che in essi sono racchiusi. È forse la lingua il criterio che li fonda? “Se lo fosse – si
è giustamente osservato – il mondo dovrebbe spappolarsi in 6170 Stati”. Limitandosi soltanto a un cenno
riguardante la tutela delle minoranze di lingua nel nostro paese, egli ricorda che da una mappa elaborata dal
Ministero dell'interno sulla presenza in Italia delle minoranze linguistiche da proteggere risulta che la legge
per le minoranze linguistiche recentemente approvata riguarda quasi tre milioni di persone, e precisamente
98.000 albanesi, 290.000 altoatesini di lingua tedesca, 2.000 carinziani, 1.400 carnici, 18.000 catalani,
2.600 croati, 90.000 franco-provenzali, 20.000 francofoni, 526.000 friulani, 20.000 greci, 55.000 ladini,
170.000 occitani, 1.269.000 sardi, 70.000 sloveni, 130.000 rom e sinti.
9
Se, come si è detto, la lingua non può ritenersi un criterio idoneo a definire i confini tra gli Stati, certamente
troppo labile è anche il criterio della etnia, dovendo condividersi l’opinione di chi ha osservato che riferire
la legalità internazionale a un’entità così indefinita qual è quella della caratterizzazione etnica non ha
giovato alla pace, né alla certezza del diritto.
A proposito dei confini territoriali fra gli Stati, è da osservare che appare sempre più giustiticata la tendenza
a considerare la vigenza di diritti in un mondo senza confini.
Lariccia non ritiene che si possa continuare a esaltare la globalizzazione soltanto con riferimento alle
esigenze di un libero mercato senza frontiere e ignorare invece le possibilità di considerare una nuova
dimensione internazionale dei diritti. Per lo meno nel contesto dei paesi democratici, che purtroppo sono
ancora una minoranza nel mondo, è da ritenere che il problema dei diritti dei singoli e dei gruppi sociali non
riguarda soltanto la loro dimensione nazionale. È necessario per così dire “esportare” l'applicazione dei
diritti fuori dei confini nazionali: in proposito si può ricordare il significato che ha assunto l'iniziativa del
giudice spagnolo Baltasar Garzon, che, nell'ottobre 1998, ha chiesto l'estradizione dell'ex-dittatore cileno
Augusto Pinochet, per i reati di genocidio e di torture commessi nel suo paese. In coerenza con tale
obiettivo la pubblica opinione nei vari paesi diviene sempre più consapevole della necessità di trovare
nuove soluzioni idonee a risolvere il problema di una maggiore tutela dei diritti umani individuali e
collettivi, con particolare riferimento ai seguenti obiettivi:
a) riaffermare il ruolo e l'importanza del diritto e della cultura per la realizzazione della pace;
b) rendere sempre più efficace il principio di interferenza nei confronti degli Stati che, con la loro azione,
determinano situazioni gravissime per il mancato rispetto dei diritti umani;
c) riorganizzare i poteri degli organi internazionali e sovranazionali, rendendo partecipe l'Unione Europea
del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e determinando le condizioni per un'azione sempre più
efficace degli organi a carattere giurisdizionale, come la Corte permanente per i crimini di guerra e i
tribunali internazionali;
d) definire in modo differente le relazioni con gli Stati che sono soliti violare i diritti umani, come avviene
con le cosiddette clausole sociali, intese a prevedere forme di garanzia per il rispetto di alcuni diritti e il
perseguimento di alcuni obiettivi, come per esempio quelli relativi alla tutela dell'infanzia e alla lotta contro
lo sfruttamento dei minori nel lavoro.
L'esame dei problemi di tutela delle minoranze consente di ritenere che, nonostante i moltissimi auspici
espressi a favore di una sempre maggiore tutela delle varie e multiformi varietà minoritarie, molti siano
ancora gli ostacoli da superare. Volgendo lo sguardo al futuro può affermarsi che una politica di tutela delle
minoranze ha dinanzi a sé due strade possibili: l'una conduce alla secessione, ultima soluzione nel caso di
sconfitta da parte di uno Stato di fronte al problema delle minoranze; l'altra è la via, lunga e tortuosa, del
formarsi di una cultura delle minoranze, da salvaguardare sia all'interno dei confini nazionali, sia a un
livello più generale, in uno spirito di collaborazione e di pluralismo.
Lariccia non esita a dichiarare che da tempo egli ha ritenuto preferibile imboccare questa strada. È una
strada con un percorso assai difficile e con traguardi non immediati e vicini, anche perché si tratta di una
strada che non può essere percorsa isolatamente e richiede una forte collaborazione dei singoli, dei gruppi,
degli Stati e degli organismi sovranazionali e internazionali: ma è l'unica strada che può portare a un
panorama per il quale valga la pena di impegnare le proprie energie. E chi è abituato a camminare in
montagna sa quanto impegno richieda il raggiungimento di un bel panorama.
Giustamente si è osservato che “l'Europa, con la ricchezza della sua cultura e della sua storia, è la culla
ideale per una cultura delle minoranze, perché è proprio dall'unione di popolazioni, lingue, religioni e
tradizioni diverse che è nato il patrimonio culturale del vecchio continente, a livello giuridico, scientifico,
filosofico, letterario, artistico e musicale” [E. PALICI DI SUNI PRAT, Intorno alle minoranze, Torino,
Giappichelli, 1999, p. 168].
In questa prospettiva, conclude Lariccia, l'elevato numero di persone, e soprattutto di giovani, che
partecipano attivamente agli incontri organizzati da Sergio Panunzio sui temi dell'Unione europea e del suo
diritto dimostra che si è in molti ad aver deciso di seguire questa strada.
Sergio STAMMATI si riallaccia all’introduzione di Lariccia per sottolineare le lacune e le esitazioni, nel
campo della tutela delle minoranze, della normativa internazionale, meno protettiva di quelle nazionali. Se
tali esitazioni sono dovute generalmente ad una volontà di non interferenza nei confronti della sovranità
nazionale in tale ambito è ben strano, secondo Stammati, l’atteggiamento politico delle istituzioni europee:
infatti esse recepiscono maggiormente la linea del diritto internazionale anzichè alla tradizione unitaria dei
paesi europei che riconoscono, con similitudine di valori, una tutela alle minoranze in se stesse considerate
non limitandosi ad una tuela delle singole persone. L’Unione Europea non sintetizza questo dato comune,
che è per certi aspetti più avanzato.
Stammati inoltre si chiede, e chiede a Lariccia, come mai nel nuovo scenario del diritto internazionale, più
attento alla tutela dei diritti umani che al rispetto del vecchio principio di non-ingerenza, subordinato alla
10
tutela suddetta, non emergano profili più incisivi di tutela delle minoranze.
Francesco CERRONE si dice non sorpreso dalla circostanza che le concezioni liberali insistano sulla tutela
dell’individuo piuttosto che dei gruppi minoritari come tali: c’è il retaggio del sospetto nei confronti delle
appartenenze, delle identità, fondamentali per secoli nella struttura della cittadinanza. Questa tendenza
continua ad essere la caratteristica centrale della disciplina internazionale, anche se in alcune Costituzioni
non è così, infatti in Italia la disciplina delle minoranze linguistiche si gioca su registri diversi, e lo stesso
potrebbe dirsi per stati extra europei come Canada e Nuova Zelanda.
Cerrone riconosce anche segnali diversi, quando si parla di tutela delle identità e delle differenze, ma è a
suo avviso significativo che si tenda a riportare le posizioni differenziate ad un ridimensionamento, ad
un’eguaglianza di trattamento pur in presenza di etnie, culture, religioni diverse, con grandi differenze che
esigono un trattamento differenziato: da questo punto di vista la tutela internazionale non ha ancora messo
a fuoco il suo oggetto, o i suoi molteplici oggetti.
Cerrone propone la distinzione tra i problemi delle minoranze autoctone, cioè le cui tradizioni culturali
sono legate ad un territorio di insediamento su cui esse esercitavano un auto governo prima dell’avvento di
un organizzazione statuale, e quelli delle “altre” minoranze, per esempio i gruppi etnici immigrati in un
territorio, oppure quei gruppi genericamente svantaggiati, che possono anche non essere minoranza
numerica come le donne, gli omosessuali od i portatori di handicap.
Le minoranze autoctone, per Cerrone, possono avere interesse ad una serie di interventi di minor rilievo per
i c.d. gruppi svantaggiati, come il riconoscimento del diritto ad essere rappresentate nelle istituzioni
nazionali, dei diritti linguistici legati al territorio in cui sono insediate, ed anche del diritto ad una forma di
autogoverno, almeno in parte.
Le “altre” minoranze, o gruppi svantaggiati in senso ampio, possono essere interessate ad interventi di altra
natura, non tanto inerenti ai diritti politici; esse, piuttosto, secondo Cerrone, saranno interessate alla
conservazione di aspetti della propria identità culturale; alcune etnie, ad esempio, vorrebbero la possibilità
di portare il turbante nonostante la vigenza della legge che rende obbligatorio l’uso del casco in moto.
Questo caso mostra l’importanza di conoscere e di aprirsi alle contaminazioni culturali più varie, per
arrivare alla differenziazione delle discipline in relazione a sviluppi culturali profondamente diversi.
Ne cosegue che la pretesa di disciplinare il problema delle minoranze a livello europeo in modo unitario è
insostenibile.
Adele ANZON, in riferimento al problema della tutela delle minoranze nell’Unione Europea, ribadisce che
né nei Trattati, né nella Convenzione Europea esistono tracce di una tutela autonoma delle minoranze in
quanto tali. Si chiede se si possano ricavare indicazioni in tal senso dalle tradizioni costituzionali degli Stati
membri, che sono richiamate dal Trattato di Maastricht. Da questo punto di vista si dovrebbe verificare
l’esistenza nelle altre Costituzioni europee di disposizioni simili a quelle contenute nella nostra Carta
costituzionale all’art. 6 ed 8. Se la verifica desse esiti negativi, allora, paradossalmente, le nostre
disposizioni, secondo la Anzon, potrebbero essere ritenute discriminatorie nell’ambito dell’Unione
Europea.
Gaetano AZZARITI dichiara di non essere, su questo argomento che pone dinanzi a scelte a volte tragiche,
su posizioni ferme, e provocatoriamente si chiede se in una società che è sempre più multiculturale sia
necessario conservare la nozione e la specificità della tutela delle minoranze. Forse se ne può fare a meno;
infatti è vero, come diceva Lariccia, che ogni etnia non può essere tutelata fino al punto di concederle
facoltà di autogoverno e di trasformarsi in Stato; è vero che la forza delle società pluralistiche è quella di
essere società contaminate, che fanno assurgere a valore il “politeismo dei valori” integrando le minoranze
sociali.
Azzariti evidenzia allora come questa prospettiva di sottolineare le diversità potrebbe confliggere con
l’integrazione: non è nella prospettiva della società multiculturale proteggere ogni sua minoranza lasciando
che ciascuno “coltivi il proprio orticello”. La Corte Costituzionale ci ha insegnato che la logica della scuola
confessionale contrasta con l’idea della scuola pluralistica proprio perchè ghettizza le minoranze stesse.
Ecco perchè Azzariti preferisce concentrarsi sull’integrazione, piuttosto che sulle minoranze. Ma questa
logica dell’integrazione si complica considerando l’egemonia delle culture forti, che integrano e non si
fanno integrare: così non proteggendo adeguatamente le minoranze si rischia di creare la società
monoculturale, esattamente l’opposto dell’obiettivo. Allora riprende piede la prospettiva opposta di
protezione delle minoranze.
Azzariti si chiede allora se tutte le minoranze vadano protette, e se tutti i diritti fondamentali espressi dalle
diverse culture e tradizioni delle minoranze vadano tutelati: ad esempio la cultura islamica conosce valori e
pratiche, come l’infibulazione, che difficilmente si conciliano con il nostro sistema di valori. Si potrebbero
11
riconoscere tutti i diritti che non contrastino con i principi del diritto occidentale: in tal modo sarebbe
dichiarato il contrasto della pratica dell’infibulazione con la Costituzione.
Così si avrebbe, però, la sovrapposizione dei valori costituzionali della maggioranza a quelli della
minoranza. Del resto non è convincente nemmeno assicurare una protezione alle minoranze, in base ai
principi costituzionali, in modo totale ed estremo, fino ad arrivare alla guerra, come per l’intervento in
Kosovo, attuato per la difesa dei diritti di una minoranza.
E’ quindi necessario trovare un punto di equilibrio che coniughi la cultura della contaminazione e il rispetto
delle diversità senza abbandonare la tutela dei principi che derivano dalla propria storia e dalla propria
tradizione; questa protezione è necessariamente tutela superindividuale dei principi del gruppo, della
minoranza. La tutela delle minoranze deve confrontarsi con la protezione della propria cultura e della
contaminazione da questa esercitata.
Luisa DOMINICHELLI ricorda, a proposito del contrasto tra norme comunitarie e norme nazionali a tutela
delle minoranze, alcune sentenze recenti della Corte di Giustizia che evidenziano proprio questo contrasto.
Una sentenza è stata resa nel 1998 nella causa che riguardava due cittadini, uno austriaco e uno tedesco
(Franz e Bickel), i quali, coinvolti in un procedimento penale in Alto Adige, volevano che il processo si
svolgesse nella loro lingua. La Corte ha affermato che le norme nazionali italiani che proteggono le
minoranze contrastano con la normativa europea in tema di libera circolazione dei servizi ove non
garantiscono il diritto al processo nella propria lingua a cittadini stranieri della stessa lingua della
minoranza tutelata in Italia, in tal modo discriminandoli.
Dominichelli ritiene che in tal caso il contrasto sia solo apparente: infatti la Corte, in tal modo, allarga
indebitamente la tutela a cittadini dell’Unione che non hanno però la cittadinanza dello Stato che riconosce
tale garanzia alle minoranze; ci sono infatti delle ragioni specifiche di tutela di queste minoranze, per
esigenze d’interesse generale, di cui la Corte non ha tenuto conto.
Una questione simile si è avuta in Belgio: una sentenza recente della Corte del Lussemburgo ha evidenziato
un contrasto tra la libertà di stabilimento e una misura di politica culturale presa dalla comunità fiamminga.
Secondo Silvia NICCOLAI il caso di questa ultima sentenza sul Belgio è significativo di un atteggiamento
della Corte di Giustizia che è quello non tanto di ragionare partendo – come ci aspetteremmo, trattandosi di
minoranze – dalla tutela di tali valori ma di proteggere o non dare protezione al valore di tutela minoritaria
nella misura in cui collide o si lega al principio di libertà di stabilimento economico. Nel caso del Belgio il
problema riguardava televisioni finanziate perché realizzavano programmi in lingue minoritarie e che non
erano in grado di sopravvivere senza i finanziamenti; la Corte di Giustizia disse che in questo caso gli aiuti,
generalmente contrari al divieto di concorrenza sleale di aiuti pubblici, non erano illegittimi perché
altrimenti l’impresa televisiva non avrebbe potuto vivere.
Questo è un caso in cui avviene un bilanciamento tra libertà di stabilimento di impresa economica e valore
culturale, nel senso che la dimensione del Belgio è così piccola, e questi valori sono così alti e così
conflittuali, che il bene di libertà di iniziativa economica può sopportare di essere un po’ compromesso
dalla tutela di libertà delle lingue.
La Niccolai si chiede inoltre se rispetto ai problemi (di tutela) delle minoranze in cui spesso si avverte
questo atteggiamento (anche nelle dichiarazioni internazionali, nei documenti), non possa essere utile – per
l’impostazione del pensiero e delle politiche - domandarsi “chi sono gli altri” e “perché sono venuti qui”,
nel senso che il problema delle migrazioni o il problema dei popoli fuggiti da un paese e giunti in un altro è
un problema che ha delle origini e dovrebbe essere letto in chiave sistemica.
Ad esempio, le emigrazioni di origine economica sono dirette verso paesi ex colonizzatori: i paesi
occidentali, con il loro sistema economico, intrattengono rapporti con i paesi da cui provengono i flussi
migratori; l’alterità della minoranza non arriva fino al punto che non si riesca a comprendere il perché delle
migrazioni e i margini della loro evitabilità.
Gli “altri” potrebbero divenire “un po’ meno estranei” partendo da un senso maggiore di responsabilità dei
paesi sviluppati, i quali, invece, a volte vivono la minoranza come un problema di garanzia di un certo
livello di tutela, e non anche come un problema “di chi accoglie”, del paese ospitante, in quanto problema
che nasce e si collega sistemicamente alla sua economia o alla sua storia politica.
Interviene nuovamente CERRONE per fare un accenno alla questione delle minoranze intolleranti. Se una
minoranza al suo interno pretende di agire contro gli individui che fanno parte della comunità stessa - ad
esempio, agire contro un eretico o un dissidente - e se lo Stato che ospita la minoranza mette a sua
disposizione dei diritti (ad. es. diritti di autogoverno, la capacità di finanziare certe attività) e quindi la
possibilità di incidere sull’individuo, questo crea problemi notevoli e si evocano quegli scenari che Azzariti
ha foscamente paventato. Certamente esistono situazioni gravissime che mettono in crisi la coscienza
dell’uomo occidentale, ma Cerrone ha la sensazione che siano fantasmi che hanno una struttura
12
rovesciabile: siccome viviamo in una civiltà che ha una struttura culturale spesso incompatibile con quella
di altre culture (pensiamo alla vicenda storica degli Stati Uniti e delle popolazioni autoctone, piccole ormai,
che vivono su quel territorio) temiamo che improvvisamente la situazione si inverta e che possiamo essere
noi oggetto di questo tipo di trattamento.
Gli Stati Uniti che oggi “tuonano” contro le pulizie etniche che purtroppo ancora avvengono nel mondo,
sono stati protagonisti attivi di uno sterminio nei confronti delle popolazioni che vivevano su quel territorio
e che oggi quasi più non esistono. Le enclave che ancora esistono hanno assicurata una tutela abbastanza
ampia, hanno persino dei giudici, possono ampiamente disciplinare la propria comunità, però nei confronti
dei rapporti tra governo federale e minoranze insediate su quel territorio esistono problemi che sono anche
arrivati di fronte alla Corte suprema. Che dire di un caso in cui un gruppo culturale non intende finanziare le
attività di un individuo dissidente? Sono casi reali, certamente, però Cerrone si chiede se nell’affrontare il
problema più generale della tutela delle minoranze e nell’invocare attenzione ai pericoli della minoranza
intollerante, non ci si dimentichi che la nostra storia ci dice altro, e ci parla piuttosto di una maggioranza
profondamente intollerante.
Gianluca BASCHERINI, ritornando alla differenza tra minoranze “tradizionali” e “nuove” minoranze,
ammette le sue perplessità ad estendere alle seconde le categorie e le specifiche forme di tutela configurate
attorno alle minoranze tradizionali, dato innanzitutto il mancato riconoscimento in capo ai membri delle
seconde delle situazioni giuridiche tipiche dello status civitatis. E ciò è di massima evidenza nel caso degli
immigrati. L’enfasi con cui vengono sottolineate le differenze culturali nelle diverse retoriche di esclusione
dello straniero dalle società occidentali, ma anche da una certa retorica del multiculturalismo che fonda le
proprie ricostruzioni su di un’idea di cultura intesa come compatta ed impermeabile, forniscono infatti
un’immagine stereotipa dell’Altro sul presupposto di una corrispondenza stretta tra cultura ed etnia che
nasconde la rottura che invece si consuma nella parabola del migrante tra questi e la sua comunità culturale
di origine. L’immigrato quasi mai ha un nome e un cognome. E’ invece più semplicemente musulmano,
slavo, negro etc., caricatura levantina in uno spot pubblicitario, culturalmente non integrabile perché
ontologicamente integralista, quando non geneticamente portato a varie efferatezze.
Se infatti per alcuni aspetti le problematiche connesse ai temi dell’immigrazione e della tutela delle
minoranze possono risultare contigue - soprattutto per ciò che concerne i profili culturali dell’integrazione
(entrambi i fenomeni peraltro contribuiscono a rendere multiculturali e sempre meno omogenee le società
in cui si presentano) - bisogna comunque tenere presente, come ricordava Francesco Cerrone, che le due
forme di presenza allogena sollevano problemi che richiedono soluzioni spesso molto diverse, in termini di
diritti ed interventi. Mentre la tutela delle minoranze tende ad investire gli elementi più specificamente
linguistico-culturali o religiosi, l’immigrazione solleva questioni più strettamente connesse ai profili
socio-economici dell’integrazione, alla possibilità per questi individui di godere di quelle situazioni
giuridiche e di quelle possibilità che un ordinamento riconosce ad ogni individuo in quanto tale in materia
di lavoro, istruzione, salute etc., piuttosto che di quei diritti che lo stesso ordinamento riconosce ad alcuni
individui per le peculiarità che li caratterizzano, per la loro alterità rispetto al gruppo dominante - come nel
caso dei diritti delle minoranze.
Oggi la configurazione strutturale delle migrazioni ed i contesti sistemici che queste creano,
l’internazionalizzazione delle politiche migratorie, le accresciute possibilità di circolazione delle merci, dei
capitali, delle informazioni e degli individui sono soltanto alcuni degli elementi che inducono ad un
ripensamento della prospettiva attraverso cui finora l’ordinamento ha interpretato i rapporti tra se stesso, il
territorio su cui insiste e la collettività di individui con cui entra in relazione. I fenomeni migratori oggi
costituiscono forse la causa principale di messa in discussione della tradizionali rappresentazioni della
cittadinanza - contenitore di diritti e paradigma dell’appartenenza - e dunque il principale banco di prova
delle capacità di apertura di un ordinamento, delle capacità di questo di rispondere a richieste di nuovi
diritti, di riconoscere nuovi soggetti. Da questo punto di vista il migrante non costituisce necessariamente
un corpo estraneo alle società di arrivo, inconciliabile con le dinamiche di appartenenza che caratterizzano
queste ultime, ma può costituire uno dei vettori di quel “pluralismo” (degli interessi, dei bisogni, dei
soggetti, delle culture) che dovrebbe caratterizzare le società democratiche.
E’ peraltro difficilmente negabile che sia in atto un mutamento di prospettiva nel rapporto tra individui e
territorio: in luogo della tendenziale e tradizionale esclusività di tale rapporto, il territorio tende infatti a
rivelarsi sempre di più il sostrato materiale delle diverse esigenze dei soggetti che con esso entrano in
relazione; è dunque lecito domandarsi se e quanto il rapporto tra popolo e il territorio si possa definire come
un rapporto esclusivo o se, invece tale relazione non debba configurarsi come tendenzialmente aperta e
inclusiva, pensando il territorio della Repubblica come niente di più, ma neppure niente di meno, che uno
dei possibili luoghi dello svolgimento della personalità umana. Se così è, allora, la figura dell’incolato - e
dunque la stabile residenza su di un territorio come situazione giuridica soggettiva cui ricollegare
progressivamente i diversi rapporti giuridici che si determinano tra un individuo e la pluralità di
13
ordinamenti che si riferiscono a quel territorio - potrebbe costituire un’alternativa ragionevole al paradigma
ormai logoro di una cittadinanza costruita come un pacchetto di diritti e doveri da riconoscersi ai singoli
individui in ragione della loro appartenenza ad ordinamenti che sempre più dimostrano la loro
irragionevole pretesa di chiudersi autisticamente in clubs sempre più esclusivi.
Marco SPADARO osserva che Lariccia ha chiarito che la tutela delle minoranze a livello di unione europea
ha raggiunto un livello tutt’altro che soddisfacente, nel senso che non è completa: in primo luogo, non
vengono tutelate le minoranze in quanto tali, ma i singoli individui in quanto componenti di minoranze; in
secondo luogo non esiste una vera protezione delle minoranze, ma una sorta di principio di non
discriminazione delle minoranze. Espone a riguardo due interrogativi in relazione a dei problemi che
potrebbero presentarsi in futuro, nel momento in cui una maggior tutela delle minoranze verrà prestata a
livello sia nazionale, come nella maggior parte di paesi europei già succede, che di Unione Europea, e che
secondo lui sarebbe necessario affrontare ancor prima che in concreto inizino a presentarsi effettivamente.
Il primo, è quello delle minoranze “intolleranti”: potrebbe presentarsi in questo settore lo stesso problema
che si è presentato in relazione alle confessioni religiose, con riguardo al rapporto tra libertà delle
confessioni religiose e libertà nelle confessioni religiose, cioè al rapporto tra la libertà della minoranza e la
libertà del singolo membro che opera al suo interno. In secondo luogo, nel momento in cui scegliamo di
proteggere le minoranze, occorre proteggerle tutte, o non sarebbe opportuno che per una volta il legislatore
nazionale o comunitario individuasse una nozione precisa di minoranza, per evitare il problema inerente
l’individuazione del soggetto titolare della tutela che il legislatore decide di apprestare?
Guido SIRIANNI, afferma che esistono due nozioni che sembrano sempre confondersi tra di loro, quella di
minoranza e quella di formazione sociale, che in qualche modo si rincorrono e si sovrappongono. Questo
riporta a uno dei nodi di fondo della identificazione della forma di tutela delle minoranze, anche nel diritto
europeo, e che è stato individuato come un limite del diritto europeo, ovvero il fatto che la tutela viene
individuata in forma individuale e non collettiva. Si domanda se questo non sia ontologicamente il punto
della differenza tra minoranza e formazione sociale, in altri termini, se noi riferiamo la tutela della
minoranza al gruppo, finiamo per eliminare la stessa categoria della nozione di minoranza, nozione che
storicamente, non bisogna dimenticarlo, è relativa a popoli, a gruppi sociali legati da rapporti di solidarietà
ma con un nesso molto specifico con il territorio e con la appartenenza a una cittadinanza, più o meno
obbligata che sia stata.
A questo riguardo, forse sarebbe opportuno tenere nettamente distinti questi due campi di tutela di
situazioni soggettive che vanno differenziate, ovvero tutele di gruppo - che effettivamente possono essere
riferite a formazioni sociali - e tutele che riguardano le minoranze in senso proprio, e che però attingono a
un dato di fondo che è quello della politicità. La tutela che si vuole riconoscere a una minoranza territoriale
è il più delle volte una tutela che attinge al momento dell’espressione politica, laddove la tutela della
minoranza/formazione sociale (es. musulmani) rientra nel calderone del fenomeno religioso e quindi della
formazione sociale. C’è anche l’eventualità che la formazione sociale costituisca una minoranza etnica, ma
sono due piani sostanzialmente, ontologicamente, giuridicamente distinguibili.
Più in generale, Sirianni osserva che in questa materia il diritto europeo è intervenuto in termini di
grandissima prudenza e riluttanza: c’è sempre lo spettro della sovranità, la preoccupazione di non turbare
equilibri. Pertanto, in un contesto così delicato e controverso, la soluzione giuridica rappresentata dalla
Convenzione quadro può essere in realtà indicata come il miglior risultato raggiungibile. La Convenzione
quadro apre effettivamente delle prospettive, ma in fondo lascia gli stati liberi di orientarsi nel modo più
consono alle proprie tradizioni, culture, dimensioni politiche. Sirianni dichiara di non sapere quale potrebbe
essere il passaggio ulteriore auspicabile nel diritto europeo in questa materia, se l’aspettativa è quella di una
tutela maggiore per le formazioni sociali, forse questa tutela dovrebbe trovare altri canali; se è riferita alla
dimensione più propriamente, politica probabilmente bisogna rimanere alla nozione tradizionale di
minoranza. Tra l’altro, questa stessa esigenza di tutela delle minoranze non a caso rifluisce in altri ambiti
molto più sviluppati dell’azione europea che è quella di riconoscimento e di tutela delle autonomie
territoriali: vi è una stretta contiguità tra tutela delle autonomie territoriali e tutela delle minoranze che vi
sono insediate.
Sergio PANUNZIO, riportando il tema nella prospettiva europea e nella prospettiva - che non è ancora quella
attuale, ma potrebbe essere quella di domani - di una maggiore integrazione politica, si domanda quanto
questa visuale non possa cambiare profondamente certi concetti e schemi abitualmente utilizzati
affrontando il tema delle minoranze. Chiaramente tali concetti - “minoranze”, “diversità” - nella nostra
concettologia sono ancorati al fatto che storicamente sono emersi nell’esperienza di Stati in cui esisteva una
forte omogeneità culturale, etnica, nazionale, religiosa, nell’ambito della quale poi erano presenti delle
minoranze.
14
Proiettandoci in una dimensione europea, magari degli anni a venire, occorre chiedersi che senso avranno
ancora questo tipo di concetti e di problemi. Infatti, sotto un primo profilo, è da considerare che l’Europa è
tipicamente una società non omogenea, e sotto tanti aspetti (lingua, religione, ecc.); inoltre, nella
dimensione europea, ciò che noi siamo abituati a chiamare minoranza può non essere più tale.
Consideriamo l’esempio degli altoatesini: è noto che essi, nella dimensione dello Stato italiano, sono una
minoranza, però le minoranze linguistiche tedesche in Italia, trasportate nella dimensione europea, non
sono più tali. I cittadini europea di lingua tedesca sono maggioranza, e minoranza diventiamo noi,
probabilmente.
Il processo di integrazione europea fa emergere degli aspetti che incidono molto su questa problematica e
Panunzio si domanda se non siano anche questi aspetti che possono, in un certo senso, giustificare il fatto
che nella normativa europea, come sottolineava Lariccia, i problemi di tutela sono sempre riferiti
all’individuo e mai al gruppo come tale: forse perché nella dimensione europea di una società
multiculturale, multietnica, dai molti démoi, rileva più il profilo individualistico che non quello del gruppo
e, in una dimensione così ampia e articolata, diventa difficile individuare i gruppi di minoranza,. In effetti,
ripensando anche alle sentenze sul Belgio, molte delle forme di tutela delle minoranze adottate in Italia, in
una dimensione europea diventano discriminatorie. Nel caso che prima si richiamava dell’uso della lingua
nel processo, noi possiamo mantenere la nostra tutela interna e semmai estenderla a tutti i cittadini europei;
in altri casi però questo diventa più difficile e Panunzio richiama quella particolare tutela posta in Italia a
favore delle minoranze di lingua tedesca, la c.d. proporzionale etnica (ad es., per l’assegnazione
dell’alloggio): a un cittadino di altri paesi europei che si trovi in Italia non si può estendere quello stesso
meccanismo, perché cambia proprio il regime della minoranza.
Si tratta di problemi delicati in relazione ai quali ci si può anche domandare quanto l’art. 6 della
Costituzione regga alle esigenze egualitarie della dimensione europea, tant’è che forse viene da pensare che
la tutela delle minoranze in ambito europeo potrebbe essere per questo una tutela non di gruppi ma
individualistica. La tutela delle minoranze finisce in qualche modo per ritornare una tutela dei cittadini
come tali, mentre invece il problema delle minoranze finisce per diventare quello di coloro che vivono nel
territorio europeo, ma non sono cittadini europei.
Sergio LARICCIA si dichiara molto soddisfatto dello stimolante dibattito seguito all’introduzione, anche se
alcuni interventi hanno di molto ampliato la tematica, offrendo ulteriori spunti di riflessione e rendendo
pertanto impossibile rispondere a tutti.
In relazione alle osservazioni di Stammati, osserva che in tutti i documenti citati si parte da una
consapevolezza che viene espressa con l’affermazione che in fondo in Europa mancava e manca un idem
sentire sulla protezione delle minoranze: al di là di quello che si può pensare, non vi è una forte omogeneità
nella valutazione dell’esigenza della tutela delle minoranze in Europa. E anche nei 15 paesi che fanno parte
dell’Unione Europea vi sono dissonanze, come è dimostrato, ad esempio, dalle diverse posizioni assunte in
tema di emigrazione e accoglienza dello straniero (Lariccia ricorda che il Regno Unito non ha aderito a
Schengen e che il Belgio recentemente ne è uscito), o dalla forte dimensione nazionalista di un paese come
la Francia. Queste diversità di atteggiamenti, evidentemente, sono alla base delle soluzioni finora adottate
in materia.
Non vi è dubbio che la Convenzione-quadro sia la migliore soluzione prospettabile al momento attuale:
proprio perché si è consapevoli della mancanza di coesione nel valutare come si possano proteggere al
meglio le minoranze, si può fare soltanto “un quadro”, dare un’indicazione programmatica e attendere che
ogni Stato si collochi, all’interno del quadro, con interventi di diritto positivo.
Lariccia ricorda quello che è avvenuto in Italia dopo l’entrata in vigore della Costituzione in relazione alle
prime interpretazioni del testo costituzionale, richiamando come esempio l’articolo 2 della Costituzione. Si
tratta di una disposizione abitualmente interpretata come norma a garanzia anche delle formazioni sociali,
tuttavia, fermandosi solo all’interpretazione letterale è noto che l’articolo 2 afferma che la Repubblica
riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si
sviluppa la sua personalità, ed è stato merito della dottrina italiana – e tra i primi Paolo Barile, nel 1953, col
suo lavoro “Il soggetto privato nella Costituzione italiana” – aver recisamente affermato che per lo
sviluppo della personalità dell’individuo occorre sviluppare anche la protezione delle formazioni sociali.
Lariccia osserva come queste considerazioni siano strettamente collegate al tema della tutela delle
minoranze. Se è vero che l’elemento della diversità rispetto ad un elemento maggioritario si troverebbe
nella Costituzione solo a proposito delle confessioni religiose di minoranza, così come è vero che il
fenomeno della minoranza viene considerato in Costituzione solo a proposito delle minoranze linguistiche,
questo significa che occorre allora creare un collegamento tra il profilo della tutela delle minoranze e della
tutela delle formazioni sociali e sostenere la necessità di tutelare anche il fenomeno comunitario della
minoranza; perché quando l’individuo vive un’esperienza in una società e come appartenente a una
minoranza, sente ben presto il bisogno di collegarsi ad altri e di vedere che il gruppo come tale chiede il
15
rispetto di alcuni diritti che fanno capo a una minoranza.
Lariccia ritiene che questa sia la logica migliore per aiutare l’individuo a sviluppare la sua personalità, se si
crede realmente nella logica che è alla base delle società democratiche pluraliste e che si allontana dalla
concezione, cara al Codice napoleonico, della protezione dell’individuo e della diffidenza nei confronti di
quei gruppi sociali che potrebbero sacrificare la tutela dei suoi diritti.
Pertanto, se si è realmente convinti che la democrazia ha bisogno che “ciascuno viva meglio la propria vita”
– con riferimento al grande principio della “felicità” scritto nella Costituzione americana –, allora ciascuno
deve essere aiutato a vivere meglio l’esperienza esistenziale, ciò che comporta una valutazione anche del
profilo collettivo, comunitario dell’esistenza. In questa sede, molti hanno richiamato l’attenzione
sull’evoluzione del diritto internazionale, incentrato non soltanto sulla protezione dell’individuo, ma sulla
“dimensione umana” della protezione sovranazionale, facendo riferimento alla rilevanza dell’esperienza
concreta di vita; se questo è l’obiettivo fondamentale, allora bisogna credere che nel futuro si potranno fare
passi in avanti verso una protezione dell’aspetto collettivo, comunitario del fenomeno qui esaminato.
Lariccia afferma poi che sulla questione delle minoranze è debitore nei confronti di un suo amico valdese, il
prof. Giorgio Peyrot, il quale, nelle appassionate discussioni che risalgono a più di trent'anni fa, gli ha
consentito di comprendere cosa significhi la protezione della diversità mettendo in evidenza la nostra
abitudine ad usare l’espressione “acattolico” a proposito del fenomeno religioso – espressione presente
nella legge n. 1159 del 1929, sui culti acattolici -, senza capire quanto questo sia pesante per coloro che
aderiscono a una confessione diversa. Invece, la Costituzione ha giustamente sottolineato l’aspetto della
“diversità” rispetto ad altri e Lariccia ritiene, a riguardo, che la diversità sia un elemento la cui
valorizzazione aiuti a sviluppare la vita degli individui e l’esistenza di società più democratiche.
A proposito delle “tragiche alternative” che poneva Azzariti, Lariccia concorda sul fatto che le difficoltà da
superare siano molte, ma non ha dubbi nel ritenere che in una società multiculturale e pluralista si possa
credere nella possibilità di conseguire l'obiettivo di uno sviluppo della vita democratica nel rispetto delle
varie componenti della società.
La società europea soffre di quello che, con un’espressione un po’ retorica si chiama deficit di democrazia,
e anche in tema di tutela delle minoranze vi sono limiti a una maggiore democraticità dell’ordinamento
europeo rappresentati dalla necessità di rispettare le garanzie delle sovranità degli Stati. Nessuno è tanto
ingenuo da pensare che dietro al problema della protezione delle minoranze non si nasconda il problema dei
rischi che può comportare un’ingerenza all’interno degli Stati per poter proteggere le minoranze, a rischio
della conservazione dei confini nazionali (Lariccia ricorda a titolo di esempio la vicenda del Kosovo). Oggi
molti sono intervenuti su tale questione problematica, tuttavia Lariccia fa presente che ci sono dei
significativi processi in corso: ad esempio, nel Parlamento croato sono in discussione due disegni di legge
sull’uso paritetico ufficiale delle lingue minoritarie e sull’educazione e istruzione nelle lingue delle
minoranze, ciò che rappresenta un elemento di forte novità. Al riguardo, Lariccia richiama anche
l’interessante e recente legge sulle minoranze linguistiche, approvata nel dicembre 1999, importante
traguardo per minoranze finora debolmente protette: vi sono 3 milioni di italiani che parlano lingue diverse
da quella italiana e che vanno tutelate, anche se non mancano elementi di perplessità, e c’è chi paventa il
rischio che tali minoranze si richiudano all’interno di realtà impermeabili all’influenza delle situazioni
diversificate.
Si tratta di tematiche e questioni molto delicate, soprattutto perché sono in gioco molti e importanti valori
umani espressi anche nella nostra Costituzione. Lariccia ricorda al riguardo il dramma dei testimoni di
Geova a proposito della morte di quella bambina alla quale i genitori negarono le trasfusioni, venendo
quindi condannati per il reato di omicidio: i testimoni di Geova vivono questo problema in modo
drammatico, perché accanto al valore della difesa della vita, essi pongono in gioco, a ragione o a torto,
anche il valore del rispetto della libertà di religione. E’ vero che è in gioco il rispetto del diritto alla vita,
tuttavia può sorgere il problema di un’obiezione di coscienza alla luce di un altro principio anch’esso
costituzionalmente tutelato. La soluzione da parte degli ordinamenti statali sta nel ritenere che vi siano dei
limiti, rappresentati molto spesso dai principi deducibili dal codice penale.
A proposito dei musulmani, Lariccia sostiene che non si può pensare di perseguire l’obiettivo della loro
assimilazione e integrazione a scapito del rispetto di una serie di principi; tuttavia una certa disponibilità e
apertura al rispetto di valori sui quali abbiamo ancora molto da imparare – perché spesso non ne abbiamo
conoscenza adeguata – potrebbe aiutarci a vivere e a far vivere meglio di quanto finora non sia stato.