ADLER, Max. La concezione dello stato nel marxismo. Confronto con le posizioni di Hans Kelsen. Introduzione e cura di Roberto Racinaro. Bari: De Donato Editore, 1979. 270 p. Página III Max Adler LA CONCEZIONE DELLO STATO NEL MARXISMO Confronto con le posizioni di Hans Kelsen Introduzione e cura di Roberto Racinaro Página IV Titolo originale: Die Staatsauffassung des Marxismus. Ein Beitrag zur Unterscheidung soziologischer und juristischer Methode in «Marx Studien», vol. IV/2 (Wien 1922) von Traduzione di Roberto Racinaro e Antonella De Cieri (capitoli XII-XIX) © 1979 De Donato editore SpA Lungomare Nazario Sauro, 25 - Bari CL 07-04924 Página V Indice IX 3 11 23 28 40 52 60 72 90 Introduzione di Roberto Racinaro Marxismo, Stato e cultura moderna in Max Adler 1. Una premessa, p. IX. - 2. Critica dell’ ‘ideologia di guerra’ e problema dello Stato, p. XII. - 3. Contro lo statalismo: una polemica con Renner, p. XXX. - 4. Significato e limiti della rivoluzione d’Ottobre, p. XLI. - 5. La complessità della vita moderna: confronto con Simmel, p. IL. - 6. Marxismo come scienza ‘aperta’, p. LXIV. Prefazione Capitolo primo Politica e sociologia Capitolo secondo L’unità sociologica di Stato e società Capitolo terzo Per lo sviluppo del concetto di società Capitolo quarto L’ulteriore elaborazione del concetto di società in Marx Capitolo quinto Il formalismo giuridico di Kelsen Capitolo sesto L’elemento essenziale nel concetto marxista di Stato Capitolo settimo Che cos è una classe? Capitolo ottavo Classe e partito 98 Capitolo nono Democrazia politica e democrazia sociale Página VI Capitolo decimo 112 Democrazia e libertà Capitolo undicesimo 124 Rivoluzione o evoluzione? Capitolo dodicesimo 142 La democrazia e la sua organizzazione Capitolo tredicesimo 159 La dittatura Capitolo quattordicesimo 174 Governo e amministrazione Capitolo quindicesimo 185 Excursus sull’anarchismo 1. La negazione della costrizone, della legge e dell’autorità, p. 185. - 2. Ordinamento giuridico e ordinamento convenzionale, p. 199. - 3. La distinzione specifica tra anarchismo e sodalism, p. 205. - 4. Socialismo e individualismo, p. 214. Capitolo sedicesimo 222 Il presunto anarchismo del marxismo 1. L’idea di liberazione, p. 222. - 2. Forze politiche e forze sociali. Lo ‘Stato politico’, p. 225. - 3. La rottura della macchina statale, p. 234. - 4. L’estinzione dello Stato, p. 238. Capitolo diciassettesimo 239 Il ‘miracolo’ della organizzazione senza Stato Capitolo diciottesimo 249 L’utopismo in Marx ed Engels Capitolo diciannovesimo 266 Perché non veniamo compresi? 270 Poscritto Página VII Introduzione di Roberto Racinaro Página VIII (em branco) Página IX Marxisrno, Stato e cultura moderna in Max Adler La dottrina del materialismo storico è l’organizzazione critica del sapere sulle necessità storiche che sostanziano il processo di sviluppo della società umana, non è l’accertamento di una legge naturale, che si svolge ‘assolutamente’ trascendendo lo spirito umano. È autocoscienza, stimolo all’azione, non scienza naturale che esaurisca i suoi fini nell’apprendimento del vero. A. GRAMSCI 1. Una premessa Non è forse del tutto inutile, nell’accostarsi a un testo come La concezione dello Stato nel marxismo, sgombrare il campo da qualche equivoco cui il testo stesso, in apparenza, può dane adito. Nato dall’esigenza di rispondere alle critiche che Hans Kelsen aveva rivolto alla teoria politica del. marxismo, il libro di Max Adler há un andamento prevalentemente teorico, che può suscitare l’impressione, nel lettore, di una pura e semplice contrapposizione ‘ideologica’, da parte di Adler, rispetto alle critiche kelseniane. In verità, nulla è piú lontano dalle intenzioni adleriane del disegno di contrapporre all’interpretazione kelseniana ‘erronea’ una propria ‘corretta’ interpretazione di Marx [Nota 1]. Su questo punto Adler Página X stesso può richiamarsi a buon diritto — come avviene nella Prefazione a La concezione dello Stato nel marxismo — alle posizioni espresse didotto anni prima e, in generale, al progetto che stava dietro la fondazione delle «Marx-Studien». Il richiamo — nella scelta del titolo del primo organo dell’austromarxismo — a quella prestigiosa rivista filosofica che erano le «Kant-Studien» è sùbito evidente e, del resto, esplicitamente ammesso da Adler [Nota 2]. Meno noto è il fatto che, in uno stadio avanzato di realizzazione del progetto — quando cioè di esso si era già discusso con Viktor Adler, si erano fatti i primi passi presso l’editore e alcuni lavori (per esempio, quello di Hilferding su Böhm-Bawerk) erano già quasi pronti —, lo stesso Adler sembra dubitare dell’opportunità d’intitolare la rivista «Marx-Studien», proprio per il timore che un tale titolo possa attirare, fin dall’inizio, il sospetto di un eccesso di ‘filologismo’ o, per altro verso, di ‘ortodossia’. Abbiamo rinunziato al titolo «Marx-Studien» — strive Max Adler in una lettera a Kautsky — perché esso circoscriverebbe in maniera troppo ristretta lo scopo e il programma dell’iniziativa e potrebbe facilmente suscitare il sospetto come se si trattasse di una sorta di Marx-Philologie [Nota 3]. L’eco di queste preoccupazioni è facilmente riscontrabile nell’editoriale — cui si fa explicito riferimento nelle prime pagine del libro del ’22 — con cui si apriva il primo volume delle «Marx-Studien». Pariendo dal presupposto che il marxismo «non è un sistema rigido», e difendendosi preventivamente dalle accuse di ‘ortodossia’ e ‘dogmatismo’, l’editoriale affida ai lavori stessi che saranno ospitati dalla rivista il còmpito di definire un’immaPágina XI gine nuova e ‘aperta’ del marxismo — in quanto patrimonio di idee e di concetti da mantenere in vita attraverso il continuo confronto critico con la realtá —, un’immagine che può definirei solo attraverso il piú stretto rapporto del marxismo con gli sviluppi del sapere moderno. Proprio i lavori di questo volume — si legge nell’editoriale — mostreranno come noi vediamo, nel marxismo, ogni cosa in sviluppo, uno sviluppo che, però, crediamo di poter afferrare correttamente solo quando venga dappertutto stabilito un collegamento consapevole dei risultati e dei metodi di pensiero marxisti con la vita spirituale moderna nel suo insieme, cioè con il conenuto del lavoro filosofico e sociologico del nostro tempo. [Nota 4] Il confronto critico con Kelsen, agli inizi degli anni Venti, dunque, risponde ad esigenze analoghe a quelle cui aveva risposto, nei primi anni del Novecento, il confronto con il neokantismo. Kelsen è, da questo punto di vista, il teorico che ha portato alle estreme conseguenze — ma «in maniera piú profonda e molto piú coerente» — la problematica su cui, all’epoca della Bernstein-Debatte, aveva richiamato l’attenzione Rudolf Stammler. Mentre quest’ultimo rimaneva ancora impigliato nelle maglie della falsa contrapposizione fra «causalitá» e «teleologia» — mostrando la sua incapacità, quindi, di distinguere fra telos e norma (la quale ultima soltanto rappresenta un’effettiva contrapposizione rispetto alla causalità) — Kelsen per primo ha condotto a fondo, nel suo àmbito specifico, «la lotta della gnoseologia moderna contra lo psicologismo» [Nota 5]. L’ulteriore passo avanti compiuto da Kelsen rispetto al neokantismo tradizionale [Nota 6] richiede, corrispondentemente, che anche il Página XII marxismo riadegui le sue categorie, rispetto alle nuove critiche, piú sottili e raffinate, che provengono dall’armamentario teorico kelseniano. Nel caso del confronto critico con il kelsenismo, anzi, è ancora piú chiaro ciò che nel confronto con il neokantismo e con Stammler si leggeva fra le righe: il fatto, cioè, che, la chiarificazione teorica ha il suo fondamento — e, insieme; la sua destinazione — al di fuori di se stessa, nella prassi [Nota 7]. Sottolineando la contemporaneità dell’apparizione delle opere di Stammle e di Bernstein, Adler aveva richiamato l’attenzione — nel 1904 — sul rapporto organico esistente fra neokantismo e revisionismo. Nel caso di Kelsen, il rapporto con la ‘crisi del marxismo’ che data (perlomeno) dalla guerra mondiale è ancora piú evidente, se è vero che già la prima pagina di Socialismo e Stato prende le mosse dalle difficoltà — una questione ‘di principio’ — che, il socialismo si trova a dover affrontare dal momento che, in seguito al crollo militare in Russia, in Germania e in Austria, si è trovato a dover assumere compiti di governo. Ma, come nel 1904 non si era limitato a respingere a limine le critiche revisionistiche, anzi si era sforzato di assumere — ripensandoli in maniera autonoma — i contenuti di realtà in esse presenti; cosí, nel 1922, il tentativo, di Adler è quello di ripensare e approfondire alcuni concetti fondamentali del marxismo; confrontandoli con le trasformazioni delia società e dello Stato intervenute nell’ultimo decennio. 2. Critica dell’ ‘ideologia di guerra’ e problema dello Stato Il problema che Adler ha presente, nel momento in cui scrive il libro sulla concezione marxista dello Stato, non è, dunque, semplicemente, un problema di Marx-Philologie. Si tratta; piuttosto, di verificare la ‘vitalità’ stessa del marxismo, in una fase in cui essa sembra essere divenuta problematica persino all’interno del movimento operaio. Página XIII Da qesto punto di vista, anzi, la polemica con Kelsen è il punto di arrivo di un lavoro di riflessione molto piú lungo e complesso — su cui occorre richiamare l’attenzione — e che per Adler ha avuto inizio con gli anui della guerra mondiale. Non è eccessivo sostenere, anzi, che è proprio in tale periodo che nascono una serie di questioni strategiche — all’interno del movimentos operaio austriaco e europeo in generale — destinate a fas incontrare quasi ‘necessariamente’ Marx Adler con il problema dello Stato e del rapporto fra classe operaia e Stato. Fin dall’aprile 1915, raccogliendo in un volumetto alcune conferenze e saggi (in parte già pubblicati su «Der Kampf»), Adler giustifica questa nuova edizione dei suoi scritti presentandola come un primo tentativo di verificare la possibilità «di mantenere la coerenza dei concetti marxisti» [Nota 8]. Lo scatenamento di forze brutali che la guerra comporta sembra portare lo scompiglio anche all’interno del movimento operaio, altrimenti non si capirebbe come mai cosí spesso si senta ripetere «che i fatti della storia, che ora si verificaro, dovrebbero condurre a piú di un mutamento dei fondamenti di principio del marxismo», non si capirebbe, anzi, come mai piú d’uno parli «del crollo della teoria del socialismo». Un tal modo di vedere comporta, secundo Adler, «la vera e propria bancarotta del socialismo scientifico, poiché significa la sua abdicazione di fronte alla prima situazione storica divenuta critica; significa l’ammissione che il socialismo scientifico, con i suoi mezzi concettuali, non sarebbe in grado di dominare la nuova situazione» [Nota 9]. Se questo fosse del tutto vero, lo scacco sarebbe tanto piú vistoso in quanto il marxismo, come teoria del socialismo, nasce e si fonda sull’esigenza del rapporto piú stretto fra scienza e vita: La posizione della teoria rispetto alla vita — com’è noto — in nessun luogo è piú discussa che nell’àmbito della politica: Ed è una delle rivendicazioni culturali maggiori che il socialismo moderno fa valere, da Karl Marx in poi, quella di avere infine posto termine a questa disputa con l’acquisizione di una scienza politica, che compenetra la vita storica e l’azione politica con la conoscenza delle forze motrici e della legalità della vita sociale. [Nota 10] Alla tesi di coloro che sostengono che la teoria marxista è minacciata dagli eventi della storia piú recente e, in particolare, della guerra mondiale, va obbiettato che essa è piuttosto messa in periPágina XIV calo «da uno strano romanticismo del sentimento e del modo d’intuire, che, nonostante la sua origine borghese, si è fatto strada nelle file del proletariato» [Nota 11]. Si sentono spesso risuonare — osserva Adler — frasi altisonanti come ‘il futuro della Germania si basa sul mare’, ‘vogliamo il nostro posto al sole’ ecc.; contemporaneamente, si è andata sviluppando tutta un’ideologia intorno all’idea di nazione [Nota 12]. Ma proprio il socialismo non dovrebbe mai perdere di vista il fatto che «tutto quest’impeto verso l’esterno, tutta questa famosa espansione dell’idea nazionale moderna non è altro che un fenomeno di movimento del capitalismo» [Nota 13]. In quanto tale, essa è inscindibile dalla natura del capitalismo — cioé dall’essenza del suo modo di produzione e di scambio —; ma non è affatto una ‘necessità’ per il proletariato, né si può dire che tale idea sia veramente ‘nazionale’ in senso storicoculturale. L’attuale idea di nazione non ha piú nulla a che fare con quella presente nella filosofia e nella cultura settecentesche, ove era strettamente connessa ad ideali umanitari e cosmopolitici; non è piú l’idea di nazione propugnata da Fichte, che, in quanto primo pensatore nazional-tedesco; può essere considerato anche come il primo socialista tedesco [Nota 14]. Proprio per questo rimane indimostrato e indimostrabile il fatto «che le vie dell’espansione capitalistica siano anche, in pari tempo, quelle dell’emancipazione proletaria» [Nota 15]. L’idea di nazione, quale viene propugnata dai suoi sostenitori contemporanei, conduce al nazionalismo e questo si trasforma, ben presto, in imperialismo: «aspirazione al potere e al predominio mondiale» [Nota 16]. È quí, appunto, che l’‘interesse’ del proletariato si divide da quello del capitalismo. Non si dica che l’imperialismo è l’ultima e suprema forma del capitalismo che, appunto, val la pena di attraversare, perché — in base alla Página XV teoria di Marx — il socialismo potrebbe anzi derivare solo dal pleno sviluppo del capitalismo. Un tal modo di pensare ripete, ancora una volta, l’ingannevole conclusione (su cui in piú modi si è richiamata l’attenzione), secondo cui ciò che è necessario per lo sviluppo capitalistico proprio per questo andrebbe considerato anche come una necessità per la politica del proletariato. In base a questa logica il socialismo non sarebbe mai dovuto entrare in lotta per delle leggi in difesa degli operai. [Nota 17] L’accezione fortemente antievoluzionistica (e quindi antieconomicistica) della concezione del marxismo che opera dietro queste analisi adleriane è sùbito evidente. Ciò su cui occorre ritornare a riflettere, invece, è quella categoria di ‘romanticismo’ (Romantik), con cui Adler tende ad interpretare un atteggiamento mentale divenuto prevalente all’interno del movimento operaio e di larghe fasce dell’intelligenza tedesca (e non solo tedesca) all’indomani dello scoppio della guerra mondiale. Si tratta; senza dubbio, piú di una formula descrittiva che di una categoria analitica, rigorosamente fondata. E questo limite non è privo di conseugenze, perché pregiudica — almeno in parte — la capacità adleriana di analizzare alcune profonde trasformazioni della forma della razionalità, che connotano, in pari tempo, parallele trasformazioni del lavoro intellettuale nonché del rapporto fra intellettuali e politica. Vi è qui, in un certo senso, una contraddizione (non esplicita) all’interno dell’universo concettuale adleriano. La tesi interpretativa di Adler è già nota: marxismo e socialismo non sono direttamente messi in crisi dalla guerra, bensí da quella sorta di ‘romanticismo’, che, nato all’esterno del movimento operaio, si va affermando anche al suo interno. L’uso della categoria ‘romanticismo’ tende, oggettivamente, a riproporre un’immagine delle ‘ideologie’ altre rispetto al marxismo come semplice ‘errore’ o ‘irrazionalismo’. Il che, da una parte, restituisce un’immagine estremamente (eccessivamente) ‘lineare’ del marxismo (della forma di razionalità) con cui Adler opera concretamente. E, d’altra parte, propone un concetto di ‘ideologia’ che non è certamente quello adleriano. Attraverso la categoria ‘romanticismo’, tuttavia, Adler si apre la via ad una ricognizione delle ideologie degli intellettuali tedeschi, che, da un lato, restituisce un tratto peculiare del marxismo di Adler — il rapporto ininterrotto e fertile con la cultura esterna al movimento operaio — e, dall’altro, ne mette allo scoperto il fundamento: la consapevolezza che, nella battaglia culturale, non sono in gioco semplici ubbie intellettualistiche, ma che avviene un vero e proprio scontro di egemonie. L’ideologia, strive infatti Página XVI fin d’ora Adler, «non è qualcosa d’impotente» («nicht etwas kraftloses ist»), ma è «un potere che unifica gli uomini e li spinge avanti, e grazie alla quale soltanto tutte le forze reali raccolte nella profondità della vita sociale diventano attive e acquistano forma» [Nota 18]. La critica adleriana alla Protessorenliteratur — espressione con la quale Adler indica, ironicamente, le innumerevoli prese di posizione degli intellettuali tedeschi durante la guerra mondiale — in Prinzip oder Romantik! (il primo volumetto con cui si apre la serie degli scritti adleriani del periodo della guerra) è appena accennata, anche se si tratta di un cenno alle opere di due autori di primo piano come Sombart e Scheler [Nota 19]. Ma essa viene largamente ripresa nelle due opere successive: Zwei Jahre...! e Klassenkampf gegen Völkerkampf, ove, anzi, Adler si sforza di valorizzare — di contro a tutte quelle posizioni che in maniera aperta o larvata si schierano a favore della guerra e della supremazia tedesca, sostenendo il primato della Kultur tedesca rispetto alla Zivilisation degli altri popoli [Nota 20] — quelle fratture interne che, soprattutto intorno al ’17 [Nota 21], si vanno delineando all’interno del ceto intellettuale tedesco [Nota 22]. Fin dall’inizio della guerra, larghe fasce d’intellettuali, nel tentativo di definire il ruolo della nazione tedesca nel mondo, finiscono con l’attribuirsi Il còmpito di dare alla guerra un senso positivo. Nelle ‘idee del 1914’ [...] la guerra non era piú semplicemente una lotta difensiva, che la Germania aggredita doveva sostenere contro la superiorità nemica, ma al di là di questo significato assumeva il carattere di piú alta, fatale necessità, che affondava le sue radici nell’antiteticità che opponeva lo spirito tedesco, la cultura tedesca e la vita pubblica tedesca elle corrispondenti forme di vita del nemico esterno. [Nota 23] Página XVII Adottando una terminologia che ricorda da vicino la distinzione sombartiana fra popoli di ‘mercanti’ e popoli di ‘eroi’, nel 1914 Thomas Mann — che, pure, negli anni successivi avrebbe preso partito per la repubblica di Weimar — scrive che la guerra non è stata voluta dalla Germania, bensí da «trafficanti senza scrupoli» [Nota 24]. È vero, tuttavia, — prosegue Mann — che tutta «la virtú e la bellezza della Germania [...] si affermano soltanto in guerra». La guerra, infatti, fa riemergere i valori della Kultur tedesca contro il carattere astratto e meccanico della Zivilisation che ha contraddistinto lo sviluppo delle altre potenze europee (Inghilterra e Francia in particolare): L’anima tedesca è troppo profonda perché la civilizzazione divenga per essa il concetto piú sublime. La corruzione e il disordine dell’imborghesimento le sembrano un ridicolo orrore. [...] E la stessa profonda, istintiva antipatia la nutre pet l’idéale pacifista della civilizzazione. Non è la pace appunto l’elemento della corruzione civile, corruzione che le appare divertente e spregevole al tempo stesso? Essa è bellicosa per moralità, non per vanità e sete di gloria, né per imperialismo. Ancora l’ultimo dei grandi moralisti tedeschi, Nietzsche (che del tutto erroneamente si definí l’immoralista) non faceva segreto delle sue simpatie guerriere, militaresche. [Nota 25] L’esperienza della guerra rilancia con forza i motivi idealistici propri della cultura tedesca da Kant e Goethe a Fichte. Certo, si riconosce, la situazione attuale è molto «piú difficile» e «piú complicata» di quella che si trovarono a fronteggiare i pensatori tedeschi tra la fine del Settecento e gl’inizi dell’Ottocento. Nel frattempo, infatti, la Germania è divenuta un grande Stato (Gross staat) e un’azienda economica gigantesca (wirtschaftlicher Riesenbetrieb) molto complessa: Il còmpito di collegare lo spirito metafisico con queste condizioni dell’esistenza dei grandi Stati modemi è divenuto molto phi difficile di quanto non fosse all’epoca del pastore e el farmacista di Arminio e Dorotea. In questa situazione anche presso di noi crebbe quel duro intellettualismo e quella fredda calcolabilità del puro uomo d’affari, del puro specialista e professionista, quel senso del potere finanziario e industriale e la spietata concorrenza, che chiamiamo americanismo. [Nota 26] Página XVIII Il ‘nuovo’ idealismo — accomunato a quellllo fitchtiano-ottocentesco dalla consapevolezza che «le idee non germinano dalle teorie e dalle dottrine, bensí dalla poderosa esperienza vissuta» [Nota 27] — si è impadronito del lavoro politico e tecnico, di quello sociale e di quello militare, e ha trascinato con sé gli «uomini della società» (i Gesellschaftsmenschen), i filistei, i dottrinari e i sognatori, tutti inserendoli in un’attivítà animata da un nuovo spirito comunitario: Da anni la nostra gioventú aspirava, di contro allo specialismo [Spezialistentum], a nuove sintesi, aspirava a una nuova vitalità di contro al freddo intellettualismo. Ora c’era sintesi e vita, creazione e azione; fede e realismo, fantasia e dovere pratico si ritrovavano. [Nota 28] Collegato a questo primo, poi, si andava sviluppando un altro sintomo, particolarmente significativo. La distinzione fra ‘comunità’ e ‘società’ — fra la società «astrattamente razionalizzata e soggettivizzata» e la «grande comunità unificata per sangue e istinto, costume e simbolo» — che, secondo l’analisi avviata per primo da Toennies [Nota 29], caratterizza lo sviluppo moderno del rapporto fra Stato e società, in Germania ha assunto forme abnormi. Ora, proprio questo iato sembra saldarsi grazie alla scoperta della possibilità di un nuovo rapporto fra ‘populo’ e Kultur: È stata questa l’esperienza indimenticabile, spesso descritta, di quel poderoso agosto, ed è stata questa, allo stesso tempo, la liberazione dalla profonda opposizione [...] fra il nostro popolo, sano, efficiente, laborioso e le spinte dei cosiddetti intellettuali con tutti i loro pessimismi, sofismi e snobismi. [Nota 30] Sembra di assistere — per usare ancora le parole di Ernst Troeltsch — a una «ritrasformazione del mondo da società in comunità» [Nota 31]. La divaricazione fra il mondo della Kultur, che offriva una immagine sempre piú sconsolata di sé e un quadro sempre piú tragico del mondo, e le masse che o, nelle campagne, vivevano nelle vecPágina XIX chie forme di vita organicamente collegate, oppure, nelle fabbriche, si organizzavano ton forte fede net futuro, sembrava essere giunta all’apice quando sopraggiunge la guerra e insieme con essa la rivelazione di ciò che era comune a tutti. Era, alto stesso tempo, l’impressione travolgente della silenziosa dedizione al dovere, della disciplina e dell’efficienza delle masse e il trionfo della prestazione obiettiva. Nel lavoro della guerra si fondevano tutti: nobili e umili, colti e incolti, e le divisioni ritornavano ad essere la divisione naturale del lavoro e della prestazione [...] L’immensa importanza dell’agosto consiste nel fatto che, sotto la pressione del pericolo, ha premuto tutto il popolo in un’unità interiore quale prima non c’era mai stata. [Nota 32] Le parole di Troeltsch qui citare — come quelle di Mann ricordate precedentemente — descrivono in maniera efficace uno stato d’animo estremamente diffuso e sono tanto piú significative in quanto provengono da intellettuali, che, nell’immediato dopoguerra, si professeranno in favore della repubblica. La successione degli eventi — e, non da ultimo, il dibattito sugli obiettivi di guerra — avrebbe ben presto messo in crisi questa interpretazione delle ‘idee del 1914’, rivelandone tutto il carattere ‘mitico’ [Nota 33]. Già net ’17, del resto, all’interno della comune base di partenza — identificabile, appunto, in una diffusa interpretazione delle ‘idee del 1914’ — si produce una frattura fra gli spiriti piú illuminati (i conservatori moderati, poi favorevoli all’esperienza di Weimar) e l’area piú reazionaria, rappresentata da molti di coloro che sarebbero di lí a poco confluiti nella Vaterlandspartei. [Nota 34] Página XX Ciò su cui va richiamata l’attenzione, tuttavia, è un altro punto. Il fatto, cioè, che la guerra — l’atteggiamento rispetto ad essa — induce comunque una profonda trasformazione di tutto il ceto intellettuale: della sua autocoscienza, del modo in cui esso concepisce il suo ruolo e la sua stessa attività. L’‘interventismo della cultura’ — di cui la Professorenliteratur rappresenta solo una delle manifestazioni piú vistose — è, in realtà, il sintomo di un nuovo rapporto fra intellettuali e politica e, in ultima analisi, della consapevolezza che le vecchie ‘potenze’ (a cominciare dallo Stato) hanno perso la loro separatezza [Nota 35]. Non è per niente casuale, quindi, che il dibattito sulla Kriegsideologie si trasformi, in piú d’un caso, in quello sull’origine, la forma e la funzione dello Stato [Nota 36]. Del resto, perfino gli aspetti piú ‘ideologici’ della Kriegsideologie, come, per esempio, l’insistenza sulla guerra come elemento che stimola la fusione fra gli straff sociali piú diversi (l’incontro fra classi dirigenti e popolo, fra Kultur e masse), finisce con il richiamare l’attenzione su un altro dato attraverso cui è possibile intravedere una trasformazione reale dello Stato: vale a dire, il nuovo rapporto che, con la guerra, si viene a stabilire tra masse e Stato. Non casualmente, i settori piú illuminati dell’intelligenza conservatrice tedesca vengono mano a mano ridefinendo la propria ‘missione’ attribuendo a sé una funzione precipua di mediazione, promuovendo — anche attraverso un rapporto non piú semplicemente ostile rispetto alla socialdemocrazia — l’entrata delle masse nello Stato [Nota 37]. Diviene piú chiaro — se si tiene conto di tutto ciò — il senso del confronto critico, portato avanti da Adler negli anni della guerra, con la Kriegsideologie e con la Professorenliteratur, nel senso che esso costituisce non un antecedente generico, bensí un punto di riferimento specifico della sua riflessione sullo Stato. Página XXI Sono significative, in proposito, già le considerazioni con cui, nel 1916, Adler si difende dai due diversi tipi di critica, che possono essere rivolti contro le sue considerazioni sulla guerra mondiale. A chi gli rimproveri di far valere una critica ‘sentimentale’ e non marxista della guerra, Adler obietta che la sua è una critica rivolta non contro i ‘mali della guerra’, bensí contro la guerra in quanto tale. Di ‘sentimentalismo’, semmai, possono essere accusate quelle posizioni che richiedono una limitazione e una ‘umanizzazione’ della guerra stessa. A tali posizioni, che si richiamano al diritto internazionale e all’umanità, sfugge completamente il carattere della guerra moderna: sia l’affondamento delle navi mercantili nemiche sia l’attacco aereo contro i territori nemici, questa orrenda estensione della guerra, alla popolazione pacifica, che ci è stata portata per la prima volta dalla guerra attuale, può essere biasimata in quanto violazione del diritto internazionale propriamente da coloro che riconoscono per principio la guerra come strumento del diritto internazionale solo a causa di una concezione, del tutto retriva e astorica, dell’essenza della guerra moderna. [Nota 38] Queste posizioni si fondano su una distinzione fra esercito e popolazione pacifica, che è un residuo dell’epoca assolutistica; «quando la guerra e la politica erano effettivamente un’occupazione dei governanti». Questa concezione «era possibile in un tempo in cui non esistevano ancora gli eserciti popolari e non erano ancora degli interessi popolari — reali o opinati — a determinare la política». Oggi una tale visione delle cose è del tutto insostenibile: La guerra ha afferrato l’intero paese e l’intero popolo, essa ricava dal paese intero, da tutto il suo lavoro e da tutta la sua popolazione la forza di resistenza, che sui fronti giunge semplicemente alla sua espressione ultima. [Nota 39] È la presenza non piú passiva delle masse e la loro partecipazione attiva alla lotta politica a mutare la forma stessa della guerra e a rendere retorica l’esigenza di una ‘umanizzazione’ della guerra e realistica, invece, l’esigenza di una critica della guerra in quanto tale. Ed è, ancora una volta, il ruolo nuovo che le masse assumono sulla ribalta della storia mondiale — con la carica di volontà e consapevolezza che esse portano — a mostrare la deficienza della critica, secondo cui non si può criticare la guerra perché ciò significherebbe ignorare o misconoscere la sua ‘necessità’ storica. Si Página XXII tratta, in questo caso, di un’accusa ‘pseudomarxista’, che ha un doppio difetto. Da una parte, infatti, ignorando il ruolo della volontà — e di ogni fattore consapevole — nei processi storici, fa del marxismo una sorta di fatalismo, laddove esso non solo non è puro accertamento di ciò che è (Inventarisierung), ma si definisce piuttosto come critica teorica rivolta alla trasformazione (Neugestaltung) [Nota 40]. Ma, d’altra parte, si fonda su una identificazione fra necessità dello sviluppo capitalistico (con i suoi esiti imperialistici) e necessità dello sviluppo storíco tout court, che è contestata dalla presenza — in forma sempre piú consapevole e organizzata — del proletariato stesso. I ‘fatti’ economici da soli — conclude Adle — non conducono a nessun socialismo senza quell’altro fatto che è rappresentato dall’ideologia proletaria, cioè da una tendenza dello spirito e della volontà del proletariato rigorosamente costituita nella sua opposizione rispetto al mondo borghese. La formazione di questa ideologia è rimasta molto indietro negli ultimi anni prima della guerra e questo è stato, non da ultimo, uno dei motivi del crollo dell’Internazionale. Ma essa è stata sopraffatta nella maniera piú pericolosa dall’ideologia della guerra e dall’ideologia dello Stato ad essa connessa [...] La critica dell’ideologia della guerra [...] è quindi ben lungi dall’essere pura ideologia. [Nota 41]. Se si tiene conto di ciò si comprende anche l’insistenza con cui Adler torna a riflettere — proprio in questi anni — su alcuni momenti alti della cultura filosofica tedesca. La ricostruzione di una tradizione culturale allo stesso tempo nazionale e ‘democratica’ (o, addirittura, pre-socialista) si presenta infatti come un’esigenza direttamente teoricopolitice. Il proletariato può far sua l’idea kantiana della «pace perpetua», ad esempio, proprio perché essa non è una semplice utopia; ma si fonda su una visione reslistica del processo storico — quella concezione che, prendendo le mosse dalla teoria della «insocievole socievolezza», fa di Kant un ‘precursore’ di Hegel e di Marx [Nota 42] — e, per tal via, esso può risolvere la contraddizione, che la guerra rende evidente, fra il livello di sviluppo raggiunto dall’economia mondiale e la forma politica, del suo Página XXIII modo di esistenza: contraddizione irrisolvibile all’interno delle tendenze imperialistische del capitalismo [Nota 43]. Ma, ancora piú, il proletariato può richiamarsi a Fichte, che, per primo, ha abbozzato il piano di un’educazione popolare, centrato intorno all’idea della necessità di superare la separazione fra ‘colti’ e ‘incolti’, finalizzato alla formazione di «uomini nuovi», che già all’interno della vecchia società si svincolino da essa per prefigurare la società futura [Nota 44]. L’incontro una ‘filosofia’ e ‘popolo’, peraltro, non deve mai avvenire a discapito della capacità critica della prima. È questo che, invece, sembra essersi verificato fin dall’inizio della guerra, quando ha cominciato a prender corpo quella che Adler definisce una Militarisierung der Philosophie. È nata cosí una Kriegsphilosophie, una «filosofia di guerra» che ha acquistato certo quanto a ‘popolarità’, ma rinunziando completamente al suo abito critico [Nota 45]. In particolare, occorre intervenire criticamente contra ogni tentativo di giustificazione etica della guerra. ‘Vitalismo’, ‘psicologismo’, ‘anarchismo sociale’ ecc. si sono dati la mano nel costruire una vera e propria «metafisica della guerra» [Nota 46]. Quei germi di ‘romanticismo’ irrazionalistico, che erano già presenti all’interno dellla costellazione delle ‘idee del 1914’ [Nota 47], assumono tuttavia una veste particolarmente pericolosa quando culminano nel tentativo di una giustificazione etica dellla guerra, dal momento che essa sembra fondarsi su alcuni princípi che derivano direttamente da una concezione fondamentalmente socialista. Di solito; infatti, la fondazione etica della guerra termina nella contrapposizione fra la concezione individualistica e utilitaristica degli avversari della guerPágina XXIV ra, e lo spirito di sacrificio di cui danno prova i sostenitori della guerra. In questo modo guerra e collettivismo, da una parte, e, pace e individualismo, dall’altra, vanno a parare in una notevole affinità interna. In tali circostanze quale altra scelta rimane al socialismo se non quella di assumere il partito della guerra? [Nota 48] La formulazione piú paradossale di una tale fondazione etica della guerra è però, senza dubbio, quella di Max Scheler [Nota 49]. Per Scheler, infatti, il principio fondamentale dell’etica è l’amore. Ma l’‘amore’ di cui egli parla non è un generico amore per il prossimo, bensí quello che è rivolto alla realizzazione di valori superiori nella cerchia dei portatori di tali valori. Ciò vuol dire: perfetto non è quell’amore che abbraccia la cerchia piú ampia possibile di uomini, come per esempio la filantropia, bensí quello che — per quanto ristretta sia la sua cerchia — abbraccia coloro che sono divenuti portatori dei valori piú elevati. Tali valori, inoltre, non sono un bene uniformemente distribuito, ma sono nazionalmente differenziati. Per cui la scelta in favore della pace o della guerra non può essere decisa a priori, bensí solo dopo aver stabilito quale delle due situazioni favorisce l’affermazione dei valori piú elevati. «L’amore puro non è rivolto al benessere, ma alla salvezza. Esso non conosce, pertanto, la finzione utilitaristica di una equivalenza di valore (Gleichwertigkeit) delle comunità umane [...] Esso decide la differenza di valore attraverso l’azione guerresca e proprio in ciò consiste l’eticità della guerra», che diviene, in tal modo, una sorta di Gottesgericht, una specie di tribunale divino [Nota 50]. In verità, questa giustificazione e fondazione etica della guerra; tentata da Scheler, non va a parare in altro che in un cattivo sillogismo, in una sorta di circolo vizioso. Essa culmina «nella proclamazione della guerra vittoriosa come dimostrazione della superiorità del valore dell’amore di una comunità, cioè nel piú completo Página XXV autosuperamento di ogni valutazione etica per mezzo della fattualità extraetica». Ma ciò conduce a un evidentissimo circolo vizioso: «è etica soltanto la vittoria della comunità portatrice di un amore di valore piú elevato; ma è sempre etica quella comunità, portatrice di amore, che vince» [Nota 51]. Questa filosofia, che è capace di giustificare ambiguamente qualsiasi misfatto [Nota 52], in realtà non è altro — conclude Adler — che una forma di malcelato sciovinismo. Dietro le conclusioni aberranti di Scheler, in realtà — come nota di sfuggita Adler stesso [Nota 53] — operano problemi piú complessi, in particolare, un serrato confronto critico, da parte di Scheler, con la filosofia kantiana, che Adler non può certo condividere. Ciò che in questa critica a Scheler sembra sfuggire ad Adler è l’importanza centrale del distacco scheleriano dal (neo-)kantismo, in quanto sintomo di una profonda trasformazione della forma della razionalità, che di lí a poco — non casualmente — avrebbe facto avvertire le sue istanze all’interno della stessa riflessione teorico-politica e persino entro il dibattito sulla teoria del diritto e dello Stato [Nota 54]. Attraverso la critica scheleriana del formalismo kantiano passa l’esigenza di un piú stretto rapporto fra ‘scienza’ e ‘vita’, mediata dall’istanza di una determinazione non meramente ‘formale’ dell’oggetto della scienza. Parimenti, l’introduzione di una categoria come quella dell’‘amore’ è anch’essa finalizzata a mettere in discussione quel parametro eccessivamente lineare di razionalità, che sembra provenire dal kantismo (e rispetto al quale il neokantismo stesso non ha detto nulla di nuovo), nonché, in ultima analisi, a rompere la distinzione troppo rigida fra ragion pura e ragion pratica (in termini neokantiani: fra scienze della natura e scienze della cultura) e, quindi, a riportare la ‘vita’ (i ‘valori’, le scelte, la politica) all’interno della costituzione stessa della scientificità. Si tratta di una serie di problemi con cui Adler stesso si era, almeno in parte, già confrontato — soprattutto nella sua Auseinandersetzung con Max Weber [Nota 55] — e su cui, di lí a poco, sarebbe stato costretto a ritornare a riflettere, sia pure attraverso diverse mediazioni culturali: non Scheler, ma piuttosto Simmel (e una certa lettura di Hegel), da una parte, e Weber e Schmitt, dall’altra. Ciò su cui occorre richiamare l’attenzione, per concludere l’esame, qui abbozzato, della critica adleriana della Professorenliteratur e, in generale, della Kriegsideologie, è un altro punto. La teoria scheleriana della gerarchia dei valori — della loro non GleichwerPágina XXVI tigkeit —, attribuendo implicitamente alla Kultur tedesca una sorta di superiorità rispetto a quella degli altri popoli — sovente degradata, come si è già accennato, a semplice Zivilisation —, finiva con il presentare, sia pure in forma particolarmente raffinata, un topos típico della letteratura tedesca di quegli anni: quello, cioè, dell’Anderssein (delta ‘diversità’) del popolo tedesco. Mai come in questo caso — osserva Adler — si è fatto di necessità virtú. E, in particolare, da quando si è acquisita consapevolezza di questa ‘diversità’ (Anderssein) per mezzo della critica politica dei contemporanei, non sono mai mancati difensori che, orgogliosamente, si sono professati in favore di questa distinzione (Unterschiedenheit) del popolo tedesco, facendone non solo un tratto del carattere nazionale, ma addirittura un vantaggio etico dei tedeschi rispetto a tutti gli altri popoli. [Nota 56] Persino intellettuali come Troeltsch — cui peraltro, osserva Adler, va il merito di aver portato avanti una critica efficace dell’imperialismo [Nota 57] — non hanno saputo sottrarsi alla tentazione costituita da questo luogo comune della Kriegsideologie quando si è voluto caratterizzare l’idea ‘tedesca’ di líbertà in contrapposizione a quella delle potenze occidentali, sostenendo che essa «consiste piú in doveri che in diritti; o tuttavia in diritti che sono allo stesso tempo doveri [...] La libertà non è uguaglianza, bensí servizio del singolo, al suo posto, nella posizione di organo (Organstellung) che gli spetta» [Nota 58]. Definizione, questa, in sé e per sé corrispondente al vero, solo che da questa concezione, nota Adler, «deriva poi quella teoria; divenuta quasi una professione di fede ufficiale, secondo cui la mancanza di democrazia, nel popolo tedesco, è solo apparente, e i giudizi dell’estero — e cosí pure quelli dei pochi critici interni — deriverebbero solo dall’incapacità di valutare il ruolo che dovere e responsabilità giocano nel carattere del popolo tedesco» [Nota 59]. Non può, pertanto, non essere accolto con tanto maggior favore il primo serio tentativo di andare a fondo, attraverso una meditata analisi storico-política, nel discutere il probIema della ‘diversità’ tedesca: è questo uno dei meriti principali di un’opera pubPágina XXVII blicata nel 1915 da Hugo Preuss [Nota 60], e subito recensita e lungamente discussa da Max Adler su «Der Kampf» [Nota 61]. Il problema da cui Preuss prende le mosse è appunto quello relativo al perché dell’ostilità con cui non solo le nazioni nemiche, ma anche quelle neutrali guardano alla Germania. Una prima risposta — la piú ovvia — è quella che rinvia alla campagna di menzogne scatenata dai nemici per screditare la Germania. Ma tale risposta spiega ben poco: come mai una tale campagna ha potuto prender piede nonostante i rapporti pluriennali della Germania con le altre nazioni, rappord che avrebbero dovuto contribuire a formare già da prima una sua diversa immagine? Né si può attribuire l’odio antitedesco all’improvviso e rapido sviluppo economico di questo paese: anché l’Inghilterra ha accresciuto enormemente la sua potenza, ma ciò — anche se non le ha procurato amore — ha indotto piuttosto le altre nazioni ad allearsi ad essa. Una risposta piú convincente comincia ad affacciarsi quando si guardi il problema con gli occhi con cui lo guarda il mondo extra tedesco. Balza allora in primo piano il problema del militarismo prussiano e del ruolo da esso avuto nella storia moderna della Germania. Ciò che per noi è il compimento del sogno dell’unità tedesca grazie all’istituzione del Reich — osserva Preuss — per i francesi e per tutti i paesi esteri che simpatizzano con essi significa la sottomissione sotto il militarismo prussiano attraverso la politica bismarckiana del ferro e del fuoco. [Nota 62] In realtà, ciò che qui viene in questione è appunto la politica bismarckiana e il peso che, nel determinarla, ha avuto l’avversione rispetto allo sviluppo democratico dell’occidente. Lo stesso militarismo prussiano, dunque, viene in questione non tanto in sé e per sé, ma piuttosto come sintomo di una determinata struttura della política interna della Germania. È qui che ritorna il problema della Andersartigkeit, della ‘diversità’ tedesca [Nota 63] ed è qui che Preuss mostra, con una «splendida analisi» [Nota 64], come l’Anderssein dei tedeschi — cioè, la permanenza dello Stato autoritario (Obrigkeitsstaat) Página XXVIII e di una struttura politica fortemente antidemocratica — abbia pesato e pesi tuttora nell’aggravare l’isolamento internazionale della Germania. Mentre in Inghilterra e in Francia si andavano costituendo le istituzioni della vita statale «grazie alle quali le guide politiche popolari potevano emergere», in Germania non si verificava nulla del genere. «Il nucleo della forma statale moderna è la sua opposizione rispetto al governo autoritario». Ora, mentre in Occidente si è assistito al superamento di questa opposizione, in Germania la forma statale moderna è stata assunta senza che questo significasse la contemporanea rimozione dello Obrigkeitsstaat: La Prussia-Germania appare, proprio a causa della sua posizione cosí preminente sia dal punto di vista economico che culturale, come la vera e propria portatrice di quel principio politico ‘conservatore’ che sta in forte opposizione rispetto a tutte le organizzazioni statali che o non hanno conosciuto, oppure hanno superato il dualismo fra governo autoritario e forma statale moderna. [Nota 65] A ben guardare, lo sviluppo delle forme politiche tedesche ha esercitato un’influenza sull’organizzazione politica delle altre nazioni solo in tre àmbiti: nel campo del servizio militare obbligatorio, in quello dell’assistenza sociale e; infine, nell’autoamministrazione cittadina. Ma neanche questi contributi delle forme politiche tedesche alla modernizzazione sono riusciti a superare il dualismo fra Obrigkeitsstaat e forma statale moderna, né a saldare il rapporto fra classe operaia e Stato. Tanto meno, poi, ad, eliminare quella ‘diversità’ della Germania, che la isola dagli altri popoli, e che ha il suo fondamento — non da ultimo — nella ‘organizzazione’, o forse sarebbe piú esatto dire nella ‘organizzabilità’, che è tipica dei tedeschi: Qualcosa di completamente diverso da tale organizzabilità è però la capacità di autoorganizzazione, che presuppone una volontà comune fortemente sviluppata, una consapevolezza esplicita di costituire da sé lo Stato, di procurarsi da sé la libertà e non di riceverla semplicemente da esso. [Nota 66] Si tratta, dunque, di promuovere ovunque lo sviluppo di tale capacità di autoorganizzazione, poiché solo per tale via è possibile superare la ‘diversità’ tedesca, spingendo — artraverso la conversione dello Stato autoritario in uno ‘Stato popolare’ (Volksstaat) — lá Germania sulla stessa strada percorsa dalle nazioni che si sono date una forma statale moderna. Página XXIX È quindi effettivamente necessario [...] che anche il popolo tedesco venga alla fine afferrato dalla tendenza del processo di sviluppo politico moderno, che è rivolta all’istituzione dell’identità fra popolo e Stato. [Nota 67] Occorre, cioè, — come sostiene lo stesso Preuss — che il popolo «si sappia unito con il suo Stato e con la sua costituzione, poiché lo Stato non è altro che il popolo organizzato grazie alla costituzione». Deve pertanto venir meno la vecchia concezione, secondo cui il governo sarebbe il rappresentante dello ‘Stato’, in opposizione al Parlamento in quanto rappresentante del ‘popolo’; come pure deve venir meno la visione secondo cui i partiti d’opposizione sarebbero «ostili al Reich». Si tratta di un processo che non può realizzarsi altrimenti che attraverso «la piú completa politicizzazione del popolo» [Nota 68]. Anche per questa via, dunque, ritorna la centralità del problema dell’autoorganizzazione [Nota 69]. Proprio qui — proprio, cioè, quando raggiunge il punto saliente — s’intravede però, in pari tempo, secondo Adler, il limite dell’analisi di Preuss. Questi, infatti, «non sa o non vuol dire nulla circa le forze che devono realizzare quest’opera di trasformazione», cioè di politicizzazione del popolo tedesco e di sua autoorganizzazione. Nella sua ricerca — osserva Adler — Preuss ha completamente tralasciato il rapporto fra governo autoritario e divisione in classi e fra esso e il modo in cui le opposizioni di classe si sono tradotte in forme di dominio e di sottomissione politici [Nota 70] Proprio per questo essa corre due rischi. Da una parte, quello «di identilicare completamente lo Stato con un’organizzazione di potere, che non rappresenta interessi di classe [...] Ma, d’altra parte, essa sembra porre come fine, dello sviluppo della politica interna, da perseguire, una volontà politica comune, che — posta tale indipendenza dalle opposizioni reali di classe — significherebbe una trasformazione radicale della struttura politica, se però questa volontà politica comune non fosse resa impossibile appunto da tale divisione in classi» [Nota 71]. L’ultima parola di Preuss, pertanto, sembra Página XXX piuttosto un’«esortazione etica» anziché una proposta politice. Anche perché nell’analisi di Preuss, cosí acuta riel tratteggiare lo sviluppo delle forme politiche, manca ogni accenno al «sottofondo» che le sostiene: cioè a quell’intreccio anacronistico fra interessi di classe dei vecchi Junker e degli agrari e interessi dell’industria pesante, che è finalizzato al mantenimento della subalternità delle masse del proletariato. Eppure, proprio e solo da qui, dal proletariato, viene l’unico esempio di capacità di autoorganizzazione: Se, pertanto, è giusto che solo l’autoorganizzazione è il mezzo grazie al quale il popolo tedesco può formarsi un futuro, che possa effettivamente essere chiamato suo, allora la lotta di classe proletaria deve diventare — ancora piú di quanto lo sia stato finora — l’unica àncora di speranza di ogni futura configurazione politica. [Nota 72] 3. Contro lo statalismo: una polemica con Renner Il confronto con l’opera di Preuss consente ad Adler di accostarsi direttamente al problema dello Stato. Tale problema, peraltro, era già presente — in maniera piú o meno esplicita — nel dibattito intrapreso da Adler con alcune delle opere piú emblematiche della Kriegsliteratur: non solo gli scritti di Sombart e Scheler — o, in forma piú articolata, quelli di Troeltsch [Nota 73] — ma anche le opere, diffusissime, di R. Kjellén, J. Plenge; J. J. Ruedorffer, K. Lamprecht ecc. [Nota 74] L’insistenza su alcuni temi — come, per esempio, la capacità della guerra di promuovere una fusione fra i diversi ceti sociali — è, all’interno di questa letteratura, di per sé significativa. Essa implica non solo la messa in discussione dell’assioma marxista ‘classico’ circa la divisione della società in classi, ma, al di lá di ciò, introduce a una riflessione piú complessiva sulle forme politiche, sulle istituzioni, sullo Stato. Si fa sempre piú strada, in tal modo, la convinzione secondo cui la guerra ha fatto «piazza pulita delle concezioni democratiche, o liberali o meramente contrattualistiche, per non dire socialistiche, della Página XXXI genesi e della funzione dello Stato», convinzione accompagnata dall’altra, parallela, secondo cui dalla guerra sarebbe necessariamente venuto fuori «uno Stato diverso, autoritario e al tempo stesso coinvolgente le masse» [Nota 75]. Non casualmente, proprio da questo contesto sarebbe nata una vasta letteratura, che avrebbe investito direttamente i temi della democrazia, del parlamentarismo, della forma dello Stato in generale: da Weber a Schumpeter e Spengler, da Kelsen a Schmitt e Kirchheimer [Nota 76]. La guerra e le sue implicazioni segnano, peraltro, un momento di svolta non solo all’esterno, ma anche all’interno della classe operaia: del resto, non casualmente, già il primo scritto adleriano degli anni di guerra, Prinzip oder Romantik!, muoveva dall’esigenza di combattere — come già si è visto — quella sorta di ‘romanticismo’, che, nato dalla cultura ‘borghese’, si andava affermando anche entro le file del movimento operaio. Ciò che a questo punto diviene chiaro è il fatto che quella che appariva semplicemente una Romantik piú o meno ‘irrazionalistica’ può in realtà tradursi in una ben determinata concezione dello Stato, del rapporto fra classe operaia e Stato, nonché in una non meno determinata concezione ‘statalistica’ della transizione al socialismo. Assume quindi un particolare rilievo l’aspra polemica, che, nel 1916, vede contrapposti Max Adler e Karl Renner, proprio in relazione al problema dello Stato. Intervenendo su «Der Kampf» per rispondere polemicamente a un precedente articulo di Rudolf Hilferding (intitolato Konflikt in der deutschen Sozialdemokratie), apparso sulla stessa rivista, Renner affronta il tema della «crisi del socialismo» introducendo un’analisi del rapporto fra classe operaia e Stato per la quale, di lí a poco [Nota 77], si sarebbe meritato l’etichetta (non del tutto immotivata, per la verità) di autorevole rappresentante del Kriegsmarxismus [Nota 78]. Richiamandosi all’autorità di Otto Bauer, per garantirsi il diritto Página XXXII di autodefinirsi marxista [Nota 79], Renner risponde alle critiche che Hilferding aveva mosso alla Direzione del partito in relazione all’atteggiamento assunto con la politica del 4 agosto (il voto a favore dei crediti di guerra). Il voto favorevole dei socialdemocratici — obbietta Renner — non significa affatto un’approvazfone della guerra, ma la semplice constatazione del fatto che la guerra c’è e che l’unico atteggiamento realistico, di fronte a ciò, è quello della difesa del paese. «Noi non abbandoniamo la nostra patria nell’ora del pericolo!», scrive Renner, ripetendo la formula con cui la Direzione del partito aveva giustificato la scelta del 4 agosto. Certo, prosegue Renner, alla destra del partito c’è stato anche chi — «per lo piú intellettuali» [Nota 80] — ha tentato di speculare. Ma questo non si può certo dire di uomini come Ebert, Scheidemann e Müller, che «neanche per un istante hanno avuto intenzione di sacrificare l’autonomia della politica proletaria, la lotta di classe e l’idea intemazionalista». Il voto in Parlamento, in realtà, non faceva che prendere atto di un atteggiamento estremamente diffuso: Dappertutto, in tutti i singoli Stati, in tutte le città e in tutti i villaggi, in tutti i Consigli e in tutti gli enti, nelle strade e nelle cese, i compagni si precipitavano spontaneamente a prestare aiuto. È questo, anzi, il motivo fondamentale su cui Renner insiste nel difendere la politica del 4 agosto: la critica di Hilferding è poco obbiettiva perché egli — «del tutto diversamente da Fritz Adler, che giudica ugualmente tutti i socialdemocratici di tutti i paesi belligeranti» [Nota 81] — passa sotto silenzio il fatto che tutto il proletariato europeo ha assunto, allo scoppio della guerra, il medesimo atteggiamento. Anzi, Hilferding non solo evita d’indagare «il fondamento economico» di un fenomeno cosí generale (l’adesione della classe operaia alla guerra), ma tace anche circa il tentativo operato dalla socialdemocrazia tedesca di concordare un attegggiamento comune con le altre socialdemocrazie europee [Nota 82]. Página XXXIII È a questo punto che Renner inserisce le considerazioni piú interessanti del suo intervento. Mettendo da parte la discussione di carattere storico-politico, finalizzata alla difesa dell’operato della socialdemocrazia nei confronti della guerra, Renner passa infatti a dedurre; da questa esperienza, alcuni princìpi generali, di ordine strategico, che investono direttamente il rapporto fra teoria e movimento. Il fatto che il proletariato abbia preso dappertutto posizione a favore dei rispettivi governi «sfida tutto il pensiero tradizionale dei socialisti e giustamente tormenta la loro coscienza» [Nota 83]. Di fronte a questo dato di fatto, a nulla vale l’attéggiamento di Hilferding, che sembra voler intentare un processo per tradimento «della ‘ideologia’ tramandata» [Nota 84]. Piuttosto, per i marxisti si pongono due problemi: 1. capire per quale motivo le masse, senza ecceziòne, si sono schierate a favore dei rispettivi paesi; 2. domandarsi che cosa resti, a questo punto, della solidarietà internazionale. A tali questioni non è possibile rispondere — osserva Renner, introducendo argomentazioni che mostrano una forte affinità rispetto a quelle che, di lí a qualche anno, Hans Kelsen avrebbe fatto valere contro Max Adler e Otto Bauer [Nota 85] — se non si tiene conto di un dato di fatto fondamentale: Innanzi tutto sono da molto passati i tempi in cui il proletariato, al di fuoro delle classi della società civile-borghese, era una minoranza inessenziale dello Stato [...] il proletariato è divenuto la classe piú numerosa di ogni comunità e, sotto piú d’un profilo, addirittura il suo portatore [...] Quanto piú il proletariato progredisce, tanto piú s’identifica con la comunità in cui vive. Ogni pericolo, che minaccia la comunità, tanto piú minaccia anche le classi lavoratrici e propio esse per lo piú. [...] Con la progressiva industrializzazione, dobbiamo sempre piú tener conto del fatto che il destino del proletariato di un paese coincide con la sorte dello Stato. Già oggi i proletari avvertono: noi siamo il popolo, noi siamo lo Stato! Sorge perciò per la teoria socialista il dovere rigoroso di distinguere in maniera piú precisa lo Stato in quanto insieme del popolo organizzato (organisierte Volksgesamtheit) dallo Stato in quanto istituzone di dominio (Herrschaftseinrichtung). [Nota 86] Il fatto che, durante la guerra, proprio là dove il proletariato si presentava come classe piú estesa e piú importante del paese (come in Inghilterra e in Francia) i suoi rappresentanti tanto piú si sono avvicinati al governo dello Stato, dà molto da pensare: ciò spinge Página XXXIV a ritenere, infatti, che non la lontananza, bensí la vicinanza allo Stato sia sintomo della maturità della classe [Nota 87]. Il primo punto, su cui Max Adler richiama l’attenzione, nella sua replica [Nota 88], riguarda directamente l’opportunità di abolire semplicemente la ueberlieferte Ideologie, quell’ideologia tradizionale, che, in fondo, non è altro che quell’ideologia del marxismo, «che, naturalmente, doveva avere il còmpito di distruggere l’ideologia borghese, ma non di lasciare il proletariato senza ideologia. Perché un’azione storica senza ideologia è impossibile, visto che è sempre lo spirito dell’uomo quello in cui devono tradursi le sue condizioni di vita e di sviluppo economiche per pervenire all’azione storica» [Nota 89]. Il problema non è di pura e semplice ‘ortodossia’, dato che non si tratta di ‘professarsi’ in favore di Marx («sich zu Marx zu bekennen»), bensí «di pensare attraverso di lui» («durch ihn zu denken»). Esso riguarda, piuttosto, un nodo centrale, che, non casualmente, era emerso con forza negli anni della Bernstein-Debatte: quello del rapporto fra teoria e movimento e, piú in generale, quello relativo alla possibilità di pensare — e, eventualmente, al modo in cui pensare — un concetto di «storia come scienza» e di «politica fondata sulla scienza» [Nota 90]. Se il socialismo moderno non deve perdere la sua essenza marxista, per cui esso è semplicemente conoscenza sociale tradotta in azione politica, allora solo l’unità teorica (theoretische Einheitlichkeit) può fondare e mantenere l’unità (Einigkeit) della sua azione. [Nota 91] Certo, il modo in cui qui Adler imposta il problema del rapporto fra ‘teoria’ e ‘movimento’ può apparire eccessivamente riduttivo: quasi che fra la prima e il secondo si debba stabilire non un rapporto di tensione dialettica, bensí di carattere riflessivo e speculare, per cui le reciproche valenze si salderebbero esaustivamente. Occorre dunque tener conto — nel valutare questa impostazione adleriana — sia del fondamento teorico su cui si basa, sia del fine cui è rivolta. Per quanto riguarda il primo punto, non può esser passato sotto silenzio il fatto che Adler rivendica l’unità teórica come fondamento dell’unità d’azione politica dopo il serrato confronto — da Página XXXV Causalità e teleologia fino a Marxistische Probleme [Nota 92] — da una parte con il neokantismo e con il revisionismo e, dall’altra, con gli sviluppi contemporanei della scienza sociale da Sombart a Weber. La distinzione neokantiana fra lo statuto epistemologico delle Geisteswissenschaften e quello delle Naturwissenschaften costituisce secondo Adler — implicitamente o esplicitamente — il sostrato e l’impianto teorico su cui il revisionismo bernsteiniano — e, piú in generale, il socialismo neokantiano — hanno negato la possibilità di una «politica fondata sulla scienza» [Nota 93]. Il problema di Adler, dunqué, è quello di vedere come sia possibile — e che cosa significhi — mantenere aperta la possibilità di una ‘politica come scienza’ dopo la ‘crisi’ non solo delle grandi sintesi hegeliane, ma dopo l’ulteriore dissoluzione delle sintesi positivistiche [Nota 94]: questo e non altro significa la presa di posizione critica di Adler rispetto a quelle forme di marxismo ‘ortodosso’ — da Plechanov allo stesso Kautsky — che, attraverso la riproposizione di una concezione del marxismo come Weltanschauung (in cui il rapporta di esso con lo sviluppo delle scienze moderne appare del tutto chiuso), esibiscono chiaramente la loro subalternità al ‘naturalismo’ positivistico. Niente di piú significativo, in proposito, del resto, della critica adleriana del concerto di materialismo [Nota 95]. Critica che, in quanto aspetto specifico di quella piú generale rivolta contro il naturalismo, continua ad operare — come dato definitivamente acquisito e di cui si tratta, semmai, di approfondire la portata — anche negli scritti del periodo di cui ci si sta occupando. Come dimostra, tra l’altro, l’utilizzazione in positivo, da parte di Adler, della critica condotta da Kelsen contro ogni forma di ‘antropomorfismo’ (o sostanzialismo) nella concezione dello Stato. A coloro che deduPágina XXXVI cono la necessità del conffitto fra gli Stati da una teoria del potere applicata all’idea di Stato, infatti, Adler obbietta — citando Kelsen [Nota 96] — che «lo Stato in quanto concetto giuridico non fa affatto parte del mondo, del potere e delle vittorie, della lotta e del dominio, cioè non fa affatto parte del mondo degli eventi storici , bensí del mondo delle norme e delle idee» [Nota 97]. Se si tiene presente tutto ciò, si può cominciare ad intendere che l’istanza adleriana di una compenetrazione fra unità teorica e unità politica non è il prodotto di una esigenza (piú o meno positivistica) di ‘riduzione a sistema’, per altro verso tipica della vulgata tanto della Seconda quanto della Terza Internazionale [Nota 98]. Muovendo dalla crisi del concetto di ‘scientificità’ che costituisce il sostrato logico-epistemologico di una visione del marxismo come Weltanschauung, Adler è portato piuttosto a porre — perlomeno tendenzialmente — l’istanza di un concetto di ‘scienza’ che, proprio per aver fatto i conti fino in fondo con il naturalismo — e nulla è piú significativo, in proposito, della segnalazione della permanenza di un limite naturalistico, nonostante tutto, non solo in Mach, ma nello stesso weberismo —, superi la scissione weberiana fra ‘conoscenza dei mezzi’ e ‘conoscenza dei fini’, riconducendo i valori (le ‘scelte’) all’interno della costituzione delle scienze stesse. Mettendo momentaneamente da parte l’approfondimento di questo punto, val la pena di ritornare alla discussione con Renner per seguirne alcuni sviluppi e tentare di cogliere — attraverso i suoi esiti — il senso dell’insistenza adleriana sulla simmetria fra unità teorica e unità politica. Cosa significa, dunque, in tale contesto, il richiamo alla «‘ideologia’ tramandata» come fondamento di una prassi unitaria? In riferimento al problema in discussione — cioè, il problema dello Stato — l’ideologia del marxismo insiste sul concetto di Stato di classe: «Tuttavia, questo concetto ha sempre avuto il significato per cui il proletariato sta di fronte allo Stato in maniera interiormente distinta (innerlich geschieden), per quanto, ovviamente, sia ad esso legato con tutti i suoi interessi di vita immediati» [Nota 99]. La consapevolezza di questo senso di ‘distinzione’ — aggiunge Adler Página XXXVII — è ció che propriamente si indica con il concetto di coscienza di classe (Klassenbewusstsein). Quest’ultimo concetto ha una funzione complessa. Esso è legato, innanzi tutto, al carattere non economicistico del marxismo, per il quale i concetti economici sono concetti sociologici e, quindi, «contengono sempre tutta la società e la sua ideologia». Ció significa che «il concetto di classe, anche ove venga colto ‘semplicemente’ da un punto di vista economico, esclude il momento politico altrettanto poco di quanto esclude quello morale e quello ideologico in generale» [Nota 100]. Questa dimensione complessiva — e non semplicemente economica — del concetto di classe è assicurata, specificamente, dalla coscienza di classe. È solo grazie a quest’ultima, d’altra parte, che «la classe penetra nel processo sociale». Il marxismo non è scienza naturale: esso, pertanto, non può limitarsi al puro rilevamento del ‘dato’ — alla semplice Inventarisierung — ma è previsione di tendenze e, ad un tempo, intervento per la realizzazione delle medesime. La previsione; cioè, non ha carattere meramente contemplativo, ma è momento interno determinante della realizzazione di una tendenza di contro ad altre. L’ideologia ‘tradizionale’, allora, serve, da una parte, in generale, per preservare e garantire la prassi del movimento operaio dal puro e semplice tatticismo; ma, piú in particolare, serve a orientare — attraverso la costituzione della coscienza di classe e di quel senso di ‘distinzione’ che ad essa si collega — il rapporto con le istituzioni e, innanzi tutto, con lo Stato. «L’interesse che riunisce dappertutto il proletariato allo Stato nella sua forma attuale», scrive in tal senso Adler, «non è un interesse per lo Stato [am Staat], ma nello Stato [im Staat]». Questo significa che, pur operando all’interno dello Stato al fine di acquistare maggior peso ed influenza, le aspirazioni del proletariato non si esauriscono in una serie di rivendicazioni, sia pur importanti, ma pur sempre di carattere corporativo. L’interesse del proletariato, infatti, è «storico-evolutivo», guarda cioè agli sviluppi futuri possibili, «e questo sviluppo accenna al di là dello Stato stotico» [Nota 101]. La coscienza di classe — qual senso di ‘distinzione’ che è garantito dall’ideologia tramandata — consente d’imprimere anhe nelle idee di ‘patria’, ‘bene dello Stato’, ‘patriottismo’; «il senso proletario del futuro» [Nota 102]. Solo in tal modo il proletariato può «preservarsi dal considerare la sua necessaria convivenza Página XXXVIII con i dominanti [...] come una solidarietà o addirittura come un dovere» [Nota 103]. L’insistenza sul tema della coscienza di classe, nonché sul fatto che il proletariato, par agendo all’interno dello Stato, non è interessato allo Stato in quanto tale — né, tanto meno, allo Stato storicamente esistente — perché esso guarda alle tendenze di cui il presente è gravido, consente di ricavare alcune conclusioni sia in ordine al problema (precedentemente posto) del concetto di ‘scienza’ con cui opera Adler, sia, piú specificamente, in ordine al problema del concetto di ‘Stato’ che proprio nel confronto con Renner comincia ad emergere. Com’è possibile — si potrebbe riassumere cosí il problema di Adler —, fermo restando il carattere ‘oggettivo’ e ‘avalutativo’ della scienza [Nota 104], evitare l’esito che ne ha ricavato Max Weber, cioè la divaricazione fra scienza e politica? È qui, appunto, che torna ad avere un ruolo importante il concetto di coscienza di classe. Esso, infatti, contenendo in sé «il concetto di valutazione etica» [Nota 105], può consentire d’immaginare un concetto di scientificità, in cui ‘conoscenza’ e ‘valutazione’ non siano piú sconnesse, ma in cui piuttosto la valutazione sia ricondotta all’interno del piano della conoscenza. La coscienza di classe, in tal caso, significa allo stesso tempo una capacità di previsione e di anticipazione, che, però, — come si è precisato poc’anzi — non hanno affatto il carattere di una gelida costruzione aprioristica da filosofia della storia, ma significano piuttosto — se le continue riflessioni di Adler, volte a dimostrare la possibilità e il significato di una causalità mediata dalla coscienza, devono avere un senso — che la ‘valutazione’ non è un elemento esterno rispetto al processo di cui si prevedono le linee di sviluppo. Se, dunque, per il marxismo si tratta di mostrare come un determinato fine debba nascere ‘in maniera naturalisticamente necessaria’ nella storia, in ciò è sempre incluso, come fattore causale, l’uomo che valuta, e che ritiene anche giusto questo fine. [Nota 106] Ben lungi dall’essere una pura astrazione, dunque, la ‘previsione’ è la mediazione attraverso la quale Adler tenta — sia pur restando fedele all’esigenza di oggettività e di avalutatività, che per il marxismo sono essenziali se esso, dev’essere in grado di misurarsi da pari a pari con gli sviluppi delle scienze sociali esterne al Página XXXIX movimento operaio [Nota 107] — di ricondurre (al di là del neokantismo) la ‘vita’ all’interno della costituzione della scientificità. Che tale tentativo dovesse apparire a Kelsen — in questo ancora fortemente legato (almeno negli anni Venti) a un parametro di scientificità tipicamente neokantiano — una sorta di «sincretismo metodologico» [Nota 108], è fin troppo ovvio. Sta di fatto, d’altra parte, che è proprio tale sincretismo metodologico a consentire ad Adler un’utilizzazione (altrimenti inconcepibile) di quelle teorie dello Stato e del diritto, che — nate all’interno del movimento operaio, ma in forte contrapposizione al neokantismo — ponendo l’esigenza di una maggiore ‘concretezza’ del diritto, avviano ad una piú fertile comprensione di alcune trasformazioni dello Stato tedesco (e non solo tedesco), fra gli anni Venti e gli anni Trenta, trasformazioni assai difficilmente pensabili attraverso la forma di razionalità sottesa dalle ‘distinzioni’ neokantiano-kelseniane [Nota 109]. Ma, se si tiene conto di ciò, si comprende meglio anche la critica che Adler rivolge alla distinzione, proposta da Renner, fra lo Stato in quanto comunità organizzata del popolo e lo Stato come organizzazione di dominio. Tale contrapposizione, infatti, «può avere soltanto il senso di una contrapposizione fra idea e effettualità; per dirlo nel linguaggio giuridico: lo Stato de lege ferenda contro lo Stato de lege data. Cioè, lo Stato in quanto comunità organizzata del popolo designa un còmpito» [Nota 110]. Ma proprio se le cose stanno cosí — proprio, cioè, se lo Stato in quanto comunità organizzata del popolo è un còmpito — tanto piú è necessario il mantenimento della ‘coscienza di classe’ e del senso di ‘distinzione’ (la innere Geschiedenheit) del proletariato. Altrimenti, il contrabbandare lo Stato attuale per la comunità organizzata del popolo significa, a dir poco, semplicemente un amore sviscerato e ‘feticistico’ per lo Stato in quanto tale, e un’incapacità di fondo di condurre un’analisi sociologica — cioè, un’analisi storica differenziata, in cui pervengono a fusione analisi politica e analisi sociale — dello Stato. È possibile dire che lo Stato attuale è una comunità organizzata del popolo, infatti, solo a patto di condurre un’analisi dello Stato del tutto ‘astratta’, formalistica, cioè, — nel senso adleriano — ‘giuridica’. In tal caso — quando, cioè, l’analisi dello Stato prescinde completamente dal suo contenuto di Página XL classe — si ripresenta il rischio, che Adler ha già denunziato nell’analisi di Hugo Preuss: quello, cioè, di concepire lo Stato semplicemente come una «organizzazione di potere». In apparenza, nulla sembra piú lontano dal concetto di Stato come, «organizzazione di potere» che il concetto di Stato come «comunità organizzata del popolo». E nessuno, piú di Kelsen, ha messo in risalto il carattere ideologico dell’idea di Stato come ‘comunità’, come Gemeinwesen (salvo poi a ripresentarla in forma sublimata). Di fatto, comune all’una e all’altra concezione è una visione ‘strumentalistica’ dello Stato. Certo, il concepire lo Srato come «organizzazione di potere» appare molto piú realistico, mentre il definirlo come «comunità organizzata del popolo» sembra molto piú ideologico. Tanto la prima quanto la seconda definizione, però, —tralasciando tutte le possibili distinzioni — si fondano su una analoga sconnessione fra analisi política e analisi sociale. In tal senso, appunto, si può parlare di una visione strumentalistica dello Stato: lo Stato come «mezzo di tecnica sociale» — ovvero come «machina» per usare definizione di Schumpeter [Nota 111] — diversamente fungibile a seconda del soggetto che lo usa. Non casualmente, del resto, è lo stesso Renner, a poter passare, senza gravi difficoltà, dal concetto di Stato come «comunità organizzata del popolo» a quello dello Stato come «leva del socialismo» [Nota 112]. Appare, dunque, in Rermer — non diversamente che in Kelsen — una forma di autonomizzazione del politico, che, secondo Adler, è quanto di piú lontano ci si possa immaginare dal marxismo come sociologia [Nota 113]: cioè, come teoria delle forme di sviluppo della società, nella cui analisi critica non è possibile tenere distinti i diversi livelli. Né vi sono dubbi, per Adler, che tale forma di ‘autonomizzazione’ del politico vada a parare in una sorta di statalismo, se è vero che, di lí a poco, egli potrà parlare con ironia dei «neomistici dello Stato à la Karl Renner» [Nota 114]. Página XLI 4. Significato e limiti della rivoluzione d’Ottobre Certo, nel momento in cui Adler si esprime in questi termini nei confronti di Renner — nel saggio Die sozialistische Idee der Befreiung bei Karl Marx (scritto per il centenario della nascita di Marx, ricorrente il 5 maggio 1918) — sono avvenuti alcuni fatti di estremo rilievo, sia all’interno della socialdemocrazia austriaca, sia all’interno di quella tedesca. Nella prima si è andato realizzando un processo di progressiva radicalizzazione, anche in forme laceranti, come mostra in maniera significativa lo stesso gesto di Fritz Adler del 21 ottobre 1916 [Nota 115]. È quest’ultimo, nella sua Autodifesa, a scagliare contro, Renner — «per il quale principio supremo è lo Stato austriaco» [Nota 116] — l’accusa piú infamante quando lo definisce il Lueger della socialdemocrazia austriaca [Nota 117]. Già nel luglio 1916 — riprendendo il tema di una conferenza tenuta al circolo culturale «Karl Marx» [Nota 118] il 23 giugno — Fritz Adler aveva accostato le idee di Renner a quelle che erano sostenute dai propugnatori delle «idee del 1914» e, in particolare, dal teorico del socialismo nazionale (e prussiano) Johann Plenge. Comune a questi e a Renner [Nota 119], in particolare, è un concetto di ‘organizzazione’, che mostra quanto poco fosse salda l’idea di democrazia in alcuni socialdemocratici. Renner ha oggi la stessa posizione sostenuta un tempo da Eduard Bernstein. Ma oggi Bernstein sta nella ‘minoranza’, poiché — prescindendo completamente da tutte le teorie socialiste — egli è stato sempre un leale democratico. Renner è stato, nel revisionismo, piú radícale, Página XLII lo ha esteso anche all’ideale democratico, egli è — in senso pieno — un puro precorritore delle idee del 1914. [Nota 120] Ma il problema della ‘democrazia’ e ‘libertà’ — in contrapposizione all’affermarsi di vedute statalistíche o, comunque, ‘centralistiche’ — riceve un ulteriore stimolo dai contemporanei sviluppi della situazione tedesca e dall’atteggiamento della stessa socialdemocrazia tedesca. Non casualmente, nel luglio del 1917, Max Adler pubblica, su questi temi, un articolo che — secondo quanto si legge in una lettera a Kautsky quasi contemporanea — è «completamente attraversato da una chiara sfiducia circa la serietà della Majoritätspartei di pervenire a una democrazia effetiva» [Nota 121]. Alle dimissioni di Bethmann-Hollweg — chieste, per bocca di Matthias Erzberger [Nota 122], da conservatori, nazional-liberali e Centro (con un atteggiamento di sostanziale astensione da parte di socialdemocratici e progressisti) — infatti, non fa seguito una democratizzazione, ma un nuovo colpo di mano da parte del comando supremo e dell’imperatore, che, senza curarsi del Reichstag, nomina direttamente Michaelis «facendo cosí fallire in modo addirittura grottesco una possibile offensiva per la parlamentarizzazione» [Nota 123]. Il «nuovo sistema» — la svolta ‘democratica’ — vanno quindi a parare nella situazione paradossale e, per la verità, assai poco democratica, per cui tutti i partiti — come osserva ironicamente Adler — attendono con ansia il primo discorso del nuovo cancelliere per scoprire se è dalla loro parte o meno [Nota 124]. La verità è che il tempo ha mostrato tutta la validità delle osservazioni di Hugo Preuss, che, per primo, ha ricondotto l’Anderssein dei tedeschi al fatto che la Germania — diversamente dalle altre potenze occidentali — non ha conosciuto uno sviluppo democratico. «Ora, però, il richiamo all’autogoverno del popolo» — ritenuto Página XLIII un’eresia al primo apparire dell’analisi di Hugo Preuss [Nota 125] — «è divenuto addirittura una parola d’ordine patriottica in Germania, alla quale — fatta eccezione per la casta degli Junker e dei padroni del vapore (Schlotbarone), ai quali, come spesso è avvenuto in questa guerra, si sono associati con prontezza servile alcuni professori e intellettuali di estrazione nazional-liberale — nessun partito del Reichstag tedesco osa sottrarsi» [Nota 126]. La vecchia «idea tedesca di libertà» non è piú una virtù e il sistema dello Obrigkeitsstaat è divenuto, improvvisamente, intollerabile: «fra le vecchie democrazie in Occidente e la giovane libertà in Russia, il popolo tedesco non vuoi restare piú a lungo il solo ad essere guidato dall’alto» [Nota 127]. Il mutamento di sistema, in Germania, non può ridursi a una semplice «crisi ministeriale», né può consistere nel fatto che, al posto di alcuni funzionari superiori del Reich, subentrino alcuni parlamentari. Ma tutto dipende dal fatto che il popolo, infine, si decida, per mezzo dei suoi rappresentanti eletti, a determinare da sé il sono destino, a fare la sua propria politica. [Nota 128] Mentre, dunque, alcuni dei filoni principali del marxismo europeo — non solo Renner, ma anche Kautsky, Cunow, Bernstein e, di lí a poco, lo stesso Hilferding [Nota 129] — partendo dall’analisi delle transformazioni del capitalismo nell’ultimo quarantennio (e sia pur facendo valere la giusta istanza di una transformazione del rapporto fra classe operaia e Stato), si orientano sempre piú verso una enfatizzazione del ruolo dello Stato in quanto tale, proprio Adler — proprio, cioè, i pensatore che mostra, all’interno del marxismo europeo degli anni Venti, una sensibilità tutta ‘pregramsciana’ per Página XLIV la complessità dell’intreccio fra politica ed economia — si muove in una direzione sostanzialmente diversa e innovatrice [Nota 130]. In tal senso, la ricerca adleriana rompe quella inusitata (e tutt’altro che innocua) ‘traducibilità di linguaggi’, per cui, negli anni Venti, uno studioso come Schumpeter — sùbito dopo aver affermato la vitalità del capitalismo concorrenziale (nonostante la crisi finanziaria dello Stato fiscale, conseguente alla guerra) [Nota 131] — può richiamarsi in positivo all’esigenza leniniana di una «sottomissione senza riserve delle masse alla volontà unica di chi dirige il processo lavorativo» [Nota 132]; e un osservatore sensibile dei primi eventi della repubblica di Weimar come Troeltsch può accettare l’idea del socialismo in quanto questo significhi «economia pianificata» [Nota 133]; e Kelsen può sottolineare le analogie esistenti fra la critica weberiana e quella leniniana del parlamentarismo [Nota 134]; e Rathenau, d’altra parte, — tutt’altro che parco di critiche, per altro verso, nei confronti del socialismo contemporaneo — guarda non senza interesse a quella corrente, che viene dall’oriente, «contraddittoria e tuttavia profondamente sentita: ad andare contro la democrazia per amore della libertà» [Nota 135]. Il nesso che si viene a stabilire, per Adler, tra problema dello Stato e problema della democrazia e dell’autoorganizzazione, costituisce il parametro e l’orizzonte a partire dai quali è possibile comprendere il suo rapporto non solo con i teorici socialdemocratici e con le correnti della scienza sociale contemporanea, bensí anche il suo atteggiamento rispetto alla rivoluzione russa. I primi interventi adleriani, già all’indomani della rivoluzione di febbraio, sono segnati fondamentalmente da un interrogativo: quale sarà l’atteggiamento del nuovo governo rivoluzionario russo nei confronti della guerra? La speranza, ovviamente, è che la rivoluzione russa — i suoi dirigenti — prendano immediatamente posiPágina XLV zione per la pace [Nota 136], ponendo fine alle mire imperialistiche della borghesia russa. È tale l’attesa in tal senso che quando — il 1° luglio 1917 — si verifica, da parte russa, una ripresa dell’offensiva, Adler non esita a parlare dell’esistenza di una «contraddizione» all’interno della rivoluzione [Nota 137], sia pure in parte giustificata dal comprensibile timore russo nei confronti del militarismo e della Obrigkeitsregierung tedeschi [Nota 138]. Ciò che va rilevato, fin da questi primi interventi sulla rivoluzione di febbraio, è un altro punto: la tendenza, cioè, a valutare gli eventi russi non isolandoli, ma per i riflessi internazionali che essi possono avere. E questo non nel senso — secondo Adler ‘miope’, cioè incapace di elevarsi «all’altezza storico-mondiale» — che la confusione nell’impero russo (conseguente alla rivoluzione) rischia di far vacillare «uno degli appoggi piú potenti dell’Intesa» [Nota 139]. Ma nel senso che la vittoria contro lo zarismo è una vittoria di tutte le forze che aspirano alla democrazia: Se ai nostri giorni giunge a compimento ciò che è stato l’aspirazione di tutti i paesi d’Europa per tutto il diciannovesimo secolo; se ora è infine crollato quel dominio violento, che è stato — dai tempi della Santa Alleanza — il baluardo della reazione in Europa [...] la vittoria su questa potenza dell’oscurantismo non dev’essere allora, in pari tempo, una vittoria e un rafforzamento per ogni paese, per ogni popolo, che ci tenga allo sviluppo della democrazia e al progresso politico? [Nota 140]. La nuova Russia — la Russia della libertà popolare, della Volksfreiheit — non potrà non mostrarsi aperta e sensibile a ogni richiamo che le venga rivolto in tale spirito di libertà [Nota 141]. La lotta di liberazione condotta dal popolo russo diviene uno stimolo ad avvertire in maniera sempre piú dolorosa «la mancanza di effettiva democrazia» [Nota 142], anche in tutti gli altri paesi. La tendenza che emerge da questi primi giudizi [Nota 143] è abbastanza evidente: la rivoluzione russa ha un’importanza tale da segnare una svolta nella storia europea e mondiale, per i processi che attiva, per le forze che mette in movimento e per le speranze che suscita, ben al di là dei suoi confini geografici. Sette anni piú tardi, nel saggio scritto per la morte di Lenin, Página XLVI Adler ribadisce sostanzialmente — sia pure all’interno di un giudizio piú complessivo, in cui vengono segnalati i limiti di centralismo, interno ed esterno (nei rapporti, cioè, con i partiti socialisti degli altri paesi), della rivoluzione russa — queste prime valutazioni. Se còmpito di ogni rivoluzione è quello di distruggere le istituzioni sopravvissute e le vecchie forme di vita, che sono divenute un ostacolo allo sviluppo, per dar spazio all’ulteriore evoluzione della società, bisognerà allora ammettere che «non c’è mai stata rivoluzione piú profonda di quella russa»: E quest’opera grandiosa ha la sua importanza non solo per la Russia: è un tassello nell’opera di liberazione del mondo stesso. E [...] Le catene, che Lenin ha spezzato in Russia, erano catene già pronte anche per noi. [Nota 144] Ma vi è ancora un altro punto, che Adler sottolinea in positivo a proposito della rivoluzione russa. Il fatto, cioè, che essa — attraverso l’idea dei consigli di fabbrica [Nota 145] — ha fornito l’esempio di uno strumento organizzativo capace di superare l’impasse, in cui la socialdemocrazia (e la stessa organizzazione sindacale) si è venuta g trovare negli ultimi tempi. Il rapido sviluppo della socialdemocrazia nei dieci anni immediatamente precedenti la guerra — osserva Adler — non significò affatto un rafforzamento del suo carattere rivoluzionario. Proprio al contrario; nelle due direzioni principali della sua attività, sul piano politico come sul piano sindacale, si dovette osservare un inquietante abbassamento di livello e un adattamento all’ordine sociale del capitalismo. I sindacati erano sempre piú organismi di lotta per gli interessi piú immediati degli operai; essi si interessavano ai problemi particolai ed erano pronti a fare grandi sacrifici nelle lotte per gli aumenti salariali e per migliori condizioni di lavoro, ma si mostravano contrari ad ogni altro sacrificio se questo minacciava d’indebolire la forza sindacale. Sotto la loro influenza, il socialismo assunse a poco a poco la forma di una assicurazione popolare burocratica. [Nota 146] È in tale contesto che si è inserita l’idea dei consigli operai, operando in maniera liberatoria. Grazie ad essi «l’autodeterminazione Página XLVII democratica del popolo» si è riempita di nuovi contenuti; «i legami tra la massa e i suoi eletti» si rinsaldano e, in pari tempo, «rinasce l’iniziativa del partito, il quale si arricchisce di innumerevoli impulsi popolari che non avrebbero avuto, altrimenti, la possibilità di manifestarsi» [Nota 147]. Ciò che invece non è immaginabile è la possibilità di ‘trapiantare’ il modello sovietico, cosí com’è, in situazioni storiche diverse. Questo non è possibile, perché il bolscevismo è «una tattica risultante da condizioni storiche e sociali locali e non trapiantabile, senza modifiche, in qualsiasi luogo, malgrado la sua ricchezza di indicazioni generali» [Nota 148]. Per quanto riguarda l’obbiettivo del superamento dello Stato borghese, non è possibile pensare «una soluzione uniforme e valida per tutti i paesi, ma dipende proprio dal modo e dal grado dello sviluppo della differenziazione sociale e del processo politico rivoluzionario» [Nota 149]. La arretratezza russa [Nota 150], l’eccezionalità delle condizioni in cui si è venuta a realizzare la prima rivoluzione socialista, hanno allo stesso tempo determinato i suoi limiti. La dittatura del proletariato è in stretto rapporto con «l’idea di un’autentica democrazia» [Nota 151]. Ciò significa che essa non può non avere un carattere di massa: il proletariato deve rappresentare l’unione, se non di tutti, «almeno dei piú importanti interessi popolari» [Nota 152]. Ma è qui che diviene visibile la contraddizione dell’esperienza sovietica: il fatto che essa, da una parte, ha avviato un processo in cui le masse sembrano potersi riappropriare della loro iniziativa, rompendo la sclerotizzazione di un rapporto burocratico fra ‘dirigenti’ e ‘diretti’; mentre, dall’altra, anche — ma non soltanto — a causa dei condizionamenti storici in cui si è realizzata, presenta un limite ‘giacobino’ [Nota 153]. L’organizzazione dei bolscevichi si è fondata sulla «rinuncia alla conquista delle masse». È per questo — osserva Adler anticipando alcune critiche, su cui piú tardi avrebbe insistito Kelsen — che la dittatura dei bolscevichi non è affatto una dittatura del proletariato, ma la dittatura di un piccolo gruppo di dirigenti proletari; senza contare che essa può diventare anche una dittatura contro una grande parte del proletariato, come Página XLVIII dimostra l’attuale governo sovietico, il quale opprime non solo la borghesia, ma anche tutti i socialisti non bolscevichi. [Nota 154] L’opera di Lenin — che non ha nulla a che vedere con il Putschismus — rappresenta un grande tentativo di ‘rivitalizzazione’ del socialismo: una lotta continua contro il seelenloser Sozialismus, contro l’atrofia rivoluzionaria. È tuttavia significativo — e dà da riflettere — il fatto che questo capo rivoluzionario, per il resto mai prigioniero di schemi preconcetti («er nie ein Mann der Formeln war»), abbia commesso in particolare un errore: quello di voler dirigere in maniera centralistica («von einem Zentralpunkt aus») la tattica socialista al di fuori della Russia [Nota 155]. A partire da un tale limite, difficilmente riconducibile alla (e giustificabile attraverso la) arretratezza delle condizioni russe, è possibile guardare sotto una luce diversa sia la forma di primato della politica (come primato del partito), che si è andata realizzando in Russia, sia la forma di Stato che ivi si è andata costituendo. Nata dalla tattica dell’organizzazione bolscevica, fondata sulla «rinuncia alla conquista delle masse», essa è stata tuttavia costretta, in seguito, a operare una serie di concessioni, non solo ai contadini, ma anche agli ‘specialisti’, agli intellettuali borghesi. È per questo che lo Stato sovietico non può essere considerato uno Stato proletario [Nota 156]. Con parole non molto diverse da quelle di Adler, nello stesso giro di anni, anche Otto Bauer criticava il carattere di «socialismo dispotico» [Nota 157] che la dittatura del proletariato aveva assunto in Russia. Anch’egli, non diversamente da Max Adler, individuava Página XLIX nel problema dell’autoorganizzazione — significativa in tal senso la sua attenzione per la «democrazia industriale» [Nota 158] — un obiettivo centrale della strategia del movimento operaio. E, da questa consapevolezza, faceva derivare la denuncia — ancora piú esplicita che in Adler — di quello ‘statalismo’ (la «credenza superstiziosa» nell’onnipotenza dello Stato), sul cui terreno finivano con l’incontrarsi, paradossalmente, il vecchio socialismo prussiano e il nuovo bolscevismo: tra il socialismo prussiano dei Lensch, Plenge, Spengler, che celebrano lo Stato prussiano come il preludio al socialismo e il socialismo come una realizzazione dell’idea prussiana dello Stato, ed il comunismo russo esiste un’intima affinità: qui come là vi è la stessa credenza superstiziosa nella spontanea forza creatrice della taumaturgica violenza; qui come là vi è la medesima speranza nello Stato onnipotente, in grado di controllare gl’individui in tutte le sfere della loro vita, qui come là vi è lo stesso vaneggiamento dell’onnipotenza di una minoranza dominante che possa e debba portare con la coercizione a forme piú alte di vita delle masse obbedienti e docili. [Nota 159] 5. La complessità della vita moderna: confronto con Simmel Contro le tendenze dominanti, di carattere ‘statalistico’ — tendenze dominanti, e sia pure con diverse articolazioni, non solo all’interno del bolscevismo e del socialismo marxista, ma anche in gran parte della politologia e del pensiero sociologico contemporanei — Adler insiste nel definire lo Stato «un pezzo di società» [Nota 160]: «Società e Stato, per i marxisti, non sono due cose diverse» [Nota 161]. Quest’affermazione — contro la quale avrebbe polemizzato aspramente Hans Kelsen [Nota 162] — viene fondata, da Adler, attraverso un frequente richiamo a Marx. In realtà, però, essa non può essere compresa se non inserendola in un contesto piú complessivo di problemi. Essa, infatti, non è deducibile linearmente da alcuna ‘autorità’: meno che mai, in questo caso, la Marx-Philologie può risolvere dei problemi. La questione, semmai, è un’altra. Si tratta, cioè, di vedere fino a che punto alcune formulazioni ‘classiche’ del marxismo sono in grado di cogliere alcune trasformazioni reali Página L dello Stato moderno: tenendo conto ovviamente della libertà d’interpretazione che Adler fin dall’inizio si è riservata, rifiutando l’idea del marxismo come sistema ‘compiuto’ e, quindi, la distinzione fra marxismo e adlerismo [Nota 163]. Che sia questa, e non altra, la posta in gioco, è reso evidente da alcuni elementi. L’unione di Stato e società, innanzi tutto, è volta a scongiurare un pericolo che inevitabilmente si presenta — lo dimostrano già il confronto sia con Hugo Preuss sia con Karl Renner — ogni qualvolta lo Stato appaia ‘distinto’ dalla società: il pericolo, cioè, che lo Stato diventi per tale via uno strumento neutro, diversamente fungibile. L’interpretazione dello Stato come sistema di norme va bene — come si è visto [Nota 164] — finché si tratta di portare avanti, anche all’interno della teoria dello Stato, la lotta contro ogni tipo sostanzialismo o di naturalismo. Diviene problematica, invece, quando tale acquisizione metodologica e epistemologica diventa — come si verifica in Kelsen — la mediazione attraverso la quale lo Stato si trasforma in un puro «mezzo di tecnica sociale». Ma, in secondo luogo, fino a che punto la ‘distinzione’ fra Stato e società aiuta a capire le trasformazioni del mondo contemporaneo, quelle trasformazioni che divengono particolarmente evidenti nella trasformazione della democrazia in democrazia organizzata? [Nota 165] Ovvero, quando, per un verso, lo Stato si ‘socializza’ sempre di piú, radicandosi nella società civile, mentre, per l’altro verso, tutti gli àmbiti di quest’ultima si politicizzano mettendo in crisi ogni possibilità di ‘neutralizzazione’? [Nota 166] È possibile, di fronte a tali trasformazioni, mantenere quella distinzione rigida fra diritto e realtà storica — fra piano delle norme e piano dell’essere — che Kelsen vuol far valere? Non vi è, inoltre, il rischio che anche nel Página LI kelsenismo si ripresenti — sia pure in forma idealizzata e sublimata — una sorta di statalismo? Alcuni elementi dell’analisi adleriana sono già noti: ogni forma di ‘centralismo’ conduce a un distacco, estremamente pericoloso, fra dirigenti e diretti e, in generale, contiene il rischio della burocratizzazione. Non casualmente il socialismo ‘moderno’ si è rifatto all’idea dei consigli operai — o, per altro verso, agli elementi innovativi contenuti nel socialismo delle gilde [Nota 167] — nel tentativo di elaborare nuovi istituti («forme nuove della lotta socialista di clase»), che, essendo caratterizzati dalla partecipazione attiva e diretta delle masse, dalla loro iniziativa costante e, soprattutto, dalla subordinazione spontanea a regole e norme che non sono imposte dall’esterno, funzionino — per riprendere una locuzione gramsciana — da scuola di vita statale [Nota 168]. Questa dissoluzione dello «Stato Leviatano», inoltre, non sinifica affatto, necessariamente, la fine della centralizzazione tout couti bensí la sostituzione della centralizzazione dall’alto con una che sia «il prodotto organico che si sviluppa spontaneamente a partire dai bisogni di singoli gruppi d’interesse, dunque dal basso, cosí come sono appunto le necessità della produzione della impresa o anche soltanto i vantaggi, che scaturiscono dall’unificazione, a consigliare una tale organizzazione che si pone al di sopra dei singoli raggruppamenti» [Nota 169]. Questa nuova linea strategica, d’altro canto, nasce dall’esigenza i tenere conto di alcune trasformazioni reali del mondo contemporaneo e, ad un tempo, di riclassificarle dal punto di vista della classe operaia. Quel dibattito sulla democrazia, sul parlamentarismo e, in generale, sullo Stato, che ha preso l’avvio proprio dagli anni della prima guerra mondiale, ha posto l’accento sull’insostenibilità delle vecchie «vedute centralistiche» [Nota 170] e ha sollevato il problema di come sia possibile, tenendo conto della pluralizzazione e della complessità della società contemporanea — ad un tempo inificata e scomposta dall’attraversamento di cerchie «la cui rete s’ipessisce giornalmente di nuovi fili» [Nota 171] — avviare tuttavia in essa alcune linee di ricomposizione. Ciò esige però, in pari tempo, una profonda revisione degli strumenti concettuali. Kelsen insiste sul fatto che la giurisprudenza non Página LII deve spiegare la ‘vita’ [Nota 172]: ma questo va bene solo fin quando si rimane sul piano critico-gnoseologico. È meno accettabile, invece, nei limiti in cui sembra condurre a un predominio del metodo giuridico rispetto a quello sociologico. L’impostazione kelseniana, infatti, conduce a trascurare il fatto che — come mostra il problema della ‘dittatura’ — vi sono problemi di realtà concreta che sono, ad un tempo, problemi giuridici [Nota 173]. È già significativa, del resto, l’elaborazione della tendenza della giurisprudenza moderna che va sotto il nome di «scuola del diritto libero» [Nota 174], che è solo «un sintomo significativo» della «insoddisfazione» e «del tormento interiore del giurista pensante, ed è solo un caso particolare, che si presenta all’interno della determinatezza tecnica e metodologica di un singolo specialismo» di quei motivi di pensiero, che si presentano sia in altre cerchie specialistiche sia in altri momenti della vita politica e sociale, che «spingono ad andare oltre l’espressione letterale delle leggi, redatta una volta per tutte, e immutabile, verso la loro forma vivente, configurata attraverso un’applicazione concreta, volta per volta, del diritto» [Nota 175]. Ciò significa che — come avrebbero obbiettato i critici di parte ‘fenomenologica’ a Kelsen [Nota 176] — la delimitazione dell’oggetto giuridico non può essere puramente formale (erkenntniskritisch), ma dev’essere oggettiva (gegenständlich) [Nota 177]: cosí, ad esempio, «non si può scindere l’autorità dello Stato» — obbietta a Kelsen, da un diverso punto di vista, Carl Schmitt [Nota 178] — «dal valore (Wert) di esso». Página LIII Ma, se il problema che a questo punto si pone è quello di un rapporto piú stretto fra scienza e vita — se è questo, cioè, il nodo intorno al quale si articola un processo di trasformazione sia delle forme della razionalità, sia della forma della politica — è lo stesso neokantismo di Adler a esser messo in questione. Non casualmente, criticando il «marxismo trascendentale» di Adler dal punto di vista di una «filosofia concreta», che trae ispirazione da alcuni motivi del secondo Dilthey non meno che da Heidegger [Nota 179], Herbert Marcuse insiste, in un suo saggio degli anni Trenta, sull’impossibilità di pervenire, attraverso il metodo trascendentale, alla realtà concreta. Il metodo trascendentale osserva Marcuse — significa anzitutto un distacco cosciente e sistematico dagli oggetti, dalla realtà quale l’incontriamo nell’esperienza spaziotemporale. Ciò non significa che nel corso della ricerca questa realtà non sia tenuta costantemente presente, setto forma di esempio, verifica, applicazione; ma essa non costituisce mai il ‘filo conduttore’ del metodo. L’interesse, il senso e lo scopo della ricerca è altrove. Ciò che essa si propone di appurare [...] non sono le leggi che esistono in questa realtà, l’esistenza concreta dell’uomo e il suo rapporto col mondo —, ma la possibilità di questo mondo e delle sue leggi. [Nota 180] Proprio per il fatto che l’interesse della filosofia trascendentale è rivolto alla semplice possibilità, essa è interamente segnata dall’«allontanamento dalla realtà»: «il metodo trascendentale si rivolge ad un campo di oggetti che ha una natura interamente diversa dalla realtà che esiste e accade nello spazio e nel tempo» [Nota 181]. Ciò significa che il tentativo adleriano di una fondazione trascendentale dell’esperienza sociale può risultare interessante nei limiti in cui «si riferisce all’esperienza sociale come oggetto di un sistema scientifico di ricerca e quindi alla fondazione gnoseologica della scienza sociale». Esso va invece criticato se pretende di essere una fondazione gnoseologica «dello stesso essere e accadere sociale» [Nota 182]. Adler avrebbe risposto alcuni anni piú tardi — nella sua ultima opera — alle critiche di Marcuse, sostenendo che, per chi abbia Página LIV un minimo di consuetudine con la filosofia trascendentale, la distinzione marcusiana fra esperienza possibile e esperienza reale è del tutto priva di senso [Nota 183]. Anzi, rovesciando contro il suo critico l’accusa di ‘neokantisrno’ Adler fa notare che Marcuse può sostenere la tesi che il sociale è indifferente al problema dell’«esperienza possibile» solo perché, forse inconsapevolmente, è ancora legato alla distinzione, windelbandiano-rickertiana, fra scienze della natura e scienze dello spirito [Nota 184]. Tralasciando di entrare nel merito della Auseinandersetzung fra Max Adler e il giovane Marcuse, va comunque detto che il ‘sospetto’ di quest’ultimo era tanto legittimo quanto infondato. Il tentativo adleriano di una fondazione trascendentale della socializzazione — precedente, quindi, rispetto a quella consentita dal mondo della produzione, dei rapporti economici e sociali — è rivolto fin dall’inizio ad un’unico scopo: ribadire che non esiste struttura economica, che non sia ab initio inscritta entro forme (istituzionali, giuridiche, politiche, filosofiche, religiose ecc.). In tal senso, la tematica del carattere trascendentale dell’esperienza sociale costituisce il vero e proprio fondamento teorico dell’antieconomicismo adleriano — basti pensare al tema della realtà dell’ideologia [Nota 185] o al rifiuto del concetto di classe come concetto puramente economico [Nota 186] — quell’antieconomicismo, che distingue fortemente il marxismo di Adler dal panorama europeo contemporaneo. Ma ciò su cui, soprattutto, occorre richiamare l’attenzione, è un altro punto: cioè il carattere molto particolare del rapporto di Adler con Kant, in maniera specifica in ordine al rapporto tra filosofia teoretica e filosofia pratica. È nota l’indicazione di Kant, — scrive Adler — che scuote profondamente il pensiero, di fare attenzione a ciò, se cioè la ragione teoretica e quella pratica, che si distinguono in maniera cosí rigida nell’essere e nel dover-essere, alla fine tuttavia non si rapportino in una radice comune. Io non oso decidere se questa radice sia già posta nell’elemento sociale-trascendentale. Ma se si tiene conto del fatto che è posta qui l’origine della relazione dell’individuo con il prossimo in generale, che solo a partire da qui prende le mosse quella molteplicità dei soggetti, che costituisce quel mondo spirituale, che sperimenta la sua regolamentazione nella norma, e che d’altra parte ogni norma riconduce a una volontà pura, che, nella sua validità generale e nella sua assenza di contraddizioni racchiude inscindibilmente in sé il riferimento Página LV a una molteplicità indeterminata di soggetti del volere: allora mi sembra che qui, comunque, siamo giunti vicini, essenzialmente, al ceppo comune della legalità della coscienza in generale. [Nota 187] Mentre, da una parte, Adler presenta Kant come precursore di Hegel e Marx; dall’altra, la tematica relativa all’unificazione derivante dalla ungesellige Geselligkeit viene sottratta al confronto con la smithiana «mano invisibile»: Kant non ha nulla a che fare con il liberalismo [Nota 188]. E questo intanto è possibile, per Adler, in quanto egli fin dall’inizio inserisce un elemento ‘materiale’ all’interno del ‘formalismo’ kantiano: cioè il rapporto con la storia visto sotto il profilo del problema dello sviluppo sociale. L’etica kantiana è importante perché consente di «assumere la causalità del volere umano non piú come un fatto indefinito e indefinibile nel computo della necessità storica, bensí come un fattore la cui direzione è determinata» [Nota 189]. Il metodo trascendentale non è ‘vuoto’: non è affatto vero che esso possa assumere, surrettiziamente, qualsiasi contenuto. Dal momento che esso è il fondamento della socializzazione non può non essere carico, fin dall’inizio, dei valori che nelle diverse forme di socializzazione vengono alla luce: Non dalle istanze etiche si sviluppano nuove condizioni sociali, ma al contrario col trasformarsi dei rapporti sociali fra gli uomini questi mutamenti devono necessariamente manifestarsi alla loro coscienza come istanze morali. È lo stesso e identico processo storico causale, quello nel quale si trovano riuniti i rapporti sociali e i giudizi morali che su di essi si pronunciano. [...] L’imperativo categorico [...] non è propriamente altro che la forma della connessione sociale, la forma dell’effettiva socializzazione dell’uomo. [Nota 190] Certo, se si tiene conto di questa interpretazione anti-formalistica di Kant — una interpretazione in cui, del resto, la distanza fra Kant e Hegel si assottiglia di molto [Nota 191] — si comprende perché Adler non potesse condividere le critiche di Scheler al formalismo kantiano [Nota 192]. Meno chiara è, invece, la ostilità adleriana nei conPágina LVI fronti del tentativo scheleriano in quanto tale: tentativo volto, da una parte, a presentare un’immagine piú complessa della forma della razionalità, che attraverso l’affermazione di un intreccio fra elemento intellettuale e elemento ‘emozionale’ [Nota 193], fosse in grado, d’altra parte, di teorizzare il modo in cui il ‘valore’ («l’interessamento ‘a qualcosa’») è parte costitutiva (non esterna) di una «visione del mondo» e, anzi, opera già all’interno delle tecniche, se è vero che La tecnica non è affatto soltanto una ‘applicazione’ a posteriori d’una legge puramente contemplativo-teoretica, che sarebbe determinata esclusivamente dall’idea della verità dell’osservazione, della logica e della matematica pura. Ma è piuttosto la volontà di dominio e di guida [...] che condetermina già i metodi del pensiero e dell’intuizione come anche i fini del pensiero scientifico. [Nota 194] Tralasciando comunque questa problematica, che consentirebbe forse di scorgere alcuni punti di contatto — paradossali se si pensa alla costante polemica fra Adler e Scheler [Nota 195] — fra i due pensatori, val la pena di soffermarsi su un altro punto. Il fatto, cioè, che la Auseinandersetzung con Kant e il neokantismo sottende una problematica piú generale: quella di una riadeguazione della forma della razionalità rispetto alla complessità di un presente che non sembra piú dominabile attraverso alcuna veduta ‘sintetica’. Una tale riadeguazione si rende tanto piú necessaria in quanto, di fatto, è già operante all’interno del modo di funzionare dei singoli specialismi in cui è scisso il cervello sociale e in cui concretamente (sempre piú) s’incarnano le scelte politiche [Nota 196]. È questo il signifiPágina LVII cato della compenetrazione sempre piú stretta fra metafisica (i valori, la politica), scienza e progetto tecnico. La crisi crescente delle vecchie ‘vedute centralistiche’; il processo — solo apparentemente contraddittorio — di diffusione dello Stato e della politica e contemporaneamente di accentramento della decisione: tutto ciò accresce la complessità dei processi sociali e politici — e, rispettivamente, della forma della contraddizione — nel corso degli anni Venti-Trenta [Nota 197]. Sarebbe eccessivo scorgere, già in Adler, una lucida consapevolezza di tutto ciò. È tuttavia estremamente significativo il fatto che Adler stabilisca, in tale contesto, un rapporto esplicito e positivo con Georg Simmel, con quel sociologo e filosofo, che, muovendo dall’analisi delle trasformazioni della vita dell’uomo moderno nell’epoca della metropoli [Nota 198], aveva sempre piú richiamato l’attenzione sul carattere conflittuale [Nota 199] delle relazioni che contraddistinguono la società moderna e, in generale, sulla dissoluzione della vecchia Gemeinschaft in una ‘società’ dominata da pure ‘relazioni’ [Nota 200]. Página LVIII Il limite di Kant, per Simmel, sta appunto nel suo intellettualismo, nel suo tentativo di «estendere il valore delle norme valide per il pensiero a tutti i piani della vita» [Nota 201]. Si scopre, qui, il suo rapporto — sia pure critico — con quel meccanicismo che sembrava voler negare ogni spazio alle idee, ai valori, agli scopi. Il kantismo, infatti, è un primo tentativo di ripristinare l’unità — la cui esigenza permane anche dopo il naturalismo della scienza meccanicistica — fra natura e spirito, fra meccanismo e senso interno, fra obbiettività scientifica e valori: Kant «ha elevato il soggettivismo dei tempi moderni, l’autonomia dell’io e la sua irriducibilità all’elemento materiale, al culmine, senza in ciò abbandonare minimamente la saldezza e l’importanza del mondo oggettivo» [Nota 202]. Ma ciò può riuscire, a Kant, solo portando all’apice l’interpretazione scientifico-intellettualistica dell’immagine del mondo: non le cose, bensí il sapere sulle cose diviene, per Kant, il problema tout court. La unificazione delle grandi dualizzazioni: natura e spirito, anima e corpo, gli riesce a patto di voler unificare soltanto le immagini della conoscenza scientifica; l’esperienza scientifica con l’uguaglianza generale delle sue leggi è la cornice che compendia tutti i contenuti dell’esistenza in una forma: quella della comprensibilità conforme all’intelletto. [Nota 203] Del tutto diverso, invece, è il tentativo goethiano di ricomporre i dualismi tradizionali. Goethe rinuncia a un ‘sistema’ filosofico, anzi gli manca completamente l’«intenzione della filosofia come scienza»: in Goethe si tratta sempre, piuttosto, «dell’espressione immediata del suo sentimento del mondo» [Nota 204]. Ciò che lo distingue radicalmente da Kant è il fatto che egli cerca la ricomposizione delle scissioni fra spirito soggettivo e oggettivo, fra natura e spirito, «all’interno del loro fenomeno (Erscheinung) stesso» [Nota 205]. Il ‘ritorno a Goethe’ — che si contrappone all’unilaterale zurück zu Kant! degli anni Settanta — deriva direttamente da questo atteggiamento di Goethe, per cui egli non tenta di saldare la scissione né andando al di là dei fenomeni — facendoli cogliere dall’io ‘gnoseologico’ come semplici ‘rappresentazioni’ —, né acquietandosi con la cosa in sé: Página LIX Dell’Assoluto in senso teorico — dice Goethe — non oso parlare; ma posso affermare che: chi lo abbia riconosciuto nel fenomeno, e lo abbia tenuto sempre presente, ne ricaverà un gran guadagno. [Nota 206] È a questo punto che Simmel si vede costretto ad andare al di là della filosofia trascendentale, a risalire a un elemento superiore — la vita — che sorregga le stesse funzioni a priori dello spirito [Nota 207]. La necessità del primato della vita nasce direttamente dalla enorme complicazione del rapporto desiderio-mezzo-scopo nella moderna Kultur [Nota 208]. La perdita di trasparenza, all’interno di questo rapporto, è anzi tale da far sí che la tecnica — cioè, la scienza dei mezzi — assorba la maggior parte delle energie [Nota 209]: è in questa situazione che nasce il bisogno di un Endzweck, di uno ‘scopo finale’: L’ansioso problema del senso e dello scopo del tutto si costituisce solo quando attività e interessi innumerevoli, su cui ci concentriamo come se fossero valori definitivi, ci si rivelano nel loro semplice carattere di mezzi. [Nota 210] È questa la condizione di Sehnsucht, di nostalgia-aspirazione, che caratterizza l’uomo moderno. La dissoluzione di ogni Endzweck equivale alla fine di ogni fondamento: il risultato sembra essere l’assoluta scomposizione della realtà, la fine di ogni possibile sintesi. È qui che s’inserisce la vita come possibilità di pensare uno sviluppo che, pur in assenza di uno scopo finale, sia tuttavia dotato di senso: la vita stessa — dice Simmel — può divenire scopo della vita e, in tal modo, è sottratta al problema di uno scopo ultimo, che giaccia al di là del suo processo che scorre in maniera pura e naturale [...] Il fatto che un processo fattuale debba valere come sviluppo — in senso storico-psicologico o anche in senso metafisico — pertanto non dipende piú da uno scopo ultimo posto al di fuori di esso, che, a partire da sé, attribuisca a quel processo un certo significato di mezzo o di transizione. [...] Ogni stadio dell’esistenza umana trova ora il suo scopo Página LX non in qualcosa di assoluto e definitivo, bensí in ciò che è immediatemente piú elevato [in dem nächsthöherem]. [Nota 211] Proprio in questa concezione Adler scopre, da una parte, «la natura metafisica» del concetto di vita, che è, per Simmel, «un’energia creatrice di valore» e, dall’altra, un «inaudito ottimismo della vita», che avvicina Simmel molto piú a Nietzsche che non a Schopenhauer [Nota 212], e che culmina nell’affermazione secondo cui la vita è sempre piú-vita (Mehrleben), anzi piú-che-vita (Mehr-als-Leben). Ma, a parte queste osservazioni critiche, è un’altra — e molto piú significativa ai fini del nostro discorso — l’idea-guida del confronto adleriano con Simmel. Si tratta, cioè, dell’idea secondo cui è erroneo pensare di poter definire l’esperienza intellettuale di Simmel attraverso la categoria di ‘relativismo’: e questo, in particolare — e per quanto possa apparire paradossale — tanto meno dopo la radicalizzazione in senso ‘metafisico’ di tale (apparente) relativismo. Dopo l’incontro con Kant, infatti, il ‘relativismo’ di Simmel diventa da metodo, che consisteva semplicemente nell’indicare, all’interno della conoscenza, la relazione generale dei suoi singoli contenuti l’uno con l’altro, metafisica, che pone in relazione tutta la conoscenza con un’essenzialità posta dietro di essa, cioè appunto con il fatto originario della vita, grazie a cui soltanto viene acquisita un’immagine completa del mondo. Il relativista e lo scettico finisce da metafisico. [Nota 213] Proprio questo esito metafisico costringe a ripensare l’itinerario intellettuale di Simmel al di fuori di ogni schema classificatorio. Già nella Philosophie des Geldes Simmel non solo non nega, ma addirittura afferma che la conoscenza presuppone sempre — per aver valore di verità — un’istanza ultima e assoluta: «Solo che non possiamo mai sapere quale sia questa conoscenza assoluta» [Nota 214]. Sussiste sempre la possibilità di trovare un principio superiore, per cui non è mai lecito chiedere dogmaticamente il pensiero, ma occorre piuttosto considerare l’ultimo punto, di volta in volta acquisito, come il’penultimo. La relatività della conoscenza, cosí intesa, non conduce però necessariamente a un processo all’infinito (nel senso che ogni verità dipende da un’altra), perché questo processo di fondazione della verità può piegarsi in circolo: «Spesso, cioè, si scopre che la dimostrazione di un principio, quando la si Página LXI segua attraverso tutti i suoi presupposti, è possibile solo se si suppone come già provato il principio da dimostrare» [Nota 215]. Si arriva cosí a una sorta di dimostrazione tautologica o a un ‘sillogismo circolare’ (Zirkelschluss) [Nota 216]. Non è impensabile che la nostra conoscenza, considerata come un tutto, sia inevitabilmente prigioniera di questa forma. Se si pensa cioè all’immenso intreccio di presupposti, da cui dipende ogni singola conoscenza, allora Simmel ritiene non escluso che la dimostrazione di A riconduca, attraverso una catena di argomentazioni sufficientemente lunga, nuovamente ad A. [Nota 217] La «legittimazione reciproca» dei contenuti della conoscenza, quale emerge nel Zirkelschluss, va considerata come una forma fondamentale del conoscere, che in tal modo diventa un processo sospeso (freischwebender Prozess) i cui membri si tengono reciprocamente [Nota 218]. Inoltre, i principi costitutivi della verità di una conoscenza possono essere trasformati in principi regolativi, tali cioè che non dicano come le cose effettivamente vanno, ma semplicemente facciano come se le cose andassero effettivamente in un tal modo [Nota 219]. Se essi valgono solo come principi euristici, se cioè li consideriamo solo come vie che si possono alternativamente percorrere, ciò consente la contemporanea applicazione dei princìpi piú opposti. E, evidentemente, solo in tal modo la nostra conoscenza diviene adeguata alla realtà. [Nota 220] Se si tiene conto di queste considerazioni si scorge che la ‘relatività’ simmeliana non significa affatto «un indebolimento del concetto di verità, non è una detrazione della verità bensí, al contrario, è l’essenza della verità stessa, il modo in cui soltanto le nostre rappresentazioni possono diventare piena verità» [Nota 221]. Página LXII È qui che occorre tener conto di quello che Simmel chiama il «carattere di frammento della Vita» [Nota 222], per cui ogni soggetto vive non in uno, ma in piú mondi. I contenuti della coscienza riflettente, infatti, si ordinano secondo i piú diversi punti di vista, e costituiscono ognuno un mondo a sé. Lo stesso soggetto vive, insieme, in un mondo religioso, artistico, etico e storico. Tutti questi mondi hanno lo stesso contenuto, ma motivi diversi lo portano a formazioni complessive del tutto distinte. «Tutti i nostri contenuti psichici, vissuti passivamente o attivamente, sono frammenti di mondi, ognuno dei quali significa una totalità di contenuti del mondo particolarmente formata». Non c’è quindi speranza «di pervenire, partendo da uno qualunque dei punti di vista dei contenuti della nostra coscienza, a cogliere l’intero della nostra vita» [Nota 223]. L’impulso della vita è, invece, quello di presentarsi come quella totalità che essa è. Vi è, nella filosofia simmeliana, la tendenza costante a rompere le «catene della conoscenza soltanto logica», che tende a separare, e in ciò Simmel fa venire alla mente «un altro ribelle filosofico contro la logica, Hegel» [Nota 224], il quale supera le «barriere della conoscenza» intellettualistica grazie alla dialettica [Nota 225]. Non diversamente che in Hegel, inoltre, in Simmel è ben presente il problema della costituzione dello «spirito oggettivo». Solo che, in Simmel, questo è il prodotto della vita: in essa, infatti, esistono le Vorformen der Idee [Nota 226]. Per quanto i contenuti dell’idea possano apparire diversi dalla vita, in realtà si presentano sempre le stesse forme che già la vita ha elaborato. Ma proprio qui, nel processo di oggettivazione della vita, si costituisce un secondo problema di cui non si può non tener conto se si vuol effettivamente comprendere il senso (non relativistico) del relativismo di Simmel: Dappertutto, attraverso lo svincolamento delle forme spirituali e delle categorie, che la vita ha sviluppato per i suoi scopi pratici, da questa destinazione, nasce una nuova connessione, che ora irrompe nella vita Página LXIII come un ordinamento oggettivo dello spirito e addirittura la determina in base a sé. [Nota 227] Vi è, qui, uno dei grandi meriti di Simmel che tenta — con piú forza dei suoi predecessori — di radicare le idee, «per cosí dire, nella terra». Ma, dalla tensione fra la, vita e le forme in cui la prima si è oggettivata nasce comunque una nuova lacerazione, che ha una parte dominante nello spiegare il carattere «metafisico» del relativismo di Simmel, che ha la sua radice in un terzo elemento, cui bisogna accennare. Si tratta, cioè, di quel problema — cui Simmel allude «nel saggio, molto oscuro, sulla legge individuale» [Nota 228] — per cui la vita non è, ad ogni istante, la totalità delle sue determinazioni, bensí è in sé «conclusa» (abgeschlossen), è «concentrata intorno al suo significato», ovvero è un’individualità. Il motivo per cui Simmel introduce questo tema della «individualizzazione della vita», osserva Adler, dipende dalla sua «aspirazione di poter inserire nella sua immagine del mondo anche la molteplicità e le differenziazioni della vita spirituale, che, in una considerazione concettuale, scompaiono completamente» [Nota 229]. Ma, se si tien conto di ciò, il relativismo di Simmel appare infine in quella luce, in cui esso non si presenta piú come un indebolimento della nostra conoscenza, bensí piuttosto come l’unico mezzo per impadronirsi della totalità dell’essere. Sarebbe dunque meglio non usare l’espressione relativismo, fin troppo fraintesa, per la natura di questo punto di vista filosofico, ma sarebbe preferibile parlare di un plurarismo dei principi. [Nota 230] Ora, però, questo «pluralismo dei principi» è ben lungi dal significare conciliazione eclettica. La Differenzierung del tempo non tollera mediazioni artificiose: «le opposizioni non devono essere ‘conciliate’ o ‘superate’, esse possono solo — come Simmel dice nel suo libro Kant und Goethe — essere negate attraverso il dato di fatto del loro essere vissute» [Nota 231]. La grandezza di Simmel sta appunto nel fatto di essere stato l’«interprete di un’epoca» [Nota 232]: un interprete non passivo, se è vero che nella sua riflessione è possibile rintracciare, ad un tempo, la constatazione della impossibiPágina LXIV lità di ritornare, dalla Fragmentarisierung, alle vecchie ‘sintesi’ e la ribellione (sia pure inconsapevole) contro quelle scissioni, che, in fondo, non sono altro che il prodotto di una estremizzazione della divisione capitalistica del lavoro [Nota 233]: Ed è questa l’importanza vera e propria dello spirito simmeliano, ciò in cui egli si conferma un puro figlio del nostro tempo altamente differenziato, della nostra epoca della divisione del lavoro, anche del lavoro intellettuale, spinta al culmine: il fatto che egli rappresenta la reazione piú profonda contro la frammentazione del nostro essere. [Nota 234] 6. Marxismo come scienza ‘aperta’ L’importanza del confronto adleriano con Simmel va ribadita con forza. Attraverso la riflessione filosofica e sociologica di Simmel, infatti, Adler fa sua un’immagine della ‘società’, che non è piú definita dalla sua contrapposizione alla ‘comunità’ intesa — unicamente essa — come «forma solidale» [Nota 235]. Quella esigenza di una rottura degli schemi astraenti dell’intelletto — in cui Adler ravvisa una tendenza fondamentale della filosofia simmeliana, nonché il suo rapporto con la dialettica hegeliana — significa, tradotta nel linguaggio della Sociologia, la necessità di un’immagine non piú armonicistica o organicistica di quel complesso di relazioni che costituiscono la società stessa. Persino il conflitto gioca un elemento positivo nella sua costituzione [Nota 236]. E, soprattutto, non esiste «società in generale», collocata al di là — magari come loro fondamento metafisico-sostanzialistico — delle particolari «forme di relazione» fra i soggetti [Nota 237]. I rapporti fra gli uomini — a cominciare da quelli di comando e di subordinazione — appaiono quindi in forma molto piú complessa, anche perché il fenomeno piú caratteristico, che emerge da questo tipo di analisi, è l’«incrociarsi di cerchie molteplici nelle singole personalità» [Nota 238]. Página LXV Se si tiene conto di tutto ciò, si comprende anche l’apertura — in alcuni capitoli centrali del libro sulla concezione dello Stato nel marxismo [Nota 239] — di Adler alle analisi di Max Weber, Roberto Michels e Carl Schmitt. E si chiariscono anche alcune delle mediazioni culturali grazie alle quali — di contro alle diverse ipotesi ‘statalistiche’, dominanti nel marxisrno conteniporaneo — Adler possa interpretare Io Stato come un «pezzo di società» epossa insistere su un’immagine del socialismo, che — basandosi sempre su quella «società solidale» che può nascere dall’introduzione di una «democrazia sociale» [Nota 240] privilegi tutta la diversità possibile di momenti di autoorganizzazione dal basso. La contemporaneità dei due studi su Simmel e sul sistema dei consigli può aver mediato — sia pure attraverso la relativa ‘occasionalità’ del primo — esigenze distinte, ma convergenti. Certo, proprio il concetto adleriano di «democrazia sociale» e, soprattutto, quello ad esso legato di «società solidale», sembrano far retrocedere in secondo piano la lezione simmeliana e sembrano far riemergere la suggestione toenniesiana della vecchia Gemeinschaft. Anche se questa ipotesi non può essere del tutto esclusa, essa va tuttavia considerata all’interno della costellazione problematica in cui s’inserisce. Essa si determina — in tal senso — attraverso il contrasto rispetto al concetto kelseniano di democrazia come dominio della maggioranza [Nota 241], nel quale Adler scorge il permanere di un presupposto individualistico [Nota 242]. È tuttavia significativo che Adler parli di una «società solidale» (o, piú precisamente, di una «socializzazione solidale» come senso specifico della democrazia); che, cioè, attribuisca alla società — e non allo Stato come Gemeinwesen — la ricomposizione delle scissioni e delle contrapposizioni. Finché la società è lacerata da contrasti d’interesse — finché non esistono ‘valori’ comuni [Nota 243] — anche la democrazia (fonPágina LXVI data sul dominio della maggioranza) è una dittatura, perché la sottomissione della minoranza è pur sempre una violenza. L’errore di Kelsen è quello di assumere come modello di dittatura quello realizzato in Russia, ove, invece, ci si trova di fronte a una forma di ‘terrorismo’ esercitato da una minoranza: il presupposto della ‘dittatura’ (del proletariato), invece, è appunto il dominio della maggioranza della popolazione su una minoranza. L’equazione fra democrazia politica e dittatura, dunque, consente secondo Adler di ricostruire un’immagine piú efficace della società contemporanea; piú efficace anche di quella che è consentita dallo stesso concetto di «equilibrio delle forze di classe» [Nota 244]. Al congresso di, Linz nel ’26 — com’è noto — questi temi sarebbero stati al centro del dibattito fra Bauer e Adler. Nel concetto di Gleichgewicht, probabilmente, Adler scorgeva el pericolo di un ripresentarsi delle tesi kelseniane — nonostante le importanti distinzioni introdotte da Bauer [Nota 245] — dello Stato come mezzo di tecnica sociale. Il problema, di non facile soluzione, che Adler si trova davanti è quello di tener conto di quella crescente complessità sociale, la cui consapevolezza gli veniva mediata anche attraverso l’elaborazione filosofico-sociologica di Simmel, senza peraltro dover accettare che la scoperta di tale complessità si rovesciasse in una conferma delle tesi kelseniane [Nota 246]. È qui che il richiamo alla «socializzazione solidale», consentita dalla democrazia sociale, aveva un senso, paragonabile, in una certa misura, a quello che, in altri contesti, aveva avuto il richiamarsi alla coscienza di classe: il mantenimento, cioè, di un senso di ‘diPágina LXVII stinzione’ della classe operaia mediato dal riferimento (progettuale) a un modello diverso di società. Questo abbozzo di soluzione della difficoltà interna poc’anzi accennata, in realtà, probabilmente poneva piú problemi di quanti ne risolvesse. Non, certo, quelli cui alludeva Rudas quando — nel recensire Storia e coscienza di classe — parla di un’affinità elettiva fra Adler e Lukacs [Nota 247]: quello che al ‘materialista’ Rudas appariva puro idealismo era piuttosto la rivendicazione irrinunziabile di uno statuto produttivo della teoria marxista, strettamente connesso alla sua capacità di tematizzare il presente come storia. Ma, certo, non mancavano altri problemi: a cominciare da quello di come far operare, concretamente, la ‘criticità’ del marxismo — il suo stesso senso di distinzione — all’interno delle cerchie speciali entro cui la politica si va diffondendo [Nota 248]. Dopo il ’26 — dopo, cioè, il congresso di Linz — la posizione politica di Adler si va sempre piú radicalizzando a sinistra, con conguenze non sempre positive, anche dal punto di vista teorico [Nota 249]. Le sistematizzazioni dell’inizio degli anni Trenta non apportano — rispetto agli scritti del periodo 1904-26 — modifiche sostanziali: se mai, manifestano i rischi connessi sempre a tal genere di imprese [Nota 250]. Nel 1936, un anno prima della morte, quando in Austria si è già affermato il fascismo [Nota 251], Adler pubblica la sua ultima opePágina LXVIII ra, Das Rätsel der Gesellschaft (il sottotitolo è: Per la fondazione critico-gnoseologica della scienza sociale). Pubblicata presso una casa editrice minore, diffusa in poche copie, scritta non senza qualche riguardo alla censura — in una situazione sempre piú difficile anche dal punto di vista umano [Nota 252] — l’ultima opera è tuttavia in gran parte un ritorno alla impostazione fatta valere fin da Causalità e teleologia: un ultimo, impegnato tentativo di fare i conti — e di mettere il marxismo a confronto — con «la vita spirituale moderna nel suo insieme, cioè con il contenuto del lavoro filosofico e sociologico del nostro tempo» (come Adler aveva scritto nel 1904). Cassirer e Husserl, Dilthey, Simmel e Weber, Rickert, Spranger, Toennies, Sombart e Oppenheimer: sono questi i pensatori con cui Adler si misura nella sua ultima opera. Molti dei giudizi ivi contenuti potranno apparire frettolosi o erronei [Nota 253]. Ciò che rimane, tuttavia, è la coerenza rispetto a un modo di concepire il marxismo come scienza ‘aperta’. Almeno in questo Adler dava una prima indicazione circa il contesto generale entro cui soltanto può essere avviato a soluzione quel problema cui si accennava poc’anzi: il problema del rapporto fra criticità e forme. Almeno in questo, Adler ‘indicava una via’, sia pure ancora molto lunga e complessa. I Ad Adler non sarebbe dispiaciuto, probabilmente, essere definito con il titolo di una delle sue opere: Wegweiser. Página 1 LA CONCEZIONE DELLO STATO NEL MARXISMO Página 2 (em branco) Página 3 Prefazione Le seguenti ricerche sul concetto di società e di Stato nel marxismo sono nate dietro lo stimolo della critica che il mio amico, l’eccellente teorico di diritto statuale prof. Hans Kelsen, ha esercitato nei confronti del marxismo, nel suo saggio Socialismo e Stato, pubblicato nel vol. IX dell’«Archiv für die Geschichte des Sozialismus und der Arbeiterbewegung» (a cura di Grünberg), e apparso anche in volume con lo stesso titolo. Già nell’estate del 1921 ho tenuto all’università di Vienna una conferenza su questo tema, in cui erano brevemente abbozzati i concetti fondamentali, che nel presente libro sono esposti piú dettagliatamente. Sulla base di questa origine si spiega la forma polemica del presente lavoro, che tuttavia vuol essere piú che semplice polemica. Poiché il confronto con le concezioni critiche di Kelsen ha condotto allo stesso tempo a una serie di questioni controverse che, attualmente, sono oggetto della piú vivace discussione anche in campo marxista, e nelle quali è pressantemente necessario un chiarimento concettuale della terminologia adottata, per lo piú molto ambigua, e delle rappresentazioni fondamentali, ancora molto meno chiare. Questo vale in particolare per i concetti di dittatura e di democrazia, non meno che per quelli di libertà politica e individuale, allo stesso modo che per il rapporto del concetto di libertà con la società e per le idee di individualismo e anarchismo che ad esso riconducono. L’oggetto del libro è dunque costituito da una quantità di problemi contenutistici del marxismo che, di volta in volta, conducono completamente al di là della polemica con Kelsen. Se ciononostante ho mantenuto l’esposizione polemica dell’oggetto della mia ricerca, l’ho fatto non solo perché in tal modo è possibile presentare in maniera piú vivace e intuitiva i diversi lati del nostro tema, ma anche per l’importanza della critica kelseniana. Quest’ultima viene lodata e viene sentita, in campo antimarxista, come una critica per piú versi ‘annientante’ Ma, anche a prescindere da questo, essa Página 4 fa comunque, a causa della giusta e pur sempre crescente stima di cui Kelsen gode in quanto acutissimo e ingegnosissimo rielaboratore del problema logico-giuridico, un’impressione durevole proprio sugli animi teorici, sia all’interno sia all’esterno della sua scuola, soprattutto su quegli animi che all’autorità di questo pensatore non possono contrapporre correttivamente una sufficiente consuetudine con la cosa stessa. E, comunque, la critica a Marx di Kelsen in un punto torreggia al di sopra del tipo di quei dotti galli da combattimento che annullano sempre di nuovo il marxismo che si riteneva già da molto eliminato, e la cui dubbia conoscenza della cosa che criticano dev’essere chiaramente bilanciata dall’audacia irriflessiva con cui danno i loro giudizi critici, insignificanti ma molto appassionati. La critica kelseniana si distingue positivamente da questo genere grazie all’onestà, anzi appassionata volontà di verità, che percorre anche la sua critica a Marx cosí come tutti gli scritti di questo vero scienziato. La ricerca dei motivi per cui, ciononostante, la sua critica doveva condurlo in errore, fa del presente libro ciò che viene detto nel sottotitolo, ne fa cioè un contributo alla distinzione fra il metodo sociologico e il metodo giuridico-formale del pensiero, ed eleva quindi il suo significato, al di là dello stimolo puramente polemico, ad un piano generale. Il compito che mi sono posto con questo confronto critico con Kelsen è limitato a snodare la sua critica a Marx, per questa volta, dunque, non ha nulla a che fare con il suo punto di vista propriamente logico-giuridico. Questa limitazione dell’oggetto era data non solo dallo scopo, che mirava anzi non a una discussione della teoria kelseniana del diritto e dello Stato, bensí alla concezione della società e dello Stato nel marxismo; ma essa era anche giustificata dal fatto che Kelsen stesso ha ripetutamente affermato — con quale diritto, lo si vedrà — che era sua intenzione offrire solo una critica immanente del marxismo, cioè una critica non dal suo punto di vista, ma da quello del marxismo stesso. Pertanto, non solo poteva, ma addirittura necessariamente doveva restare al di fuori della considerazione la specifica teoria kelseniana dell’essenza del diritto e dello Stato: con il che però non si vuol dire che un confronto critico con essa non sarebbe, proprio per noi marxisti, una necessità pressante. Io ritengo impossibile una fondazione non contraddittoria del marxismo — in cui io scorgo, come spessissimo ho fatto presente, un sistema sociologico — senza una comprensione teorico-gnoseologica dei suoi problemi. Il problema centrale del marxismo, la concezione materialistica della storia, il rapporto dell’ideologia con l’economia, in particolare del potere con il diritto, può essere dominato solo grazie a una chiara riflessione sul modo di funzionare dell’elemento spirituale in generale, e per questo è nePágina 5 cessaria una critica della conoscenza particolarmente nella direzione, ancora poco elaborata, delle condizioni sociali della conoscenza. Fra i critici della conoscenza delle forme giuridiche e statali Kelsen assume oggi bensí un posto di primo piano; in maniera piú profonda e molto piú coerente di quanto avvenisse nella logica giuridica di Stammler viene da lui assunta l’elaborazione del problema: com’è possibile la società, com’è possibile lo Stato e il diritto? Ma proprio perché ritengo che neanch’egli sia pervenuto fino alla fine del lavoro critico, ma si è prematuramente arrestato alla forma normativa, invece di penetrare fino alla sua forma naturale, in cui si ha una relazione trascendentale della coscienza individuale con una molteplicità immanente di centri di coscienze coordinati, la quale fa parte ancora della situazione di fatto teorico-reale (seinstheoretischer Tatbestand) della coscienza — proprio per questo ritengo indispensabile un confronto critico, da parte marxista, con gl’importanti scritti di logica giuridica di Kelsen. Tuttavia, questo non si può realizzare nei limiti del presente lavoro. L’acquisizione di quest’altro confronto critico, comunque, sarà per noi motivo di maggior compiacimento che non il presente. Poiché mentre nell’attuale polemica siamo costretti nell’essenziale ad atteggiarci negativamente nei confronti di Kelsen, il quale in questo caso non può agire con il suo specifico spirito, in quel caso, persino là dove crediamo di non poter fare a meno di andare al di là della sua concezione del diritto e dello Stato, ci vedremo tuttavia comunque arricchiti e meglio orientati nel nostro proprio pensiero da una quantità di luce sull’essenza di questi fenomeni sociali. In quanto segue si tratterà di un’esposizione della concezione marxista fondamentale dello Stato e della società. Molteplici esperienze, in discussioni pubbliche e private, mi hanno insegnato che non è superfluo ripetere ciò che la tendenza che è rappresentata dalle «Marx-Studien» intende per concezione marxista. Non si tratta dello sforzo meschino e della polemica zelante su ciò che Marx e Engels a tale pagina dei loro scritti hanno detto o non hanno detto. Questo ci appare un affare interessante piuttosto solo e essenzialmente da un punto di vista storico-letterario, come un’occupazione che, dal punto di vista teorico, non fa fare un passo avanti e che anzi va a parare, con facilità, nella scolastica. Pertanto, una critica che sostenesse che qualcuna delle teorie qui di seguito sviluppate non la si trovi espressa in Marx e Engels e che sia tutt’al piú adlerismo, ma non marxismo, non colpirebbe in generale , il punto di vista della nostra ricerca, nei limiti in cui non venga insieme dimostrato che questa teoria contraddice i presupposti fondamentali del pensiero di Marx e Engels. Poiché per noi il marxismo non è un sistema compiuto, un libro suddiviso in paragrafi, rispetto al quale è possibile solo un commentario limitato dal testo Página 6 della legge, ma è una maniera di pensare teorica fondamentale. Essa esige, anzi, attraverso la sua coerenza interna ci spinge non solo a pensare al di là dei risultati dei suoi creatori, ma, innanzi tutto, ci spinge a mettere questi risultati stessi, dalla forma rigida di libro che essi hanno, in quell’unità vivente in cui vengano il piú possibile superate quelle contraddizioni e quelle incompletezze, che nascono sempre, necessariamente, quando la totalità del pensiero si riveste della limitatezza e della frammentazione della comunicazione linguistica. Per questo già nell’articolo programmatico di queste «Marx-Studien» (vol. I [1904], p. VII) scrivevamo di considerare nostro còmpito, nello sviluppo ulteriore dei concetti marxisti, «il vedere non come, in Marx, la lettera abbia avuto sempre ragione, bensí come ottenga e possa ottenere ragione lo spirito da cui essa è derivata». Mi sembra questa l’unica via per cui il «marxismo» non significa ciò che i suoi avversari vorrebbero che fosse ritenuto: cioè, una concezione del mondo di un singolo uomo, sia pure importante, ma significa ciò per cui lo sosteniamo e lo affermiamo: una nuova tendenza, da non smarrire piú, della nostra coscienza scientifica. Nonostante l’attento sforzo non si sono potute evitare, in singoli luoghi del libro, delle ripetizioni. La complessità dell’oggetto della ricerca comporta il fatto che esso non è mai oggetto della discussione nel suo insieme, bensí sempre solo con una parte del suo contenuto. L’inconsueta quantità del contenuto storicamente vivente della società in generale è possibile dominarla teoricamente solo grazie alla scomposizione concettuale. In tal modo, però, ciò che fa tutt’uno e che è un insieme viene isolato in maniera innaturale e resiste, anche concettualmente, a questa violenza, risospingendo di continuo, anche dal punto di vista concettuale, verso un completamento con ciò che di volta in volta è rimasto all’esterno dell’astrazione teorica. Non si può parlare di libertà senza definire il concetto di dominio; non si può parlare di anarchismo senza discutere il concetto della costrizione statale; non si può parlare di dittatura senza aver chiaramente riconosciuto quello di rivoluzione. Ma questi concetti esigono anche che li si metta reciprocamente in relazione l’uno con l’altro e, in ogni capitolo che tratta di uno di essi, costringono a richiamare o a presupporre i risultati dell’altro. Si hanno cosí delle ripetizioni, che sono inevitabili poiché fanno parte della cosa. Servono solo a illustrare le debolezze della comunicazione umana, che deve dire in successione ciò che si pensa in una volta. Poiché però, proprio nel caso dei concetti qui trattati, tanti non pensano nulla in generale, può forse essere legittimo consolarsi con la parola magica: devi per forza dirlo tre volte. Infine, devo dire che l’ultimo libro di Kelsen: Der soziologische und der juristische Staatsbegriff (che, del resto, non si occupa piú Página 7 del marxismo), cosí come uno scritto (che, a quanto pare, si occupa dello stesso tema di questo libro) di Herbert Sultan: Gesellschaft und Staat bei Karl Marx und Friedrich Engels, mi sono pervenuti solo durante la correzione delle bozze, per cui non ho potuto tener conto del loro contenuto. Vienna, 10 giugno 1922 Página 8 (em branco) Página 9 MOTTO PER I CRITICI DOTTI DEL MARXISMO [Dal dialogo fra Dionisodoro e Ctesippo:] Potremmo forse, replicò, contraddirci discorrendo ambedue della stessa cosa, o, cosí, senza dubbio, diremmo la medesima cosa? Fu d’accordo. Ma se nessuno dei due, proseguí, discorre di una certa cosa, potremmo in tal caso contraddirci? o, cosí, nessuno di noi due non menzionerebbe neppure la cosa? Ctesippo fu d’accordo anche in questo. Ma, forse, ciò avviene quando parlo di una cosa e tu di un’altra? può darsi sia allora che ci contraddiciamo? oppure quando io parlo d’una cosa e tu non parli affatto? Ma chi non parla può contraddire chi parla? Eutidemo, 286 a [Platone, Opere, vol. I, Laterza, Bari 1966, p. 1027] Página 10 (em branco) Página 11 Capitolo primo Politica e sociologia Abitualmente la lingua viene conosciuta come un mezzo per comprendersi. Ma la storia della filosofia e della polemica sui problemi scientifici mostra il contrario. E questo è un destino, invero da sempre lamentato, ma tuttavia apparentemente del tutto inevitabile, della storia della cultura (Geistesgeschichte), destino che fa sí che la discussione di tanti problemi centrali del pensiero duri già dei secoli — si pensi solo alla polemica sulla libertà del volere — e tuttavia torni sempre a tormentarsi con gli stessi argomenti, senza fare passi avanti, perché non viene mai raggiunta o anche soltanto progettata un’intesa sul senso letterale dei concetti, per esempio su quello di volere e di libertà. Per cui è uno spettacolo triste e allo stesso tempo ridicolo lo scorgere come tante di queste polemiche senza fine e talvolta assai aspre in fondo sono semplicemente diverbi, provocati semplicemente dal fatto che le due parti dicono la stessa parola, ma con essa ciascuna intende qualcosa di diverso. Da che cosa deriva tuttavia propriamente questo strano fenomeno, doppiamente strano se lo si ritrova anche presso pensatori che altrimenti emergono per l’acume particolare del loro spirito e per la coerenza dei loro ragionamenti? Il motivo sta nel fatto che anche il dotto, sebbene a partire dalla propria esperienza dovrebbe saperlo meglio, fin troppo spesso dimentica che la lingua ha il suo significato universale — in cui essa ha cancellato ogni momento personale, ogni colorazione soggettiva — propriamente soltanto nelle frasi retoriche degli scambi tipici della vita quotidiana, ma che, al di là di ciò, ciascuno parla la sua propria lingua. E questo vale, proprio per la lingua del pensatore, in misura tanto maggiore quanto piú egli è un pensatore originale, cioè creativo. Se quindi ci si accosta alle parole di una teoria semplicemente come esse si presentano secondo l’uso linguistico corrente, non si sarà mai sicuri di avere afferrato anche lo spirito da cui sono nate, e l’incomprensione è inevitabile per quanto si possano addurre magari a faPágina 12 vore della propria opinione numerosissime citazioni, letteralmente, dagli scritti del pensatore esaminato. Le parole di un pensatore non sono affatto contenuti significativi fissati come i vocaboli nel dizionario di una lingua. Esse sono un pensiero vivente, delle funzioni del suo lavoro spirituale, che vogliono suscitare nell’ascoltatore un’altrettale funzione. Senza questo contatto, francamente, queste parole divengono un semplice profluvio di termini e, stampate nei libri, divengono semplici concetti del dizionario della lingua. Ma per comprenderle quest’ultimo non basta affatto, è necessario bensí il dizionario dello spirito, di cui sono una parte, la comprensione dell’interezza di quel punto di vista teorico di cui questi concetti si presentano come gli elementi. E questo tanto piú in quanto il loro senso, anzi, va cercato, in generale, al di là dei significati correnti letterali. Per esempio, i termini della filosofia kantiana — come quello di cosa e di fenomeno, di esperienza e di natura — sembrano essere i significati letterali piú consueti che ci siano; ognuno pronunzia giornalmente innumerevoli volte queste parole. Ma chi cominciasse a interpretare queste parole, in Kant, partendo dal senso del dizionario tedesco e non dallo spirito della enciclopedia rivoluzionaria del pensiero kantiano, dovrebbe necessariamente patire miserevolmente un naufragio [Nota 1]. La stessa cosa vale per i significati delle parole in Marx, il quale ha fondato — ciò che non sempre viene sufficientemente valutato — per quanto riguarda un pezzo della nostra esperienza, cioè per quanto riguarda la nostra vita sociale-storica, anche un modo di pensare che allo stesso tempo rovescia il fondamento e pone un nuovo fondamento. Per una gran parte dell’opinione pubblica colta Marx è ancora, essenzialmente, uno studioso di economia politica, sebbene proprio egli si sia sforzato di superare la limitatezza storica e teorica del punto di vista dell’economia politica. Non casualmente egli ha intitolato le sue opere principali di economia scritti per la «Critica dell’economia politica» e ha con ciò espresso il fatto che egli si voleva contrapporre criticamente a tutta la problePágina 13 matica dell’economia politica e, invero, non con una nuova e ‘migliore’ economia politica, bensí discoprendo i suoi fondamenti e le sue relazioni sociali. Il significato specifico del pensiero marxengelsiano si basa assolutamente sul terreno sociologico. Sia Marx sia Engels erano assolutamente dominati dal problema dell’essenza e della legalità della vita sociale. È stato innanzi tutto quest’interesse teorico, nato comunque dall’appassionato interesse pratico di trasformare la società esistente, a conferire al loro lavoro concettuale la tendenza verso la critica dell’economia politica, e del resto anche Engels stesso, nelle sue notizie biografiche su sé e su Marx, ha sempre sottolineato il fatto che la loro teoria fondamentale della società, la concezione materialistica della storia, era compiuta già prima del Manifesto del partito comunista, già nel 1845, per cui la teoria economica si presenterebbe soltanto come un’applicazione della veduta sociologica fondamentale già acquisita [Nota 2]. Se Marx ed Engels non vengono interpretati come pensatori sociologici, se non si penetra — nel caso di ognuno dei loro concetti — nel nuovo senso sociologico, che essi hanno fatto scorrere nel vecchio significato della parola, se si considera anzi questa trasvalutazione (Umwertung) sociologica completamente e soltanto come un accessorio politico o addirittura agitatorio, che non appartiene all’altezza scientifica concettuale del problema, allora non si possono non ‘scoprire’, nel marxismo, una quantità di contraddizioni e di insensatezze; solo che gli si fa parlare una lingua che non è la sua e che, anzi, gli è proprio incomprensibile. Mi sembra esser questo l’errore della ricerca che Hans Kelsen ha compiuto sui rapporti fra il socialismo e lo Stato nel suo scritto Socialismo e Stato [Nota 3]. L’Autore chiama il suo lavoro, nel sottotitolo, Página 14 Una ricerca sulla teoria politica del marxismo e indica con ciò, in maniera abbastanza precisa, anche i limiti della sua concezione del marxismo. Poiché il significato del marxismo, che apre nuove vie alla comprensione della politica, significato che ha però un effetto rivoluzionario anche per la storia del pensiero scientifico in generale, consiste appunto nel fatto che, dal suo punto di vista, è divenuto impossibile il concetto di una teoria della politica come sistema sussistente per sé, separato dalla teoria della vita sociale. Non esiste una ‘teoria politica’ del marxismo, che si possa trattare indipendentemente dalla sua teoria sociologica. Poiché la politica — cioè la posizione di fini statali propri e la lotta contro fini statali avversi — per il marxismo è soltanto un pezzo del processo sociale causale. E il problema della teoria sociologica del marxismo è appunto quello d’illuminare il suo corso anche secondo tendenze che si estendono nel futuro seguendone i fattori causali. Ovviamente Kelsen deve rinunziare proprio a questo problema. Poiché egli interpreta il marxismo — di cui giustamente sottolinea il fatto che, secondo la sua teoria, l’ordinamento socialista della società «non è un ideale da perseguire per motivi etici, ma il prodotto che risulta necessariamente da un processo sociale che scorre in maniera conforme a leggi» — in modo tale che da questa concezione sarebbe completamente esclusa la volontà del proletariato, tutti i suoi sforzi e tutti i suoi piani (p. 2 [10]). Ma, chi proceda in tal modo, non può non precludere a se stesso l’accesso a una interpretazione non contraddittoria della teoria sociologica fondamentale del marxismo, della concezione materialistica della storia. In tal caso, comunque, si tratta di un fraintendimento tipico di questa teoria, derivato dalla sua denominazione di concezione ‘materialistica’ della storia e dalla sua tendenza a definire anche lo sviluppo sociale come sviluppo naturalisticamente necessario. In ciò si trascura sempre il fatto che tanto Marx quanto Engels hanno distinto nella maniera piú rigida il loro materialismo da quello delle scienze naturali, la loro ‘natura’ dalla natura priva di coscienza e volontà dei processi fisico-chimici [Nota 4]. La natura di cui Marx ed Engels parlano è la natura sociale dell’uomo, cioè quindi la natura umana quale è possibile solo in forma socializzata, la natura della socializzazione. E, con ciò, la volontà e gli sforzi umani, i giudizi pensanti, conformi allo scopo e etici, sono posti, una volta per tutte, Página 15 nello specifico legame della socializzazione, come una componente integrante della natura. Anzi, la natura sociale consiste, in generale, solo in questo atteggiamento che valuta attivamente degli uomini socializzati. Per questo già nelle sue geniali tesi su Feuerbach, in cui abbozzò per cosí dire il compendio concettuale della sua teoria, Marx scrisse le parole che dovevano alla fine rendere impossibile lo spiacevole fraintendimento del ‘materialismo’ e del ‘naturalismo’ marxista: Il difetto principale d’ogni materialismo fino ad oggi — compreso quello di Feuerbach — è che l’oggetto (Gegenstand), la realtà, la sensibilità, vengono concepiti solo sotto la forma dell’obietto (Objekt) o della intuizione; ma non come attività sensibile umana, prassi; non soggettivamente. Di conseguenza è accaduto che il lato attivo, in contrapposto al materialismo, fu sviluppato dall’idealismo: ma astrattamente, poiché naturalmente l’idealismo non conosce l’attività reale, sensibile in quanto tale [Nota 5]. Comprendere questo lato attivo della natura, inserirlo nella conoscenza causale, comprendere l’esistenza naturale della società umana come un processo di «prassi rovesciante»: è questo il problema specifico del marxismo, che Marx ed Engels perseguono dall’inizio della loro autonoma riflessione con tutta la passione di una inflessibile volontà di pensatori. Già negli «Annali franco-tedeschi» Marx aveva formulato in maniera classica il rapporto dell’elemento volontaristico con quello causale nella sua teoria, cosí scrivendo: Allora non affronteremo il mondo in modo dottrinario, con un nuovo principio: qui è la verità, qui inginocchiati! Noi illustreremo al mondo nuovi principi, traendoli dai princìpi del mondo. Noi non gli diciamo: abbandona le tue lotte, sono sciocchezze; noi ti grideremo la vera parola d’ordine della lotta. Noi gli mostreremo soltanto perché effettivamente combatte, poiché la coscienza è una cosa che esso deve far propria, anche se non lo vuole [Nota 6]. Pertanto, si tratta soltanto di rendere consapevole l’intero processo storico, che nella sua forma volontaristica e valutativa, nei suoi ‘principi’ spirituali, non solo rimane intatto, ma proprio in questi viene compreso, di renderlo consapevole di se stesso, nella sua determinatezza causale, a partire «dai princípi del mondo», cioè nella sua condizionatezza sociologica. Ché la coscienza, di cui qui Marx parla, non è nient’altro che il fatto di destare il mondo dai sogni su se stesso, nient’altro che il fatto «che gli si spiegano Página 16 le sue proprie azioni». E alla stessa maniera di Marx scrive il giovane Engels nella sua prima lettera a Marx: Finché non ci saranno un paio di scritti nei quali, sul piano logico e storico, i princìpi siano sviluppati in quanto necessaria prosecuzione del modo passato di vedere le cose e della gloria passata, tutto si ridurrà a una specie di dormiveglia e i piú continueranno a brancolare nel buio. [Nota 7] Concordando completamente con questo punto di vista degli scritti giovanili il Manifesto del partito comunista esprime poi i medesimi concetti già nel linguaggio della concezione materialistica della storia, quando dice: Le posizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto sopra idee, sopra princìpi che siano stati inventati o scoperti da questo o quel rinnovatore del mondo. Esse sono soltanto espressioni generali dei rapporti effettivi di una lotta di classe che già esiste, di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi. [Nota 8] E, pervenuto alla maturità del suo lavoro scientifico, Marx ripete ancora le stesse vedute sociologiche fondamentali circa il rapporto fra politica e conoscenza sociale nella frase calunniata perché per lo piú ancora incompresa: «La classe operaia non ha da realizzare degli ideali, ma da liberare gli elementi della nuova società, che si sono già sviluppati nel seno della società borghese che sta crollando» [Nota 9]. ‘ ’ Il punto di vista sociologico del marxismo significa quindi l’unità di teoria e prassi, di scienza e politica, nel senso che esso scorge anche nella politica — nella ‘coscienza’ politica degli uomini — un pezzo del processo sociale stesso, di fronte a cui la conoscenza causale non deve improvvisamente interrompersi. Naturalmente, il politico, in quanto uomo di volontà e d’azione, sta del tutto nell’àmbito di un comportamento che pone fini, fa scelte e riflette, e in cui per la sua coscienza non è dato trovare neanche un atomo di «necessità naturale». La sfera del volere è appunto una sfera del tutto diversa da quella dell’indagine pensante su questo volere, e la causalità è completamente e soltanto una categoria di quest’ultimo modo di considerare, è una categoria della conoscenza dei processi della volontà, ma non dell’attività del volere stesso [Nota 10]. Il Página 17 rapporto fra scienza e politica nel marxismo non va inteso nel senso che il politico marxista cerca di sperimentare innanzi tutto a partire dalla scienza ciò che necessariamente accadrà, per poi indirizzare in base a ciò il suo atteggiamento. Piuttosto, questo era quel concetto di scienza sociale che era proprio degli utopisti, che volevano fare della scienza una sorta di ricettario per l’attività social-rivoluzionaria. Per il marxismo scienza e politica rimangono due modi di atteggiarsi che stanno in settori completamente diversi della vita: la prima è la considerazione pensante dei processi storici, la seconda la configurazione diretta dei medesimi. Ma quest’ultima non cessa nel suo significato attuale, anzi neanche nel suo significato futuro, di essere oggetto della prima. Cioè: le volontà e i progetti delle classi e dei loro gruppi e capi, il perseguimento di scopi e il giudizio etico, che è direttamente attivo nella storia che procede, rientra comunque, in quanto fattore causale, nella considerazione pensante di questo processo in movimento e si produce, quando si abbia un’analisi sufficientemente penetrante, in anticipo per il futuro, perlomeno nelle decisive tendenze fondamentali. Qui, ove discutiamo il punto di vista di principio del marxismo, non si tratta affatto di questo, se questa previsione è molto o poco realizzabile, ma si tratta di questo punto di vista teorico stesso, a partire dal quale la politica non è altro che la stessa legalità causale della società vissuta nella sfera della volontà. E solo cosí è possibile, ma ora anche necessario, il fatto che i princípi della conoscenza — come diceva Engels — siano semplicemente la continuazione necessaria della storia stessa. Ciò che sul terreno della società è «naturalisticamente necessario», quindi, deve sempre essere ripensato, voluto, valutato e approvato dall’uomo; tutto ciò che nella storia dev’essere attivo non può non passare — come ripetutamente ha detto Engels — «attraverso la testa dell’uomo». Gli uomini, dice ancora Engels, fanno da sé la loro storia [Nota 11]. E noi aggiungiamo: soltanto gli uomini; nessuno, neanche ‘lo sviluppo economico’, la fa per essi. Neanche i Página 18 marxisti ‘piú dogmatici’ hanno mai intes altrimenti la ‘necessità naturalistica’ del processo economico. Cosí, nel suo libro Il programma di Erfurt, che egli stesso definisce un «catechismo della socialdemocrazia», Karl Kautsky scrive: Se si parla dell’inarrestabilità e necessità dello sviluppo sociale si presuppone naturalmente che gli uomini siano uomini e non delle vuote marionette; gli uomini con determinate esigenze e passioni, con determinate energie fisiche e spirituali, che essi cercano di utilizzare nel modo migliore. Arrendersi passivamente a ciò che appare inevitabile non significa far seguire il proprio corso allo sviluppo economico, quanto piuttosto arrestarlo. [Nota 12] Gli uomini, pertanto, dovranno sempre considerarsi come realizzatori delle loro azioni e come tali dovranno valutarsi, ammirarsi e combattersi. E la storia sarà sempre una lotta fra idee, un contrasto per realizzare degli ideali, anzi, diventerà questo in maggior misura quanto piú gli uomini saranno condotti dal loro sviluppo sociale a una piú grande spiritualità. Ma non appena essi non soltanto conducono questa lotta ideale, ma cercano insieme d’interpretare pensando; non appena, quindi, per cosí dire, si sollevano con un salto dal settore di colui che lotta a quello di chi prende in considerazione — il che, come dimostrano Marx e Engels, è possibile nella lotta piú violenta, certo grazie a un grande sforzo del pensiero — allora tutto lo Sturm und Drang delle anime, anzi tutte le proprie valutazioni e il perseguimento dei propri fini, appaiono come altrettanti elementi causali dell’evento, che ora devono essere inseriti e compresi nella serie dell’ordinamento, ad essi propria, della necessità causale. Cosí il politico marxista giunge poi a considerare anche la sua volontà appassionata solo come il compimento di necessità sociali, la cui comprensione teorica certo non gli dà dei fini, ma glieli illumina e gliene facilita il perseguimento [Nota 13]. Página 19 I fini e le valutazioni dell’evento politico, quindi, non nascono dal marxismo, dalla scienza, bensí solo dall’intreccio del processo sociale stesso. Non sono il prodotto, ma l’oggetto della ricerca scientifica. E solo entro questi limiti è giusto, ma anche decisivo, il fatto che la comprensione teorica acquistata del processo genetico-causale dell’evento sociale deve divenire sempre piú addirittura un momento causale di questo evento, quanto piú essa domina il giudizio, le valutazioni e le azioni dell’uomo [Nota 14]. Come a una tale concezione, che si fonda proprio sulla rigida distinzione fra giudizio e apprezzamento, fra conoscenza e valutazione, si possa rimproverare — come fa Kelsen (pp. 2-3 [10-11] ) — la una «strana mescolanza fra un punto di vista teoricoesplicativo e uno pratico-politico», mi è incomprensibile. Questo rimprovero disconosce piuttosto proprio la problematica della sociologia in generale che, per principio, dal “Savoir pour prévoir” di Saint-Simon, non può rinunziare a seguire la causalità sociale anche nel futuro; solo che è stato il marxismo per primo a scoprire la dinamica della vita sociale che accenna al futuro. Pertanto, fallisce anche l’altro rimprovero che Kelsen fa al marxismo: È un tragico sincretismo metodologico, è la piú radicale confusione dei limiti fra realtà e valore, se il politico, al problema circa ciò che egli deve fare, circa lo scopo del suo tendere, si acquieta con una risposta che è data semplicemente alla scienza esplicativa, al suo problema circa l’essere e il divenire (p. 3 [10-11]). Ma neanche questo fa il politico marxista, bensí egli agisce muovendo dall’interesse di classe del proletariato, cioè muovendo dall’essere, e soltanto questo costituisce per lui il programma del suo volere e del suo agire, gli pone il suo dovere; solo che la conoscenza dell’essenza, dell’importanza e della funzione storica della opposizione di classe e della lotta di classe determina la sua volontà stessa maniera completamente diversa che il semplice e istintivo contrasto di classe della massa incolta. Egli, quindi, certamente, di fronte al problema circa ciò che egli deve fare, non si accontenta con la risposta della scienza circa ciò che è o accade. Giustamente Kelsen afferma che al problema circa il giusto fine dell’agire non si può mai rispondere con la conoscenza di ciò che necessariamente accadrà (ibid.). Ma, dalla risposta della scienza, il marxista ricava rassicurazione che «il programma del suo volere e del suo agire» sta nella direzione dello sviluppo necessario del processo soPágina 20 ciale, cioè, che i motivi delle sue valutazioni e dei suoi fini sono tali che devono essere realizzati politicamente dal processo causale dell’evento sociale in misura sempre piú grande e con sempre maggiore chiarezza. Certo, la posizione di fini giusta è, in sé, qualcosa di diverso rispetto a quella causalmente necessaria; ma questa è una distinzione, che vale soltanto per la coscienza direttamente volente. Per la considerazione causale anche la giusta posizione di fini è soltanto un processo causale e un oggetto scientifico come ogni altro. Il problema di quali decisioni dovranno maturare, come decisioni giuste, in determinate situazioni sociali di ogni classe e di ogni gruppo di classi, è del tutto legittimo sul terreno dell’indagine causale ed è una ricerca da portare a termine unicamente all’interno del suo metodo, certo, dopo che essa abbia assunto in sé, come momento causale, il concetto del valutare. Ma non soltanto essa può, bensí essa deve necessariamente inserire le valutazioni dell’agire nel nesso causale; poiché, anzi, la causalità sociale scorre soltanto attraverso la coscienza, cioè attraverso la determinatezza di direzione della volontà, che valuta, pone o rifiuta fini, definisce come giusti o sbagliati degli scopi [Nota 15]. Dalla causalità, certo, non deriva mai la legittimazione di uno scopo; ma questa legittimazione, in quanto forma necessaria in cui scorre ogni motivazione — poiché l’uomo riconosce sempre qualcosa con la sua volontà o lo disapprova, lo rigetta — diviene elemento dell’evento sociale solo grazie alla causalità. Se, dunque, per il marxismo si tratta di mostrare come un determinato fine debba nascere «in maniera naturalistica necessaria» nella storia, in ciò è sempre incluso, come fattore causale, l’uomo che valuta, e che ritiene anche giusto questo fine. Si potrebbe pertanto definire anche la concezione materialistica della storia come la teoria della motivazione sociologica delle valutazioni, ed è anzi questo il senso di quel concetto fondamenale, molto calunniato ma poco compreso, per cui l’ideologia, cioè le valutazioni morali, religiose, artistiche ecc., costituiscono una sovrastruttura sulla base economica. Si ha quindi un necessario intreccio della determinatezza normativa della direzione con la causalità dell’evento, in quanto la prima è la forma, in cui la seconda è in generale possibile nell’àmbito della coscienza. E sta qui, da ultimo, la spiegazione della rappresentazione del marxismo circa la necessità naturalistica di uno sviluppo progressivo del processo sociale, che cosí spesso è stato indicato come utopismo o come dogmatismo acritico. Poiché ora si scorge chiaramente quanto ci si lasci sfuggire l’essenza di ciò che il marxismo ha riconosciuto come necessità sociale qualora si ritenga, con Kelsen, che sia un caso Página 21 se il fine posto dal punto di vista della valutazione etica e politica coincide del tutto, contenutisticamente, con il resultato, assunto in quanto causalmente determinato, dal punto di vista della conoscenza della realtà, di uno sviluppo necessario in futuro (p. 3 [ 11] ). Certamente, qualora s’intenda per realtà, in senso marxista, un processo puramente meccanico, un processo economico despiritualizzato nel senso piú vero della parola. Ma, come abbiamo visto, di questa conoscenza della realtà fanno parte, naturalmente e necessariamente, anche i valori etici e politici, che determinano causalmente — cioè realizzano — il loro risultato solo grazie al fatto che agiscono nella storia come fattori causali. E poiché una conoscenza causale del processo sociale mostra che certi valori etici e certi fini vengono motivati in misura sempre maggiore da determinate circostanze sociali di vita, devono ottenere una forza sociale sempre maggiore, la tendenza del processo causale che concorda con l’ideale si produce, da ultimo, non piú come un caso, e neanche come una costruzione da filosofia della storia, bensí come un rapporto genetico-causale. Ma proprio questa è la funzione della concezione materialistica della storia grazie al suo concetto di un movimento della storia in opposizioni e in lotte di classe. Poiché nel concetto di coscienza di classe e di lotta di classe è immanente il concetto di valutazione etica, senza di cui nessuna classe montante ha finora potuto porre e perseguire i suoi fini. Nella lotta di classe, non appena è divenuta consapevole, viene sempre portata a termine anche una lotta del diritto e della morale. Ma queste posizioni di fini morali si producono, per il punto di vista della teoria sociologica, in maniera causale a partire dalle situazioni della vita economica delle relative classi, quasi come un prodotto automatico del meccanismo sociale. La conoscenza della «necessità naturalistica» del processo culturale, della vittoria del socialismo, si fonda sulla necessità causale della nascita di valutazioni morali sempre piú numerose contro il capitalismo, causate in ultima analisi dal processo economico del sistema dell’economia capitalistica. L’idea di progresso è divenuta per la prima volta nel marxismo, da semplice credenza, com’è ancora in Kant, una tendenza certa dell’evento causale stesso [Nota 16]. Stanno dunque cosí le cose per quanto riguarda quell’opinabile, tragico «sincretismo metodologico» e per quella «strana mescolanza fra un punto di vista teorico-esplicativo e uno pratico-poPágina 22 litico», che Kelsen rimprovera al marxismo. Non solo non esiste alcuna traccia di tutto ciò, ma al contrario: il marxismo si fonda appunto sulla piú rigorosa distinzione concettuale della storia come processo sociale dell’evento e come volontà e azione politiche. Solo che esso non rinunzia a comprendere teoricamente queste ultime insieme come un pezzo del primo, e realizza ciò grazie al suo concetto fondamentale dell’uomo socializzato, il quale, in quanto soggetto motivato attraverso la socializzazione e attivo a partire da essa, è il fattore causale creativo, «rovesciante», della concezione materialistica della storia. «La vita sociale», si legge nelle già citate tesi su Feuerbach, «è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che sviano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nella prassi umana e nella comprensione di questa prassi» [Nota 17]. Fa parte di questa comprensione della prassi umana, di questa disposizione teorica del marxismo, il fatto che anche i «misteri» della prassi politica vengono tolti dalla loro apparente autonomia e vengono risolti nel rapporto della prassi umana in generale, cioè vengono esposti come elementi della socializzazione attiva dell’uomo. Nel marxismo, anche i concetti politici, come quelli economici, vengono ripensati in categorie sociologico-storiche, di modo che, come dicevamo all’inizio, non vi può essere una teoria politica autonoma del marxismo. Piuttosto, ogni concezione, che si offra come una tale teoria politica autonoma, diviene immediatamente dal punto di vista marxista addirittura un problema da risolvere per la sua critica sociologica e per la sua spiegazione causale, come per esempio la teoria del liberalismo o quella scienza statale, oggi cosí amata, à la Adam Müller. Piú avanti, discutendo la critica kelseniana di ciò che egli chiama la teoria politica del marxismo, vedremo nel particolare e con tutta chiarezza a quali inevitabili fraintendimenti della concezione marxiana fondamentale dello Stato e della società deve necessariamente condurre il non scorgere il carattere sociologico anche del pensiero ‘politico’ di Marx e Engels. Página 23 Capitolo secondo L’unità sociologica di Stato e società La concezione fondamentale, cui riconduce tutto ciò che Marx ed Engels hanno esposto da un punto di vista teorico sullo Stato e la politica, è quella sociologica. Si tratta pertanto di comprendere lo Stato come un fenomeno della vita sociale e d’intendere la sua nascita e le sue trasformazioni come un pezzo del processo causale. Che questo sia assolutamente possibile da un punto di vista metodologico lo può contestare solo chi, per principio, neghi che il concetto della vita sociale sia possibile come concetto naturalistico (Naturbegriff) e che il concetto di società possa essere pensato come un concetto di essere. Quindi, chi, per esempio, come Rudolf Stammler, sia dell’avviso che il concetto della vita sociale e, quindi, quello della società, sia possibile pensarlo solo in quanto concetto normativo — e che, pertanto, la società significhi solo una relazione normativa fra gli uomini, e non una relazione di essere — non potrà non scorgere, fin dall’inizio, nel concetto di una sociologia come scienza causale l’errore fondamentale del marxismo e della sociologia moderna in generale. Fortunatamente, però, questa riflessione critica non è fondata, ma si basa essa stessa sul fatto che il punto di vista critico-gnoseologico non viene seguito in maniera sufficientemente critica. Non si tratta qui d’esporre ciò in dettaglio e rinvio semplicemente al luogo in cui ho tentato di far ciò [Nota 1]. Come Página 24 risultato si è avuto il fatto che l’elemento sociale non è fondato nel rapporto di successione degli atti di volontà sotto l’idea del dovere, bensí ha il suo fondamento già precedentemente nell’essere della coscienza, non essendo possibile alcun atto di conoscenza, alcun atto di pensiero senza una relazione inerente di ogni soggetto della conoscenza a una molteplicità indeterminata di altri soggetti, grazie alla quale il proprio modo di pensare e il proprio contenuto di pensiero dev’essere necessariamente concepito come possesso ugualmente possibile di ogni altra coscienza. In tal modo l’elemento sociale è già, per l’esperienza umana, tanto trascendentale quanto lo sono le condizioni della coscienza del resto finora riconosciute come trascendentali. L’uomo, già prima di ogni socializzazione storico-economica, è socializzato nel suo essere spirituale, nella sua coscienza teorica. Ed egli trova nel processo storico-sociale soltanto sviluppato ciò che egli è già in sé nel suo soggetto trascendentale: l’insuperabile relazionalità ad altri soggetti, uguali per essenza, e l’unificazione (InEinsetzung) con essi. È questo, dunque, il fondamento critico-gnoseologico — qui ovviamente solo accennato e non fondato — in base a cui l’elemento sociale si presenta come un pezzo di relazioni di essere fra gli uomini — non diversamente dallo spazio, dal tempo e dalla detenninatezza categorica — cioè come un pezzo di natura, senza che perciò (è questo il pericoloso fraintendimento che gli avversari ne fanno seguire sempre falsamente) ne debba derivare un pezzo di naturalismo. Poiché l’elemento sociale non è, appunto, essere semplicemente, bensí essere sociale, allo stesso modo in cui, anzi, la natura in generale non è — secondo un’opinione comunque ancora molto diffusa e che purtroppo si trova proprio fra i critici del ‘naturalismo’ — semplicemente soltanto natura ed assolutamente dello stesso genere. Al contrario, occorre rinviare al fatto che la legalità naturale, nelle forme della natura meccanica, fisica, chimica organica e spirituale, indica una progressiva complicazione dell’essere, e fra di esse sussistono certo delle dipendenze fondate su una legalità naturalistica, che però non sono assolutamente deducibili l’una dall’altra. La riduzione di tutte queste forme all’unica forma della meccanica fa parte piuttosto di quei falsi problemi acritici dell’epoca metafisica della scienza della natura [Nota 2]. Punto di partenza del marxismo è dunque il concetto di società come essere ed evento sociale, che rende fin dall’inizio impossibili gli uomini come essenze isolate, ma li mostra piuttosto come esPágina 25 enze reciprocamente riferite, cioè non semplicemente come essenze sociali, bensí come essenze socializzate. Il punto di vista della nuova concezione, si legge in Marx già nella nona e nella decima tesi su Feuerbach, non è piú: i singoli individui nella società civile, bensí: «la società umana ovvero l’umanità socializzata» [Nota 3]. Nella società non si entra, essa non è fondata per mezzo di un patto, né viene prodotta per mezzo della socievolezza e della simpatia, né viene forzatamente costituita per mezzo di un impulso sociale, bensí è posta storicamente-economicamente con gli uomini, allo stesso modo in cui essa è data trascendentalmente con la coscienza. Per questo Marx introduce questo concetto di società allo stesso tempo come componente ineliminabile del concetto dell’esistenza degli uomini in generale proprio all’inizio dei suoi famosi abbozzi della concezione materialistica della storia, nel citatissimo brano, nella seguente maniera: Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. [Nota 4] La società è, dunque, un fatto originario, una relazionalità orinaria degli uomini l’uno con l’altro per mezzo della loro attività produttiva, che è possibile solo in questa relazionalità, e cosí società e produzione divengono,soper il marxismo, concetti scambievoli. Ambedue sono, comunque, in quanto concetti, delle astrazioni, ma, per riprendere l’espressione usata una volta da Marx, delle astrazioni che hanno un senso, a patto che ci si guardi dal far oltrepassare ad esse i loro limiti e dal farle diventare delle ipostatizzazioni: «La produzione in generale è un’astrazione, ma un’astrazione che ha un senso, in quanto mette effettivamente in rilievo l’elemento comune, lo fissa e ci risparmia una ripetizione» [Nota 5]. Essa diviene incomprensibile soltanto quando si perde di vista il fatto che, in questa generalità, si sviluppa una molteplicità storica di forme, che invero riconduce dappertutto a quelle condizioni generali della produzione, ma non può essere spiegata solo a partire da queste: Página 26 Esistono delle determinazioni comuni a tutti gli stadi della produzione, che vengono fissate dal pensiero come generali; ma le cosiddette condizioni generali di ogni produzione non sono altro che questi momenti astratti con i quali non viene spiegato alcuno stadio storico concreto della produzione. [Nota 6]. Il concetto generale di produzione e altrettanto quello di società, pertanto, hanno solo la funzione di determinare la direzione, in cu il pensiero sociologico in generale deve comprendere e elaborare il suo oggetto. Ogni fenomeno sociale va inteso come un pezzo della socializzazione in generale, cioè della produzione sociale. Ma questa non è mai «produzione in generale», allo stesso modo in cui non esiste «coscienza sociale in generale». «Bensí è sempre un determinato organismo sociale, un soggetto sociale che agisce entro una totalità, piú o meno considerevole, di rami di produzione» [Nota 7], vi è sempre un livello storicamente determinato della produzione e, quindi, delle forme di coscienza economiche e ideologiche, in cui la ‘società’ e la ‘produzione’ sono effettive. Ad ognuno di questi livelli della produzione corrisponde dunque un determinato ordinamento della vita sociale, o, per meglio dire: è un tale determinato ordinamento, che viene vissuto nelle forme specifiche della coscienza sociale, una delle quali si sviluppa come forma particolare della coscienza giuridica [Nota 8]. Ora, lo Stato, nelle sue diverse configurazioni — come Stato patriarcale, feudale, assolutistico, costituzionale e parlamentare — a sua volta è soltanto una modificazione di questa sovrastruttura giuridica in determinate condizioni storiche. Cioè: il marxismo scorge nello Stato una forma di manifestazione storica della società. Società e Stato, per i marxisti, non sono due cose diverse, in particolare, non stanno in opposizione reciproca. Ciò che abitualmente si presenta come tale opposizione e che anche viene cosí indicato in un modo di esprimersi non pregnante, è la contraddizione fra Página 27 il livello raggiunto nello sviluppo delle forze produttive sociali e le forme della loro applicazione protette dall’ordinamento statale. Ma questa contraddizione deriva appunto dal fatto che società e Satato non sono due essenzialità (Wesenheiten) diverse, bensí dal fatto che in condizioni del tutto determinate, che si sono realizzate nella storia, la società esiste appunto soltanto nella forma dello Stato. Quando pertanto Kelsen (a pag. 8 del suo saggio) scrive: «Un presupposto essenziale per il concetto di Stato è la sua chiara delimitazione rispetto a quello di società», si esprime in ciò già il suo punto di partenza del tutto diverso da quello del marxismo, il quale — sia legittimo o meno — non può non farlo fallire di fronte alla caratteristica dei concetti marxisti e non può non rendergli impossibile ogni critica effettiva dei medesimi. Poiché una critica è possibile soltanto sullo stesso fondamento di cui fanno parte i concetti criticati; altrimenti, al posto della critica di un punto di vista si ha un altro punto di vista, e in tal caso dovrebbe in anticipo essere decisa la questione su quale sia il punto di vista giusto, anzi, se sia opportuna una tale disputa. Poiché vi sono anche dei punti di vista, che possono valere l’uno accanto all’altro non appena si sia riconosciuto che invero essi si escludono, ma considerano due lati diversi di una cosa, e pertanto ognuno rinunzia a correggere l’altro dal suo punto di vista. Si può quindi far valere l’esigenza di una delimitazione del concetto di Stato rispetto a quello di società solo quando si abbia già una concezione in cui Stato e società vengano sentiti come qualcosa di diverso, perché — come fa Kelsen — si scorge nella società il concetto causale dell’unificazione degli uomini sotto qualsivoglia spinta della necessità, dell’abitudine, dell’inclinazione, dell’interesse ecc., mentre si scorge nello Stato il concetto normativo dell’ordinamento di questa convivenza. Se invece lo Stato viene concepito fin dall’inizio solo come un pezzo di società; se non trova posto, nel pensiero, in generale, alcuna divisione di principio e concettuale fra Stato e società, non nascerà poi alcun bisogno di una «chiara delimitazione» fra Stato e società. Al contrario, nasce ora addirittura il bisogno teorico di superare questa delimitazione e di dissolvere la sua ‘chiarezza’ — la separazione di Stato e società — come un’apparenza ingannevole. È proprio questa — come vedremo — la prestazione specifica del marxismo ed è questo l’elemento unitario, nella sua elaborazione critico-sociale, non solo dei concetti economici, ma anche di quelli politici. Proprio come Marx ha dissolto il feticismo della merce, cioè l’apparenza ingannevole di una vitalità e di un’autonomia che aderisce alla merce stessa di contro all’uomo, cosí ha dissolto anche il feticismo dello Stato, cioè l’autonomizzazione della personalità dello Stato di contro alla società. Página 28 Capitolo terzo Per lo sviluppo del concetto di società La separazione dei concetti di Stato e società rappresenta soltanto una prima fase del processo dello sviluppo del concetto di società stesso e vi ha avuto, storicamente, un diverso significato. Il primo grande avvio alla costituzione del concetto di società è dato dal diritto naturale e, in esso, diritto positivo e diritto razionale, lo Stato e l’umanità (che era soltanto un’altra espressione per dire società), si separano come realtà e ideale. Qui, dunque, non sussiste alcuna vera e propria contrapposizione fra Stato e società, bensí soltanto una distanza infinita, che tuttavia è possibile superare grazie alla sempre maggiore realizzazione delle istanze del diritto naturale nel processo storico; e da qui si produce l’idea di un progresso dello Stato verso una sempre maggiore libertà e umanità, cioè verso una sempre maggiore socialità. La contrapposizione di Stato e società si presenta per la prima volta in Hegel e, per questa nuova concezione, era decisivo un potente evento storico, che ha agito in maniera rivoluzionaria sia per il pensiero sociologico in generale sia per la vita statale: la rivoluzione francese. E questo effetto si è collegato non tanto alla sua azione positiva stessa, quanto piuttosto alla temibile disillusione che ha lasciato proprio in pensatori profondi e critici. La rivoluzione francese avrebbe dovuto portare la realizzazione del diritto razionale della teoria del diritto naturale; libertà, uguaglianza e fratellanza erano le sue illuminanti istanze ed esse infiammavano molto al di là dei confini della Francia. Ed esse dovevano essere realizzate attraverso l’eliminazione dei privilegi di ogni sorta, che rendevano impossibile la libertà e l’uguaglianza degli uomini nello Stato, attraverso l’abbattimento dei ceti. Finora il ceto — con la sua regolamentazione legale dei diritti e dei doveri ad esso collegati e con il conferimento di privilegi legali a certi gruppi d’interesse — era stato il principio che aveva dato l’ordinamento alla vita statale e insieme a quella sociale. Adesso cadevano i diritti di Página 29 ceto e, con ciò, anche i privilegi — vi erano soltanto cittadini, che erano tutti uguali di fronte alla legge —, perlomeno nel senso iniziale della rivoluzione, che non sapeva ancora nulla del diritto elettorale legato al censo; ma l’uguaglianza e, ancora meno, la libertà e la fratellanza, non erano ancora state raggiunte. I ceti erano stati aboliti ma ora si presentava, tutt’in una volta, un nuovo potente elemento di disuguaglianza e d’illibertà nello Stato, che, fino ad ora, era stato celato dall’esistenza dei ceti: cioè, le classi. Diveniva con ciò visibile un elemento di differenziazione che si prendeva gioco di ogni livellamento giuridico, anzi, era per questo incomprensibile. Poiché proprio sulla base dell’uguaglianza giuridica di principio emergeva per la prima volta questo elemento di differenziazione, nella disuguaglianza di un fatto — nella disuguaglianza del possesso — che non poteva essere costituito, ma quindi non poteva neanche essere eliminato, dai principi giuridici. Il possesso, anzi, appariva soltanto come l’esercizio di un diritto, che proprio grazie al principio dell’uguale tutela dei diritti era ora santificato e garantito per tutti. Ma, all’interno di questo diritto al possesso santificato si palesò il fatto che non per tutti vi era un possesso uguale da difendere e che, per la maggior parte, non v’era quasi nulla da difendere. Ma, d’altra parte, questa quantità di possesso si presentava come il frutto del lavoro e del merito individuale o anche, soltanto, della fortuna, anzi addirittura dell’abuso individuali; e, allo stesso tempo, veniva alla luce l’immenso potere dell’interesse individuale a mantenere comunque per sé questo possesso e, se possibile, accrescerlo. Ora, i singoli erano per un certo tempo tanto unificati nello Stato quanto l’uno all’altro contrapposti, in generale, però, erano posti in un tale rapporto l’uno con l’altro e in una tale relazione totale che ora, per la prima volta, lo Stato si elevò ad una vita autonoma e egoista. Nacque da qui la comprensione di un altro legame fra gli uomini oltre a quello fondato dalle relazioni giuridiche. Al contrario, si produsse ora un legame fra gli uomini, che, apparentemente, all’interno di quello statale stava per sé e il cui significato naturale, per quanto fosse compreso dallo Stato anche in forma giuridica, non consisteva affatto in questa forma giuridica, bensí nel suo contenuto rivolto all’interesse egoistico, economico, alla soddisfazione degli interessi di possesso. E questa nuova comprensione, in quanto conoscenza di un rapporto sociale, fu contrapposta al rapporto statale. È innanzitutto a Hegel che va ricondotta questa formazione concettuale che continua ad agire anche nel presente [Nota 1]. Página 30 Per intendere bene questo concetto di società e per capire come sia divenuto possibile il suo antagonismo rispetto allo Stato, anzi come sia divenuto necessario, occorre tener presente — il che per lo piú viene tralasciato — che il concetto di società in Hegel non è il concetto generale della vita sociale in generale, che oggi colleghiamo con la parola società e che egli non conosceva ancora, bensí è quello della «società civile». Esso viene sempre trattato, in Hegel, sotto questa espressa definizione. In Hegel, pertanto, non abbiamo a che fare con un concetto generale-teorico, bensí con un concetto storico di società. In essa egli descrive l’essenza dell’egoismo economico che si sviluppa liberamente, dell’economia capitalistica e dello spirito bourgeois, di cui — in quanto sistema dell’atomismo sociale — egli aveva abbozzato alcuni splendidi tratti caratteristici psicologici già nei suoi scritti giovanili, in particolare nel saggio Le maniere di trattare scientificamente il diritto naturale [Nota 2]. Per questo sistema dell’atomismo sociale egli aveva coniato, nella Fenomenologia, l’espressione, estremamente significativa, di «regno animale dello spirito», poiché in esso si sviluppa l’intreccio di essenze che, come gli animali, pensano solo a sé, si sviluppa «l’individualità che è a se stessa reale in sé e per se stessa» [Nota 3]. Per questo nella Filosofia del diritto, nell’Aggiunta al § 182, si legge anche: La società civile è il divario (Differenz) che si presenta tra la famiglia e lo Stato, se anche lo sviluppo di essa segue piú tardi di quello dello Stato; poiché, in questo divario, presuppone lo Stato, che essa deve avere presente come un che di autonomo, per esistere. Del resto, Página 31 la scoperta della società civile appartiene al mondo moderno, che assegna per la prima volta il loro diritto a tutte le determinazioni dell’idea [Nota 4]. Quindi, in Hegel, ciò che si contrappone allo Stato non è la società in generale, bensí la società civile, che egli considera come un livello di sviluppo nel dispiegamento dello spirito oggettivo verso la forma piú alta dell’eticità, verso lo Stato. In ciò, essa è un tale livello di sviluppo che, presa per sé, significa la negazione dell’eticità. Si deve qui tener presente la forma hegeliana dello sviluppo di tesi, antitesi e sintesi, che non significa affatto una direzione graduale di progresso. Sebbene dunque Hegel tratti la società fra i fenomeni dello spirito oggettivo, e cioè in particolare come seconda forma dell’eticità tra la famiglia e lo Stato, essa non è tuttavia una loro forma mediana. Piuttosto essa è, secondo Hegel, l’antitesi rispetto alla eticità che nella famiglia si presenta in un primo stadio, ancora inconsapevole, ma immediatamente realizzato. Poiché la famiglia sente se stessa come un’unità che fa pervenire a coscienza l’individualità del singolo solo come membro di questa unità e fa dell’amore la sua inclinazione portante (Filosofia del diritto, § 140). La società civile significa invece appunto la dissoluzione di quest’ultima, l’atomizzazione dei suoi membri, di cui essa fa individui sussistenti per sé e che pensano solo a sé, la cui inclinazione reciproca non è piú l’amore, bensí l’amore di sé, l’egoismo [Nota 5]. La società diviene, secondo la famosa espressione di Hegel, il «sistema dei bisogni», e questo significa la contrapposizione ad un sistema dell’eticità: come tale va concepito lo Stato, la sintesi fra famiglia e società civile. Nella società civile, pertanto, la società è nella sua dualizzazione. «La sostanza», si legge nel § 523 dell’Enciclopedia, «che, in quanto spirito, si particolarizza astrattamente in molte persone (la famiglia è una sola persona), in famiglie o individui, i quali sono per sé in libertà indipendente e come esseri Página 32 particolari, — perde il suo carattere etico; giacché queste persone in quanto tali non hanno nella loro coscienza e per loro scopo l’unità assoluta, ma la loro propria particolarità e il loro essere per sé: donde nasce il sistema dell’atomistica». Altrettanto si legge nella Filosofia del diritto, Aggiunta al § 184: «L’ethos è qui perduto nel suo estremo» [Nota 6]. Ma, in questa contrapposizione fra Stato e società in Hegel, vorrei richiamare l’attenzione su un punto, che è di grande importanza per lo sviluppo ulteriore di questo rapporto concettuale. Abbiamo appunto visto che, in Hegel, non si tratta tanto di una separazione concettuale necessaria fra Stato e società civile, bensí che la società civile gli appariva semplicemente come un gradino verso la perfetta eticità, verso lo Stato. Questo rapporto storico si esprime solo nel fatto che, secondo l’esposizione penetrante e ripetuta di Hegel, questo sistema dei bisogni, quest’atomistica egoistica degli individui, in fondo, è solo una falsa coscienza, un’apparenza, con cui l’individuo inganna se stesso e gli altri. Si ritiene qualcosa di particolare, di posto unicamente su se stesso, mentre non ha cessato di essere un membro del rapporto spirituale, dello spirito oggettivo. Non può sfuggire alla sua unità: può semplicemente disconoscerla e negarla. Per questo, già il capitolo della Fenomenologia, in cui si parla dell’individualità, che vuol essere soltanto in sé e per sé, e non vuol ritenere reale null’altro che la sua azione individuale, ha il significativo titolo: Il regno animale dello spirito e l’inganno, o la cosa stessa. In quanto gl’individui ritengono e pretendono di servire soltanto sé o la cosa stessa, di cui si sono appropriati, tuttavia con l’azione — che è possibile solo in relazione agli altri, al loro atteggiamento concordante o di rifiuto — non possono non dimostrare che ogni realizzazione della loro volantà si compie solo grazie all’atto del «trasporre il Suo nell’elemento universale, per modo che esso diventa e deve diventare Cosa tutti» [Nota 7]. Gl’individui si danno come reciprocamente singolarizzati si accolgono reciprocamente come tali, per mostrarsi tuttavia, in ogni momento del loro fare, attraverso la valutazione comunitaria del medesimo, attraverso la sua accettazione e il suo rifiuto, come spiritualmente legati. Per cui si legge chiaramente nella Filosofia del Página 33 diritto, nella discussione della società in quanto regno dell’egoismo, «cerchia della particolarità»: Ma, ora, si presenta il rapporto, per cui il particolare deve essere il primo elemento determinante per me, e, quindi, è annullata la determinazione etica. Ma io sono soltanto in errore, particolarmente per il fatto che, credendo di tener fermo il particolare, tuttavia l’universalità e la necessità della connessione resta la cosa prima ed essenziale; quindi, io sono, in genere, nel grado dell’apparenza; e, poiché la mia particolarità resta l’elemento determinante per me, cioè il fine, io servo, quindi, all’universalità, che propriamente conserva il potere ultimo sopra di me. (Aggiunta al § 181). È interessante e, insieme, istruttivo, per il rapporto storico-spirituale del pensiero marxiano con la filosofia hegeliana, il vedere come questa teoria hegeliana dell’atomizzazione solo apparente della società civile ritorna in Marx in una forma che tende già, dallo sprofondamento metafisico dell’individuo, verso la fusione sociale pura. Per parlare con precisione e nel significato prosaico — leggiamo nella Sacra famiglia — i membri della società civile non sono atomi. [...] L’individuo egoistico della società civile si può gonfiare, nella sua rappresentazione non sensibile e nella sua astrazione non vivente, fino a diventare l’atomo, cioè un’essenza irrelata, autosufficiente, priva di bisogni, assolutamente piena, beata. La realtà sensibile, non beata, non si preoccupa dell’immaginazione dell’individuo; ciascuno dei sensi di lui lo costringe a credere al senso del mondo e degli individui fuori di lui, ed anche il suo stomaco profano gli ricorda quotidianamente che il mondo fuori di lui non è vuoto ma è ciò che propriamente riempie. Ciascuna delle sue attività essenziali e delle sue proprietà, ciascuno dei suoi impulsi vitali diventa il bisogno, la penuria, che trasforma il suo egoismo, il suo desiderio di sé, in desiderio di altre cose e di altri uomini fuori di lui. Ma, poiché il bisogno del singolo individuo non ha un senso evidente di per sé per l’altro individuo egoistico che possiede i mezzi per soddisfare quel bisogno, e quindi non ha una connessione immediata con il soddisfacimento, ogni individuo è quindi costretto a creare questa connessione, diventando parimenti il mediatore fra il bisogno altrui e gli oggetti di questo bisogno. Sono quindi la necessità naturale, le proprietà umane essenziali, per quanto alienate possano apparire, l’interesse, che tengono uniti i membri della società civile; il loro legame reale è la vita civile, e non la vita politica. Non è dunque lo Stato che tiene uniti gli atomi della società civile, ma il fatto che essi sono atomi solo nella rappresentazione, nel cielo della loro immaginazione, — il fatto che nella realtà sono esseri fortemente distinti dagli atomi, cioè [...] uomini egoistici. Solo la superstizione politica immagina ancora oggi che la vita civile debba di nePágina 34 cessità essere tenuta unita dallo Stato, mentre al contrario, nella realtà, lo Stato è tenuto unito dalla vita civile. [Nota 8] Anche il concetto marxiano di società ha assunto come punto di partenza della sua elaborazione sociologica del problema della società la concezione della società civile in quanto semplice apparenza dell’autonomia atomistica dei suoi elementi, solo che esso porta a termine la dissoluzione di questa apparenza in maniera diversa da Hegel. Secondo quest’ultimo l’apparenza si produce necessariamente dalla scissione dello spirito oggettivo e può essere superata solo grazie a un processo spirituale, grazie al fatto, cioè, che la coscienza s’immerge nell’essenza unitaria di questo spirito oggettivo. In Marx quest’apparenza viene presentata come prodotto necessario di una determinata forma storica della socializzazione umana, cioè di quella forma, in cui tutti gli atti della socializzazione devono essere compiuti da individui isolati, non consapevoli della loro socializzazione, e viene eliminata grazie all’abolizione di questo ordinamento sociale. In Hegel la nascita dell’apparenza atomistica e la sua dissoluzione rimane un processo all’interno della coscienza; in Marx esso diviene un processo dell’evento sociale, che determina causalmente questi cambiamenti della coscienza [Nota 9]. Se in Hegel il concetto di società era ancora un semplice membro nello sviluppo dello spirito oggettivo per il suo pieno dispiegamento nello Stato, per cui l’opposizione fra Stato e società era, propriamente, solo transitoria e indicava soltanto la scissione dell’idea etica dello Stato con l’egoismo come principio fondamentale della società civile, esso diviene, in Lorenz von Stein, un concetto generale-teorico. Ed è qui che nasce, propriamente, la teoria della necessaria opposizione concettuale fra Stato e società in generale. Per quanto riguarda il punto principale, per quanto riguarda cioè Página 35 la distinzione della società, in quanto «sistema dei bisogni», dell’«atomismo», in opposizione allo Stato in quanto sistema del generale, dell’eticità, Stein è rimasto sempre un puro allievo di Hegel. Ma, tuttavia, egli scorge già, nella società, una forma di collegamento generale dell’esistenza sociale dell’uomo, che sta alla base tutte le configurazioni della vita statale, e di cui egli cerca di scoprire le leggi. E, pertanto, spetta a questo pensatore, troppo poco apprezzato, perché posto in ombra dalla luce del pensiero marxiano, comunque il grande merito di aver fatto valere per primo, come tedesco, il programma di una scienza della società e di aver offerto importanti contributi alla sua realizzazione. Se, in questo programma, egli è rimasto solo al primo slancio, non poca responsabilità di ciò spetta alla contrapposizione hegeliana, rimasta insuperata, di Stato e società. Essa, cioè, ha fatto sí che anche Stein scorgesse nella sua «teoria della società» non ancora una vera e propria scienza fondamentale, bensí solo una parte di un «sistema di scienza dello Stato», le cui due altre parti erano la teoria dello Stato e la teoria dell’amministrazione, e ha fatto sí che fra queste parti del sistema non sussistesse alcuna unità di metodo. Poiché la teoria della società è, in Stein, la teoria della condizione di classe della società, la teoria dell’ordinamento costituito attraverso i rapporti di potere nella società, mentre la teoria dello Stato si occupa dell’ordinamento giuridico, che, per Stein, consegue dal concetto di un ordinamento costrittivo che rappresenta l’interesse generale, e la teoria dell’amministrazione deve indicare i mezzi per la realizzazione di un tale ordinamento giuridico all’interno della società classista. Conformemente a questo suo carattere etico, pertanto, la teoria dello Stato e dell’amministrazione pretende un metodo di trattazione del tutto diverso dalla trattazione sociologica, causale, che anche la teoria della società di Stein aveva già adottato. In tal modo, però, tutta la conoscenza teorica introdotta con la teoria della società, che Stein aveva già condotto a una chiara comprensione del carattere di classe dello Stato e della necessità della lottta di classe, andava a parare nel compromesso di un appiananto pratico delle opposizioni fra Stato e società, nella teoria dell’amministrazione che assumeva in Stein uno spazio cosí particolare [Nota 10]. Página 36 Già la prima opera di Stein, il libro — cosí importante per la storia del socialismo moderno — su Der Sozialismus und Kommunismus im heutigen Frankreich, apparso nel 1842, è molto indicativo anche per il nostro argomento, poiché in questo libro si trova illustrata, in maniera intuitiva e avvincente, la forte impressione della novità che, con il concetto di società, si è dischiusa alla riflessione dell’epoca. Da questo libro emerge una sorta di rivelazione per gli spiriti critici del tempo d’allora, il concetto di società nella sua distinzione dallo Stato agisce qui come una scoperta scientifica formale. Ed è molto utile offrirsi, ancor’oggi, all’impressione di questa novità, poiché, nella concezione moderna, il concetto di società ha assunto fin troppo spesso l’impronta dell’ovvietà, che ha condotto a creare, non di rado, una assoluta mancanza di concetti intorno all’oggetto che questo concetto indica. Per fin troppe persone, oggi, il concetto di società indica solo una parola comoda che facilmente si piazza là dove mancano concetti. Página 37 Fin dall’inizio, in questo libro, il concetto di società si presenta, per Stein, nel rapporto piú stretto con quello di movimento e di rovesciamento sociale. «Che cos’è una rivoluzione sociale?», egli domanda nella Prefazione (p. IV). «Come si distingue da quella politica? In breve: che cos’è la società e come si riferisce allo Stato?». E sotto l’impressione vigorosa dell’«elemento nuovo», cioè del proletariato (p. 9), la cui emergenza gli aveva mostrato lo studio del movimento sociale in Francia, s’impone la nuova conoscenza di ciò che era stato l’elemento decisivo in tutti i rovesciamenti politici degli ultimi anni e che aveva fatto fallire gl’ideali di libertà della rivoluzione francese, in quanto l’aveva fatta andare a parare nel diritto elettorale legato al censo della costituzione borghese. Qual è il momento che ha avuto tanta forza da mantenersi in mezzo agli sviluppi piú splendenti dell’uguaglianza e da provocare delle formazioni che ad essa si contrappongono in maniera cosí diretta? [...] È il possesso. Il principio dell’uguaglianza ha trovato qui, infine, il suo vero avversario. E, anche senza avere completa consapevolezza del suo specifico significato, comincia già ora a sospettare che la disuguaglianza del possesso sia il vero scoglio contro cui farà naufragio. [Nota 11] Ma, con ciò, viene trovato un nuovo punto di vista per la trattazione del movimento rivoluzionario, che consente di comprendere che il movimento rivoluzionario stesso, nel presente, ha cambiato il suo posto di combattimento. La lotta per l’uguaglianza si compie ora in una sfera completamente diversa: «Se prima era il potere statale la sfera in cui si metteva alla prova, adesso è la società» [Nota 12]. La lotta politica con lo Stato fa posto a una «lotta nel cuore della società». È quindi necessario contrapporre una scienza della società alla nostra precedente scienza dello Stato. Né la teoria dello Stato, né la filosofia del diritto, né la teoria dell’economia politica, sono in grado di presentarci «in un’unità scientifica» l’interezza reale della vita comunitaria degli uomini, poiché esse considerano ogni volta un lato di essa. Ora, dov’è l’idea, che fa di questa interezza reale un intero nell’intuizione? Finora non l’abbiamo; vi è semplicemente una parola che deve nascondere questa deficienza, e la nasconde male. È la società, nel cui concetto consiste la soluzione di quel còmpito. [Nota 13] I punti di vista relativi a una nuova scienza, in questo libro di Stein semplicemente accennati, della quale del resto il suo libro rappresentava la prima applicazione, punti di vista che fanno appaPágina 38 rire in chiara luce tutti i vantaggi e tutte le contraddizioni della concezione fondamentale di Stein, trovano ora la loro prima attuazione sistematica nel primo volume della sua Geschichte der sozialen Bewegung in Frankreich (apparsa nel 1850), che aveva come sottotitolo: Il concetto di società [Nota 14]. Qui si palesa chiaramente il progresso di Stein oltre Hegel nel punto che abbiamo già sottolineato, per cui il concetto di società, da semplice fase di sviluppo, diviene un concetto generale. L’opposizione fra società e Stato, in verità, viene mantenuta, ma non è piú l’opposizione fra due momenti separati dello sviluppo spirituale, bensí un’opposizione immanente ad ogni vita comunitaria storica. Società e Stato ora, in generale, non vanno piú divisi, neanche nel senso per cui, per esempio, lo Stato avrebbe la missione di superare la società e di conservarla (aufheben) nella sua universalità, e con ciò esso sarebbe condotto alla sua espressione perfetta, ovviamente raggiungibile solo nell’idea, bensí società e Stato sono «i due elementi vitali di ogni comunità umana» [Nota 15]. Solo che da ciò deriva «il fatto che il contenuto della vita della comunità umana non può non essere una continua lotta dello Stato con la società e della società con lo Stato» [Nota 16]. Poiché in ciò Stein rimane uno scolaro fedele di Hegel, nel fatto che Stato e società sono soltanto le forme di organizzazione di princípi reciprocamente contrapposti e che il principio dello Stato è l’interesse generale, quello della società invece è l’interesse individuale [Nota 17]. Il concetto sociologico di società in quanto concetto di una forma universale della vita comunitaria in generale e delle sue leggi di cambiamento è elaborato con chiarezza ancora maggiore nella Gesellschaftslehre di Stein, che apparve nel 1856 come seconda parte del suo System der Staatswissenschaft. Questo libro è cosí eccellente che può apprestare ancor’oggi validi servigi per acquisire vedute sociologiche. Ma proprio in esso il mantenimento della contrapposizione fra Stato e società — che in Hegel era ancora possibile poiché ivi era filosofia della Storia, ma qui si fonda su una confusione dei metodi — si sviluppa fino a un limite in cui l’insostenibilità teorica comincia a divenire consapevole di se stessa. Poiché qui Stein non solo afferma che con il concetto puro di Stato da solo la vita della comunità non può essere assolutamente compresa (p. 53), ma qui viene da lui stesso sempre piú chiaramente espresso il fatto che in nessuno Stato ‘reale’ può essere affatto realizzato l’interesse generale, cioè l’idea dello Stato puro, perché, al contraPágina 39 rio, l’interesse di potere e l’interesse legato al possesso della classe dominante diviene il principio decisivo della costituzione dello Stato (Staatsbildung). E cosí il problema di come dalla ‘società’ si debba giungere a uno ‘Stato’ rimane qui tanto piú insoluto in quanto la soluzione di Stein, in base a cui il principato e il funzionariato sono gli elementi, che devono rappresentare — al di là della violenza d’interessi puramente della società — gl’interessi generali e dovrebbero risolvere il conflitto grazie alla loro amministrazione diretta in questo senso (p. 73), va a parare direttamente nell’utopia, e in un’utopia reazionaria. Non dobbiamo occuparci, qui, d’una esposizione della teoria dello Stato e della società di Stein, ma dovevamo farlo solo sotto il nostro punto di vista per imparare a conoscere in maniera piú dettagliata quella direzione di pensiero in cui — come pretende Kelsen — si produce il bisogno di una chiara delimitazione fra Stato e società. Vediamo ora che questa delimitazione ha, già nel suo progenitore Hegel e altrettanto nel suo continuatore Stein, la tendenza a distinguere lo Stato in quanto idea, in quanto essenza normativa, dalla società in quanto condizione fattuale: per cui questa tendenza di pensiero è anzi cosí simpatica a Kelsen. In tal modo lo Stato si separa comunque dalla sociologia per divenire semplicemente oggetto dell’etica o, come in Kelsen, della teoria del diritto, mentre d’altra parte la teoria della società va a finire in un isolamento insuperabile rispetto a tutti gl’interessi vitali reali dello Stato. E cosí il problema se sussista effettivamente una contrapposizione fra Stato e società diviene un problema vitale per una sociologia, che, come quella marxista, voglia comprendere anche lo Stato. Página 40 Capitolo quarto L’ulteriore elaborazione del concetto di società in Marx Nella concezione del marxismo l’opposizione fra Stato e società viene tolta. Questo superamento (Aufhebung), che noi riteniamo uno dei concetti principali della concezione sociologica fondamentale del marxismo, non si compie in modo tale che questa opposizione viene completamente negata, bensí in modo tale che essa viene assunta, al contrario, e spiegata come una realtà, ma non come un’antitesi logica del concetto, bensí come il rispecchiamento (Spiegelung) di un antagonismo reale delle forze sociali. Marx ed Engels anche in questa direzione hanno superato la filosofia hegeliana nel loro modo produttivo, in quanto cioè non l’hanno semplicemente lasciata cadere come un errore, ma hanno ‘salvato’ il suo contenuto di verità nella loro propria concezione. Cosí, anche in questo caso, il dissidio hegeliano fra i concetti di Stato e società viene indicato, da una parte, come un’apparenza semplicemente ideologica, ma, d’altra parte, il nucleo reale di questa oppositività viene scoperto nella legalità del processo sociale stesso. E questo avviene grazie alla conoscenza del fatto che lo Stato è soltanto una forma storica di manifestazione della vita sociale in generale. Una forma di vita determinata, dispiegatasi nel corso dello sviluppo storico, della socializzazione umana, si mostra, nella coscienza dei suoi portatori, come comunità (Gemeinwesen), come Stato; ma, ciononostante, rimane la società stessa, solo a un determinato livello storico della sua manifestazione. Essa si era manifestata prima, per esempio, come gens, come stirpe, come città, come popolo. Ma da che cosa deriva l’oppositività di questa forma di socializzazione, che conduce a una separazione fra Stato e società? Ciò è fondato nella natura sociale anche della coscienza singola che in ultima analisi è possibile presentare solo da un punto di vista critico-gnoseologico, e in base a cui la consapevolezza della socialità — anche ove si tratti di una semplice socialità di gruppi o di clasPágina 41 si — per la coscienza ingenua passa necessariamente attraverso le rappresentazioni di una universalità dell’interesse e di una solidarietà del tutto, e all’interno di questo rapporto il singolo vede se stesso come un membro, uguale a tutti gli altri membri di questo rapporto, certo utile agli altri, ma anche da essi stimolato. In questo senso si potrebbe dire che l’uomo è, per natura, non solo un’essenza sociale bensí anche democratica [Nota 1]. La comunità gli appare soltanto come un ingrandimento e un rafforzamento della sua propria essenza individuale, anzi non può non apparirgli cosí, poiché anzi egli già nel suo pensiero e nella sua volontà individuale è incline alla validità universale di questi due lati della sua essenza, cioè quindi al collegamento intenzionale con una molteplicità indeterminata di compagni dello stesso genere. Sia pure senza penetrare fino alla radice critico-gnoseologica del carattere sociale di ogni attività spirituale dell’individuo, Marx ha tuttavia elevato a pietra angolare della sua critica dell’ideologia delle classi il fatto stesso, per cui l’uomo non può sperimentare nulla di sociale senza averlo prima ricondotto sotto la categoria dell’universale. In un brano molto indicativo, ma poco noto, leggiamo: Le idee e i pensieri degli uomini erano naturalmente idee e pensieri su se stessi e sulla loro condizione, la loro coscienza di sé, degli uomini, giacché era una coscienza non soltanto della singola persona, ma della singola persona in connessione con l’intera società, e dell’intera società in cui essi vivevano. Le condizioni da essi indipendenti, entro le quali producevano la loro vita, le forme di scambio necessarie che vi erano connesse, i rapporti personali e sociali cosí posti, dovevano assumere, in quanto venivano espressi in pensieri, la forma di condizioni ideali e di rapporti necessari, ossia trovare la loro espressione nella coscienza come determinazioni scaturenti dal concetto dell’uomo, dall’essenza umana, dalla natura dell’uomo. Ciò che gli uomini erano, ciò che la loro condizione era, appariva nella coscienza come la rappresentazione dell’uomo, dei suoi modi di esistere o delle sue determinazioni concettuali piú precise. [Nota 2] È qui, poi, anche la fonte del diritto naturale, che respinge come irrazionale e contraddittorio rispetto alla essenza umana (cioè, quindi, propriamente come non sociale), tutto ciò che contraddice il Página 42 sistema di socialità non contraddittorio di volta in volta riconosciuto. Ma qui è anche la fonte del diritto positivo, che deriva la sua legittimazione a valere anche per tutti e a farsi obbedire soltanto da questa forma fondamentale di ogni socialità, per cui essa si riferisce all’intero, all’interesse generale, alla conservazione e alla rappresentanza della solidarietà di tutti. Questa fondamentale comunizzazione (Vergemeinschaftung) dell’uomo solo nel dovere — sia che si tratti dei comandamenti intimi della morale, sia che si tratti delle prescrizioni esterne del diritto — acquista una forma di coscienza e una forma di vita nuova perché riferita all’agire. In ogni socializzazione si costituisce una certa organizzazione, che ha lo scopo di mantenere e di difendere questa forma di vita degli uomini in essa unificati. Questa organizzazione, con i suoi portatori, costituisce il ‘governo’, lo ‘Stato’ di questa forma sociale. Fino a quando la configurazione reale di una socializzazione non cela in sé ancora alcuna opposizione economica — come, pe esempio, all’interno delle forme di vita, piú o meno leggendarie, del comunismo originario — la forma di coscienza di questa vita coincide con il suo contenuto, ‘Stato’ e società sono la stessa cosa. Ma già in questa organizzazione stessa vi sono dei germi, che tendono a superare questa identità, in quanto la quantità di potere, che essa concede a singoli uomini, pone facilmente questi in condizione di sfruttare la loro posizione certo in nome dell’insieme, ma, in realtà, per il proprio interesse. La forma sociale diviene cosí un mezzo contro la socialità stessa e crea al suo interno dei contrasti che non possono non spezzare l’identità originaria dei concetti di comunità, diritto e Stato. Ma questa rottura non si compie con uguale immediatezza nella coscienza degli uomini, i quali continuano ad usare questi concetti nel loro significato solidale, anche quando Stato e diritto già da molto tempo non rappresentano piú una comunità priva di contraddizioni e solidale. Anzi, a causa della natura sociale della loro essenza, per cui possono pensarsi solo in quanto esemplari di una specie, essi pervengono quasi per necessità di cose a trattenersi in questo genere di rappresentazione come se fosse qualcosa di ovvio. Per cui Engels poteva dire: Lo Stato ci si presenta come il primo potere ideologico sugli uomini. La società si crea un organo per la difesa dei suoi interessi comuni contro gli attacchi interni ed esterni. Questo organo è il potere dello Stato. Appena sorto, quest’organo si rende indipendente dalla società, e ciò tanto piú quanto piú diventa organo di una classe determinata, e realizza in modo diretto il dominio di questa classe. [Nota 3] Página 43 L’elemento proprio della forma statale è dunque questo, il fatto che essa pensa sempre la socializzazione sotto il concetto dell’interesse generale, mentre, in realtà, sono sempre gl’interessi particolari delle forze dominanti all’interno della socializzazione quelle che costituiscono lo Stato e esprimono la sua essenza. Il che significa che non vi è un qualcosa, sussistente per sé, lo Stato, che si contrapponga a un altro istituto elementare, alla società; ma la forma statale è l’ideologia contraddittoria, in cui la realtà sociale viene vissuta e formata. Essa è contraddittoria perché, in base alla sua forma, è sempre rivolta all’universalità della comunità, ma, in base al suo contenuto, rappresenta sempre soltanto interessi parziali. L’idea dello Stato rappresenta una volontà universale e ricava da questo presupposto l’autorizzazione a dettare leggi, cui ognuno deve piegarsi. Ma non ‘tutti’, bensí le classi dominanti della società dettano il contenuto di questa volontà universale, per cui le leggi sono appunto soltanto la volontà particolare dei dominanti protocollata nella forma della volontà universale. È appunto questa la dialettica tipica del concetto di Stato, che ha condotto alla divisione di due princìpi comunitari reciprocamente contrapposti — quello altruistico dello Stato e quello egoistico della società —, per cui nella forma statale un complesso d’interessi in sé puramente parziale ha assunto la forma di una solidarietà universale, che esige non semplicemente l’obbedienza esterna ai suoi comandamenti, bensí anche il riconoscimento della sua santità. La legge dello Stato dev’essere eseguita non solo in quanto ordinamento costrittivo, bensí dev’essere onorata e rispettata anche in quanto ordinamento giuridico. È estremamente interessante e ricco d’insegnamenti per la storia culturale (Geistesgeschichte) del socialismo il fatto che lo svelamento di questa contraddizione interna dell’idea borghese di Stato e del suo ordinamento giuridico si compia già alla soglia del socialismo moderno e, in verità, quasi contemporaneamente presso due dei suoi primi propugnatori: presso il suo primo teorico, Tommaso Moro, e presso il primo capo di un movimento comunista in Germania, Thomas Münzer. Nel libro Utopia, che contiene tante geniali anticipazioni della successiva critica del sistema capitalistico e dei concetti del socialismo moderno, sebbene sia stato scritto quattrocento anni fa, in un’epoca in cui questo sistema capitalistico era solo agli inizi, in questo libro meraviglioso, dunque, si legge: Esaminando adunque e considerando meco questi Stati che oggi in qualche luogo si trovano, non mi si presenta altro, cosí Dio mi aiuti! che una congiura di ricchi, i quali, sotto nome e pretesto dello Stato, non si occupano che dei propri interessi. E immaginano e inventano ogni maniera, ogni arte con cui conservare anzitutto, senza paura di Página 44 perderlo, ciò che hanno disonestamente ammucchiato essi, e in secondo luogo come serbar per sé, al prezzo piú basso possibile, ciò che a fatica producono tutti i poveri, volgendolo a proprio utile. Queste subdole disposizioni i ricchi stabiliscono che vengano osservate in nome dello Stato, cioè anche in nome dei poveri, e cosi diventano legge! [Nota 4] E del tutto analogamente scrive Münzer nel suo ultimo scritto intitolato Hoch verursachte Schutzrede, che Karl Kautsky definisce il suo scritto piú appassionato e rivoluzionario: I potenti fanno come vogliono [...] il piatto principale dell’usura, delle ruberie e dei banditismi sono i nostri signori e i nostri prìncipi, che s’impossessano di tutte le creature. I pesci nell’acqua, gli uccelli nell’aria, i frutti sulla terra: tutto dev’essere loro. Poi fanno diffondere il comandamento di Dio fra i poveri, e dicono: Dio ha comandato che tu non devi rubare; essi stessi però non seguono il comandamento [...] Se poi egli [il povero] commette peccato sia pure in misura minima, dev’essere impiccato. [Nota 5] Il nucleo giusto della teoria hegeliana della contraddizione fra Stato e società è dunque quello per cui vi è qui una opposizione reale all’interno dei rapporti sociali di vita stessi, che viene dapprima celata dalla forma ideologica in cui i medesimi si presentano nello Stato, legati in un’unità apparentemente solidale. Questa forma ideologica, in cui gli uomini divengono consapevoli della loro socializzazione come di uno stato giuridico, cioè in quanto membri di un ordinamento che rappresenta interessi generali, fa parte delle forme necessarie della coscienza sociale in generale, e da qui nasce anche l’apparenza della contraddizione fra Stato e società. Ogni interesse di classe vuol configurare la sua volontà come dominante, tende quindi a impadronirsi del potere nello Stato e a proclamare la sua volontà come la volontà dell’interesse generale. In questo processo storico anche il ‘diritto’ è sempre dalla parte della classe oppressa, poiché con la sua liberazione l’ambito dell’‘interesse generale’ sperimenta sempre un allargamento. Da dove derivi questa forma ideologica della socializzazione; se essa sia — come dicevamo — effettivamente una forma ultima di coscienza; quale sia la sua legalità particolare: tutto ciò non è un problema della sociologia e, quindi, neanche del marxismo; ciò fa parte della critica della conoscenza, che qui, a mio avviso, va necessariamente chiamata in causa per realizzare un Página 45 necessario completamento del senso giusto della concezione materialistica della storia — anche la moderna scienza della natura, anzi, non può piú applicare i suoi concetti fondamentali senza una consapevole elaborazione dei risultati critico-gnoseologici [Nota 6]. La concezione marxista presuppone questa forma ideologica dell’ordinamento giuridico, in cui viene vissuta la socializzazione, ed è lecito che la presupponga. Il suo còmpito è soltanto quello di spiegare il riempimento concreto di questa forma e le configurazioni particolari e i mutamenti di questo contenuto a partire dalle configurazioni e dai mutamenti dei rapporti sociali stessi. E la piú importante di queste spiegazioni consiste nel fatto di prestare attenzione fin dall’inizio al fatto che la forma statale non è identica alla forma giuridica, bensí indica soltanto quella configurazione storica particolare della forma giuridica, in cui una parte della società ha il potere di spacciare la sua volontà e il suo interesse come se fosse l’intero. Da questo rapporto fondamentale deriva ora una doppia conseguenza, cui Marx ha accennato in alcune espressioni ancora troppo poco considerate dei suoi scritti giovanili che in maniera molto illuminante privano di quest’apparenza l’opposizione hegeliana, in base a cui lo Stato sarebbe il generale, mentre la società sarebbe l’elemento privato, egoistico. Questa opposizione, cioè, è solo la necessaria conseguenza ideologica della mistificazione borghese del concetto di Stato e di diritto, che deriva dall’identificazione, ovvia per il punto di vista borghese, del suo interesse di classe con l’ordinamento statale e giuridico in generale. Ed essa fa si che non solo, da un lato, i semplici interessi particolari delle classi dominanti nella società civile si presentino come interessi generali, come interessi sacri della nazione e, quindi, dello Stato, ma fa anche sí che, d’altra parte, tutti gl’interessi delle classi dominate — anche se superano di molto per interno significato sociale e per estensione del loro àmbito quelli dominanti — appaiano come interessi privati, di cui lo Stato non è necessario che si preoccupi. Cosí, per esempio, da questo punto di vista la libertà del contratto di lavoro, cioè il diritto di sfruttamento libero da ogni regolamentazione statale, appare come un interesse generale, come un interesse dello Stato, che dev’essere altrettanto sacro della proprietà privata. La previdenza per gli anziani, invece, cioè il problema di come debbano vivere gli anziani, dopo aver lavorato per tutta una vita, quando a causa dell’età siano divenuti inabili al lavoro e non abbiano altre fonti di sostentamento, è un loro affare privato, che, secondo la veduta dello Stato borghese, Página 46 difettoso dal punto di vista della politica sociale, va risolto solo attraverso mezzi privati (beneficenza). Del tutto coerentemente, pertanto, la miseria, la povertà appaiono — da questo punto di vista — non propriamente come un fenomeno sociale, bensí come un destino privato, come la conseguenza o di una sfortuna particolare o dell’incapacità, dell’indolenza, dell’amministrazione deficiente di chi ad esse è soggetto. Poiché il contenuto etico del vincolo sociale coincide con lo Stato — e cioè, in questo caso, con il dominio degli interessi legati al possesso — la povertà ricade, dal punto di vista consapevolmente borghese, non solo nella sfera del privato, bensí quasi in quella del vizio. E i proprietari sono — questa veduta si è mantenuta da Aristotele fino ai libri di Lorenz von Stein — non solo quelli che di fatto esercitano il dominio, bensí anche quelli che meritano di dominare. Marx tratta questa contraddizione intrinseca all’ideologia borghese dello Stato in maniera particolarmente penetrante nei suoi contributi agli «Annali franco-tedeschi», e, invero, sotto il punto di vista dell’opposizione fondamentale fra l’emancipazione umana e l’emancipazione semplicemente politica. Io vi ho dettagliatamente accennato già una volta [Nota 7]. L’espressione ‘umana’ tradisce l’influenza di Feuerbach, che allora cominciava ad agire su Marx. Ma con essa s’intende già qualcosa di piú dell’umanesimo feuerbachiano, in particolare il punto di vista di una concezione sociale fondamentale rispetto a quella semplicemente politica, che non ha ancora riconosciuto l’intreccio sociale generale di tutte le relazioni e situazioni della vita umana dietro le forme politiche che sono semplicemente la sua espressione storica. È nota, sotto questo profilo, la critica marxiana dei ‘diritti dell’uomo’ della rivoluzione francese, nella cui forma, che comprende in maniera particolarmente enfatica l’universalità, egli mette a nudo per cosí dire la necessità del meccanismo ideologico, grazie al quale a un contenuto semplicemente particolare viene impressa la forma dell’universalità. Marx mostra che nessuno dei diritti dell’uomo oltrepassa dunque l’uomo egoista, l’uomo in quanto è membro della società civile, cioè individuo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità. Ben lungi dall’essere l’uomo inteso in essi come ente generico, la stessa vita del genere, la società, appare piuttosto come una cornice esterna agli individui, come limitazione della loro indipendenza originaria. L’unico legame che li tiene insieme è la necessità Página 47 naturale, il bisogno e l’interesse privato, la conservazione della loro proprietà e della loro persona egoistica. [Nota 8] La concezione politica della società, cioè la visione che trova realizzati nella forma statale gli interessi generali della vita sociale, è dunque, per Marx, solo una emancipazione parziale: ove questo concetto indica tanto l’emancipazione sociale quanto quella intellettuale. Perché, fin quando si permane soltanto in questa concezione, il singolo rimane anche nella conoscenza prigioniero delle contraddizioni di questa ideologia. Questa scinde l’esistenza dell’uomo in una maniera appunto pericolosa. Lo Stato politico perfetto — dice Marx — è per sua essenza la vita generica (Gattungsleben) dell’uomo, in opposizione alla sua vita materiale. Tutti i presupposti di questa vita egoistica continuano a sussistere al di fuori della sfera dello Stato, nella società civile, ma come caratteristiche della società civile. Là dove lo Stato politico ha raggiunto il suo vero sviluppo, l’uomo conduce non soltanto nel pensiero, nella coscienza, bensí nella realtà, nella vita, una doppia vita, una celeste e una terrena, la vita nella comunità politica nella quale egli si considera come ente comunitario, e la vita nella società civile nella quale agisce come uomo privato, che considera gli altri uomini come mezzo, degrada se stesso a mezzo e diviene trastullo di forze estranee. [Nota 9] La concezione puramente politica, pertanto, non può, in generale, abbracciare l’insieme del rapporto sociale, poiché essa è fin dall’inizio una concezione parziale, la visione — determinata da un punto di vista di classe — di una parte della società. Per questo, anche, Marx chiama la rivoluzione solamente politica una «rivoluzione parziale». Il concetto di Stato della società civile è stato preparato e costituito ad un tempo con la rivoluzione politica della borghesia. «Su che cosa si fonda una rivoluzione parziale, una rivoluzione soltanto politica?», si domandava Marx già nel suo scritto Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. «Sul fatto che una parte della società civile si emancipa e perviene al dominio generale, sul fatto che una determinata classe intraprende la emancipazione generale della società partendo dalla propria situazione particolare». E aggiunge: Nessuna classe della società civile può sostenere questa parte, senza provocare un momento di entusiasmo in sé e nella massa, un momento nel quale essa fraternizza e confluisce nella società in generale, si scambia con essa e viene intesa e riconosciuta come sua rappresentante universale [...] Soltanto in nome dei diritti universali della Página 48 società, una classe particolare può rivendicare a se stessa il dominio universale. [Nota 10] Come si vede, nelle fasi storiche in cui, con la vittoria di una classe impetuosamente progrediente, si compiono le grandi liquidazioni dello sviluppo sociale, non si parla affatto di una contraddizione fra Stato e società e, ancora meno, la società si presenta qui come il regno dell’egoismo e dell’interesse puramente individuale. Piuttosto, in queste epoche, ogni nuova creazione statale riceve la sua piú alta consacrazione proprio dal punto di vista della società e diviene cosí fulmineamente chiaro il rapporto vero e proprio, per cui appunto Stato e società sono una e medesima cosa, solo che il primo è la forma di coscienza ideologica della seconda in quanto rapporto reale dell’esistenza umana. Solo quando, dopo il raffreddamento dell’entusiasmo rivoluzionario, diviene visibile il colore vero e proprio di questa realtà — in quanto si palesa che non tutte le forme e relazioni della socializzazione hanno trovato accoglimento nella forma statale, bensí soltanto quelle nella cui difesa i portatori della rivoluzione avevano avuto un interesse vitale — soltanto allora si compie la scissione fra i concetti di Stato e società. E questa scissione continua a sussistere, da un punto di vista ideale, fino a quando non sia acquisito un punto di vista, a partire dal quale questa scissione venga penetrata appunto come un’apparenza, un punto di vista prodotto dal fatto che il concetto di Stato, in sé non contraddittorio, viene applicato a un contenuto che, nella sua intima oppositività, gli è del tutto inadeguato, anzi non può non contraddirlo direttamente: viene applicato cioè alla realtà sociale divisa in classi. Questo punto di vista è quello del marxismo. Esso è il distogliersi dal mondo dei riflessi ideologici e il «ricondurre il mondo umano, i rapporti umani all’uomo stesso». Questa è, come dicevamo prima, non soltanto una trasformazione della rivoluzione semplicemente politica in rivoluzione sociale, ma, innanzi tutto, è anche una emancipazione del pensiero stesso, un rivoluzionamento anche della concezione dell’essenza dello Stato e della società stessi. È giusto, in questo doppio senso, ciò che Marx scriveva: Solo quando il reale uomo, individuale, riassume in sé il cittadino astratto, e come uomo individuale nella sua vita empirica, nel suo lavoro individuale, nei suoi rapporti individuali è divenuto ente generico (Gattungswesen), soltanto quando l’uomo ha riconosciuto e organizzato le sue ‘forces propres’ come forze sociali e, perciò, non separa piú da sé la forza sociale nella figura della forza politica, soltanto allora l’emancipazione umana è compiuta. [Nota 11] Página 49 Cosí, dunque, dal punto di vista marxista, cioè sociologico, lo Stato è soltanto una forma ideologica di una struttura sociale, che in essa si manifesta, ma che nella sua essenza va ancora ricercata e, dopo che questa è stata scoperta, quella si palesa una forma troppo ristretta. Per questo Marx definisce il superamento di questa concezione troppo ristretta, perché semplicemente politica, l’emancipazione umana; e per questo egli definisce la concezione semplicemente politica, «l’intelletto politico», come un modo di pensare limitato e necessariamente unilaterale, che è incapace «di scoprire la fonte delle infermità sociali» [Nota 12]. L’opposizione fra Stato e società, che si presume come un’opposizione necessaria, scompare non appena si sia riconosciuto che il punto di vista dello Stato è soltanto la rappresentazione di un tutto astratto, «che esiste soltanto grazie alla scissione della vita reale», mentre solo lo sguardo rivolto alla società discopre il tutto reale, di cui nello Stato appare sempre soltanto un’immagine distorta. In tal modo, quindi, quest’opposizione viene definitivamente superata; Stato e società sono un’unità indivisibile in quanto, in certe condizioni storiche, cioè, dopo la formazione dei contrasti economici di classe, lo Stato è quella forma di coscienza sociale, in cui si presenta e si configura la socializzazione. L’apparenza dell’opposizione fra Stato e società si spiega a partire dal fatto che questa forma storica, per cui determinati interessi parziali, non appena siano divenuti dominanti, si fanno valere come interessi generali, come interessi statali, questa forma storica viene assunta come se fosse la forma essenziale della vita sociale stessa, per cui lo ‘Stato’ appare come una forma originaria della vita umana esattamente come la ‘società’. In questo caso la concezione marxista ha compiuto esattamente la stessa svolta critica del pensiero che ha compiuto rispetto ai concetti economici. Notoriamente, è questo il carattere nuovo e che rovescia la precedente trattazione dell’economia politica della concezione marx-engelsiana, per cui essa non scorge piú nei fenomeni economici determinazioni naturali eterne della vita economica in generale, bensí forme dell’essere e dell’evento sociale che sono semplicemente divenute storicamente e che, pertanto, possono essere cambiate dall’ulteriore processo storico. Essa rompe decisamente con quella concezione borghese dei fenomeni economici, che, anche se deve ammettere uno sviluppo precedente che arrivi fino ad essi, tuttavia, come dice Marx nella seconda Prefazione al Página 50 Capitale, concepisce l’ordinamento capitalistico «come forma assoluta ed ultima della produzione sociale». Anche le categorie economiche — proprietà privata, merce, salario, profitto, capitale, ecc. — sono condizionate, sia per quanto riguarda la loro nascita, sia per quanto riguarda la loro sussistenza, dalla configurazione e dal mutamento dei rapporti di produzione che stanno alla loro base, allo stesso modo che lo sono, nella serie successiva, le altre categorie ideologiche. Tutte «queste idee, queste categorie», dice Marx già nello scritto Miseria della filosofia, «sono tanto poco eterne quanto i rapporti che esse esprimono. Sono prodotti storici e transitori. Vi è un continuo movimento di accrescimento delle forze produttive, di distruzione di rapporti sociali, di formazione d’idee; di immobile non vi è che l’astrazione dal movimento: ‘mors immortalis’» [Nota 13]. Questa fluidificazione stessa di apparentemente immutabili determinatezze naturali della vita sociale, che il marxismo mette in atto nei confronti dei concetti economici, esso la compie anche nel caso di quelli politici. Lo ‘Stato’ è tanto poco una forma essenziale dell’esistenza sociale quanto lo è il ‘capitalismo’. I concetti di Stato, potere politico, interessi pubblici, e simili, sono — nel rapporto concettuale del marxismo — soltanto concetti storici. Essi significano sempre un’espressione particolare di livelli di organizzazione sociale del tutto determinati, storicamente divenuti, ma non significano mai una forma di questa struttura sociale in generale. Per il concetto di Stato vale esattamente la stessa cosa che Marx ha detto una volta a proposito del concetto di proprietà, esprimendosi cosí: In ogni epoca storica la proprietà si è sviluppata diversamente e in rapporti sociali interamente differenti. Così, definire la proprietà borghese non significa altro che descrivere tutti i rapporti sociali della produzione borghese. Voler dare una definizione della proprietà come d’un rapporto indipendente, di una categoria a parte, di una idea astratta ed eterna, non può essere che un’illusione della metafisica o della giurisprudenza. [Nota 14] Portando a termine questa interpretazione storica, il marxismo intende, per Stato, «il potere organizzato di una classe per opprimere un’altra classe», come già si può leggere nel Manifesto del partito comunista. Diviene quindi chiaro che ogni critica, che, di fronte a questo concetto di Stato, scenda in campo con un concetto generale dell’essenza dello Stato in generale, si lascia sfuggire completamente lo specifico punto di vista del marxismo. Página 51 Ora, è proprio questo ciò che fa la critica kelseniana, il cui concetto di Stato, del resto, non solo è un concetto cosí generale che non dice proprio nulla circa il particolare livello storico di organizzazione e circa la caratteristica della struttura statale realizzata, ma, oltre a ciò, è un concetto normativo, allude quindi a una trattazione completamente diversa dei fenomeni sociali rispetto ai concetti sociologici, che sono sempre concetti che si riferiscono all’essere, cioè sono concetti dell’essere e del divenire dei fenomeni sociali. Ma, momentaneamente, vogliamo ancora prescindere da quest’ultimo momento. Si potrebbe in particolare osservare che una critica dal punto di vista di un concetto generale può essere tuttavia opportuna anche rispetto a una concezione storica se, in particolare, essa conduce a mostrare che i concetti storici sono in contraddizione con un dato di fatto generale, di cui essi appaiono tuttavia come una modificazione. E una tale critica non è assolutamente in contraddizione con il marxismo, anzi, corrisponde piuttosto a ciò che abbiamo già sentito persino nelle parole di Marx circa la necessità di concetti generali astratti, che vanno messi alla base di ogni considerazione pensante. Se si rimane solo consapevoli del fatto che essi sono semplici astrazioni, che acquistano tutto il loro significato solo grazie alla quantità mutevole della materia storica concreta, da cui sono stati ottenuti, allora questi concetti generali servono addirittura ad ordinare e promuovere la nostra conoscenza. Vogliamo pertanto vedere se, a partire da questo punto di vista, il concetto kelseniano di Stato ha per la sociologia — e qui si tratta soltanto di questa — un significato critico e sistematico. Página 52 Capitolo quinto Il formalismo giuridico di Kelsen [Nota *] Nella sua teoria dello Stato Kelsen intende, per Stato, un’associazione di dominio (Herrschaftsverband), ove è dapprima indifferente se questa associazione di dominio coincida o meno con un ente territoriale. «Decisivo è soltanto il carattere di dominio. Ciò significa, però, innanzi tutto, nient’altro se non che l’ordinamento della convivenza umana, che si è soliti definire come Stato, è un ordinamento costrittivo, e che questo ordinamento coincide [...] con l’ordinamento giuridico» (p. 6 [17]). Kelsen definisce quindi lo Stato come ordinamento costrittivo giuridico e scorge in ciò un connotato che definisce in maniera sufficiente lo Stato. Ma già da ora è possibile riconoscere il fatto che con una tale definizione, puramente formale, non si è acquisito proprio nulla per quanto riguarda il problema della essenza di una determinata forma storica di Stato. Lo Stato patriarcale è una organizzazione costrittiva giuridica esattamente come lo Stato borghese. Ma che cosa produce la distinzione? Se si risponde: appunto la diversa configurazione dell’organizzazione costrittiva, allora è proprio questo l’interesse sociologico: il riconoscere su che cosa di volta in volta si fondi l’organizzazione costrittiva e che cosa conduca al suo mutamento e alla sua trasformazione. La definizione dello Stato in generale come organizzazione costrittiva giuridica ha all’incirca lo stesso significato che definire un animale materia organizzata. Tutt’e due le volte una definizione cosí larga può avere propriamente solo un significato reale, un significato — per cosí dire — di ammonimento: nel caso degli animali, a non pensare di poter ricavare una vita animale da materia non organizzata; nel caso degli Stati, invece, a richiamare l’attenzione sul fatto che tutta la vita Página 53 statale si trova fin dall’inizio in una determinata forma organizzativa giuridica ed è comprensibile solo a partire da questa. Quest’ultimo è bensí anche il significato, in fondo polemico, della definizione kelseniana dello Stato. Fin dall’inizio il concetto di Stato dev’essere condotto sotto il punto di vista giuridico, cioè normativo, di un ordinamento prescrittivo (Befehlsordnung), e con ciò la trattazione causale viene troncata alla radice. La vita statale — che è equivalente a vita sociale, poiché lo Stato è un pezzo della vita sociale — viene fin dall’inizio caratterizzata come un oggetto di considerazione normativa, nel quale non interessa piú come sia nato e come si trasformi, bensí come è ordinato e come debba venir diversamente ordinato. E, allo stesso tempo, in riferimento alla critica della teoria marxista dello Stato, il concetto kelseniano di Stato ha ancora un significato polemico particolare, che, per quanto derivi da un fraintendimento di fondo, rende tuttavia unicamente possibile tutta questa critica. Kelsen cioè prende le mosse — come vedremo — dal curioso presupposto, secondo cui la teoria marxista lotta contro il carattere costrittivo dell’ordinamento statale in generale; e quindi egli ha gioco facile nel mostrare che questa teoria, in quanto vuol fare ‘estinguere’ lo Stato, va a parare nell’anarchismo, senza volerselo confessare, e quindi è in sé contraddittoria. Momentaneamente vogliamo prescindere da ciò — su cui piú avanti ci si deve soffermare dettagliatamente —, e vogliamo anche qui rinunciare a una discussione della distinzione di principio, dal punto di vista critico-gnoseologico e dal punto di vista metodologico, che esiste nella concezione dello Stato in Kelsen e nel marxismo, discussione che fa parte di un altro àmbito. Poiché Kelsen, anzi, vuol esercitare nei confronti dei concetti del marxismo addirittura una critica immanente, cioè una critica che non parta dal suo punto di vista, bensí dal punto di vista proprio del sistema criticato stesso; e solo una critica di questo genere merita un tale nome; poiché ogni altra critica non è piú una critica del marxismo, bensí una polemica contro di esso, condotta da un altro punto di vista, ad esso estraneo. Vedremo ancora che a Kelsen non è riuscito di mantenere questa strada della critica immanente, poiché egli è troppo kelseniano perché questo potesse riuscirgli. Lo constateremo subito già al primo passo di questa critica, là dove indica la presunta quantità di contraddizioni del concetto marxista di Stato. Vediamo dunque come Kelsen riesce a trovare in sé insufficiente e contraddittorio il concetto di Stato in Marx e Engels. Kelsen parafrasa innanzi tutto il concetto marxiano di Stato, per cui lo Stato viene concepito come l’organizzazione di dominio di una classe, il cui scopo sarebbe quello di sfruttare la classe doPágina 54 minata. Egli rimprovera innanzi tutto a questo concetto di Stato che questa definizione non solo non corrisponde all’essenza della cosa, ma che, oltre a ciò, nel carattere distintivo dello sfruttamento come scopo del dominio utilizza un elemento completamente insufficiente per offrire una determinazione concettuale. È ovvio, cioè, che ogni ordinamento costrittivo viene esercitato non per se stesso, bensí per uno scopo che sta al di fuori di esso; questo scopo può essere lo sfruttamento dei sottoposti, ma non è necessario che lo sia. Il concetto di Stato, quindi, non viene affatto definito in maniera univoca attraverso lo scopo dello sfruttamento (pp. 6-7 [19]). In questo ragionamento, logicamente inoppugnabile, che si offre apparentemente come una critica immanente del marxismo, viene però subito e in maniera quasi elementare alla luce la netta diversità della concezione sociologica (marxista) dello Stato rispetto a quella kelseniana giuridico-formale. Per quest’ultima non si tratta affatto dello Stato quale effettivamente è, quale vive e agisce nella realtà sociale, quale si è realizzato e si è ulteriormente configurato da un punto di vista storico, psicologico, causale. Per Kelsen è invece importante soltanto «lo Stato in quanto tale», quale esso esiste nel cielo dei concetti giuridici. Egli, pertanto, non mette neanche mai in discussione il fatto che, forse, la molteplicità di significati della definizione giuridicoformale dello Stato è ricondotta a una univocità storica grazie al processo sociale. Certo, «lo Stato in quanto tale» può perseguire scopi statali di mille tipi e, pertanto, la definizione giuridico-formale dello Stato deve adattarsi a tutte queste molteplici forme di Stato. Ma, nella realtà sociologica, forse, fra tutti questi scopi solo uno è stato realizzato e poteva essere realizzato, allo stesso modo in cui, per esempio, anche lo sviluppo del mondo animale avrebbe potuto realizzare diverse organizzazioni, ma culmina nella forma organizzativa dei vertebrati. Ma proprio questa realtà è ciò a cui unicamente s’interessa la sociologia e ciò che, pertanto, il marxismo cerca di comprendere nello Stato. Ciò, però, sta completamente al di fuori della costituzione dello Stato kelseniano. Quindi, qui non viene posta affatto la questione della natura sociale dello Stato e, pertanto, ad essa non si dà neanche una risposta. Piuttosto, tutta la problematica kelseniana e la sua critica del concetto marxista di Stato la si può comprendere solo se si tiene presente il fatto che essa ha come oggetto solo quanto segue: qualunque sia il rapporto effettivo della vita sociale, che storicamente è entrato in azione come Stato, com’è concepito dagli uomini sotto l’unità di una personalità statale? in quale specifico processo coscienziale i fatti sociali del vivere e dell’agire insieme divengono forme giuridiche e statali? Página 55 Questa problematica è certamente straordinariamente importante, anzi fondamentale; ma si vede sùbito, è una problematica essenzialmente criticognoseologica e, in quanto tale, essa non ha immediatamente nulla a che fare con il problema sociologico della nascita e dello sviluppo delle forme giuridiche e statali. È un grande merito, ancora insufficientemente apprezzato, dei lavori di Kelsen di aver portato avanti l’elaborazione normativa del concetto di diritto e di Stato, al di là della prima impostazione di Stammler (che doveva insabbiarsi nella confusione fra concezione teleologica e normativa), grazie alla rielaborazione della concezione normativa portata a termine con stupefacente chiarezza e con acuta coerenza. Il modo in cui Kelsen, nel suo campo, conduce la lotta della critica della conoscenza moderna contro lo psicologismo, la sua purificazione del concetto di diritto e di Stato da ogni fibrilla di volontà psicologica, finché tutte queste forme giuridiche appaiono piuttosto come regole di determinati tipi d’imputazione, che risalgono da ultimo a pure relazioni di norme (Normalbeziehungen), fanno parte delle cose piú acute e istruttive, che la filosofia del diritto possa offrire riguardo alle parole enigmatiche che sono diritto e Stato. Questo apprezzamento del lavoro di Kelsen non viene per nulla diminuito dal fatto che, come credo, l’eliminazione della volontà dal concetto critico-gnoseologico di diritto e, pertanto, anche dal concetto di Stato, non è possibile: e in ciò ovviamente — in questo son d’accordo con Kelsen — non penso alla volontà psicologica. Ma ogni norma riconduce da ultimo alla volontà pura, è pensabile solo come forma di manifestazione della medesima e ricava da ciò, dall’autonomia del volere puro, la forza obbligante. Fa tutt’uno con ciò, inoltre, dal mio punto di vista, il fatto che non posso neanche considerare la critica della conoscenza kelseniana propriamente come una critica della conoscenza del conoscere sociologico, bensí soltanto come una discussione normologica (normlogisch), che non è ancora pervenuta fino alle ultime necessità concettuali del concetto di diritto e di Stato, un limite, che forse è voluto, ma che tuttavia e proprio per questo ha necessariamente come conseguenza il pervicace fraintendimento del punto di vista sociologico. La critica della conoscenza kelseniana vuole arrestarsi a Stato e diritto in quanto concetti giuridici, e ne ha pieno diritto in quanto logica giuridica. All’improvviso, però, ne deriva la concezione per cui Stato e diritto sono pensabili soltanto come concetti giuridici, e da ciò deriverebbe poi ovviamente la conseguenza per cui una sociologia, come scienza causale della società, è impossibile, poiché la vita sociale si presenta sempre in qualche forma giuridica. Notoriamente, Stammler ha ricavato questa conseguenza, mentre Kelsen non sembra del tutto risoluto a Página 56 far ciò. In verità, non si riesce a scorgere del tutto chiaramente ciò che egli vuol lasciare alla sociologia; anche il suo volumetto, che del resto offre un eccellente orientamento, Tra metodo giuridico e sociologico [Nota 1]; difende propriamente solo il campo del primo e sembra equiparare la sociologia quasi alla psicologia sociale. Ma tuttavia, sia qui, sia nella sua opera fondamentale Hauptprobleme der Staatsrechtslehre, l’esistenza di una sociologia come scienza causale non viene contestata. Poiché però Stato e diritto, nella loro nascita e trasformazione, costituiscono il tema principale di una tale sociologia, è allora naturale, anche da un punto di vista di teoria della conoscenza, la domanda se Stato e diritto siano effettivamente pensabili solo come concetti normativi, ovvero se essi non si fondino su un’altra relazione concettuale, altrettanto elementare e che forse riconduce ancora di piú nella legalità della coscienza. E mi sembra essere proprio questo il caso — come ho già detto ripetute volte e, quindi, qui posso semplicemente accennarlo — in quanto tutti i concetti giuridici devono essere da ultimo pensati come forme della socializzazione. Ma la socializzazione non è una relazione normativa della coscienza pura, fa parte bensí della coscienza teoretica, cioè delle forme conoscitive della medesima. La conoscenza trascendentale, cioè le funzioni conoscitive che sole rendono possibile ogni esperienza, sono contemporaneamente riferite, in maniera immanente, in ogni coscienza singola, alla possibilità di una molteplicità indeterminata di attività funzionali che concordano con la loro singolarità, e solo a partire da ciò si costruisce, per la coscienza singola, il suo mondo di conoscenze universalmente valide, il suo mondo sociale. Solo in tal mondo è possibile la relazione normativa e, quindi, lo Stato e il diritto da un punto di vista giuridico. La conoscenza si sperimenta in maniera individuale, ma, fin dall’inizio, com’è nello spazio e nel tempo, cosí è anche nella socializzazione. La socializzazione dell’esperienza è l’ultimo fondamento trascendentale della vita sociale in generale. Essa è l’elemento sociale-trascendentale, cui non può non ricondurre ogni critica della conoscenza, che voglia fondare la sociologia, con un sicuro significato specifico, come scienza causale [Nota 2]. Página 57 La originarietà e la caratteristica trascendentale del punto di vista normativo non viene in tal modo assolutamente tolta. Deve essere subito eliminato il fraintendimento per cui io penserei di dedurre la forma di pensiero normativa da quella teoretica della socializzazione trascendentale. Questo sarebbe un grave errore e un disconoscimento totale del principio trascendentale in generale. La coscienza normativa è un tipo assolutamente ultimo e autonomo di legalità della coscienza in generale, che, in quanto tale, viene vissuto quanto il tipo teoretico. Ma va qui introdotta una annotazione, ove si può trattare soltanto di indicazioni per circoscrivere il proprio punto di vista, non di una esposizione particolareggiata. È nota l’indicazione di Kant, che scuote profondamente il pensiero, di fare attenzione a ciò, se cioè la ragione teoretica e quella pratica, che si distinguono in maniera cosí rigida nell’essere e nel doveressere, alla fine tuttavia non si rapportino in una radice comune. Io non oso decidere se questa radice sia già posta nell’elemento sociale-trascendentale. Ma se si tiene conto del fatto che è posta qui l’origine della relazione dell’individuo con il prossimo in generale, che solo a partire da qui prende le mosse quella molteplicità dei soggetti, che costituisce quel mondo spirituale, che sperimenta la sua regolamentazione nella norma, e che d’altra parte ogni norma riconduce a una volontà pura, che, nella sua validità generale e nella sua assenza di contraddizioni racchiude inscindibilmente in sé il riferimento a una molteplicità indeterminata di soggetti del volere: allora mi sembra che qui, comunque, siamo giunti vicini, essenzialmente, al ceppo comune della legalità della coscienza in generale. Tuttavia non ci si può qui ulteriormente occupare di ciò e, del resto, né si mira a un confronto critico con il punto di vista gnoseologico di Kelsen, né tale confronto può essere portato a termine [Nota 3]. In questa sede si tratta soltanto, in quanto indichiamo la Página 58 tendenza e la caratteristica del lavoro di Kelsen, di mostrare la diversità di principio dei nostri punti di vista. Conformemente a ciò, dunque, la trattazione kelseniana dello Stato vuole essere soltanto una trattazione giuridica, o, per meglio dire: una critica della conoscenza dei concetti giuridici, ove però passa anche l’idea che Stato e diritto non possano essere altrimenti pensati che giuridicamente. Il suo problema, pertanto, non è mai che cosa siano Stato e diritto, bensí in quale genere di pensiero ci muoviamo quando parliamo di Stato e diritto, di sovranità e legge, di colpa, punizione e obbligazione. Questa problematica ha come oggetto tanto lo Stato odierno quanto quello babilonese, il diritto nella società borghese quanto quello di un tempo originario di diritto matriarcale. È di natura completamente formale e, in quanto questione critico-gnoseologica, non può neanche essere altrimenti. Nei suoi Hauptprobleme der Staatsrechtslehre, pertanto, Kelsen paragona, in maniera anche acuta, la teoria del diritto alla geometria. Come questa, nella definizione della sfera, non tiene conto del materiale, che la forma sferica contiene in sé, cosí i concetti giuridici non dicono nulla circa i loro elementi contenutistici. Ed egli aggiunge: Il rimprovero, che viene sempre ripetuto a un metodo puramente formale, per cui esso darebbe risultati ‘insoddisfacenti’, poiché non comprenderebbe la vita reale, lascerebbe inspiegata la vita fattuale del diritto, si fonda su un completo disconoscimento della natura della giurisprudenza, la quale appunto non deve comprendere la realtà del mondo dell’essere, non deve ‘spiegare’ la vita. [Nota 4] Se le cose stanno cosí, e tenendo pure conto del fatto che Kelsen accenna ripetutamente al fatto che il contenuto dei concetti giuridici rimane affidato a una trattazione particolare, non piú formale, bensí causale e che qui, in particolare, sarebbe il luogo della sociologia [Nota 5], allora la polemica contro la concezione dello Stato nel marxismo agisce quasi come un increscioso fraintendimento metodologico. Poiché la trattazione marxista non è una concezione semplicemente formale, giuridica, bensí è appunto una concezione causale, sociologica, dei fenomeni statali e giuridici. Ma questa polemica diviene possibile se si ha presente — ciò cui si è già accennato — che la divisione fra trattazione giuridica e sociologica, in Kelsen, in fondo è soltanto una divisione Página 59 incompleta, poiché egli conosce solo una teoria della conoscenza dei concetti giuridici, ma non una teoria della conoscenza dei concetti sociologici. Egli è pertanto propriamente dell’opinione che Stato e diritto non possano essere compresi, da un punto di vista teorico, altrimenti che in maniera giuridica; e l’abbandono di tutt’e due i concetti alla sociologia per quanto riguarda il loro contenuto avviene solo precario modo, cioè con l’idea che la sociologia qui non ha alcun proprio possesso, bensí può configurare il suo oggetto solo con i concetti presi in prestito dalla scienza giuridica [Nota 6]. In verità, quindi, in Kelsen il riconoscimento della sociologia è soltanto apparente e ciò che egli chiama cosí si rivela, a una considerazione piú ravvicinata, in parte come una storia del diritto e dello Stato, in parte come una rielaborazione sociopsicologica delle relazioni giuridiche e statali. E la polemica contro la concezione marxista dello Stato ha il senso di mostrare che anch’essa — non che non sia giuridica; questo sarebbe un risultato troppo particolare per una critica che lotta anche contro la confusione metodologica — bensí da un punto di vista sociologico non può procedere oltre: in breve, che non esiste, contrariamente alle ripetute assicurazioni verbali, alcuna trattazione sociologica dello Stato. Passiamo dunque, dopo questa divagazione di critica della conoscenza, nuovamente a questo scopo specifico della ricerca kelseniana. Página 60 Capitolo sesto L’elemento essenziale nel concetto marxista di Stato Ricordiamoci di ciò che Kelsen rimproverava al concetto marxista di Stato: sarebbe concettualmente insufficiente considerare lo scopo dell’organizzazione del dominio, cioè lo sfruttamento di una classe da parte di un’altra, come elemento determinante dell’essenza dello Stato. «Poiché in primo luogo vi sono degli Stati, cioè delle organizzazioni di dominio, in cui non è possibile mostrare lo sfruttamento economico come loro contenuto essenziale; in secondo luogo, lo sfruttamento economico non è neanche affatto l’unico scopo dello Stato moderno» [p. 19]. Anzi, ancora di piú, «si può affermare che soltanto un ordinamento costrittivo è in grado d’impedire quella condizione di sfruttamento». Non si deve neanche dimenticare che l’economia capitalistica è nata proprio dal liberalismo, che proprio l’ordinamento economico che si fonda sullo scopo dello sfruttamento ha lottato contro lo Stato, cioè contro l’organizzazione costrittiva, fino quasi ai limiti della teoria anarchica e che, d’altra parte, la legislazione di politica sociale è la dimostrazione del fatto che l’organizzazione costrittiva, cioè lo Stato, è in grado di agire nella direzione di un arginamento dello sfruttamento e del superamento dell’opposizione di classe. Il concetto marxista di Stato sarebbe fondato solo se potesse essere mostrato che un dominio politico, che un ordinamento costrittivo in generale, è possibile semplicemente con il mantenimento dello sfruttamento economico, cioè del dominio di classe. Ma proprio quest’ultimo presupposto è contrastato dal concetto, cosí importante nel marxismo, del dominio del proletariato, che costituisce anche uno Stato, lo Stato di transizione proletario, la dittatura del proletariato sulla borghesia, che non si fonda e non si vuol fondare certamente sullo sfruttamento (pp. 6-13 [17-20, 37-42]). Ciò che innanzi tutto ci tocca in particolare in questa critica è il fatto che Kelsen, il quale altrimenti si sforza dappertutto di distinguere nella maniera piú netta i metodi del pensiero nella dePágina 61 terminazione dei concetti, in questo caso va a urtare duramente contro questa esigenza da lui giustamente fatta valere in maniera intralasciabile. Egli vuole offrire una critica immanente del concetto marxista di Stato, cioè egli vuol mostrare come il concetto di Stato del marxismo è contraddittorio per il suo contenuto stesso. Ma egli comincia con il dimostrare che il concetto marxista di Stato non corrisponde... al suo concetto di Stato, al concetto kelseniano di Stato, e con ciò emerge ovviamente ancora una volta la diversità delle concezioni, ma adesso gravata del pericolo di andare a parare in una disputa terminologica. In particolare, quando Kelsen adduce, contro il marxismo, che sono esistiti anche Stati senza sfruttamento, quest’argomentazione ha forza probativa solo dal punto di vista della sua concezione formale, poiché egli intende per Stato semplicemente appunto l’organizzazione costrittiva della vita comunitaria. Poiché però il marxismo prende le mosse non da un concetto di Stato formale, bensí materiale, non da un concetto di Stato giuridico, bensí sociologico, questa critica non lo scalfisce minimamente. Per il marxismo, non già ogni organizzazione costrittiva è uno Stato, bensí soltanto quella il cui contenuto è il dominio di classe. Una critica immanente, cioè una critica che si voglia porre sul terreno dello stesso concetto criticato, deve mostrare, a proposito di questo concetto, che esso è impossibile secondo i suoi propri presupposti, cioè è impossibile da un punto di vista sociologico, non da un punto di vista giuridico. Per il concetto marxista di Stato, quindi, è essenziale solo il fatto che lo Stato, come si dice già nel Manifesto del partito comunista, è «il potere organizzato di una classe per opprimerne un’altra». Questo contenuto essenziale Kelsen lo esprime in modo tale che fa, dello sfruttamento di una classe da parte di un’altra, lo scopo dello Stato. Solo che questo non è pensato in maniera marxista. Poiché lo sfruttamento di una classe da parte di un’altra non viene anzi posto dallo Stato, è un dato di fatto economico. Lo sfruttamento non è lo scopo dello Stato, anzi non è neanche lo scopo del processo di produzione capitalistico. Il suo unico scopo è il profitto, la creazione di plusvalore, e lo sfruttamento è soltanto una condizione necessaria per la realizzazione di questo scopo. Non è dunque lo Stato a sfruttare la classe sottomessa, né, rispettivamente, sottomette una classe allo scopo dello sfruttamento, ma la classe sfruttata nel processo di produzione diviene sottomessa anche politicamente. Lo Stato non ha come scopo lo sfruttamento, non è un mezzo per lo sfruttamento, bensí è la sua forma pubblico-giuridica. «Lo Stato moderno», dice Friedrich Engels, «non è altro che l’organizzazione che la società borghese si dà per mantenere le condizioni esterne generali del modo di produzione capitalistico di fronte agli attacchi sia degli Página 62 operai che dei singoli capitalisti» [Nota 1]. E, inoltre, lo Stato è un’organizzazione della classe sfruttatrice in ogni periodo per mantenere le sue condizioni esterne di produzione, cioè, in particolare, per tenere con la violenza la classe sfruttata nelle condizioni di oppressione (schiavitú, servitú della gleba o semiservitú feudale, lavoro salariato) date dal modo di produzione esistente [Nota 2]. Lo sfruttamento, quindi, non viene creato dallo Stato e non può quindi neanche essere il suo scopo. Ma lo Stato conferisce bensí a questo sfruttamento una forma determinata, appunto quella dell’ordinamento giuridico. È esso a fare, degli agenti della produzione, dei dominanti e dei dominati. Il fatto che questo è possibile solo grazie a una propria ideologia, grazie all’ideologia giuridica, che ha le sue forme originarie, non deducibili dall’economia, e che ha la sua propria legalità, non va certo contestato e proprio da Marx e Engels non è stato contestato [Nota 3]; allo stesso modo in cui si deve ammettere che molti marxisti non hanno riconosciuto questa autonomia della forma giuridica e ancor’oggi, a causa di una deficiente preparazione di critica della conoscenza, non la comprendono. Ma di ciò non ci si può ulteriormente occupare qui, ove non ci si occupa della forma giuridica dello Stato, bensí della sua essenza sociale, di ciò che sorregge e riempie quella forma. Il fatto che lo Stato persegua ancora altri scopi, che non sono quelli dell’oppressione di classe e dello sfruttamento — e al riguardo si pensa di solito e volentieri agli scopi culturali — non è, proprio per quanto riguarda la sua natura sociologica, caratteristico. Poiché, al contrario, il suo connotato effettivamente caratteristico, per cui esso è la forma giuridica dello sfruttamento, determina completamente l’estensione e il livello dell’interesse, con cui tutti gli altri scopi vengono perseguiti dallo Stato. Ne dà una dimostrazione fin troppo eloquente la continua lagnanza di tutti Página 63 gli spiriti preoccupati della cultura (Kultur), a partire da Rousseau, Kant e Herder. E, chiunque sia interessato dal punto di vista spirituale, non sperimenta forse, nel suo àmbito di lavoro, il fatto che per gl’interessi della cultura spirituale, anzi, per gl’interessi delle semplici opere assistenziali, all’interno del sistema economico capitalistico volto al profitto, cui servono tanto le costituzioni monarchiche quanto quelle repubblicane, il bilancio dello Stato presenta solo delle voci misere e, in confronto agli interessi di dominio (esercito, marina), ridicole, per tutti gli effettivi interessi popolari? Perché la scuola del popolo non può essere portata a quel livello, cui la pedagogia già da lungo tempo vorrebbe fosse posta? Perché non possono essere istituiti ospedali e case di salute popolari nella quantità e con la dotazione necessarie? Perché istituti scientifici devono accontentarsi del minimo indispensabile, a meno che, per caso, qualche volta non venga in aiuto l’umore di un miliardario? Perché i mezzi di comunicazione non possono essere costruiti in modo tale da offrire a ogni uomo del popolo quella comodità, che solo il ricco ha nel treno di lusso? Perché per questo, e per molte altre cose, lo Stato non ha alcun mezzo, e non vuole neanche averlo. Poiché questi mezzi esso dovrebbe prenderli dai proprietari, cioè dovrebbe tagliare le entrate che derivano loro dallo sfruttamento, e a questo punto cessa ogni perseguimento di scopi, per quanto esso possa presentarsi in maniera ideale e rivolto al bene del popolo, a meno che esso non sia — ma di ciò si parlerà ancora — in qualche modo imposto. Certamente, dunque, gli Stati ‘perseguono’ anche scopi diversi da quello dello sfruttamento (che del resto essi — come si è mostrato — addirittura non perseguono nei limiti in cui non funzionano da datori di lavoro). Ma tutti questi scopi: amministrazione della giustizia, educazione scolastica, tutela dell’arte e dei beni spirituali, assistenza per il popolo, igiene ecc., costituiscono oggetti d’interesse pubblico solo in una sfera ristretta, che coincide con il minimo di ciò che serve al mantenimento dell’ordinamento statale in generale. Se le opere assistenziali non fossero necessarie per mantenere il popolo sufficientemente sano, per fornire soldati per l’esercito e forza-lavoro per la macchina; se l’educazione scolastica non fosse necessaria perché altrimenti militarismo e industria non funzionerebbero; se l’igiene non fosse auspicabile — visto che si vive in una città insieme con il popolo povero — per difendersi dal contagio, allora anche questi scopi, in quanto scopi non redditizi, cadrebbero fuori dell’interesse pubblico dello Stato, come del resto si verificava in epoche piú antiche (si pensi solo agli inizi della grande industria in Inghilterra). Al di là di questo minimo, ognuno di questi scopi appare come un interesse privato, appare lodevole e apprezzabile servire ad esso, ma tuttavia, contemporaneamente, appare come una specie di lusso, Página 64 che, appunto, solo il lusso può permettersi. Kelsen dice giustamente che tutto ciò non ha nulla a che fare con la forma giuridica dello Stato, in cui tutti gli scopi ideali potrebbero trovare ugualmente il loro compimento umanamente possibile. Certo: ma ciò dimostra soltanto quanto poco siamo stati utili alla nostra conoscenza dell’essenza dello Stato quando abbiamo messo allo scoperto la sua forma logico-giuridica. Quando dello Stato so soltanto che è una organizzazione costrittiva, con questo non mi è stato detto nulla sull’essenza dello Stato in cui viviamo, in cui da secoli si formano i destini dell’umanità e da cui si producono le grandi tendenze di trasformazione in un nuovo futuro. Solo la considerazione sociologica ci discopre la funzione e l’importanza di questo ordinamento costrittivo. Il concetto giuridico di Stato mi fa capire come penso quando parlo di Stato e diritto: cioè, il fatto che riferisco i fenomeni della vita sociale all’unità di un ordinamento giuridico. Ma che cosa penso con questi concetti, quali fenomeni compongono questo ordinamento: riguardo a tutto ciò quel concetto non dice proprio nulla. E tuttavia solo ciò esprime l’essenza di una conoscenza dello Stato; poiché quel concetto dello «Stato in generale» non esiste mai e in nessun posto, ma è sempre un determinato ordinamento costrittivo che esiste come Stato. Se Kelsen a questo proposito mi dice che è proprio questa la distinzione fra il punto di vista giuridico e quello sociologico, gli do ragione; solo che allora non avrebbe dovuto chiamare il punto di vista sociologico del marxismo di fronte al tribunale della sua critica giuridica. Ora, però, il concetto marxista di Stato dovrebbe essere in sé contraddittorio perché, da una parte, lo sfruttamento capitalistico nel sistema del liberalismo nega l’ordinamento statale quasi fino al limite dell’anarchismo, mentre d’altra parte, all’interno dello Stato capitalistico, la politica sociale mostra che lo sfruttamento può essere superato grazie a delle leggi, per cui allo Stato si può addirittura collegare una tendenza verso il superamento dello sfruttamento. Queste critiche mostrano di nuovo come il modo di pensare di Kelsen, del tutto formale, sia completamente incapace di addentrarsi in profondità nel modo storico di concepire, che è proprio del marxismo. Il punto di vista sociologico non è solo logicamente diverso da quello giuridico, ma scorre — per cosí dire — in una dimensione completamente diversa. Mentre il punto di vista formale è atemporale, quello materiale non può prescindere da un riferimento al tempo; mentre la concezione giuridica vede il suo oggetto in riposo, coglie per cosí dire l’elemento statico nel mutamento dei fenomeni, la concezione sociologica segue questo movimento senza tregua e non può non essere, necessariamente, dinamica. Per questa dinamica dei concetti marxisti — che i suoi fondatori hanno chiamato dialettica — non ha alcuna attenzione Kelsen, che crede di esercitare Página 65 una critica soltanto immanente, ma in realtà non riesce a venir fuori dalla sua pelle puramente formale, logico-giuridica. E solo in tal modo sono divenute possibili quelle critiche che Kelsen ritiene effettivamente decisive per eliminare il concetto marxista di Stato, secondo cui lo Stato è semplicemente la forma giuridica pubblica dello sfruttamento. Se invece si colgono le cose in maniera dialettica, come fa il marxismo, «nel loro flusso, nel loro movimento storico», risulta allora quanto segue: il liberalismo era ‘liberale’ solo in relazione al sistema di regolamentazione e di violenza contro cui combatteva. Esso non negava ‘lo Stato’ in generale, bensí soltanto lo Stato che rappresentava una catena per esso, cioè per la borghesia in fase ascendente, per il capitalismo che si andava sviluppando. Esso combatteva il feudalesimo, lo Stato di polizia, il sistema delle corporazioni e dei privilegi [Nota 4]. Ed esso lottava non per ‘la libertà’, bensí per le libertà del terzo stato, innanzi tutto per la libertà di commercio, cioè per la libertà dello sfruttamento. Là dove non si trattava della sua libertà, cioè della libertà della borghesia, anche il liberalismo aveva subito a portata di mano ‘lo Stato’. Per questo esso, ogni qualvolta raggiungeva il dominio, la faceva finita radicalmente con ogni libertà degli altri, anzi la denunziava come ‘anarchia’, in quanto, com’è noto, combatteva come anarchico anche ogni movimento del proletariato che tendesse a conquistare anche per sé piú libertà. E, ancor’oggi, per il borghese benpensante, socialismo e anarchismo sono toute même chose. Il liberalismo, in quanto teoria dello Stato, lungi dal costituire una confutazione della teoria delle classi del concetto marxista di Stato, può essere in generale compreso solo a partire da questa, a meno che non si vogliano prendere le sue illusioni cosmico-storiche per oro colato e non si vogliano spargere lacrime per il crollo di quegli elevati ideali umanitari, quali comunque erano quelli della rivoluzione francese. L’idea del liberalismo, secondo cui lo Stato dovrebbe limitarsi al minimo della difesa della vita e della proprietà dei suoi cittadini e, al di là di questo, far sí che ognuno si curi di se stesso Página 66 nella maniera migliore possibile — quest’idea, che sapeva parlare in maniera cosí sublime della libertà dell’individuo e della dannosità della costrizione statale — in fondo non era altro che l’espressione dell’interesse economico della classe degli imprenditori capitalistici di essere sicuri di non venire derubati e uccisi nei loro affari, ma, al di là di ciò, di poter liberamente fare ciò che fosse necessario per concludere questi affari, in particolare, di essere completamente liberi di fare contratti salariali con i ‘loro’ operai come gli piaceva. Il minimo di ‘diritto dell’uomo’ alla difesa della proprietà e della vita bastava a questa ‘negazione’ dello Stato per far marciare immediatamente tribunali e soldati, quando gli operai si prendevano la libertà di non voler lavorare come pretendevano gl’imprenditori e di preferire piuttosto di fare la fame, cioè di scioperare. Tutto ciò rimane celato, giustamente, in quanto per esso indifferente, a un punto di vista semplicemente logico-giuridico; il punto di vista sociologico non può prescinderne, ma rimane tuttavia anche tutelato sia di fronte al rischio di scorgere nel liberalismo l’avvocato difensore dello sfruttamento, ma, allo stesso tempo, anche di fronte a quello di scorgere in esso una contraddizione rispetto al carattere costrittivo dello Stato di classe [Nota 5]. Página 67 Ugualmente, solo un modo di trattazione del tutto formale e astorico può vedere nella politica sociale la tendenza al superamento dello Stato di classe. Sarebbe cosí se la ‘politica sociale’ fosse in potere autonomo, al di sopra delle classi! C’è comunque sempre stato un gran numero d’ideologi ottimisti, che hanno creduto a una tale divinità, che si sono dedicati al suo servizio e che addirittura, come partito di coloro che si dedicavano alla politica sociale, s’immaginavano di poter salvare lo Stato dal suo male fondamentale dall’opposizione di classe. E dappertutto questo partito è stato schiacciato, fino a divenire privo di significato, fra le pietre da macina di questa opposizione. La legislazione di politica sociale è nata essenzialmente da due radici: innanzi tutto, dal bisogno della classe dominante di addolcire l’impoverimento del proletariato, che cominciava a rendere quest’ultimo inabile al processo di produzione e al militarismo e, inoltre, lo trasformava in una massa sempre piú minacciosa; ma in secondo luogo, e successivamente, dalla pressione del proletariato organizzato. Sotto il primo profilo la politica sociale non significa una tendenza al superamento dello sfruttamento capitalistico, bensí alla sua conservazione. Le misure di politica sociale, quali vengono dapprima prodotte per iniziativa della classe dominante (limitazione del lavoro delle donne e dei fanciulli, riposo domenicale, assicurazioni contro le malattie e gl’infortuni), sono per cosí dire degli investimenti per condurre a termine nella maniera migliore e, innanzitutto, in maniera indisturbata, gli affari, e questo lo capiscono subito perlomeno gli elementi piú intelligenti e quelli che pensano politicamente all’interno della classe imprenditoriale [Nota 6]. Ma nella seconda direzione la legislazione di poliPágina 68 tica sociale è direttamente il risultato della lotta di classe stessa, cioè il risultato, strappato con le minacce alla classe dominante piú o meno dal proletariato, di un movimento rivoluzionario rivolto alla lotta contro lo Stato di classe stesso. E anche là dove questo movimento sia soltanto di natura sindacale, per cui non si può definire propriamente rivoluzionario il proletariato da esso guidato, la tendenza verso questa limitazione dello sfruttamento non sta appunto nello ‘Stato’, cioè nella volontà delle fasce sociali dominanti in questa organizzazione costrittiva, ma viene ad esso impressa con la forza dal potere delle organizzazioni operaie, o, rispettivamente, si produce come risultante di queste forze. Comunque, il fatto che ogni disegno di legge di politica sociale venga subito accolto dalla piú aspra lotta di classe e, ancor di piú, il fatto che la difesa ufficiale e legale delle leggi in difesa degli operai scritte nei codici possa diventare una difesa quasi corrispondente al suo significato solo grazie a una lotta incessante delle organizzazioni operaie, dimostra quanto poco la politica sociale possa essere definita una tendenza dello Stato all’abolizione dello sfruttamento economico. Dal momento che le leggi in generale vivono solo nei limiti Página 69 in cui operano degli interessi volti alla loro applicazione, si può allora tranquillamente dire, anzi non si può non riconoscere, che ogni politica sociale è viva solo nei limiti in cui l’attività della classe operaia, avversa allo sfruttamento e allo Stato di classe, la riempie di un’azione effettiva. Tutt’e due questi argomenti, dunque, secondo cui il liberalismo, da una parte, e la politica sociale, d’altra parte, rendono contraddittorio il concetto marxiano di Stato, si sono rovesciati nel loro contrario, in quanto abbiamo visto come ambedue siano comprensibili solo grazie a questo concetto nel loro specifico rapporto sociologico con lo Stato, un rapporto che può essere tralasciato solo grazie alla concezione fondamentale, del tutto formale, di Kelsen. Si è palesato, allo stesso tempo, che ambedue queste argomentazioni in generale sono possibili solo in quanto la critica di Kelsen — contrariamente all’intenzione manifestata nelle parole di mantenersi sul terreno del concetto criticato, quindi di essere immanente — è rimasta ferma al suo punto di vista puramente formale e, pertanto, non poteva non tralasciare in particolare il significato storico del concetto marxista di Stato, il suo carattere dinamico. Ora, come stanno le cose per quanto riguarda l’ulteriore argomentazione di Kelsen, da cui si deve produrre, in maniera particolarmente drastica, l’impossibilità concettuale della concezione marx-engelsiana dello Stato, per cui lo Stato borghese dev’essere dissolto da quello proletario, il quale però, dal momento che non potrebbe piú avere come scopo lo sfruttamento, non sarebbe tuttavia pitl uno Stato? In quanto il marxismo parla di uno Stato di classe del proletariato, della dittatura del proletariato, anzi, poiché questi concetti sono appunto idee guida della sua teoria politica, esso esprime chiaramente il fatto che dunque vi è uno Stato che non è un’organizzazione dello sfruttamento e toglie quindi, secondo l’opinione di Kelsen, il suo proprio concetto di Stato. In questa polemica vediamo svilupparsi ulteriormente i disastrosi effetti dell’ineliminabile formalismo kelseniano. Allo stesso tempo diviene qui molto percepibile, come fonte continua di errori, l’erronea opinione, già rifiutata, secondo cui il concetto marxista di Stato scorgerebbe lo scopo dello Stato nello sfruttamento economico. Kelsen attribuisce al marxismo un concetto dello Stato in quanto tale; ma lo Stato in quanto tale è, per i marxisti, in generale, un concetto non utilizzabile, bensí una astrazione per divenire tutt’al piú consapevoli del fatto che con questa definizione generale si riassume una quantità di fenomeni storici molto diversi, circa il cui carattere essenziale con quell’astrazione si dice tanto poco quanto poco si dice con il concetto di modo di produzione in quanto tale circa la distinzione fra l’economia familiare (Oikenwirtschaft) e l’economia capitalistica. Il marxista, pertanto, propriaPágina 70 mente conosce non lo Stato, bensí lo Stato capitalistico, cui in particolare si riferisce il suo interesse teorico e pratico. E anche quando parla dello Stato semplicemente, nella sua concezione immanentemente storico-dinamica egli pensa sempre, con ciò, allo Stato borghese. Se pertanto egli usa, in qualche caso, la parola Stato per un altro sostrato, per esempio per lo stato proletario, allora l’oggetto cosí indicato è appunto qualcosa di diverso dallo Stato borghese. Pertanto non si può scorgere a priori nulla di particolare o di contraddittorio nel fatto che non tutti i connotati dello Stato borghese si riscontrano nello Stato proletario. L’elemento essenziale per il concetto marxista di Stato è soltanto questo, il fatto che si tratta di un dominio di classe, per cui l’organizzazione comunitaria, in quanto Stato, rappresenta sempre una forma di oppressione. Ma Kelsen identifica continuamente dominio di classe e sfruttamento economico e con tono trionfante chiede: dov’è, nello Stato proletario, questo sfruttamento, cui il proletariato vuol porre fine? Anzi, ancora di piú: dov’è in questo Stato, il dominio di classe? Poiché questo sarebbe possibile soltanto grazie allo sfruttamento economico; quello di classe sarebbe un concetto economico, che deriva la sua origine dalla posizione dell’uomo nel processo di produzione. Se si riflette sul fatto che, anche dopo la vittoria, il proletariato può sí impadronirsi tutt’in una volta del potere politico, ma solo poco alla volta può abolire il capitalismo, perché la trasformazione della produzione capitalistica in quella socialistica è possibile compierla solo in maniera graduale, allora nello Stato proletario addirittura continua a sussistere la borghesia «ancora per un certo tempo come classe sfruttatrice» (p. 12 [41]). Ma «un dominio di classe senza sfruttamento economico è un non senso. Un gruppo di uomini non può dominare come ‘classe’ e insieme essere dominato economicamente come classe» (p. 14 [44-5]). Di fatto, quindi, il dominio del proletariato nello Stato da esso costituito non è piú un dominio di classe contro una classe oppressa, bensí appunto, come in ogni Stato, un’organizzazione costrittiva per tutti. «Nel cosiddetto Stato di classe proletario, i resti della borghesia — che si vanno continuamente fondendo insieme — tuttavia non sono ‘dominati’ diversamente da come lo sono i membri del proletariato stesso» (p. 14 [43]). Non si tratta piú del dominio di una classe, bensí di un partito, dal concetto economico di proletariato si è passati al concetto politico di un partito del proletariato. E l’idea sociologica dello Stato di classe proletario va cosí a parare in elementi interpretabili in maniera puramente giuridico-formale, in particolare in una organizzazione costrittiva, il cui contenuto viene posto dai postulati di un partito che persegue determinate norme giuridiche. Di fronte a questa argomentazione, che abbandona ad ogni punto Página 71 il terreno del marxismo, anzi, propriamente, gli scorre accanto, è difficile per i marxisti riportare le cose nel loro effettivo rapporto concettuale marxista. Poiché, quasi ad ogni parola usata da Kelsen, classe, partito, concetto economico e concetto politico, dev’essere intrapresa la traduzione dal linguaggio giuridico in quello nostro sociologico. Si palesa a questo punto, in maniera particolarmente vistosa, come, nonostante le numerose citazioni, sia impossibile dominare una teoria, e tanto piú criticare una teoria, che — abituati ai concetti statici del proprio punto di vista formale — non si riesce, dato il dinamismo, caratteristico e necessario, delle sue funzioni concettuali, a inserire nel proprio modo di pensare. Vogliamo tuttavia tentare di esporre le differenze piú importanti che esistono fra la concezione del professor Kelsen e la nostra. Página 72 Capitolo settimo Che cos’è una classe? Innanzi tutto va dunque rifiutata l’identificazione fra oppressione di classe e sfruttamento economico. Nello Stato proletario la classe della borghesia viene oppressa sebbene non possa venir sfruttata economicamente, la quale ultima cosa non fa neanche parte della forma di questa dominazione. Mentre il dominio di classe della borghesia era la forma in cui essa manteneva il suo sfruttamento economico, il dominio di classe proletario è la forma in cui esso — sia pure soltanto poco alla volta — toglie questo sfruttamento. Sia nell’uno sia nell’altro caso ciò è possibile solo a patto di una violenza esercitata contro gl’interessi di classe contrapposti. Qui, certo, è necessario far chiarezza sul concetto marxista di classe. Kelsen lo definisce — nel quadro della concezione marxista — come un concetto semplicemente economico, che egli vede pertanto spogliato di ogni contenuto politico. E ciò gli sembra corrispondere chiaramente alla concezione fondamentale del marxismo, alla concezione materialistica della storia, che anzi dichiara l’‘economia’ fondamento di ogni ideologia, quindi anche della ‘politica’. La concezione materialistica della storia — come abbiamo già visto abbondantemente all’inizio di questo libro (pp. 4 ss. [cfr. supra, pp. 12-3]) — ha la sfortuna di essere stata per lo piú incompresa e uno dei concetti piú misconosciuti, fra i suoi avversari borghesi, è il concetto dei rapporti economici. Poiché non ci si può rappresentare in maniera abbastanza ‘materialistica’ i rapporti economici, che secondo questa teoria costituiscono gli elementi determinanti fondamentali dell’evento sociale, ci s’immagina al riguardo abitualmente una situazione ‘economica’ spogliata di ogni formazione (Formung) spirituale, la cui amorfa qualità naturalmente nessuno può propriamente descrivere, una deficienza che poi si addossa alla teoria stessa come difetto logico fondamentale. Non è possibile qui dire in maniera dettagliata — ciò che ho fatto altrove — il fatto che significa sopprimere violentemente ogni comPágina 73 prensione della concezione materialistica della storia qualora non si sappia che, secondo questa, non esiste alcun dualismo fra una materia economica aspirituale e una vita spirituale su di essa costruita, ma che i rapporti economici non sono altro che rapporti di produzione e di scambio, cioè rapporti fra uomini, quindi rapporti spirituali, e che quindi un unico legame di natura spirituale avvolge tutti i fenomeni sociali, dai fenomeni economici fino alle altezze della contemplazione mistica. Non va tralasciato il fatto che Marx definiva l’elemento ideale come «l’elemento materiale trasposto nella testa dell’uomo» e che questa trasposizione spirituale dell’elemento materiale è il concetto portante del materialismo economico, come dimostrano già le marxiane tesi su Feuerbach. Solo questa trasposizione fa dell’elemento materiale qualcosa di sociale: solo in quanto l’elemento materiale entra nello specifico rapporto funzionale ideale «della testa dell’uomo», cioè viene appercepito nelle forme dell’esperienza sociale, dell’elemento social-trascendentale, essendo riferito al legame originario della coscienza individuale con una coscienza in generale, nasce una natura sociale, nascono fenomeni sociali nelle diverse forme della coscienza sociale [Nota 1]. I rapporti economici, le condizioni e i processi economici, in breve, l’‘economia’ in generale, non è affatto possibile pensarla a prescindere da una qualche forma di ideologia sociale, e la teoria della concezione materialistica della storia, secondo cui l’‘economia’ sarebbe il fondamento per tutta la sovrastruttura della coscienza sociale, significa, se rettamente compresa, che il concreto riempimento storico delle forme della coscienza sociale riceve l’impulso determinante da quella sfera, in cui viene assicurato il mantenimento e il rinnovamento della vita; che questo complesso di scopi e di limiti, che definiamo economici, ha da una parte una funzione direttiva per lo sviluppo di ogni ideologia; significa che è da essa che — sia pure da ultimo e in forma mediata e celata — prendono l’avvio i suoi problemi; e significa d’altra parte che quella sfera è determinante per il fondamento e l’estensione in cui questi Página 74 problemi acquistano importanza sociale. Ma ‘l’economia’ è essa stessa sempre un elemento inscindibile, un elemento spirituale — estraibile solo nell’astrazione — di tutto questo rapporto ideologico, in quanto essa esiste anzi solo in forme giuridiche, morali, politiche, i religiose [Nota 2]. Dopo questa necessaria digressione sul significato della concezione materialistica della storia è ora chiaro che, quando la teoria marxista parla di concetti economici, con questo non può pensare a fatti che cadano fuori del rapporto dell’ideologia sociale, bensí che, al contrario, essa abbraccia insieme in ogni caso questa ideologia, ma cerca di chiarirsela dal lato della sua determinazione economica. Se quindi per il marxismo il concetto di classe è sicuramente un concetto economico, questo non significa che per esso non possa allo stesso tempo essere un concetto giuridico, politico, anzi un concetto morale; è tutte queste cose insieme, solo viste dal lato della determinazione economica, ed è proprio grazie a questa prestazione comprensiva che anzi la concezione economica della storia diviene una concezione sociologica, che i concetti economici Página 75 fondamentali divengono allo stesso tempo concetti sociologici. Essi sono possibili solo come categorie sociali: a partire dalla direzione economica iniziale essi discoprono la realtà della società intera. Se quindi, secondo la concezione marxista, la classe è innanzi tutto un concetto economico, è subito chiaro che essa con ciò non viene calata in una materia economica morta — il che sarebbe una rappresentazione impensabile non solo per il marxismo, ma in generale —, bensí al contrario nella vivacità del rapporto sociale complessivo stesso, che essa orienta soltanto secondo punti di vista economici. La classe, in quanto concetto politico, non solo non si distingue dal suo concetto economico, ma il primo, anzi, è soltanto quest’ultima articolazione economica consapevolmente colta. Nei limiti in cui si attribuisce carattere politico a tutte le relazioni che sussistono per la vita nello Stato — sia che si tratti di relazioni positive o negative — allora, una volta presupposta come data l’opposizione di classe, tutti i momenti della classe devono essere contemporaneamente economici e politici: poiché nei primi le classi si costituiscono, nei secondi agiscono. Pertanto, già nella Miseria della filosofia, Marx scriveva: «Non vi è alcun movimento politico che non sia contemporaneamente un movimento sociale» [Nota 3]. Per il punto di vista sociologico del marxismo, pertanto, l’elemento economico della classe non va affatto separato da quello politico. Soltanto il loro insieme costituisce l’uno e l’altro in quanto fenomeno sociale (soziale), in quanto fenomeno della società (gesellschaftliche). Ma osserviamo ancora piú da vicino questo concetto fondante del marxismo. Che cos’è una classe? Non si può fare a meno di rimpiangere sempre di nuovo il fatto che Marx non abbia portato a termine il capitolo trentaduesimo del vol. III del Capitale, che doveva trattare il concetto di classe, per cui esiste solo un inizio striminzito di questo capitolo. Ma persino questo contiene già un accenno importante, in quanto il problema: che cosa è una classe? viene da Marx trasformato nell’altro problema “Che cosa costituisce una classe?” [Nota 4] A prima vista, dice Marx, sembra come se questo sia dovuto «all’identità dei redditi e delle fonti di reddito». Ma Marx rifiuta questa risposta perché in tal modo ognuno degl’innumerevoli gruppi di uomini nati dalla divisione sociale del lavoro, che abbia una particolare fonte di reddito, sarebbe già una classe e, per esempio, i medici e gli impiegati costituirebbero due classi. Con questa critica s’interrompe purtroppo il manoscritto. Si deve certo lamentare il fatto che il capitolo sulle classi sia rimasto, in Marx, un frammento, come, in generale, il fatto che Página 76 non abbiamo — né da parte di Marx, né da parte di Engels — un’esposizione complessiva del loro concetto di classe e di lotta di classe. Ma, ora, concludere da ciò che, poiché Marx e Engels non sono pervenuti a esporre in maniera sistematica la loro concezione del concetto di classe, essi in generale non ne abbiano avuto alcun concetto chiaro e stabile, sarebbe bensí un tipo di logica brutale, in particolare brutale rispetto alla possibilità di poter migliorare la propria comprensione. E, tuttavia, questo tipo di critica fa parte dei pezzi brillanti della lotta accademica contro il marxismo. Anzi, com’è noto, in base al medesimo metodo — dopo R. Stammler — si pronunziano sentenze oracolari circa l’«incompiutezza» della concezione materialistica della storia e circa il fatto che essa non è stata «pensata fino in fondo», poiché neanche nel suo caso si dispone di un edificio teorico sistematico. Il marxismo, comunque, in tanto «non è pensato fino in fondo», in quanto esso, nato dai compiti della lotta sociale e in parte in essi sviluppatosi, lascia anche qualcosa da pensare a chi lo voglia cogliere nell’insieme. Ma, di fronte al marxismo, che pertanto esige che si ricostituisca in maniera autonoma il rapporto che i suoi concetti hanno avuto nello spirito dei suoi creatori, manca completamente la volontà e, a quanto sembra, anche la capacità, di prendere effettivamente su di sé questa «fatica dello spirito», come la chiamava Hegel. E cosí la dotta critica perviene alla conclusione — per essa sola umiliante — di pensare, in tutti i casi in cui i concetti di Marx e Engels riguardo a un oggetto (come per esempio la concezione materialistica della storia o il concetto di classe) si trovino dispersi in innumerevoli brani e, pertanto, in piú di un caso mostrino anche delle contraddizioni nel particolare, sovente solo nella forma espressiva, di pensare dunque che alla loro base non vi sia neanche alcuna concezione complessiva di carattere unitario. Invece di cercar questa, tali critici si accontentano di sputar sentenze su singoli frammenti e di fare i pedanti in maniera indegna, senza tener conto delle parole di Kant, con cui si rigetta ogni critica di tal genere: In singoli punti, ogni esposizione filosofica può essere attaccabile [...]; con tutto ciò, la struttura del sistema, considerata come unità, non corre il minimo pericolo per questi attacchi: pochi soltanto posseggono la scioltezza di mente, che è necessaria per abbracciare con lo sguardo un sistema, quando è nuovo, e ancora in minor numero poi sono quelli che hanno voglia di farlo [...]. Sottilizzando [...] si possono trovare anche delle apparenti contraddizioni, se si confrontano tra loro singoli passi, avulsi dal loro contesto [...] ma [tali contraddizioni] sono assai facilmente risolubili, per chi si è impadronito dell’idea complessiva. [Nota 5] Página 77 Quando per esempio Hans Delbrück [Nota 6] definisce l’esposizione del Manifesto comunista, nel punto in cui espone il concetto della storia della società come storia di lotte fra classi, come «un’insalata di frutti acerbi» e fa valere la critica per cui Marx non avrebbe conosciuto la distinzione fra classe e ceto, visto che nel Manifesto si parla contemporaneamente della lotta fra liberi e schiavi, fra membri della corporazione (Zunftbürger) e artigiani (Gesellen) ecc.; quando Rudolf Stammler, nella sua opera piú recente [Nota 7], nella sua presa di posizione — che, e questo è degno di nota, non si è lasciata scoraggiare né dalla critica di Max Weber né da quella mia [Nota 8] — rispetto all’«incompiutezza» della concezione materialistica della storia e al suo «non esser pensata fino in fondo» cosí scrive: «La teoria della lotta di classe è bensí l’errore piú dannoso del socialismo moderno [...]. Essa fallisce perfino per i seguaci del materialismo sociale, poiché essa non corrisponde né alle esigenze di una chiara comprensione dei concetti qui necessari né neanche al chiarimento dei punti di vista decisivi per la legittimazione delle tensioni sociali», ci troviamo soltanto di fronte a due esempi — offerti da due rappresentanti autorevoli della dotta critica — di ciò che addirittura è possibile nel verde bosco della scienza. Il fatto che proprio Marx abbia rielaborato nella maniera piú decisa la distinzione fra classe e ceto — come vedremo piú avanti — e il fatto che, pertanto, per esempio, abbia amaramente schernito Lassalle, perché questi, nel suo discorso Ueber den besonderen Zusammenhang der gegenwärtigen Geschichtsperiode mit der Idee des Arbeiterstandes [Sul particolare rapporto dell’attuale periodo storico con l’idea del ceto operaio], definisce la classe operaia un ceto [Nota 9], in tal modo non può non rimanere naturalmente celato a un dotto, che vuol soltanto ‘attaccare’ il marxismo piuttosto che studiarlo e, a questo fine, ‘estrapola’ dall’immensa quantità del suo materiale, una, dico una frase del Manifesto comunista, sebbene un tal metodo non faccia parte propriamente delle virtú professionali di uno storico. Ma, naturalmente, altrettanto poco sono virtú professionali quelle del filosofo sociale Stammler, il quale, tranPágina 78 quillamente, accredita come deficiente comprensione di Marx e Engels quelle cose che egli stesso non è riuscito a pensare fino in fondo nel marxismo, cioè tutto ciò che egli non comprende nel marxismo e, per quanto riguarda il rapporto fra i singoli brani, rapporto che egli non trova, si tranquillizza, soddisfatto di sé, attribuendo ciò a una deficiente «comprensione dei concetti qui necessari» in Marx. L’opinione secondo cui le vedute di Marx e Engels sulla natura della classe siano altrettanto frammentarie del capitolo sulle classi nel Capitale è, invece, tanto ridicola quanto erronea. Poiché la risposta al problema: “Che cosa costituisce una classe?” Marx l’aveva già data negli scritti del tempo in cui aveva concepito le sue vedute fondamentali, nella Miseria della filosofia e nel Manifesto comunista e, poi, in maniera del tutto particolare, nel frammento della Introduzione a Per la critica dell’economia politica. Basta soltanto che noi collochiamo gli accenni ivi contenuti nello spirito della concezione marxista per far chiarezza sul concetto sociologico di classe. In base a ciò, innanzi tutto, anche la classe — come tutti gli altri concetti marxisti — è una categoria storica. Essa cioè non è una forma necessaria della vita sociale stessa, ma è divenuta necessaria solo per cause storiche determinate. Orbene, queste cause stanno nella struttura economica della società, nel genere del suo processo di produzione e della sua distribuzione, della sua suddivisione dei beni [Nota 10]. La distribuzione non costituisce, rispetto alla produzione, una sfera autonoma, che scorra all’esterno di essa o accanto ad essa, ma, al contrario, non è altro che una funzione della produzione. Marx ha esplicato questo punto, che poi doveva costituire il contenuto Página 79 del secondo e del terzo libro del Capitale, in forma certo abbozzata, ma tuttavia molto efficace, nel frammento della Introduzione a Per la critica dell’economia politica. Ivi egli si rivolge contro «la rozzezza e la aconcettualità (Begriffslosigkeit)» del punto di vista dell’economia politica borghese, per cui produzione, scambio, distribuzione e consumo sono soltanto sfere separate dell’economia politica, per cui l’«insieme organico» viene rozzamente smembrato per esser poi messo casualmente in relazione ed essere portato in un semplice rapporto di riflessione. Egli mostra invece come non soltanto produzione e consumo hanno un rapporto fattuale inscindibile, in quanto la produzione è allo stesso tempo consumo, logorio di beni produttivi, e il consumo è insieme produzione; creazione di un nuovo mercato per lo smercio, di un’occasione di produzione; in quanto inoltre la produzione forma e trasforma il modo del consumo stesso e il consumo produce sempre nuovi bisogni per la produzione. Ma anche la distribuzione, la suddivisione dei beni prodotti non si presenta come un momento casuale a autonomo fra produzione e consumo, ma costituisce insieme con questi un insieme sociale, in cui il fattore determinante è il modo di produzione e il livello della produzione. «Una produzione determinata determina quindi un consumo, una distribuzione, uno scambio determinati, nonché i determinati rapporti tra questi diversi momenti» [Nota 11]. Tuttavia hanno luogo anche effetti retroattivi della distribuzione e del consumo sulla produzione; ma l’insieme costituisce tuttavia un processo, «in cui la produzione è l’effettivo punto di partenza e perciò anche il momento che abbraccia e supera gli altri» [Nota 12]. Le classi — noi, come Marx, consideriamo la proprietà fondiaria, il capitale e il lavoro salariato come le loro tre principali grandi articolazioni — si presentano dapprima come risultato della distribuzione. Il prodotto sociale della produzione viene diviso fra proprietari fondiari, possessori di capitali e operai. Ma questa suddivisione non sta sospesa per aria né si basa sulla volontà di una qualche potenza, saggia o meno, che domini sugli uomini. Essa ha piuttosto i suoi reali presupposti in un tipo storicamente determinato di produzione sociale, nel modo di produzione capitalistico. La rendita fondiaria presuppone la proprietà fondiaria, l’interesse del capitale e il profitto imprenditoriale presuppongono la proprietà dei mezzi di produzione e la classe operaia proletaria (besitzlose Arbeiterschaft), e il salario operaio è appunto il prezzo di questa forza-lavoro proletaria. Página 80 I rapporti e i modi di distribuzione appaiono perciò solo come il rovescio degli agenti di produzione. Un individuo, che prende parte alla produzione nella forma del lavoro salariato, partecipa ai prodotti, ai risultati della produzione, nella forma del salario. La struttura della distribuzione è interamente determinata dalla struttura della produzione. La distribuzione è essa stessa un prodotto della produzione, non solo per quanto riguarda l’oggetto, e cioè nel senso che solo i risultati della produzione possono essere distribuiti, ma anche per quanto concerne la forma e cioè nel senso che il modo determinato in cui si prende parte alla produzione determina le forme particolari della distribuzione, la forma in cui si prende parte alla distribuzione. [Nota 13] Certo, si potrebbe ancora domandare che cosa determina il modo determinato in cui si prende parte alla produzione, in che modo, in generale, si perviene alla differenziazione fra proprietari fondiari, possessori di capitali e proletari (Nichtbesitzer). E qui sembra che questa suddivisione vada spiegata non piú in chiave economica, ma piuttosto politicamente, cioè con la violenza nuda e cruda. Marx stesso ha rivolto a se stesso questa critica che ritorna sempre di nuovo. Egli dice: «A considerare intere società, la distribuzione sembra, da un altro punto di vista ancora, precedere la produzione e determinarla, come per cosí dire un fatto pre-economico». Ed egli fa come esempio la presa di possesso dei fondi da parte di un popolo conquistatore, la riduzione della popolazione in schiavitù, il frazionamento della grande proprietà fondiaria in seguito a una rivoluzione ecc. [Nota 14]. In tutti questi casi la distribuzione — quindi la costituzione in classi — non sembra determinata dalla produzione, bensí, al contrario, la produzione sembra determinata dalla distribuzione. Solo che, di contro a ciò, Marx richiama l’attenzione sul fatto che in questo continua ad agire «la concezione piú superficiale» dell’economia borghese consistente nel considerare la distribuzione separata dalla produzione. Poiché la distribuzione dei prodotti, anche in questi casi di un intervento violento, rimane legata alle condizioni della produzione. Se non tenesse conto di queste condizioni, la produzione stessa ristagnerebbe e ogni distribuzione cesserebbe per mancanza di beni da dividere. Anche il conquistatore e la rivoluzione, quindi, non possono semplicemente suddividere i beni, ma sono costretti insieme a suddividere i mezzi di produzione e a collocare gli uomini nei posti di produzione richiesti da questi mezzi. Ma, prima che la distribuzione sia distribuzione dei prodotti, essa è: 1) distribuzione degli strumenti di produzione e 2) — il che è una Página 81 ulteriore determinazione dello stesso rapporto — distribuzione dei membri della società tra i differenti generi di produzione (sussunzione degli individui sotto rapporti di produzione determinati). La distribuzione dei prodotti è chiaramente solo un risultato di questa distribuzione che è compresa nel processo di produzione stesso e che determina la struttura della produzione. [Nota 15] Dunque, la conquista, la rivoluzione, le leggi ecc. danno forma alla distribuzione, ma possono far ciò solo all’interno di un quadro, che viene costituito dalla raggiunta altezza del modo di produzione o, rispettivamente, dalla costellazione storica dei rapporti di produzione. È un’illusione credere che il conquistatore possa comportarsi ad arbitrio con il popolo sottomesso. Piuttosto, il fatto che egli devasti il paese e deporti la popolazione, oppure prenda per sé la proprietà fondiaria, riduca in schiavitù il popolo oppure si accontenti dei tributi: tutto ciò dipende dal fatto che il modo di produzione del popolo conquistatore faccia apparire l’una o l’altra misura come quella piú auspicabile per il suo interesse produttivo (cioè, per il suo potere e per la sua ricchezza). Che della popolazione vinta si facciano degli schiavi o degli affittuari, ovvero addirittura che la sua classe dominante si fonda con quella dei vincitori, tutto ciò è predisposto nelle condizioni della produzione, e in questo il modo di produzione piú elevato determina la direzione persino là dove esteriormente è quello che soggiace: Marx offre come esempio di ciò le conquiste germaniche nell’impero romano. Infine, si potrebbe ancora obbiettare che però, nonostante questo condizionamento economico dei risultati della violenza (Gewalt) questa stessa rimane un fatto extraeconomico e pre-economico. Ma anche riguardo a ciò Marx ci dà una risposta, che accenna alla direzione in cui va risolto, dal punto di vista della sua concezione economica fondamentale, il capitolo, molto discusso, del rapporto fra violenza ed economia. Marx osserva, una volta, che «anche il diritto del piú forte è un diritto» e, un’altra volta, che è una rappresentazione tradizionale quella «secondo cui in certi periodi si sia vissuto soltanto di rapina». Ma non si dovrebbe dimenticare che il tipo di rapina stesso è a sua volta determinato dal tipo di produzione [Nota 16]. Se cerchiamo di pensare fino in fondo questi accenni nello spirito del rapporto in cui sono stati fatti, cioè nello spirito del rapporto organico del modo di esistenza economico e sociale della vita storica, allora troviamo che la violenza (conquista, rivoluzione) stessa è soltanto il prodotto di un determinato livello economico della produzione, che persegue con la violenza dei fini che si producono innanzi tutto e soltanto a partire da questa situaPágina 82 zione economica. Fino a quando le forze produttive, in un insieme sociale, non sono ancora tanto sviluppate da garantire il sufficiente soddisfacimento di tutti, la violenza — verso l’esterno e verso l’interno — sarà sempre la funzione necessaria di questo tipo di livello di produzione. Guerra, pirateria, schiavismo, diritto del piú forte, non sono altro che, da una parte, forme primitive dell’economia stessa dal lato di chi esercita la violenza e, d’altra parte, in base alla loro possibilità, sono essenzialmente condizionate e limitate dal livello di sviluppo economico dal lato di chi la violenza subisce. «Una nazione di speculatori di borsa», dice Marx, «non può essere rapinata allo stesso modo di una nazione di vaccari». Un conquistatore trascinerà via il popolo, dai suoi insediamenti, nel proprio impero solo qualora possa ivi utilizzarlo in un lavoro schiavistico. «Quando si ruba lo schiavo, si ruba direttamente lo strumento di produzione. Ma allora occorre che la produzione del paese per il quale si è compiuta la rapina, sia organizzata in modo da permettere il lavoro schiavistico» [Nota 17]. La rapina, la conquista, in breve: la violenza stessa è dunque, a sua volta, solo una funzione della produzione e, per la precisione, questa volta del livello delle forze produttive. È questa dunque la risposta al problema di Marx: che cosa costituisce una classe? Le classi sono il risultato del processo di produzione sociale; esse nascono necessariamente dalle condizioni della produzione, dalla divisione, in essa insita, degli strumenti di produzione e dall’articolazione, in tal modo data, dei membri della società produttiva. Engels ha formulato ciò, una volta, in maniera molto pregnante, nel seguente modo: Sino a quando il complessivo lavoro sociale fornisce solo un provento che supera soltanto di poco ciò che è necessario per un’esistenza stentata di tutti, sino a quando perciò il lavoro impegna tutto o quasi tutto il tempo della maggioranza dei membri della società, necessariamente la società si divide in classi. [Nota 18] L’essenza sociale di una classe non è espressa né dalla diversità della rendita o del possesso, né dal fatto di svolgere un’uguale occupazione. La distinzione fra ricco e povero è tanto poco una distinzione di classe quanto quella fra lavoratore e ozioso o fra lavoratore intellettuale e lavoratore manuale. Quando, abitualmente anche negli scritti marxisti si parla delle due grandi classi dei proprietari e dei proletari, con ciò non s’intende l’opposizione fra ricchi e poveri, bensí quella fra coloro che posseggono i mezzi di produzione e coloro che non posseggono altro che la forza-lavoro. E Página 83 quando si parla di una classe di lavoratori intellettuali, lo si fa appunto tenendo conto del fatto che il lavoro intellettuale — nelle sue tre forme: libero lavoro scientifico o artistico, attività funzionariale e lavoro inserito nel processo di produzione capitalistico — ha una diversa posizione, ciascuna volta, rispetto al processo di produzione sociale nella società capitalistica [Nota 19]. Sono quindi sempre le relazioni economiche con la produzione e, quindi, con la distribuzione a determinare il carattere della classe. Ma questi momenti economici costituiscono soltanto il suo contenuto, non la sua forma. Quest’ultima essi l’acquistano naturalmente soltanto a partire dalle forme della coscienza sociale in generale, in cui, anzi, è fin dall’inizio inserito ogni elemento economico, poiché solo attraverso questa coscienza viene vissuto. Anche questo è stato affermato da Marx stesso. Egli rinvia innanzi tutto al fatto che, naturalmente, la produzione ha alcuni presupposti, che — per cosí dire — stanno al di fuori di essa, per esempio la divisione dei mezzi di produzione data dalla natura. Ma questi all’inizio possono sembrare come di origine naturale. Attraverso il processo di produzione stesso essi vengono commutati da fattori naturali in fattori storici, e se per un periodo appaiono come presupposto naturale della produzione, per un altro essi hanno costituito un risultato storico di quest’ultima. [Nota 20] Cioè, i presupposti quasi-naturali (naturwüchsig) della produzione in generale non vengono presi in considerazione in quanto tali dal punto di vista sociologico, bensí soltanto in quanto componenti di un processo di lavoro già sociale. La terra, in quanto tale, è un composto di sostanze minerali e vegetali; essa diviene un fattore sociologico soltanto in relazione al lavoro umano, di cui è oggetto. Il clima ridente rimane un fatto meteorologico, cui è estraneo ogni riferimento al ridere o al piangere, e diviene un momento sociologico solo grazie al suo riferimento al sostentamento umano da esso dipendente ecc. Cosí, già alla radice del modo in cui si formano i suoi concetti l’esperienza sociale compie quella caratteristica trasposizione «nella testa dell’uomo» — dall’isolamento naturalistico alla relazionalità umana — che è soltanto l’espressione psicologico-storica dell’elemento social-a-priori, il cui carattere teorico-gnoseologico già conosciamo. L’esperienza sociale, quindi anche quella economica, Página 84 è impossibile al di fuori delle forme della relazione e dell’unificazione di una molteplicità indeterminata di uomini l’uno con l’altro. Queste forme, nel loro insieme, costituiscono la forma sociale, esse sono tanto il presupposto del sentimento di comunità quanto quello della morale, del diritto, della religione, dell’estetica. Per questo Marx, esprimendo con ciò un concetto che rende superflua tutta la critica di Rudolf Stammler contro la concezione materialistica della storia, in quanto contiene già la regolamentazione esterna come forma della società senza la confusione metodologica di Stammler, per questo Marx dice: «Ogni produzione è appropriazione della natura da parte dell’individuo entro e mediante una determinata forma di società. In questo senso è una tautologia dire che la proprietà (l’appropriazione) è una condizione della natura». Quando si riducono queste e simili «trivialità al loro effettivo contenuto, esse dicono piú di quanto non sappiano i loro predicatori. E cioè che ogni forma di produzione produce i suoi propri rapporti giuridici, la sua forma di governo ecc.» [Nota 21]. La classe è dunque, già in quanto concetto economico, un membro di questa forma sociale, membro da cui l’ideologia di quest’ultima è inscindibile. I concetti economici sono appunto concetti sociologici, essi contengono sempre tutta la società e la sua ideologia: solo che questa viene colta nella sua determinazione economica fondamentale. E l’elemento decisivo per il nostro tema è il fatto che, dunque, il concetto di classe, anche ove venga colto ‘semplicemente’ da un punto di vista economico, esclude il momento politico altrettanto poco di quanto esclude quello morale e quello ideologico in generale, poiché è solo tutto questo che esprime la classe in quanto categoria sociale. Il marxismo esprime ciò nel concetto, per esso abituale, secondo cui fa parte della classe una coscienza di classe. Solo grazie a questa la classe diventa un momento che penetra nel processo sociale. Ricordiamoci del modo in cui, nel capitolo frammentario sulle classi, Marx ha rifiutato la semplice «identità dei redditi» come connotato costitutivo delle classi stesse. Cosí si legge già prima, in Marx, a proposito del piccolo contadino francese, ciò che invece vale bensí in generale: Nella misura in cui milioni di famiglie vivono in condizioni economiche tali che distinguono il loro modo di vita, i loro interessi e la loro cultura da quelli di altre classi e li contrappongono ad esse in modo ostile, esse formano una classe. Ma nella misura in cui tra i contadini piccoli proprietari esistono soltanto legami locali e la identità dei loro interessi non crea tra di loro una comunità, una unione politica su scala nazionale e una organizzazione politica, essi non costituiscono una classe. [Nota 22] Página 85 E già nella sua prima critica di Proudhon Marx scrive: Le condizioni economiche avevano dapprima trasformato la massa della popolazione del paese in lavoratori. La dominazione del capitale ha creato a questa massa una situazione comune, interessi comuni. Cosí questa massa è già una classe nei confronti del capitale, ma non ancora per se stessa. Nella lotta, [...] questa massa si riunisce, si costituisce in classe per se stessa. Gli interessi che essa difende diventano interessi di classe. [Nota 23] Il Manifesto comunista descrive questo sviluppo delle classi a partire dalla lotta fra gl’interessi nelle sue frasi lapidarie, intramontabili, che dipingono nella maniera piú concisa la storia precedente e svelano la sua miseria classista rimasta sempre uguale. Per classe, dunque, intendiamo quella comunità consapevole degli interessi di un gruppo di uomini, che da ultimo è condizionata dalla loro uguale posizione nella produzione sociale. Poiché il modo e l’estensione della soddisfazione dei loro bisogni vitali dipende da quest’ultima, allora, per esprimermi in maniera concisa, vorrei definire questo gruppo d’interessi gli interessi sociali vitali della classe. È chiaro che questa espressione è, da un lato della stratificazione in classi, un segno positivo; dall’altro, un segno negativo; cioè l’espressione interessi vitali significa, nel caso di una classe oppressa, che la situazione che si produce a partire dalla sua condizione economica, la danneggia nei suoi interessi vitali, la fa apparire limitata. L’unificazione del concetto di classe con quello di interessi sociali vitali di un gruppo economico di uomini ha ora il vantaggio logico di evitare la reificazione (Versachlichung) del concetto di classe in quanto categoria ‘economica’ mistica, e mette in conto la classe, fin dall’inizio, come fattore spirituale, come deve avvenire, nel marxismo, per tutti i suoi concetti economici: per cui Marx, proprio riguardo al suo concetto principale, il capitale, non si stanca di combattere l’interpretazione reificante e feticistica del medesimo [Nota 24]. Página 86 E ora è anche chiaro ciò che va mantenuto della critica, tanto amata negli ultimi tempi, secondo cui Marx avrebbe una rappresentazione cosí oscura del suo fondamentale concetto di classe che di frequente parlerebbe di una classe là dove si tratta soltanto di un ceto, come avviene proprio all’inizio del Manifesto comunista, quando egli cita, come esempi di lotte di classe, la lotta fra patrizi e plebei, baroni e servi della gleba o membri delle corporazioni e artigiani. Questa critica sembra ritenere che l’articolazione della società in ceti escluda l’opposizione di classe. Questa veduta è la degna controparte dell’opinione, cosí diffusa, secondo cui la concezione materialistica della storia significherebbe che, una volta eliminata l’opposizione di classe, «per mancanza di rapporti economici» non ci potrebbe piú essere alcuno sviluppo storico. Ma come qui una forma storica determinata dei rapporti economici, cioè quella fondata sull’opposizione di classe, viene identificata con la struttura economica della società in generale (che, naturalmente, può essere anche una solidale), allo stesso modo, in quella critica, tutt’al contrario, ceto e classe vengono assunti come elementi del tutto distinti, che anzi si escludono. È proprio questa, invece, la conoscenza che Marx vuol comunicarci: il fatto che anche le lotte dei ceti erano lotte di classe, poiché il ceto è soltanto una particolare forma di manifestazione storica della classe. La distinzione fra ceto e classe è una distinzione assolutamente soltanto storica: in particolare, è la distinzione per cui il ceto è una forma di organizzazione giuridica di determinati interessi vitali, mentre la classe viene direttamente organizzata dalla funzione sociale di questi interessi. Per questo il ceto fa, di ciò che corrisponde all’interesse classe dei suoi membri, una loro prerogativa e un loro privilegio, mentre la classe vera e propria non può piú mantenere questo privilegio giuridicamente, attraverso le prerogative di ceto, bensí soltanto attraverso la violenza della sua superiorità economica. Questa distinzione storica è stata anche storicamente superata: dalla rivoluzione francese, che ha abolito tutte le prerogative di ceto e ha introdotto l’uguaglianza giuridica borghese. Ma, com’è noto, con ciò essa non ha eliminato il carattere di classe della società, bensí, al contrario, solo ora lo ha fatto emergere chiaramente, come del resto si legge chiaramente proprio all’inizio del Manifesto comunista: La moderna società borghese, sorta dalla rovina della società feudale, non ha eliminato i contrasti fra le classi. Essa ha soltanto posto nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta in luogo delle antiche. [Nota 25] Página 87 La critica dotta, secondo cui Marx avrebbe continuamente scambiato classe e ceto, rivela dunque soltanto una ridicola pedanteria, che però è allo stesso tempo molto triste, poiché tradisce un’inammissibile mancanza di circospezione circa il senso e lo spirito veri dei concetti di Marx. Essa segna in rosso come errore grossolano proprio ciò che è la vera e propria funzione sociologica del concetto marxista di classe, in particolare il riconoscere l’ideologia giuridica della costituzione per ceti in quanto sovrastruttura, in quanto forma di coscienza sociale della struttura classista della società, dietro le cui forme romantiche vanno cercate, come loro elementi costitutivi, le forze reali del modo di produzione e degli interessi di produzione, di cui i suoi membri non necessariamente devono essere consapevoli. Certo, le lotte fra i ceti nell’antica Atene o Roma, ovvero le guerre schiavistiche, ovvero le eresie religiose del medioevo, non erano le lotte di classe del XIX secolo. La critica ‘dotta’ si riduce a questa ridicolaggine. Ma erano le forme di manifestazione storica delle lotte di classe di quel tempo e solo se considerate cosí ci divengono effettivamente comprensibili. E in questo senso sociologico è assolutamente lecito definire i ceti come classi senza dover essere costretti ad accettare il rimprovero, tipico di una pedanteria e di un’arroganza professorali, per cui non si scorgerebbe con chiarezza la distinzione di questi due concetti. Da tutto ciò si ricava, sotto il profilo che a noi interessa, quanto sia falso lo scorgere l’essenza del dominio di classe semplicemente nello sfruttamento economico, per cui senza di questo diviene impossibile ogni dominio di classe, da una parte e, dall’altra, un gruppo di uomini, che non può piú sfruttare, cessa di essere una classe e, pertanto, non può piú neanche essere oppresso come classe. Lo sfruttamento economico è semplicemente il momento costitutivo della classe; le classi che ne sono nate, però, costituiscono poi delle strutture sociologiche, che, grazie a tutto il complesso dei loro interessi, hanno la loro propria realtà, stabilità e tendenza alla ricostituzione nella ideologia da loro costituita. Ammesso pure che il proletariato vinca e che addirittura possa, tutt’in una volta, eliminare tutto lo sfruttamento economico, che possa addirittura socializzare subito tutta la proprietà privata dei mezzi di produzione, ciononostante in un primo momento sussisterebbe ancora la classe borghese, la classe dei proprietari, poiché la situazione culturale (geistige) degli interessi della proprietà e degli imprenditori non può essere superata allo stesso modo della sua manifestazione materiale. Non è esatto, pertanto, che divenga privo di senso — come ritiene Kelsen — parlare di un dominio di classe in senso marxista, qualora ad esso non sia collegato uno sfruttamento economico, come non può non succedere nello Stato proletario. Piuttosto, è chiaro il fatto che, anche in questo caso, l’opposizione di classe conPágina 88 tinua a sussistere, in quanto il complesso degli interessi vitali portati per il loro predominio sociale continua ancora a sussistere come realtà sociale e tende ad acquistare nuovamente la sua validità. Nella lotta di classe si erano scontrate le due tendenze della borghesia e del proletariato ed esse continuano ancora a farlo. È mutata soltanto la distribuzione del potere e ciò costituisce la diversità della forma dello Stato dopo la vittoria del proletariato: prima è la borghesia a usare l’ordinamento costrittivo del diritto contro il proletariato, dopo è questo a usarlo contro la borghesia. Nell’esistenza di una coscienza di classe senza un sostrato economico non si può scorgere però una critica alla concezione economica fondamentale, perché anzi, per la precisione, la borghesia espropriata rappresenta ancora un pezzo di quest’economia stessa, che anzi esisteva solo nella coscienza di questi uomini, grazie alla loro attività di imprenditori, banchieri, proprietari fondiari ecc., e, pertanto, esiste ancora fin quando questi uomini esistono, anzi sono addirittura in grado di trasmettere la loro ideologia. Anche la generazione che cresce nello spirito dei suoi genitori fa parte ancora dell’esistenza economica della classe borghese, poiché è determinata ideologicamente da questa economia. Ma, pensa Kelsen, nello Stato proletario ciononostante non si può parlare di un dominio di classe e, quindi, il concetto marxiano di Stato qui fallisce, poiché, non appena non vi sia piú alcuna oppressione economica, i membri della classe prima dominante non possono essere dominati diversamente dai membri del proletariato ‘dominante’. Le norme costrittive dello Stato proletario si rivolgono appunto contro tutti (p. 14 [43]). Qui, ancora una volta, il metodo giuridico formale s’incrocia con quello sociologico. Se — come fa Kelsen — lo Stato viene considerato da un punto di vista semplicemente giuridico, cioè come organizzazione costrittiva, allora neanche nello Stato borghese vi è alcuna ‘oppressione’. Anche in esso le norme costrittive si rivolgono contro tutti; anzi proprio questo costituisce l’ipocrisia e la menzogna di quel sistema, che si vanta orgogliosamente d’essere uno Stato di diritto: il fatto che in esso “tutti sono uguali di fronte alla legge”. L’oppressione, il dominio di classe della borghesia, consiste qui nel principio giuridico “uguale per tutti”, secondo cui la proprietà privata è sacra. Questa statuizione giuridica è sufficiente a conservare le differenze del possesso e, quindi, lo sfruttamento economico. Nello Stato proletario basta ugualmente la «norma costrittiva uguale per tutti», secondo cui la proprietà privata dei mezzi di produzione non può piú sussistere, per eliminare, da una parte, questo sfruttamento e, d’altra parte, per colpire economicamente un’intera classe, quella dei proprietari. La norma costritriva, uguale per uttti, del riconoscimento della proprietà privata, Página 89 sottomette i proletari agli interessi dei proprietari; quella analoga del superamento della proprietà privata sottomette i proprietari agli interessi dei proletari. Se il proletariato si sente violentato dalla forma giuridica borghese, non di meno si sentirà violentata la borghesia da quella proletaria. Nell’uno e nell’altro caso, di volta in volta, le classi non stanno in un uguale rapporto con l’ordinamento giuridico: ed è questo che decide il carattere del dominio. Si tratta soltanto di vedere all’interesse vitale di quale gruppo serve l’ordinamento giuridico. E ogni interesse, che venga impedito nella sua attuazione dall’ordinamento giuridico, ovviamente si sente dominato, oppresso e lo è anche. E questo accade, nello Stato proletario, all’interesse dello sfruttamento economico, all’interesse capitalistico, all’interesse di classe della borghesia. Non è dunque per niente esatto — e la storia del bolscevismo lo dimostra — che sotto il dominio del proletariato l’opposizione di classe scompaia immediatamente e che le norme costrittive si rivolgano in ugual maniera contro tutti. Ma a questo punto Kelsen obbietta che questo non è piú un dominio di classe, bensí il dominio di un partito, ancor piú «qualora la forma statale, per il dominio che va istituito attraverso la rivoluzione del proletariato, sia la democrazia» (p. 15 [46]). E quest’ultima è «senza dubbio l’opinione del Manifesto comunista. “L’elevarsi del proletariato a classe dominante” e “la conquista della democrazia” vengono definiti — nella piú stretta relazione — come il fine della rivoluzione operaia» (ibid.). Siamo con ciò pervenuti alla discussione di un importante concetto politico e — nella situazione odierna del socialismo rivoluzionario — di un concetto politico contestato nella maniera piú violenta: siamo pervenuti cioè alla discussione del significato della democrazia all’interno della concezione marxista, e con ciò sono in strettissimo rapporto i concetti di partito, dittatura e rivoluzione. L’intera storia impetuosa di questo tempo apre la sua problematica gravida di destino in questi concetti, che ora appaiono anche contraddittori per il pensiero teoretico, quasi quanto si presentano contrastanti nella vita reale: comunque, solo a patto che la critica che Kelsen fa valere nei loro confronti abbia effettivamente ragione d’essere. Página 90 Capitolo ottavo Classe e partito Nella democrazia — dice Kelsen a pagina 15 [p. 46] del suo libro — in cui tutti i cittadini dello Stato, direttamente o indirettamente, vengono fatti partecipare, attraverso il generale e uguale diritto di eleggere la rappresentanza popolare, alla formazione della volontà dello Stato, e all’esercizio del dominio politico, non può esprimersi politicamente un dominio di classe in generale, nei limiti in cui tutti — lavoratori e imprenditori, sia i proletari sia la borghesia — hanno politicamente uguali diritti. Un domino di classe economico è possibile [...] Se non si verifica neanche questo [Nota 1], non si può parlare di un dominio di classe in generale. Ma come dobbiamo intendere il fatto che in una democrazia perfetta — secondo il presupposto di Kelsen — non è possibile invero un dominio politico di classe, ma tuttavia è possibile un dominio di classe economico? Egli risponde anche a questa domanda: «Se il partito, che nella rappresentanza popolare ha la maggioranza — ferma restando l’uguaglianza politica formale — rende possibile uno sfruttamento attraverso il contenuto dell’ordinamento giuridico». Ma anzi proprio questo fa la democrazia borghese, per quanto sia ‘perfetta’, cioè dedita alla «tutela dell’uguaglianza formale dei diritti politici» dei cittadini dello Stato. E proprio qui si fonda la contraddizione cosmico-storica di ogni democrazia borghese edificata sull’opposizione di classe, la sua intima falsità e mendacità. la sua tipica autoillusione il fatto che in essa vi siano solo diritti uguali e che lo Stato di diritto, che la esprime compiutamente, ponga i cittadini dello Stato in una relazione completamente uguale rispetto all’interesse pubblico dello Stato. Già nei loro primi scritti Marx e Engels hanno distrutto spietatamente questa illusione borghese, che apparteneva comunque ai sogni Página 91 fiorenti della borghesia rivoluzionaria; si legga la critica dei cosidetti diritti dell’uomo nel giovane Marx e la critica dei diritti di libertà inglesi nel giovane Engels, che allora — precedendo Marx nella critica sociale — scriveva queste parole: L’eguaglianza democratica è una chimera, la lotta dei poveri contro i ricchi non può essere combattuta sul terreno della democrazia o dell politica. Anche questo grado è dunque solo uno stadio transitorio, l’ultimo mezzo puramente politico che ancora deve essere sperimentato e dal quale deve subito svilupparsi un nuovo elemento, un principio che oltrepassa la politica. Questo principio è il socialismo. [Nota 2] Qui Engels richiede un principio che «oltrepassa la politica», qui, ove ci si aspetterebbe un principio che oltrepassi la democrazia. Si presti attenzione a questa identificazione della democrazia con il concetto della politica, da cui s’intuisce fin d’ora il fatto che il concetto di politica proprio come quello di Stato, di classe e tutti gli altri simili concetti del marxismo in generale acquistano il loro significato particolare nella struttura del medesimo, significato che non è uguale al significato consueto della parola, ma risulta soltanto dal suo essere storicamente riferito al carattere di classe della società borghese. Questo lo vedremo e lo comprenderemo ancora piú chiaramente nel confronto critico (Auseinandersetzung) sul concetto di democrazia, perché per Marx e Engels la lotta dei partiti borghesi nello Stato era invero una lotta politica, ma la lotta di classe — come Marx mostrava già nella Miseria della filosofia — alla fine non poteva non far nascere nel proletariato «un principio che oltrepassa la politica». La democrazia borghese è caratterizzata dal fatto che non solo mantiene fattualmente le condizioni di esistenza della borghesia, ma le pone sotto la tutela del diritto. Essa non può non mantenere lo sfruttamento economico, senza di cui non c’è alcuna valorizzazione del capitale e alcuna rendita fondiaria, ed essa fa ciò mantenendo la proprietà privata dei mezzi di produzione e tutta la regolamentazione giuridica richiesta da questo principio giuridico, anzi lo stabilisce come un diritto fondamentale. Nella democrazia perfetta questo sarebbe possibile — secondo la terminologia di Kelsen — solo se il «partito della proprietà privata, del possesso» ha la maggioranza richiesta nella struttura rappresentativa legislativa. Ma guardiamo per una volta piú da vicino questo ‘partito’. Per prima cosa, in una democrazia non potrebbe esserci Stato né potrebbe esserci un parlamento, in cui si costituisca un «partito del possesso». Una tale cinica franchezza ripugna completamente alla natura della democrazia e della politica Página 92 borghese. Esso si chiamerebbe, perlomeno, partito dei ‘salvatori della patria’ o dell’ordinamento sacro, dei difensori della civiltà e dell’etica ecc. Per lo piú, inoltre, non si presenterebbe neanche come partito, poiché non potrebbe farlo a causa della eterogeneità, anzi a causa dei contrasti che altrimenti esistono fra i suoi membri, ma apparirebbe come ciò che anche è, come una coalizione di tutti quei partiti, che, invero, altrimenti hanno poco in comune, ma si trovano unificati nella lotta contro gli avversari che violano il loro fondamento: la proprietà privata. Ora, suvvia! — questo «partito dei proprietari privati», la cui maggioranza mantiene l’ordinamento giuridico borghese, sussiste di fatto in ogni democrazia borghese e comprende non solo conservatori e liberali, non solo tutti gli altri contrasti nazionali e confessionali, ma unifica addirittura gli... avversari monarchici o aristocratici della democrazia nella lotta contro gli avversari della proprietà privata. Tutti questi diversi gruppi, quindi, vengono unificati in tal caso, al di là del loro particolare interesse politico, nazionale, confessionale o anche culturale, in un interesse comune, superiore e che domina ogni altra veemenza, anzi ostilità del loro punto di vista, perché questo fa parte del loro interesse economico vitale: il mantenimento del loro ruolo economico in quanto fruitori dello sfruttamento del lavoro sociale. Ma ciò significa: tutti questi diversi gruppi divengono un unico ‘partito’ solo grazie alla comunità della loro situazione economica all’interno dell’interesse di produzione e distribuzione sociale: possono essere un ‘partito’ perché già prima sono una classe, la classe dei proprietari contro la classe dei proletari. Questo dato di fatto non viene assolutamente mutato dalla circostanza per cui un tale ‘partito’ può avere la maggioranza nella popolazione soltanto perché — in parte a causa della dipendenza da coloro che dominano, in parte attraverso influenzamenti diretti e indiretti, in parte attraverso innumerevoli vincoli della tradizione, della morale e della religione correnti, della consuetudine, della pigrizia di pensiero e dell’insipienza, dell’indolenza e della mancanza di carattere, dell’ambizione e dell’avidità — per grandi parti di questa maggioranza la loro comunità d’interesse è soltanto illusoria. Poiché sappiamo già che una classe acquista realtà sociologica non già attraverso la situazione economica solamente, bensí innanzi tutto nella sovrastruttura ideologica, che su di essa diviene possibile [Nota 3]. Página 93 Ora, certo, questa unificazione classista di tutta una quantità di gruppi che per il resto si combattono reciprocamente nella maniera piú violenta la si può chiamare — per amore di una determinata teoria — un ‘partito’. Perché, nella terminologia, esiste libertà fino al punto di usare violenza alle parole inermi. Solo Página 94 che poi viene appunto sicuramente smarrito ogni senso determinato della parola partito e viene raggiunta quella dannosa vaghezza dell’espressione linguistica, in cui le parole possono significare semplicemente tutto, quindi, per esempio, classe e partito possono diventare una sola cosa. Quanto ciò sia in contrasto già con lo spirito della lingua si palesa nel fatto che, in quanto precede, solo a fatica — il lettore lo avrà avvertito — per voler indagare che cosa significhi l’espressione ‘partito’ nel concetto di un partito della maggioranza democratica, abbiamo evitato la definizione corretta di quei gruppi da cui esso è costituito: cioè, abbiamo evitato la denominazione di partiti. Poiché anzi questi gruppi null’altro sono se non partiti: il partito dei conservatori, dei liberali, dei democratici della politica sociale, dei monarchici, dei repubblicani, degli antisemiti, dei liberi pensatori ecc. Qui la parola partito è al suo posto e chi la usi ancora in altro senso, naturalmente è libero di farlo, ma poi non può non essere consapevole del fatto che pronunzia la parola partito in un doppio significato: una volta come concetto dei difensori di un determinato ordinamento sociale e, un’altra volta, come insieme dei rappresentanti di un determinato interesse particolare all’interno di un ordinamento sociale. E in tal modo siamo pervenuti, — proprio sul terreno della democrazia pura — alla distinzione caratteristica, che, nella concezione marxista, separa classe e partito, ma, quindi, anche lotta di classe e lotta di partito. Queste avvengono, per il sociologo, in ambiti sociologici completamente distinti, che non possono affatto esser raggiunti dalla trattazione semplicemente giuridica, poiché per essa stanno all’interno di un solo ambito, in particolare in uno e medesimo ordinamento giuridico. Deriva da ciò, inoltre, il fatto che, alla fine, anche il concetto di politica diviene contraddittorio (zwiespältig), di modo che il marxista si è già da molto tempo abituato a dividere — proprio come nello Stato distingue sempre lo Stato borghese e quello proletario — la politica borghese da quella proletaria. Non si tratta — come qualcuno ha interpretato in maniera miope — di un orgoglio marxista o di un’arroganza socialdemocratica, bensí si tratta di una diversa altezza della considerazione teorica, come diverrà chiaro nel prosieguo. Nel marxismo, dunque, partito e classe sono due concetti di contenuto e di significato molto diverso, un contenuto e un significato che acquistano assolutamente e soltanto dalla loro relazionalità con lo sviluppo sociale, e che si fonda sulla divisione sociale dei ruoli, che deriva dalla legalità economica di questo sviluppo. Per questo Marx e Engels avvertivano qualcosa di falso — nonostante la loro appassionata presa di partito in favore della Página 95 causa del proletariato — quando qualcuno li definiva uomini di partito [Nota 4], e per questo Marx scriveva a Freiligrath le parole famose, che sono cosí indicative riguardo al modo in cui egli concepiva la sua politica: «Per partito io intendevo il partito nel grande significato storico» [Nota 5]. Ora, che significa «partito nel grande significato storico»? Significa, che si tratta di una presa di posizione, che tratta lo sviluppo storico nella sua necessità sociale, sia che lo approvi, sia che lo rifiuti. La necessità dello sviluppo sociale si realizza soltanto nelle aspirazioni classiste dei membri della società. A seconda che il perseguimento di queste aspirazioni di classe allarghi o restringa la cerchia della società, la presa di posizione a partire da qui fondata sarà una presa di posizione o nel senso dello sviluppo sociale o contro di esso, ed a questo non apporta alcun cambiamento il fatto che anche la seconda tendenza — dal punto di vista della coscienza che ne ha e, ancora di piú, nella sua fraseologia — si sia sempre presentata e sempre si presenterà come un aspirazione insita nell’interesse generale della società. Ché, dal punto di vista della trattazione sociologica, non si tratta di ciò che un’aspirazione sociale crede o afferma circa se stessa, bensí di ciò che essa è. «E come nella vita privata si fa distinzione tra ciò che un uomo pensa e dice di sé e ciò che dice e fa in realtà, tanto piú nelle lotte della storia si deve far distinzione fra le frasi e le pretese dei partiti e il loro organismo reale e i loro reali interessi, tra ciò che essi s’immaginano di essere e ciò che in realtà sono» [Nota 6]. Per quanto riguarda il mondo capitalistico, in cui viviamo e che rimane tale anche in una democrazia borghese perfetta, dall’analisi economica delle sue leggi fondamentali si ricava il fatto che la proprietà privata dei mezzi di produzione agisce come un limite (Schranke) rispetto al pieno dispiegamento delle forze produttive sociali, e ciò in una doppia direzione. Innanzi tutto, il principio supremo della produzione capitalistica, cioè l’acquisizione del profitto, consente questo dispiegamento solo nella misura in cui appunto il profitto non ne venga diminuito, per cui delle possibilità tecniche, che invero sarebbero auspicabili dal punto di vista sanitario e sociale, rimangono inutilizzate, perché non ‘rendono’. Ma, in secondo luogo, la stessa condizione del profitto impedisce l’utilizzazione dello stesso livello produttivo già raggiunto al fine di un godimento uguale per tutti, cioè in favore del biPágina 96 sogno sociale vero e proprio. Ogni presa di posizione, che voglia mantenere questi rapporti, affermerà, invero, che questo è ciò che esige il vero interesse della società. Abbiamo già visto, nel secondo capitolo, che questo fa appunto parte della dialettica necessaria della coscienza politica nello Stato borghese, il fatto che in esso gli interessi particolari non possono non assumere la forma di interessi pubblici generali, poiché solo in quanto tali possono diventare interessi statali e possono pervenire a un dominio che non sia violenza nuda e cruda, bensí dominio giuridico. E questo si verificherà in maniera del tutto particolare in una comunità democratica. Ma se si va al di là di questo linguaggio da politica di partito e si risale al suo nucleo, alla sua presa di posizione effettiva, risulta allora che la presa di posizione avversa allo sviluppo sociale rappresenta sempre un interesse particolare, anche se si presenta come interesse generale, mentre la presa di posizione a favore dello sviluppo sociale rappresenta sempre l’interesse generale, anche se appare nella forma dell’interesse particolare, cioè anche nella forma dell’interesse proletario di classe [Nota 7]. Ora, deriva da qui la differenziazione sociologica per quanto riguarda il significato del proletariato persino là dove esternamente si presenti soltanto come un partito politico fra altri partiti. L’interesse particolare del proletariato coincide con l’interesse generale in una nuova società, senza classi, coincide cioè con l’interesse al rovesciamento dell’ordinamento economico e giuridico sussistente. L’interesse particolare di tutti i gruppi borghesi coincide invece con il mantenimento di questo ordinamento. Il primo è rivoluzionario e favorevole allo sviluppo; il secondo è necessariamente conservatore e ostile allo sviluppo. E, applicato alla democrazia, da cui abbiamo preso le mosse, ciò significa: la maggioranza in una democrazia, nei limiti in cui si riferisca non a ordinamenti parziali all’interno dello Stato, bensí all’ordinamento stesso nel suo insieme, è o un’espressione del punto di vista classista dell’interesse di classe borghese o di quello dell’interesse di classe proletario; nell’uno e nell’altro caso lottano per il dominio non contrasti di partito, bensí contrasti di classe e, pertanto, è sempre una classe che, in maniera piú o meno perfetta — ciò dipende dalle forze dell’avversario — fa valere nel dominio il suo principio di classe. Il dire che in una democrazia non può esistere un dominio politico di classe significa, pertanto, trattare la democrazia nello spazio vuoto, nel cielo puro dei concetti del pensiero giuridico formale. Fino a quando la democrazia si fonda sul terreno dei contrasti di classe, piuttosto, essa non è affatto Página 97 possibile in generale. La democrazia non è possibile né nello Stato borghese né in quello proletario — da qui la critica legittima del bolscevismo contro la difesa, del tutto non-marxista, del principio democratico in quanto tale, di cui si dovrà parlare ancora piú avanti —, ma è possibile soltanto nello Stato sociale della società senza classi, che appartiene soltanto al futuro. E questo vale addirittura per la democrazia borghese, nei limiti in cui essa era soltanto un programma della borghesia rivoluzionaria; poiché in questa essa era anzi, propriamente, l’anticipazione concettuale di una tale situazione senza classi, quando la borghesia poteva ancora, anzi non poteva non pensare che, con la sua vittoria, sarebbero state eliminate tutte le forme di oppressione e sarebbero stati fondati i diritti dell’uomo, la libertà di tutto ciò che ha aspetto umano. Un sospetto circa l’impossibilità della democrazia nello Stato di classe balena del resto già nel piú grande precursore di questa idea di una costituzione sociale solo futura, quando, una volta, pronunzia le parole gravide di significato: A prendere il termine nella sua rigorosa accezione, non è mai esistita una vera democrazia, né esisterà mai. [...] Se vi fosse un popolo di dèi, esso si governerebbe democraticamente. Un governo cosí perfetto non conviene ad uomini. [Nota 8] No, per gli uomini di una società di classe la democrazia rimane un problema insolubile e Rousseau non poteva ancora pensare come possibili uomini diversi. Ciò ci conduce alla discussione dei concetti piú contestati del marxismo, ai concetti di democrazia e di dittatura. Página 98 Capitolo nono Democrazia politica e democrazia sociale Il concetto di democrazia è divenuto problematico, all’interno, del marxismo, solo in seguito alla critica e, ancora di piú, in seguito alla tattica del bolscevismo. Fino ad allora, se si esclude l’anarchismo e numerosi sindacalisti rivoluzionari, quasi nessuno dubitava del fatto che la conquista della democrazia faccia parte dei còmpiti essenziali della lotta di classe rivoluzionaria. Già nel Manifesto comunista si dice che «il primo passo nella rivoluzione operaia è l’elevarsi del proletariato a classe dominante, la conquista della democrazia [Nota 1]. Ma la critica del bolscevismo ha contribuito a far apparire il concetto di democrazia, all’interno del marxismo, piú contraddittorio di quanto questo concetto difficile fosse prima mai stato. E questo si è verificato per il fatto che, invero, la teoria di Lenin — e ciò è il suo merito, grande e duraturo — ha fatto energicamente valere la teoria della lotta di classe e del carattere classista dello Stato contro una confusione opportunistica e incoerente del punto di vista marxista, ma ne ha dato un’applicazione, che era in contraddizione con tutti i principi di questa teoria marxista dello Stato. La teoria marxiana dello Stato proletario è caratterizzata dal fatto che, in esso, il proletariato è divenuto la classe dominante, cioè, in senso marxista, la classe che rappresenta, dal punto di vista economico, il potere decisivo nella società. Applicare questa teoria alla situazione eccezionale russa — creata da inauditi casi storici —, nella quale il potere politico non era nelle mani del proletariato, bensí soltanto in quelle di un gruppo di esso, era semplicemente impossibile. È a partire da questa contraddizione fattuale, e non dal concetto marxista, che si producono tutte le costruzioni, in piú d’un caso in verità artificiose e arbitrarie, con cui la teoria e la polemica dei bolscevichi vuol difendere e vuol rendere credibile Página 99 la sua tesi, che si rivela sempre piú come un autoinganno, secondo cui il sistema russo dei soviet sarebbe la vera e propria realizzazione della teoria marxista della dittatura del proletariato e del suo rapporto con la democrazia. Nessuna metaviglia che qui, ove si è già appuntata energicamente la critica dei marxisti non bolscevichi, vi sia materiale abbondante anche per la critica di Kelsen; solo che egli crede di aver colpito, con la contraddizione che egli ha indicato nella politica bolscevica, anche la teoria marxista. La mancanza della distinzione di questi due punti di vista, certo, va notata anche nella polemica di piú di un avversario marxista del bolscevismo, e succede cosí che oggi i concetti di democrazia, dittatura e rivoluzione del proletariato facciano parte di quei concetti, che mostrano una condizione di confusione teorica, che corrisponde assai poco al livello del socialismo marxista, che, giustamente, si chiama socialismo scientifico. Forse, se dapprima lasciamo completamente da parte la polemica fra politica socialdemocratica e bolscevica e se ci fermiamo alla critica di un avversario di tutt’e due le tendenze, cioè alla critica del professor Kelsen, riusciremo ad acquisire le direttive generali della teoria marxista, a partire dalle quali una strada libera da errori e fraintendimenti conduce alla comprensione teorica dei concetti messi in discussione. L’intenzione di Kelsen — questo dev’essere sempre tenuto presente — era di esercitare una critica immanente dei concetti del marxismo, cioè quella di porsi dal loro punto di vista e, poi, di mostrare che essi, già a partire da se stessi, sono intimamente contraddittori. Abbiamo già visto, per tutto il cammino fin qui percorso, che egli non ha raggiunto il presupposto soggettivo di questa critica, cioè quello di porsi innanzi tutto sul terreno della visione marxista e di ripensare a partire da essa i suoi concetti. E non gli poteva riuscire poiché questa visione — lo vedremo ancora piú chiaramente — gli è per l’appunto estranea e perché non basta, per esercitare una critica immanente contro una teoria copernicanamente nuova come è la teoria marxista, criticare semplicemente soltanto i suoi princìpi (Sätze) e sottomettere questi ultimi, come se fossero — per cosí dire — i paragrafi del marxismo, a una interpretazione grammaticale e logica, come altrimenti sogliono fare, legittimamente, i giuristi. In tal modo, la critica di Kelsen va a parare dappertutto nella strada obbligata di un confronto fra i concetti marxisti e quelli della sua propria teoria del diritto e dello Stato e, pertanto, non poteva non prodursi, dal suo punto di vista, una contraddizione insolubile. Ma, in realtà, non è neanche una contraddizione, bensí soltanto la diversità del punto di vista giuridico e sociologico, del modo di pensare formale e di quello storico. La stessa cosa si ripete quanto riguarda il problema della Página 100 democrazia. Nel sistema concettuale del marxismo questo concetto è sempre un concetto storico, per cui occorre sempre domandare: di qualle democrazia propriamente si parla? Ancora una volta, Kelsen contrappone a questo concetto un concetto puramente formale di democrazia, a partire dal quale, naturalmente, non possono non prodursi contraddizioni d’ogni genere nella trattazione marxista di quest’oggetto. Per Kelsen la democrazia è, innanzi tutto, «un principio di organizzazione puramente formale, che, in sé e per sé, non può pretendere alcun valore universale e incondizionato per ogni scopo organizzativo» (p. 120 [168]). Pertanto, «non si può seriamente far valere contro lo Stato borghese il fatto che esso non sarebbe una vera democrazia perché la popolazione lavoratrice sarebbe completamente esclusa dalla direzione del processo produttivo» [p. 167]. Poiché la democrazia è una forma di Stato e fino a quando la produzione non fa parte ancora delle funzioni dello Stato, la sua deficienza all’interno della costituzione della democrazia non può neanche essere imputata a quest’ultima come una mancanza. Kelsen ritiene elemento decisivo semplicemente «il principio, che caratterizza la democrazia, dell’universalità e dell’uguaglianza del diritto alla partecipazione nella formazione della volontà della comunità (p. 120 [168]). Se si segue questo carattere della democrazia nel suo sviluppo e nella sua azione pieni, allora si produce, per Kelsen, una serie di conseguenze, che egli sviluppa nel corso di una critica che per piú versi si perde nei dettagli, e che noi possiamo cosí riassumere: 1) nella democrazia piena, che tuttavia il marxismo indica come un fine necessario della lotta del proletariato, il dominio di classe è impossibile ed esiste solo una lotta dipartito; i concetti di lotta di classe, di oppressione di classe e di Stato di classe divengono qui privi di senso. Si è già parlato di ciò e quanto è stato già qui mostrato come erroneo verrà completato con la seguente discussione. 2) Il concetto di dittatura, introdotto da Marx e Engels, nel sistema della democrazia non ha, ugualmente, alcun senso. Ne acquista uno soltanto qualora la maggioranza venga dominata con la forza da una minoranza — come avviene nel bolscevismo russo — che però oltraggia ogni democrazia. L’immagine, collegata con questo concetto di dittatura, di una lotta contro la democrazia o addirittura di un suo superamento, è pertanto in sé contraddittoria, e tutta questa serie d’immagini va spiegata piú con i bisogni della lotta politica contro la borghesia che con quelli di una teoria non contraddittoria. 3) La stessa cosa vale per il concetto di rivoluzione proletaria, in particolare nell’immagine marxista — portata in primo piano dal bolscevismo — della rottura della macchina statale. Poiché, all’interno della democrazia, in fondo, per trasforPágina 101 mare l’ordinamento borghese in quello socialista, non c’è bisogno nemmeno di mutamento della costituzione, tanto meno quindi di una rivoluzione. La distinzione fra la transformazione rivoluzionaria e quella pacifica della società, una volta che si sia conquistata la democrazia, perde ogni importanza teorica. E la distruzione della macchina statale, a ben guardare, si palesa come la sostituzione di una forma statale meno democratica con una piú democratica. Anche in tal caso la terminologia rivoluzionaria non ha alcun valore teorico, ma è essenzialmente soltanto un adattamento all’agitazione e ai bisogni della lotta politica. Infine, 4), tutto ciò può essere reso visibile nel caso particolare della Comune di Parigi, di cui Marx e Engels stessi dicevano che era un esempio di dittatura del proletariato, e a proposito della quale va mostrato il fatto che, proprio nell’analisi che Marx fa delle sue istituzioni, esso significa soltanto una trasformazione nella direzione della democratizzazione della politica e dell’amministrazione. Se quindi la Comune è stata effetivamente una dittatura del proletariato, allora proprio essa ha dimostrato che è stata possibile solo in quanto forma di democrazia, basata sulla maggioranza del diritto elettorale universale. Ma tutta questa critica è legata, nel libro di Kelsen, ancora ad un’altra tendenza, che rende ancora piú difficile sbrogliare tutti gli spostamenti del punto di vista marxista che in essa hanno luogo; in particolare, essa è legata alla polemica, già citata, e che attraversa tutto il libro, contro ciò che Kelsen chiama la venatura anarchica della teoria marxista dello Stato. Ho volutamente trascurato, finora, l’esistenza di questo punto, e farò cosí anche in questo capitolo, per non accrescere ancora di piú la quantità dei punti di vista. Ma vi sarà occasione, in un capitolo successivo, di mostrare dettagliatamente quanto la concezione kelseniana sia ancora estranea al marxismo quando, nella teoria dell’«estinzione dello Stato» e della «abolizione dello Stato», scorge una forma di... anarchismo e, pertanto, nella lotta di principio contro l’anarchismo, da parte del marxismo, scorge soltanto un pezzo della sua contraddittorietà irrimediabile. Ora, per ritrovare, attraverso questa foresta di osservazioni critiche, la via spianata verso la reale concezione marxista del problema della democrazia e della dittatura, con cui coincide quello della rivoluzione, non possiamo evitare di cominciare anche noi con determinazioni concettuali e, innanzi tutto, non possiamo non interrogarci circa l’essenza del concetto di democrazia. E l’elemento decisivo che, innanzi tutto, in ciò va tenuto fermo è il fatto che questo concetto, dal nostro punto di vista — come si è già detto — è un concetto assolutarnente storico. Il concetto kelseniano di democrazia è invece un concetto altrettanto formale del suo concetto di Stato. Proprio come questo, esso può contenere il contenuto Página 102 piú diverso e gli scopi organizzativi piú vari. Suona quindi poi del tutto plausibile l’asserzione, secondo cui la disuguaglianza economica non costituisce alcun argomento contro la democrazia, poiché questa, in base alla sua forma, si riferisce solo all’uguaglianza dei diritti polici. Già a partire da qui si comprende che la democrazia è qualcosa di diverso a seconda se è qualcosa di diverso lo Stato, di cui essa è forma. Poiché in uno Stato in cui anche le funzioni economiche siano funzioni politiche — per usare la terminologia di Kelsen — l’uguaglianza dei diritti della democrazia significa qualcosa di completamente diverso che nello Stato odierno. Nascondere questa distinzione parlando di una cresccita della sfera politica dello Stato è un gioco di parole, per amore di un pricipio formale, che proprio in questo caso mostra la sua insuficienza. Uno Stato in cui l’economia venga inserita per principio nella sfera politica, è ancora, certo, una organinazione costrittiva proprio come quello in cui si verifica il contrario. Per il giurista ciò può essere indifferente, mentre dal punto di vista sociologico si producono le forti distinzioni dello Stato di diritto liberale, da una parte, dello Stato di polizia del mercantilismo e dello Stato socialista libero, dall’altra parte. Deriva immediatamente da ciò il fatto che l’inserimento degli scopi economici nella forma statale, in sé e per sé, non deve affatto portare necessariamente alla democrazia politica, come dimostra l’esempio dei mercantilisti. E si palesa, allo stesso tempo, che il concetto di democrazia è un concetto formale essenzialmente diverso da quello di Stato. Il concetto di Stato, in quanto tale, è un’astrazione ammissibile, poiché, con la forma dell’organizzazione constritiva, essa estrapola un connotato della vita sociale, che è stato sempre proprio di ogni forma dei legami sociali della produzione: si tratta di un punto che il marxismo, come avremo ancora occasione d’esporre, non contesta assolutamente, contrariamente a quanto crede Kelsen che spara le sue bordate piú temibili contro questo opinabile anarchismo della teoria marxista. Mentre dunque il concetto di uno Stato in generale è una rappresentazione lecita, non si può dire lo stesso di una democrazia in generale. Poiché essa non fa parte di una forma statale in generale, ma definisce sempre una forma statale già determinata, quindi, girà nella sua forma puramente concettuale conduce fuori dal semplice formalismo del concetto di Stato. Dobbiamo pertanto rifiutare di parlare di un concetto di democrazia in generale, e dobbiamo invece piuttosto riconoscere che il concetto di una democrazia in quanto tale, il concetto di una democrazia pura o perfetta, non è altro che l’idea di una forma statale sotto presupposti determinati, che vanno ancora stabiliti nella loro struttura economico-sociologica. Diverrà poi chiaro che l’idea della democrazia perfeta è soltanto l’anticipazione concettuale di una società senza classi. Página 103 Circa quest argomento mi sono già espresso una volta, in maniera dettagliata, nel mio scritto Democrazia e consigli operai [Nota 2]. E poiché Kelsen, nel suo libro, parla anche della discussione ivi svolta, mi sia concesso di ripetere anche sotto questo profilo le relative argomentazioni. Democrazia significa, letteralmente e in base al suo senso, dominio del popolo, autodeterminazione del popolo. Ora, nella società di classe, per quanto la constituzione possa essere ‘democratica’, una tale democrazia non è possibile, poiché nello Stato capitalistico manca il presupposto fondamentale di un dominio popolare, manca cioè l’unità del popolo. Nello Stato capitalistico non vi è ancora un’unità popolare, bensí solo una popolazione, che non rappresenta né un’unità economica, né un’unità culturale né una ideologica, bensí rappresenta piuttosto — in ognuna di queste direzioni — una disgregazione di classi, che è tenuta insieme solo dalla costrizione del dominio di classe. All’interno della piú radicale uguaglianza dei diritti politici la disuguaglianza economica costituisce contrapposizioni tali che non può non andar necessariamente smarrito ogni senso di democrazia, cioè della costituzione di una volontà popolare unitaria e generale. Rimane soltanto la constituzione di una maggioranza (Maiorisierung) piú o meno brutale. E ora bisogna prestare attenzione a questo fatto, per cui in questo problema della maggioranza si discopre la natura propria della democrazia. Il principio della maggioranza non è affatto, come tanti credono, il principio essenziale della democrazia. Poiché nella semplice maggioranza dei voti non si può ancora trovare un motivo giuridico vero e proprio per cui essa debba decidere. Al contrario, la maggioranza semplice conduce all’annullamento di ogni autodeterminazione del popolo, poiché violenta sempre la parte pili piccola attraverso quella piú grande. Se la democrazia, di fatto, non può fare a meno delle risoluzioni delta maggioranza — e le cose stanno eftetivamente cosí – il fondamento di ciò deve consistire in qualcos’altro che non nella semplice, grossolana superiorità numerica dei voti. L’effettivo principio vitale della democrazia — dico nel saggio già citato — Rousseau l’ha indicato in maniera geniale, ma è stato ancora poco apprezzato nel suo significato rivoluzionario. Non si tratta della volontà della maggioranza, bensí della volontà comune, della volontà generale. Secondo Rousseau, la votazione è soltanto il mezzo attraverso il quale la volontà comune dev’essere constatata. Coloro che sono stati meno votati devono piegarsi non perché sono in meno, non perché gli altri sono i piú forti, ma perché la votazione ha mostrato che essi sono in contraddizione con la volontà comune. E Rousseau può trarre Página 104 questa conseguenza, che al primo sguardo stupisce anzi appare forzata, perché prende le mosse dal presupposto, che certo era un’illusione, ma era l’illusione cosmico-storica della borghesia rivoluzionaria, secondo cui il suo dominio avrebbe significato l’effettiva liberazione del genere umano da tutti i contrasti di dominio e, pertanto, avrebbe fondato l’unità solidale del popolo. Non appena, in particolare, il popolo costituisce una comunità solidale, cioè non appena non vi siano piú opposizioni vitali nell’insieme del popolo, a partire dalle quali le votazioni si organizzano, le differenze del numero di voti non significano piú, effettivamente, una violazione di interessi vitali, bensí soltanto delle diversità d’opinioni, piú o meno neutrali, circa l’utilità e il carattere pressante delle decisioni proposte. La votazione diventa un semplice atto di amministrazione sociale o di conduzione d’affari. E, allo stesso modo in cui, in un’unione o in una società commerciale, coloro che sono in minoranza non si sentono violentati — nei limiti in cui la votazione non si riferisce allo scopo dell’insieme, il che corrisponde, nello Stato, agli interessi vitali, che non sono in discussione, di tutti i cittadini — poiché ciò che viene deciso, viene pur sempre voluto anche da essi, anche se essi lo avrebbero visto realizzato in maniera completamente diversa, cosí avviene pure in una comunità di popolo solidale. [Nota 3] Página 105 Il fatto che quest’unità dell’insieme del popolo, la solidarietà dei suoi interessi, costituisce il vero e proprio fondamento della democrazia, si palesa nel fatto che è caratteristico di tutti i propugnatori della idea democratica la tendenza a mantenere lo Stato in limiti misurati, per evitare una disuguglianza dei rapporti di vita, e nel fatto che essi combattono la ricchezza per dislocare, se possibile, tutti i cittadini in una uguale condizione media di benessere. Quando Montesquieu scorge nella virtù la tutela piú sicura della democrazia; quando Rousseau sottolinea sempre di nuovo il fatto che le leggi democratiche sono utili solo «se ognuno ha qualcosa e nessuno troppo poco», si vede già qui farsi strada il riconoscimento del fatto che il principio della democrazia non può non andare a parare in una lotta con le condizioni effetive della società borgese. Ed è questa, anche, la tragicità storica della democrazia nel mondo borghese: essa non può non essere guastata dai contrasti economici di classe, che derivano dalle sue condizioni di esistenza. L’idea della volontà comune — e questo è la democrazia — non ha alcuna possibilità di realizzarsi in una situazione sociale, in cui ogni votazione — proprio se avviene in forme effettivamente democratiche — non può non ricondurre alle contrapposizioni della volontà di classe. Ora, queste forme democratiche, sono espresse, nella maniera piú compiuta, nella rappresentanza popolare parlamentare che si fonda sul dititto di voto universale. E cosí vediamo che, sul terreno della società di classe, neanche la rappresentanza popolare piú democratica può mai condurre all’espressione di una volontà popolare unitaria. Nelle forme dell’antodeterminazione parlamentare del popolo si compie sempre soltanto un pezzo della lotta di classe: essa è sempre un’operazione di potere, una violenza di una classe contro l’altra classe, che, con la sua maggioranza, impone le leggi all’altra classe riluttante. Ora, ogni confusione circa il concetto di democrazia nasce dal fatto che — come appunto vediamo — questo concetto può essere realizzato solo in una società senza classi, ma tuttavia, già all’interno di una società di classe, non può non apparire ad ogni classe che in essa lotta preliminarmente per affermarsi, come la sua idea-guida, poiché, in base alla dialettica sociologica — già spesso indicata — della forma statale, nessun interesse particolare o di classe può pervenire al dominio nello Stato se non presentandosi come rappresentante di interessi generali. Ogni estensione dei diritti politici dei cittadini, ogni allargamento della capacità d’influenzare la formazione della volontà statale, pertanto, non poteva poi non apparire posta nella direzione dell’idea della democrazia, cioè non poteva non essere concepita come conquista democratica. Página 106 Deriva da ciò, per la trattazione sociologica, il fatto che la parola democrazia indica un concetto polisenso. Ed è possibile pervenire a intendersi su questo tema solo se ci si attiene a una terminologia fissa. Propongo dunque: poiché el concetto di democrazia si realizza solo in una società senza classi, vogliamo definire questa democrazia piena, la democrazia corrispondente al suo concetto, democrazia sociale; mentre definiamo tutte le altre forme, che altrimenti vengono definite democrazia, democrazia politica [Nota 4]. E poiché può facilmente accadere che nel flusso del discorso, una volta o l’altra, si tralasci l’aggettivo, va allora detto, una volta per tutte, che, quando si parla di democrazia all’interno di una società di classe, s’intende con ciò soltanto la democrazia politica, cioè la democrazia, che propriamente non è una democrazia e, pertanto, dev’essere superata, se si vuole la democrazia; e che, invece, quando si parla di democrazia all’interno di uno Stato non di classe, s’intende la democrazia sociale, cioè una democrazia che ancora non esiste, ma dev’essere conquistata, a sua volta, se si vuole la democrazia. Se si distinguono questi due significati della parola democrazia, allora si risolvono le apparenti contraddizioni delle parole di Marx ed Engels e non appare piú stupefacente il fatto che Engels, una volta, definisca la democrazia una chimera e, poi, dichiari che essa è la forma in cui il proletariato può pervenire al dominio, ovvero il fatto che Marx ironizzi sulla «superstizione democratica», che «nella repubblica democratica scorge il regno millenario» e, tuttavia, presenti la Comune, che tuttavia di fatto era una democrazia, come esempio di dittatura del proletariato [Nota 5]. Página 107 Ciò che Kelsen obbieta (pp. 124-8 [171-3]) a questa discussione del concetto di democrazia riferendosi esplicitamente al mio scritto Democrazia e consigli operai, non entra nel merito vero e proprio della determinazione concettuale e, quindi, ancora una volta, ignora il problema sociologo della democrazia. Ivi egli dice che la critica, secondo cui la forma statale democratica presupporrebbe un’unità sociale che non esiste e, pertanto, il principio della maggioranza significherebbe una meccanizzazione (io non ho parlato di meccanizzazione, bensí di una brutalizzazione) dell’organismo sociale, è una vecchia accusa dell’autocrazia e dell’aristocrazia. E l’unica cosa stupefacente sarebbe il fatto che la validità assoluta del principio di maggioranza venga ora messa in dubbio da una parte che, finora, aveva scorto il suo sostegno fondamentale proprio in questo principio. Solo che il vantaggio specifico del principio di maggioranza e, quindi, della democrazia, consisterebbe nel fatto che, con la massima semplicità dell’organizzazione, assicurerebbe la piú estesa integrazione politica della compagine statale (Staatsgesellschaft). Mentre la costruzione dello Stato sulla base di gruppi cointeressati non potrebbe non condurre, in primo luogo, a un immenso appesantimento degli apparati, impossibile per i rapporti moderni e, in secondo luogo, a una lotta continua fra di essi per il potere nello Stato. Senza dubbio, non è lecito sopravvalutare l’integrazione dello Stato messa in atto dal principio di maggioranza: Se vale per qualsiasi Stato, anche per la democrazia vale ciò che Nietzsche dice del ‘nuoyo idolo’ «Quello che ha nome Stato è il piú gelido dei mostri. E gelidamente mentisce e dalla sua bocca scaturisce questa menzogna: io, Stato, sono il popolo» [Nota 6] Página 108 Che la volontà dello Stato sia la volontà del popolo rimane, anche nell’organizzazione democratica dello Stato, una finzione, ma non perché la democrazia non sia in grado di esprimere la volontà vera del popolo, ma perché il fenomeno politico della volontà popolare, in generale, è al massimo grado problematico. La massa, in generale, non è capace d’iniziativa. Ciò che la volontà del popolo è, si decide, per lo pú, già prima di ogni pratica democratica, per mezzo di una pratica autocratica, in particolare, per mezzo della volontà del capo, che impone al popolo la sua volontà. Non è forse questo un modello esemplare di polemica che fallisce il suo bersaglio? Ma, insieme, essa è molto istruttiva, perché espone nella maniera piú chiara l’inadeguatezza metodologica del metodo giuridico-formale di Kelsen per criticare un punto di vista sociologico. Innanzi tutto, Kelsen sposta tutta la discussione, dall’esposizione critica del concetto di democrazia e dell’importanza della decisione della maggioranza, in quella della valutazione dell’utilità della pratica basata sulla maggioranza. Il nostro problema era entro quali limiti possa essere scorta proprio nel principio di maggioranza la forma di espressione della democrazia, e la risposta a questo problema ci ha condotto ad osservare che ciò, dal punto di vista concettuale, è possibile soltanto a patto che la votazione avvenga non fra interessi diversi, fra interessi vitali reciprocamente contrastanti, bensí piuttosto sulla base dell’armonia di questi interessi. Ma questa esposizione critica cade completamente al di fuori dell’interesse di Kelsen: e questo è ovvio, poiché il giurista bada solo alla forma della votazione; mentre non si deve curare del problema di chi abbia il diritto di votare e in quale modo, non si deve curare di tutte quelle circostanze che costituiscono il contenuto sociale di questa votazione, la distribuzione economica dei ruoli nella medesima, le dipendenze e le motivazioni che ne derivano. Ma il problema che noi avevamo posto era soltanto questo problema relativo alla funzione contenutistica del principio di maggioranza, un problema che produceva, come risposta, una differenza nella società fondata sul contrasto di classe e in quella senza classi, poiché nel primo caso la maggioranza significa dominio unilaterale, mentre nel secondo significa amministrazione comunitaria. Ma non abbiamo «messo in dubbio la validità assoluta del principio di maggioranza», di cui volevamo piuttosto esporre la giustezza di fronte alla scepsi dannosa e aristocratica («la ragione è stata sempre dei pochi»). Quanto Kelsen sia incapace, partendo dal suo punto di vista, d’immedesimarsi nel nostro, lo mostrano le sue altre obiezioni circa la «pesantezza» dell’applicazione del principio dell’uguaglianza dePágina 109 gli interessi nella democrazia. Egli ne fa un principio di costituzione dei gruppi sulla base d’interessi uguali nello... Stato odierno. Cioè, egli dimostra proprio ciò che la nostra critica della democrazia politica vuole appunto dimostrare: il fatto che, finché esistono nello Stato contrasti degli interessi vitali, non è possibile una democrazia. A coronamento di questa autocritica Kelsen cita la frase di Nietzsche, che potrebbe essere messa appunto come motto della teoria puramente giuridica dello Stato e del diritto, quando essa dimentica che la semplice forma del diritto e dello Stato, grazie alla sua universalità concettuale, ha sempre agito, nella storia, come l’espediente piú forte d’inganno sociale: autoinganno e menzogna. Ma, se il giurista dogmatico, che ha fiducia cieca nella lettera della legge, si fa il segno della croce di fronte all’affermazione che la pretesa dello Stato: «Io, Stato, sono il popolo», sia una bugia; e se il giurista critico ride maliziosamente della meraviglia del suo collega dogmatico, poiché è certo che a lui ‘non può succedere’, visto che il suo Stato non è una bugia, ma solo una forma in cui entra tutto, il sociologo marxista domanda invece: che razza di Stato è questo, che diviene un gelido mostro, perché lo Stato è una menzogna e perché non può fare a meno di esserlo? E quindi egli viene condotto alla struttura economica dello Stato, in cui le contraddizioni dell’ideologia dello Stato trovano la loro soluzione nei contrasti della realtà sociale: una nuova strada del pensiero, che conduce completamente fuori dal magico cerchio giuridico, dal quale, alla fine, cade fuori — piú che venir fuori — anche un pensatore acuto come Kelsen. Ché, alla fine della sua polemica, egli trova problematico «il fenomeno politico fondamentale della volontà popolare», dato che il popolo vuole soltanto ciò che il capo gl’impone. Quest’argomentazione non fa parte né del metodo giuridico né di quello sociologico. Ricava il suo contenuto da una visione psicologico-volgare, là dove è piú volgare. Perché, certamente, il fenomeno fondamentale della volontà popolare non è «massimamente problematico», bensí è un problema, ma non nella sua accezione popolare, bensí nel senso che nasce la questione di come sia possibile questo concetto di un’unità dei molti in un’unica volontà. Kelsen, nei suoi scritti di diritto statale, ha magistralmente mostrato come il concetto giuridico della volontà statale ha in comune con la categoria psicologico-individuale della volontà singolare soltanto il nome. Egli sembra credere che il concetto sociologico della volontà comune significhi soltanto la somma di volontà psicologiche singolari. Sotto questo profilo, basta rinviare al fatto che, dal nostro punto di vista, la volontà comune è una categoria sociologica, non psicologica, il cui carattere sociologico consiste appunto nell’unificazione delle singole sfere, la quale va al di là dei singoli. Solo cosí si realizza una volontà complessiva diversa da Página 110 ogni volontà singola; e questo processo di unificazione si fonda sul carattere social-apriori della coscienza. Ma, a prescindere da ciò, persino accettando la problematica kelseniana della volontà popolare, per il sociologo nasce la questione: da dove deriva, al ‘capo’, la materia di quella volontà, che egli impone alla ‘massa’, e com’è possibile che la ‘massa’ consenta che altri interpreti, e interpreti essa stessa, questi contenuti della volontà come volontà popolare? E a questo punto le immagini, massimamente indeterminate, di ‘capo’ e ‘massa’ si differenziano in immagini assai concrete di situazioni e interessi economici, e l’asserzione relativa alla massa priva d’iniziativa trapassa nella verità fondamentale della concezione materialistica della storia, secondo cui, appunto, non lo spirito, bensí l’interesse è la forza motrice della storia. Coincide con tutto il tralasciamento delle due diverse strutture sociali, che tutt’e due le volte hanno lo stesso nome di democrazia, il fatto che Kelsen, infine, affermi contro di me che è strano il fatto che il socialismo, che ha sempre strappato alla società di classe la maschera dell’universalità, alla fine tuttavia, nell’apologia dello Stato di classe proletario, si serve della stessa finzione e pone il proletariato come rappresentante di interessi comuni. Questa sarebbe l’assolutizzazione dogmatica dell’ideale politico di un determinato ordinamento sociale, anzi, sarebbe la finzione tipica di ogni regime aristocratico e autocratico, innanzi tutto della teocrazia (pp. 124-5 [171-2]). Di contro a ciò va innanzi tutto detto che il marxismo non ha mai detto altro, del proletariato e dello Stato di classe proletario, se non che esso rappresenta gli interessi di classe del proletariato; e che, pertanto, al marxismo non è mai capitato di usare la finzione, secondo cui la lotta di classe proletaria sarebbe una difesa di interessi generali. Se fosse cosí, non vi sarebbe anzi alcuna lotta. Il marxismo bensì insegna — e ne ha dato una fondazione dal punto di vista economico — che l’attuazione di questi interessi di classe va nella direzione che produce l’istituzione di una situazione sociale solidale. Non si tratta affatto di idealizzare o sublimare l’interesse di classe proletario se lo definiamo un interesse rivolto alla comunità e, pertanto, capace di stimolare la società, in contrapposizione all’interesse di classe borghese inteso come quell’interesse che mantiene la scissione della società e, quindi, come principio reazionario. Piuttosto è chiaro, per i marxisti, che tanto nell’uno quanto nell’altro caso si tratta dell’egoismo della classe. Ma la sua funzione sociologica è, nei due casi, totalmente diversa. Nessuno ha espresso ciò con parole piú chiare e imperiture di Ferdinand Lassalle. Nel suo Arbeiterprogramm egli dice: Fino a quando e nei limiti in cui le classi inferiori della società perseguono il miglioramento della loro situazione di classe, vanno verso Página 111 il suo superamento, fino ad allora e entro questi limiti questo interesse personale, anziché contrapporsi al movimento storico e, quindi, essere condannato all’immoralità, secondo la sua tendenza coincide piuttosto assolutamente con lo sviluppo di tutto il popolo, con la vittoria della idea, con i progressi della civiltà, con il principio vitale della storia stessa, che non è altro che lo sviluppo della libertà. [...] Loro, miei signori, si trovano pertanto nella felice situazione, invece d’essere insensibili all’idea, di poter essere piuttosto destinati — grazie al Loro interesse personale stesso — alla massima sensibilità per l’idea stessa. Loro si trovano nella felice situazione per cui ciò che costituisce il Loro vero interesse personale coincide con il battito palpitante della storia, con il principio motore vitale dello sviluppo etico. Loro possono pertanto dedicarsi allo sviluppo storico con passione personale ed essere certi di essere tanto pi ú morali quanto pi ú è infiammata ed ardente questa passione, nel suo significato puro, qui esposto [nota 7]. La composizione dell’interesse di classe proletario con l’interesse sociale comune, dunque, non è un’identificazione, bensí lo stabilirsi di una relazione, che acquista tutto il suo significato solo dallo sviluppo storico, cioè dal ruolo che questo sviluppo attribuisce al proletariato. Dove stia, in tutto ciò, la ‘finzione’ dell’ideologia aristocratica o, addirittura, teocratica, dove stia l’ ‘assolutizzazio ne’ di ideali politici, mi è semplicemente incomprensibile. O, per meglio dire: una tale opinione diviene súbito comprensibile non appena ci si ricordi del fatto che il giurista che usa un metodo formale non sa nulla e nulla può sapere dello sviluppo storico, della diversa valutazione (T axation) dell’egoismo di classe, della diversa posizione rispetto alla solidarietà dei membri della società. Per lui, per l’uomo del « diritto uguale per tutti », una classe è buona o cattiva quanto un’altra e tutte gli sono indifferenti, poiché nello ‘Stato’ non domina la classe, bensí l’organizzazione costrittiva. Un tale punto di vista, certo, non assolutizza ’ alcun ideale politico, ma assolutizza se stesso fino al punto in cui non sa dire piú nulla, ‘assolutamente’, circa l’effettiva costituzione e il destino dello Stato. Naturalmente, poi, l’unica forza sociale che può istituire una democrazia effettiva, la forza di classe del proletariato, non può non apparirgli come presa nella malia di una finzione Página 112 Capitolo decimo Democrazia e libertà In un altro saggio, apparso quasi contemporaneamente allo scritto su Socialismo e Stato, Kelsen si addentra maggiormente nel problema del principio di maggioranza della democrazia. Si tratta del saggio, assai ricco d’idee, Intorno alla natura e al valore della democrazia [nota 1], la cui considerazione sarà molto istruttiva anche sotto il nostro punto di vista, poiché in tal modo perveniamo a un nuovo lato del nostro problema, cioè alla questione di quale importanza sociologica abbiano le idee di libertà e uguaglianza. In questa trattazione Kelsen parte dalla constatazione che l’idea della democrazia contiene non solo il principio dell’uguaglianza dei cittadini, ben s, innanzi innanzi tutto, quello della loro libertà. Da questo punto di vista appare poi giustificato il principio di maggioranza, poiché garantisce l’unica possibilità sulla quale può essere assicurata perlomeno la libertà del maggior numero. « Soltanto se si muove dal concetto che — se non tutti — devono essere liberi almeno il maggior numero possibile di uomini, ossia dunque che il minor numero possibile di essi debbano trovarsi con la loro volontà in contrasto con la volontà dominante dell’ordinamento sociale — si può giungere per una via razionale al principio di maggioranza » [nota 2]. Muovendo da qui Kelsen trova — e questo è indiscutibile — che la democrazia, se viene costruita sulla libertà dell’individuo, conduce a una « differenza inevitabile » fra la volontà del singolo e l’ordinamento statale, che fa apparire ‘insalvabile’ questa libertà del singolo. Ciò conduce, nel corso dello sviluppo delle idee, a uno spostamento per quanto riguarda il soggetto della libertà. Al posto dell’individuo subentra l’insieme, il collettivo sociale, in cui l’individuo vive. Ora si tratta soltanto della libertà di questo insieme Página 113 e solo a partire da questo punto di vista scompare la contraddizione che, altrimenti, il principio di maggioranza rappresenta rispetto alla libertà del singolo. L’idea di democrazia è cosí pervenuta, da una posizione di partenza soggettivistica — quella della libertà dell’individuo — a un risultato finale oggettivistico: alla libertà dell’insieme. E questa contraddizione sarebbe caratteristica di Rousseau non meno che di Kant e di Fichte [nota 3]. Va innanzi tutto constatato che, in questa discussione, anche Kelsen perviene soltanto a dedurre il principio di maggioranza dalla libertà dell’intero. Il mio punto di vista della democrazia sociale coincide completamente con questa posizione. Pertanto, indico anche con soddisfazione il fatto che, in questa trattazione, Kelsen deve ammettere: « Non vi è dubbio che l’ideale della maggior possibile eguaglianza economica sia un ideale democratico. E, perciò, soltanto la socialdemocrazia è una perfetta democrazia » [nota 4]. Ma Kel sen, a causa del suo metodo formale s’accontenta d’aver trovato la democrazia ancorata nell’autodeterminazione della collettività sociale, senza domandarsi ancora di che genere debba essere una tale collettività sociale. La constatazione che non può essere una collettività fondata sul contrasto di classe, ma soltanto una solidale dal punto di vista economico, è una constatazione che non è possibile fare dal punto di vista giuridico, e la dannosa espressione dei giuristi: Quod non est in actis, non est in mundo”, vale anche per il mondo concettuale puramente giuridico di Kelsen. Quando pertanto Kelsen ritiene che il principio di maggioranza sia essenziale per la democrazia fino al punto che essa « per la sua natura, non solo presuppone concettualmente un’opposizione — la minoranza — ma la riconosce anche politicamente » [nota 5], questa conseguenza mostra già la pericolosità e la deficienza del suo metodo formale. Poiché questa affermazione ha come presupposto una collettività sociale in generale, senza pensare insieme la struttura economica particolare. Poiché, ove una tale struttura economica non sia piú fondata sul contrasto di classe, certo, nelle votazioni, può esserci ancora un’opposizione, ma, dal punto di vista concettuale, essa non va piú presupposta come necessaria. E, d’altra parte, nel caso in cui sussista tale contrasto di classe, anche la maggioranza democratica ’, « secondo la sua piú intima natura », non ha affatto riconosciuto politicamente la minoranza, bensí utilizza piuttosto la sua maggioranza per dominare questa minoranza. Questo lo vedremo ancora piú chiaramente nel capitolo su La dittatura. Ora si palesa, ancora una volta, il fatto che ogni tentativo di determinare Página 114 l’essenza della democrazia a prescindere dalla sua funzione sociologica come autodeterminazione di una collettività solidale, va a parare nelle contraddizioni che Kelsen vuole evitare. Per ritornare ora alla discussione kelseniana del fatto che la democrazia emerge dal concetto di libertà, non posso non concordare assolutamente con Kelsen sul fatto che il cosiddetto concetto di libertà individuale è insalvabile e, se viene mantenuto, la democrazia diviene priva di senso. Kelsen crede di aver portato avanti, con ciò, qualcosa di grave contro il marxismo, poiché anzi egli conduce tutto il suo libro — come è stato piú volte osservato — a parare in ciò: a scoprire una tendenza anarchica, rivolta verso la libertà dell’individuo, in Marx e Engels, nel loro rifiuto dello Stato, tendenza anarchica che rappresenterebbe una stridente contraddizione fra la teoria economica del marxismo e la sua dottrina politica. Ma di ciò si dovrà ancora parlare. Qui, però, va detto che anche noi rifiutiamo la libertà dell’individuo come punto di partenza non solo nella discussione della democrazia, ma in quella di ogni fenomeno sociale, ma non perché essa conduca a una differenza insuperabile fra trattazione individuale e trattazione sociale, bensí perché essa non è un concetto teoricamente sostenibile. Il punto di vista della libertà individuale è una componente tipica di una ideologia di classe, dell’ideologia borghese, che tanto sotto il profilo politico quanto sotto quello sociologico e, infine, pertanto anche sotto quello filosofico, è rimasta attaccata alla facciata esterna del fenomeno sociale della libertà. Come lo Stato si presentava alla coscienza borghese soltanto come un prodotto della volontà, di modo che valeva la pena di far diventare dominante in esso la propria volontà, cosí, anche dal punto di vista filosofico, la coscienza singola e la volontà singola acquistò una posizione centrale nella riflessione, e la ricerca sulla natura e le leggi dell’intelletto umano dominò completamente, a partire dal XVII secolo, l’interesse filosofico dell’epoca. In questa teoria della autonomia delle leggi e della libertà dello spirito umano si compiva la proclamazione dell’indipendenza spirituale della borghesia prima della sua indipendenza politica. Ma, giustamente e in maniera molto acuta, Kelsen ha mostrato come il punto di vista della libertà individuale, alla fine, conduce alla contraddizione, per cui l’individuo tuttavia deve mantenersi vincolato al suo voto, se non si deve cadere nell’anarchia, e dunque attraverso l’uso della libertà si rende non libero. Ma questa contraddizione sussiste appunto soltanto dal punto di vista della libertà individuale, che, come ci ha mostrato Kelsen, dovrebbe essere svincolato da quello della libertà collettiva. Ammesso pure: ma che ne è poi della libertà individuale? L’elemento essenziale non sta in questo svincolamento, attraPágina 115 verso il quale si perviene a un rigido dualismo fra una Weltanschauung individualistica e una collettivistica, che anche Kelsen sembra seguire e che, alla fine, farebbe insabbiare ogni discussione di problemi sociali nella disputa irrisolvibile di queste ultime opposizioni — secondo la massima triviale, qui elevata però a veduta fondamentale: “I gusti non si discutono ” [nota 6].Un tale relatiPágina 116 vismo, che mette in discussione la scienza della vita sociale, non va semplicemente rifiutato, ma addirittura neanche esiste. Naturalmente questo si ricava solo da quella concezione critico-gnoseo logica del trascendentalismo kantiano, in cui — e su questo da anni mi sono inutilmente sforzato di richiamare l’attenzione — anche l’elemento sociale appare soltanto come un lato a priori della nostra coscienza in generale. Solo in tal modo la critica della ragion pura acquista tutto il suo significato rivoluzionario, che abbraccia cioè anche la scienza sociale, e Kant diviene il punto conclusivo della vecchia e il punto iniziale della nuova filosofia [nota 7], colui che porta a compimento il pensiero individualistico e dà inizio a quello collettivistico. Si produce quindi sùbito, come elemento essenziale per il nostro tema, quanto segue: il concetto di libertà individuale diviene contraddittorio politicamente innanzi tutto perché è un non senso, perché dal punto di vista dell’individuo in generale non è possibile alcun concetto di libertà, e ciò che cosí si indica è soltanto assenza di limiti, o, per meglio dire, possibilità di porsi al di là dei limiti. Giustamente si è richiamata l’attenzione sul fatto che questa libertà, propriamente, è un elemento negativo, un esser liberi da qualche cosa. Va invece osservato — e questo finora è stato sempre tralasciato, come del resto è stata popolarizzata, anzi volgarizzata la teoria kantiana della libertà dell’autodeterminazione della volontà — il fatto che il concetto di libertà, in generale, non è Página 117 un concetto individuale, bensí un concetto collettivo, poiché con il concetto di autodeterminazione della volontà non si pensa affatto la volontà psicologica singola, bensí il processo della volontà in generale, che, in ogni volontà singola, appare necessariamente riferito a una molteplicità indeterminata di soggetti di volontà, allo stesso modo in cui il processo del pensiero, nella coscienza singola, appare sempre riferito a una tale molteplicità di soggetti di pensiero. Il soggetto psicologico della volontà — esattamente come il soggetto psicologico del pensiero — è una semplice forma di manifestazione. La libertà individuale, in quanto libertà del singolo, in quanto sentimento atomistico, è un’apparenza paralogistica, un autoinganno inevitabile dell’individuo. Il concetto di libertà contiene, necessariamente, la sottomissione della volontà semplicemente sotto la sua legge, e questo, nella coscienza singola, non può apparire altrimenti che come sottomissione della medesima ad una norma, che, secondo la sua possibilità concettuale, non può piú essere individuale, ma, andando al di là dell’individuo, inserisce quest’ultimo, in maniera non contraddittoria, nel sistema di una molteplicità indeterminata di soggetti di volontà individuali. Ciò che Kelsen presenta come mutamento di significato della democrazia, questo spostamento del soggetto della libertà dal lato individuale a quello collettivo, è, in fondo, la confluenza di due concezioni politiche fondamentali del tutto diverse, in particolare, del liberalismo e della democrazia. Abitualmente si ritengono queste due tendenze identiche o tuttavia molto affini, soprattutto, storicamente, si sono presentate spesso unite nella lotta contro l’assolutismo e il feudalesimo e, per lo pii, si sono presentate indistinte anche per la coscienza dei partiti in lotta. Ma proprio per questo è doppiamente necessario chiarirsi il fatto che fra liberalismo e democrazia sussistono delle distinzioni profonde, anzi di principio, che hanno fatto degli odierni teorici neoliberali addirittura degli aspri avversari della democrazia. Solo sulla base di una chiara distinzione di ciò che appartiene al ragionamento liberale e di ciò che appartiene a quello democratico si produce un’immagine chiara della natura della democrazia e scompaiono le contraddizioni che le vengono attribuite cosí come, in particolare, la scorretta valutazione dei pensatori — come Rousseau, Kant e Fichte — legati alla creazione di idee democratiche, che, quindi, non oscillano piú in uno strano conflitto fra individualismo e collettivismo. La libertà, e invero quella individuale, è la stella polare del liberalismo; l’uguaglianza, invece, quella della democrazia. La prima idea riconduce la società al singolo, la seconda, invece, pone il singolo accanto a una molteplicità indeterminata di altri, con cui Página 118 sta in rapporto come uguale fra uguali. Anche l’idea democratica contiene il principio della libertà, ma non quella del singolo, bensí quella dell’insieme, nella cui libertà anche al singolo tocca la sua parte uguale. A partire da qui si produce già il significato completamente diverso della libertà e il suo significato, per cos í dire, subordinato, all’interno della democrazia, di contro alla sua posizione centrale nel liberalismo. Questo fondamentale rapporto fra liberalismo e democrazia è stato esposto, in maniera decisiva, in verità senza trattare esplicitamente con questo nome questo tema, ma elaborando tuttavia chiaramente la contrapposizione obbiet tiva, da G. Jellinek, nel suo scritto, conciso ma ricco di contenuto, sui diritti dell’uomo e del cittadino in Francia [nota 8]. Qui viene prodotta, da un punto di vista di storia delle idee, la dimostrazione del fatto che i diritti dell’uomo e del cittadino, in Francia, derivano da una concezione dello Stato e della società completamente diversa da quella del contratto sociale di Rousseau, con cui abitualmente li si mette in rapporto, anzi che quest’ultima è assolutamente ostile all’idea dei diritti dell’uomo, cioè all’immagine di diritti che spetterebbero all’individuo indipendentemente dallo Stato e addirittura contro di esso [nota 9]. L’idea di diritti di libertà inalienabili, di cui l’individuo conserverebbe qualcosa, per cos í dire, anche dopo il contratto sociale, in nome dei quali assumere un atteggiamento ostile verso lo Stato, verso la comunità, è una componente del pensiero liberale, non del pensiero democratico. I diritti fondamentali dell’individuo precedono, nel liberalismo, i diritti statali della comunità, anzi, in tal modo, lo Stato appare. nropriamente, soltanto come il prodotto dell’accordo comune e libero di tutti. « Danprima è stato istituito il diritto del creatore dello Stato, cioè dell’individuo inizialmente libero e illimitato: poi, meno della creazione degli individui, quello della comunità » [nota 10]. Nello stesso senso, ma in maniera niú pungente, a causa della sua dura posizione polemica contro la democrazia e a favore della monarchia liberale, Wilhelm Hasbach ha espresso l’opposizione delle due tendenze e la posizione di Rousseau ostile al liberalismo E, con analoga avversione nei confronti della democrazia, ma appoggiandosi specificamente a un’opposizione — per altro verso molto gradita e degna di riconoscimento — contro gli eccessi del patriottismo ’, che, mettendosi al servizio della politica di guerra, si presentava come affermazione di un « senso comunitario » puro, Leopold von Wiese Página 119 aveva nuovamente compiuto — già durante la guerra — la distinzione critica fra Locke e Rousseau, fra liberalismo e democrazia [nota 12]. Ricordiamoci ora della distinzione che abbiamo fatto fra demo, crazia politica e sociale, in base a cui solo la seconda è in grado di fondare una comunità reale perché solidale. t quindi senz’altro chiaro che il liberalismo non può non essere diverso dalla democrazia, non può anzi non esserle avverso, già per il fatto che esso non ha, in generale, l’idea di una comunità. Esso conosce soltanto azioni singole, che scorrono l’una accanto all’altra o l’una contro l’altra, dal cui libero gioco esso spera che nasca alla fine un’armonia. Ma non ha troppa fiducia nel suo proprio gioco. Ché, infine, è proprio esso a produrre l’idea dello Stato come difesa comunitaria di tutti. Del tutto al contrario di quanto abitualmente si crede, dunque, il liberalismo, in fondo, crede nello Stato. Poiché per esso lo Stato non si fonda su una vita propria della comunità, cioè, poiché esso prende le mosse non dalla socializzazione dell’individuo, bensí dall’isolamento del medesimo, da una parte, in verità, non riconosce alcun potere sovraordinato rispetto all’individuo, ma, d’altra parte, non può immaginarsi la convivenza di questi individui in altro modo che attraverso un dominio che li tiene insieme, e il cui potere esso vuol sapere limitato a ciò che è assolutamente necessario. Il liberale, pertanto, propriamente, in fondo all’anima è colui che crede nell’autorità, è un sostegno dell’ordinamento, in breve, è un elemento che ‘mantiene lo Stato’; mentre, al contrario, il democratico della volontà comune, che non conosce limiti di alcun genere — neanche, come diceva Rousseau, quelli del contratto sociale — non ha alcun timore reverenziale di fronte allo Stato e all’ordinamento, ma scorge il potere ultimo e l’unica legge nei bisogni della volontà generale del popolo. È per questo motivo che già Kant e, in particolare, Fichte, non hanno avuto molta tenerezza per lo Stato Positivo, per lo « Stato della necessità », cui contrapponevano lo Stato di ragione, anzi, com’è noto, Fichte è giunto fino alla veduta per cui lo scopo di ogni governo sarebbe di rendersi superfluo, in quanto al posto dello Stato governerebbe la legge etica. È paradossale, ma corrisponde tuttavia al rapporto reale, sia dal punto di vista della storia delle idee sia dal punto di vista di classe, il fatto che, esaminandole pii nel dettaglio, le rappresentazioni correnti del rapporto del liberalismo e della democrazia con lo Stato si rovesciano completamente: il primo afferma lo Stato in quanto organizzazione di dominio, poiché esso è anzi l’ideologia della classe dominante, che vuole conservare la proPágina 120 prietà; la seconda nega invece lo Stato in quanto macchina per il dominio fino al limite dell’anarchismo, poiché essa vuol appunto abolire questo dominio e vuol fondare al suo posto la solidarietà della comunità. L’affinità con l’anarchismo, rimproverata al marxismo cosí spesso e presentata come tanto contraddittoria, da parte di Kelsen — affinità di cui dovremo ancora parlare dettagliatamente —, acquista così sin da ora un aspetto meno contraddittorio, come del resto già ora possiamo intuire che la negazione dello Stato, da parte dell’anarchismo, potrebbe avere ancora un altro significato che non quello che abitualmente gli viene attribuito [nota 13]. Si ottiene dunque, cosí, che la componente egualitaria della democrazia non è affatto necessario che stia in contraddizione con la sua componente libertaria, a patto che tanto la libertà quanto l’uguaglianza siano sottratte alla sfera del liberalismo, cioè alla concezione individualistica e siano inserite nella sfera, ad esse propria, della socializzazione dell’esistenza umana, la cui espressione politica è la democrazia sociale. Solo da questo punto di vista libertà e uguaglianza diventano ciò che nel liberalismo non sono, cioè attributi complementari. Adesso esse non indicano piú tanto condizioni del singolo, quanto piuttosto lati della socializzazione stessa e divengono propriamente soltanto espressioni diverse per indicare una trattazione diversa della stessa cosa, cioè appunto della socializzazione. Nei limiti in cui, sulla base di ciò essa viene considerata qual è, al livello della configurazione solidale del suo ordinamento, grazie alle volontà concordi dei suoi membri, questi si presentano come liberi: per quanto rigorosa possa essere la regolamentazione della loro vita; e nei limiti in cui, d’altra parte, quest’ordinamento della vita viene riconosciuto soltanto come un’emanazione della socializzazione solidale, che i sinPágina 121 goli costruiscono grazie a una funzione di lavoro umano uguale, essi si presentano come uguali, per quanto possano essere diverse le loro funzioni all’interno della società. Per questo, già nella Sacra famiglia, Marx definiva acutamente l’uguaglianza soltanto come un modo « francese, cioè politico » di esprimere « l’unità essenziale degli uomini, la coscienza generica (Gattungsbewusstsein) ed il comportamento generico dell’uomo, l’identità pratica dell’uomo con l’uomo, cioè la relazione sociale o umana dell’uomo con l’uomo » [nota 14]. Questo punto di vista della socializzazione, a partire dal quale soltanto può essere superata la contrapposizione fra liberalismo e democrazia, è identico al punto di vista sociologico del marxismo, che non può evitare di trattare Stato ed economia non piú dal punto di vista dell’individuo, bensí soltanto da quello dell’insieme sociale, in cui si sviluppano, o, per meglio dire: di cui sono funzioni. E questo insieme non è un superorganismo mistico, ma sono i singoli uomini stessi, ma in quanto nature socializzate, cioè come nature che, già nel loro pensiero, non possono immaginarsi alcuna cosa senza riferirla a una molteplicità indeterminata di altre nature dello stesso genere. E da questo rapporto critico-gnoseologico del concetto di libertà con l’insieme sociale, quindi anche con la democrazia, si ricava anche che Kelsen a torto rimprovera alla filosofia critica, dopo Kant e Fichte, la contraddizione — di cui sarebbe rimasta inconsapevole — per cui sarebbe pervenuta, da una posizione di partenza soggettivistica, a un risultato finale oggettivistico. Questo rimprovero si fonda piuttosto su un fraintendimento di fondo del carattere critico-gnoseologico della filo sofia classica tedesca, che Kelsen, insieme con molti altri considera evidentemente — si confronti la sua annotazione a p. 54 [96] [nota 15] – come una filosofia soggettivistica. Deve invece finalmente diffondersi l’interpretazione piú corretta, secondo cui la filosofia classica tedesca prende le mosse bensí dal soggetto della conoscenza, ma soltanto per eliminare radicalmente e per sempre l’apparenza soggettivistica della sua coscienza. Essa scorge tuttavia il suo compito principale nel mettere in evidenza la legalità della coscienza in generale, che essa naturalmente può trovare e mettere in evidenza solo là dove è presente, cioè nel soggetto singolo. Ma, quanto piú le riesce questa operazione del mettere in evidenza (Herausarbeitung), tanto piú l’individuo s’immerge nella legalità della vita spirituale in generale. Nei miei studi sulla storia culturale del socialismo ho accennato per questo anche al fatto Página 122 che, essenzialmente, la filosofia classica tedesca — e, in verità, già nella sua parte logica, e non quindi soltanto nella critica della ragion pratica — è una filosofia della coscienza sociale, per cui, per usare la terminologia di Kelsen — già il suo punto di partenza è oggettivistico ’6. E, in questo senso, appartiene alla stessa tendenza anche Rousseau, di cui ho comunque indicato il fatto che la sua idea del contratto sociale vuole rendere intuibile non il momento soggettivistico della conclusione del patto, bensí quello collettivistico del legame generale della volontà singola [nota 17]. In tal modo, qui, la contrapposizione fra liberalismo e democrazia si mostra, da ultimo, vincolata da un punto di vista critico-gnoseologico. La democrazia, in questa accezione di un’autodeterminazione dell’insieme sociale, presuppone però che questo insieme sia tale di fatto e non soltanto fittiziamente. Cioè, poiché l’insieme sociale non può esistere altrimenti che nell’insuperabile relazione reciproca delle coscienze delle sue parti, cioè dei singoli uomini, allora la coscienza dell’insieme deve anche poter riempire tutte le sue parti in questa relazione reciproca. Esse devono potersi trovare unite da questa relazione anche nei loro scopi e nei loro interessi vitali, e non separate e contrapposte. Poiché una compagine costituita da parti consapevoli non può altrimenti costituire un intero. Se non si verifica questo, questa compagine può essere un insieme tutt’al pi ti per un’altra trattazione, per una trattazione che la colga dall’esterno, sotto determinati punti di vista, esterni rispetto alle parti, ma non può essere un insieme per se stesso. Una tale coscienza uguale in tutti i singoli membri della società è possibile soltanto se vi è un’uguaglianza degli interessi vitali che si riferiscono all’ordinamento di questo insieme. Solo questa struttura economica della vita sociale, in cui tutte le questioni della lotta vitale degli individui, che oggi costituiscono il fondamento vero e proprio della formazione della maggioranza, sono per cosí dire un senso comune sociale (ein gesellschaftliches Adiaphoron), un’ovvietà, di cui non si parla, poiché sono in anticipo ugualmente ordinate per tutti, crea quel milieu ideologico, in cui, poi, le decisioni della maggioranza non vengono più sentite, da quelli che sono in minoranza, come una limitazione della libertà. Certo, anche nella democrazia sociale ci saranno opinioni diverse e partiti contrapposti. Ma, pur con tutta la passionalità di tali divisioni partitiche, la minoranza non considererà il suo soggiacere come una sottomissione a un atto di dominio, come altrimenti avviene dapPágina 123 pertutto nella democrazia politica, ma come una misura amministrativa, certo non auspicata, ma, tuttavia, in fondo spontaneamente voluta, poiché la norma della decisione della maggioranza, anzi, è soltanto, addirittura, una disposizione di utilità relativa al modo di condurre delle vicende, in cui, già prima di ogni votazione, è garantita la salvaguardia, per principio, di tutti gl’interessi personali fondamentali. In tal modo, anche questa discussione del problema della democrazia, in cui abbiamo tenuto presente il suo rapporto con l’idea di libertà, riconduce al medesimo risultato e rafforza ulteriormente ciò che abbiamo ottenuto già all’inizio di questa ricerca: il fatto che il concetto di democrazia, in quanto concetto formale, che si adatta a tutte le forme di società, non è in generale possibile, e il fatto che esso è, invece, l’anticipazione ideologica di una situazione sociale determinata, che ancora non esiste: l’anticipazione della condizione di una società solidale; e, infine, il fatto che è da qui che deriva il doppio significato della parola democrazia. Perché nel corso dello sviluppo sociale si collega, di volta in volta, con la lotta di una classe per istituire una maggiore solidarietà sociale (cioè, per superare la sua oppressione economica e politica), appunto quest’idea della democrazia, con la sua aspirazione e tendenza politica, che definisce quindi se stessa come lotta per la democrazia, anche se questa aspirazione e tendenza politica, in base alla sua struttura economica, non può affatto realizzare questa democrazia. Sta qui la radice dell’affinità fra democrazia e rivoluzione, era qui il fondamento della fusione storica di liberalismo e democrazia, ma, innanzi tutto, si fonda qui la necessità del collegamento concettuale fra democrazia e socialismo, poiché solo il secondo può realizzare la prima. Ma per questo si è presentata la necessità di distinguere concettualmente, in forma definitiva, queste due forme storiche di manifestazione della democrazia, celate dall’unico nome di democrazia e di distinguerla, anche terminologicamente, come democrazia politica e sociale, se si vuol pervenire, infine, intorno a questo tema, dalla disputa peggiore a un’effettiva comprensione reciproca. Cesseranno poi anche le lamentele sulle cosiddette contraddizioni del marxismo, per lo meno per quanto riguarda questo capitolo. Página 124 Capitolo undicesimo Rivoluzione o evoluzione? Siamo ora in grado, sulla base della comprensione acquisita circa la natura della democrazia e evitando l’ambivalenza di questa parola, di passare ai concetti di dittatura e rivoluzione, malamente assunti insieme dalla critica kelseniana. Contemporaneamente ci sarà offerta anche l’occasione di tentare di ovviare a un’altra confusione delle interpretazioni, largamente diffusa anche al di fuori di questa critica, facendo ricorso al punto di vista sociologico del marxismo. E la discussione dettagliata dei capitoli precedenti circa il senso dei concetti marxisti di Stato, classe, partito e democrazia consentirà di essere qui piú brevi. Perché, in fondo, in queste esposizioni è contenuto già tutto l’essenziale anche circa questi due temi, discussi in maniera tanto infuocata sia dalla teoria sia dalla politica. La questione specifica, di cui in questo caso ci dobbiamo occu pare all’interno della critica kelseniana, è quella se il concetto dello sviluppo rivoluzionario dallo Stato borghese a quello proletario ha ancora in generale un senso, quando si sia constatato che Marx e Engels si rappresentavano questo processo come un processo che scorre all’interno delle forme della democrazia, quindi partendo dal presupposto che il proletariato rappresenti la stragrande maggioranza della popolazione. Secondo Kelsen, vi è qui una grande contraddizione fra la dottrina politica del marxismo e la sua teoria economica. Quest’ultima sarebbe senza dubbio evoluzionistica: farebbe emergere il potere del proletariato dal suo sviluppo economico fino a farlo diventare la classe pii forte della società. Ma, poi, — presupposta la condizione della democrazia politica — sarebbe inutile l’applicazione della violenza. Marx stesso, come dimostra il suo discorso di Amsterdam del 1872, non avrebbe escluso, negli Stati parlamentari, uno sviluppo pacifico verso il socialismo. E, di fatto, dovrebbe essere considerata come una delle poche esperienze sicure della storia il fatto che, in verità, Página 125 l’introduzione della democrazia esige per lo piú la violenza, mentre poi il proseguimento del suo sviluppo in una costruzione organica si compirebbe con i suoi propri mezzi, cioè pacificamente (pp. 28 e 92 [63 e 141]). Lo sviluppo verso la democrazia parlamentare — posto che esista il diritto universale di voto — è soltanto una questione di tempo. Una volta che il proletariato abbia la maggioranza in parlamento, non vi è poi neanche bisogno — per trasformare lo Stato capitalistico in quello proletario — di un cambiamento della costituzione, bensí di semplici leggi economiche. Che cosa significano ancora, allora, i concetti di dittatura del proletariato ’ e di ’ rivoluzione ’? Non è un semplice gioco di parole parlare di un annullamento dello Stato da parte della dittatura proletaria, ove di fatto si ha soltanto una trasformazione dello Stato compiuta dal proletariato divenuto maggioranza democratica (p. 32)? Si vede, di fatto, che le parole dittatura, rivoluzione e abolizione dello Stato rappresentano soltanto una fraseologia rivoluzionaria mantenuta per motivi di agitazione politica, parole che, qualora vengano ricondotte al significato della teoria economica del marxismo, possono essere interpretate in maniera semplicemente evoluzionistica oppure divengono del tutto prive di significato (p. 97). Anche in questo caso, tutta questa critica mantiene la sua apparenza di giustificazione solo nei limiti in cui permane nel modo di pensare del tutto formale del suo autore. Ancora una volta, non vi è affatto una critica immanente del marxismo, bensí una critica tale in cui i suoi concetti non vengono mai presi nella loro pienezza storico-sociale, ma, per cosí dire, come gusci in cui può essere versato qualsiasi contenuto. È indicativa di ciò già la veduta di Kelsen — che del resto appare giustamente strana e fa stupore certamente tanto allo storico quanto al politico — secondo cui la democrazia ha bisogno di mezzi rivoluzionari si per essere necessariamente introdotta, ma non per essere estesa e formata (p. 92). Naturalmente, per i giuristi questa estensione consiste soltanto in quella ottenuta attraverso le leggi — decise dai parlamenti — sull’allargamento del diritto elettorale, del diritto di coalizione ecc. Il fatto che ognuna di tali riforme parlamentari sia stata preceduta dalle lotte di classe piú violente nello Stato stesso, da dimostrazioni di massa delle masse popolari private dei diritti, fors’anche da scioperi e da lotte nelle strade, finché la maggioranza nelle strade ha costretto la maggioranza nel parlamento « a costruire con uno sviluppo organico » la democrazia: tutto ciò, naturalmente, cade al di fuori della trattazione giuridica di tutto questo processo di sviluppo. Per questo punto di vista, pertanto, anche il diritto universale di voto è la forma in cui la democrazia deve pervenire alla sua piena espressione, poiché il giurista può solo contare i voti, ma non li può ponderare. Per il giurista, la Página 126 funzione del diritto universale di voto si esaurisce con il fatto che esso è il mezzo per portare alla luce la volontà del popolo in quanto volontà della maggioranza, se è effettivamente ‘universale’ e ‘uguale’. Marx e Engels, invece, hanno sempre messo in rilievo il fatto che il diritto universale di voto può essere la forma politica per gli scopi diversi, a seconda della diversa struttura sociale di un paese -e del rispecchiamento ideologico della medesima in un certo periodo. Cosí, Napoleone III con l’aiuto del diritto universale di voto diede il colpo di grazia alla repubblica e, all’interno delle sue forme, istituí il dominio della grande borghesia; cosí, per Bismarck il diritto universale di voto era solo uno strumento nella lotta contro il liberalismo borghese e, in Austria, un mezzo per rafforzare il potere dinastico statale contro il separatismo delle nazionalità. E, nelle sue lettere per la « New York Tribune », Marx una volta (nel 1855) espone nel suo modo brillante la differenza che la richiesta del diritto universale di voto aveva in Francia e in Inghilterra. In Inghilterra — egli dice — non vi è alcun dubbio sul significato del diritto universale di voto, né sul suo nome. E la charte delle classi popolari e significa appropriazione del potere politico come mezzo per la realizzazione dei loro bisogni. Il diritto universale di voto — che in Francia, nel 1848, veniva inteso come parola risolutiva dell’affratellamento generale — viene inteso pertanto, in Inghilterra, come una parola di combattimento. Là il contenuto immediato della rivoluzione era il diritto universale di voto; qui il contenuto immediato del diritto universale di voto è la rivoluzione [nota 1]. A ciò non si può obbiettare, come fa Kelsen, che il dato di fatto dell’abuso non democratico del diritto universale di voto non dimostra nulla contro la sua capacità di essere un puro mezzo di espressione della democrazia. Certo, ammette Kelsen, l’indifferenza politica di grandi masse popolari, la loro dipendenza economica, le limitazioni che derivano dalla tecnica della suddivisione delle circoscrizioni elettorali e della pratica elettorale, ecc. offuscano il risultato del diritto universale di voto. Ma, nel senso della teoria di Marx e Engels si può trattare soltanto di liberare la democrazia — magari anche con la forza — da queste ristrettezze e di trasformarla, per mezzo della generalizzazione dei diritti politici e della garanzia di una piena libertà politica, in una democrazia reale, pura, che quindi assicura spontaneamente alla maggioranza del popolo — al proletariato — il dominio (p. 101 1149]). Página 127 Questa obiezione è il modello piú puro di un modo di pensare da giurista; esso scorge le limitazioni della democrazia soltanto nella carenza delle disposizioni di legge sul diritto elettorale e delle ordinanze di attuazione a ciò relative. Il fatto che queste ‘limitazioni’ si radichino però nel potere di classe dei gruppi sociali nello Stato, potere di classe che fa giocare la sua influenza all’interno delle forme giuridiche aventi validità, il fatto che dunque queste limitazioni non possono essere superate legalmente, ma solo conferendo un contrappeso a questo potere di classe attraverso fatti extragiuridici: tutto ciò cade all’esterno di questa trattazione. Fa parte dei meriti teorici di Lenin l’aver nuovamente indirizzato l’attenzione a quel lato del modo di pensare marxista, in cui il suo concetto fondamentale — secondo cui lo Stato, finché è costruito sulla base dell’opposizione di classe, rimane, anche nella forma democratica, una macchina oppressiva — è pervenuto grazie a Marx stesso a un’espressione acuta, fin troppo spesso trascurata anche da parte marxista. Già nel 18 Brumaio Marx ha mostrato che tutti i progressi della forma statale, dal feudalesimo, attraverso lo Stato assolutistico, la monarchia legittimistica e costituzionale, fino alla repubblica parlamentare, non potevano non condurre ad altro che a fare del potere statale uno strumento di dominio piú conveniente per la classe o per i gruppi di classi di volta in volta dominanti. « Tutti i rivolgimenti politici non fecero che perfezionare questa macchina, invece di spezzarla ». I progressi della democrazia erano ugualmente soltanto mutamenti di ruolo nella lotta dei partiti borghesi, lotta nella quale « il possesso di questo enorme edificio dello Stato » fu considerato « come il bottino principale del vincitore » [nota 2]. E ciò che qui scriveva il giovane’ Marx, lo confermava il Marx ’ maturo ’, quando, ne La guerra civile in Francia, dice: « Dopo ogni rivoluzione che segnava un passo avanti nella lotta di classe, il carattere puramente repressivo del potere dello Stato risultava in modo sempre piú evidente » [nota 3]. Leone Trockij, nel suo scritto Terrorismo e comunismo, ha riassunto molto bene tutto ciò che a un modo di pensare puramente giuridico non può non apparire come ‘limitazione’ della democrazia, che non avrebbe nulla a che fare con la sua ‘natura’, e da cui però si vede subito che appartiene alla natura della situazione sociale capitalistica e può essere mutato solo mutando questa. Trockij dice: Il borghese capitalista fa questo calcolo: “Fino a quando ho in mano le terre, le fabbriche, le officine, le banche; fino a quando possiedo i giornali, le università, le scuole; fino a quando — e questo è Página 128 ciò che piú conta — conservo il controllo dell’esercito, l’apparato della democrazia, comunque venga ricostruito, rimarrà obbediente alla mia volontà. Subordino spiritualmente ai miei interessi la piccola borghesia stupida, conservatrice, priva di carattere, proprio come la domino materialmente. [...] Per quando è insoddisfatta e protesta, ho creato una gran quantità di valvole di sicurezza e di parafulmini. Al momento giusto farò nascere partiti d’opposizione, che spariranno domani, ma che oggi offrono alla piccola borghesia la possibilità di esprimere la sua indignazione senza alcun pericolo per il capitalismo. Manterrò le masse del popolo, col pretesto dell’educazione generale obbligatoria, sull’orlo della completa ignoranza, non offrendo loro nessuna opportunità di superare quel livello che i miei esperti di schiavitú spirituale considerano sicuro. Corromperò, ingannerò, e terrorizzerò gli elementi piú privilegiati o i piú arretrati del proletariato stesso. Impedirò cosí che l’avanguardia della classe operaia raggiunga le orecchie della maggioranza della classe operaia, e, d’altra parte, gli strumenti necessari della supremazia e del terrorismo rimarranno in mano mia ” [nota 4]. Noi rifiutiamo, invero, come si è già detto, la teoria bolscevica della dittatura dell’ ‘avanguardia’, ma solo nel senso per cui l’energia rivoluzionaria di una cosiddetta élite operaia deve sostituire la maturità economica necessaria per il dominio della classe operaia. Ma, se si prescinde da ciò, la trasformazione della democrazia borghese in quella proletaria non sarà certamente soltanto un problema aritmetico di maggioranza. Si tratta soltanto di vedere se il proletariato, con il suo numero relativo e con la sua organizzazione, è cresciuto fino a diventare la classe decisiva nello Stato. Allora agiscono le ‘limitazioni’ della democrazia, in particolare, i mezzi per influenzare e intimidire le parti incerte del popolo secondo il suo disegno e la trasformazione dei rapporti sussistenti si compie sicuramente attraverso la pressione di una classe che non ha affatto bisogno della maggioranza numerica, poiché ha in mano il potere di fatto. La questione, discussa tanto e in maniera appassionata, se la dittatura è una dittatura della maggioranza o della minoranza, è quindi posta in maniera del tutto falsa, perché ci si rappresenta la maggioranza soltanto in forma parlamentare. Se noi, senza dubbio, possiamo interpretare la dittatura del proletariato — con Marx e Engels — soltanto come espressione di una maggioranza del popolo, con ciò non s’intende affatto soltanto la semplice espressione numerica, ciò che giustamente una volta Friedrich Adler ha chiamato la casualità dell’aritmetica; s’intende invece che il proletariato — e questo, comunque, nella ’sua interezza, o, tuttavia, nella sua immensa maggioranza — è divenuto, grazie alla sua importanza e alla sua forza organizzata, il Página 129 rappresentante di tutti gli strati sociali d’opposizione della società borghese e, nel momento della sua azione rivoluzionaria, li trascina con sé. Ma questo non è poi un processo di democrazia parlamentare, questo è un evento rivoluzionario. E, sotto questo profilo, vorrei citare ancora una circostanza, che, naturalmente, non costituisce comunque un problema per la questione dubbia del giurista (come si possa parlare, all’interno della democrazia, ancora di rivoluzione), mentre costituisce un problema per la questione dubbia del sociologo. Attraverso di essa diviene anche pili chiaro ciò che va mantenuto del rimprovero, secondo cui Marx ed Engels si sarebbero semplicemente serviti di una fraseologia rivoluzionaria per un contenuto evoluzionistico. Questa circostanza è il cosiddetto rapporto fra coscienza democratica e coscienza della legalità. Secondo questa concezione la democrazia cura da sé il suo male. Il suo fondamento è, anzi, la legge creata per mezzo della volontà popolare, il terreno del diritto, che viene continuamente costruito per mezzo di nuovo diritto. I difensori di queste interpretazioni esigono pertanto anche dal prole. tariato che esso riveda le sue idee « oscure », ‘immature’ e semplicemente ‘propagandistiche’ circa un rovesciamento rivoluzionario della società e che si ponga, infine, sul terreno della trasformazione legale come unico terreno che vada scientificamente difeso. Va invece detto che questa rappresentazione della legalità dello sviluppo storico fa parte delle illusioni piú rozze dell’ideologia borghese dello Stato, che, dimentica della sua propria origine, deve dedicarsi a un culto della legalità, che non è altro che un’autodifesa della classe dominante. Tanto pii è necessario procurarsi al riguardo concetti chiari e non far cadere il proletariato in questo puro spirito di classe della legalità. Poiché esistono oggi abbastanza stimoli in questa direzione per il fatto che il proletariato, difendendo le sue conquiste politiche e sindacali, dopo la rivoluzione del 1918, contro la reazione monarchica o d’altro genere, è diventato quasi l’unico difensore della democrazia politica e della sua forma moderna, la repubblica democratica. Ma il carattere rivoluzionario del proletariato, in senso sociologico, consiste appunto in ciò, nel fatto che esso deve formare la sua opposizione sociale rispetto alla democrazia politica, anche nel suo svincolamento intellettuale dall’ideologia di essa, contrapponendo al semplice principio della persistenza nella legalità la coscienza della necessità di una nuova creazione dell’insieme sociale. Dopo il fallimento della rivoluzione del 1848 Marx scriveva già, sulla « Neue Rheinische Zeitung »: « Non l’abbiamo mai nascosto. Il nostro terreno non è il terreno del diritto, è il terreno rivoluzionario » [nota 5]. E, nel suo discorso di difesa di as Página 130 sise, di fronte ai giurati di Colonia, egli ripete che « giustamente » è considerato, insieme con i suoi compagni di fede politica, « nemico del terreno giuridico », ma contemporaneamente fa notare come questo sia stato vero per ogni classe che tenda all’affermazione e, non da ultimo, anche per la borghesia che ora si spaccia come sostenitrice del terreno giuridico: Ma, miei Signori, che cosa intendono per affermazione del terreno giuridico? L’affermazione di leggi che appartengono ad un’epoca sociale passata, che sono state fatte da rappresentanti di interessi sociali scomparsi o in declino, che quindi innalzano a livello di legge solo questi interessi entrati in contraddizione con i bisogni generali. Ma la società non ,si fonda sulla legge. Ciò è una presunzione giuridica. La legge deve piuttosto fondarsi sulla società, dev’essere l’espressione dei suoi interessi e bisogni comuni, risultanti ogni volta dal modo di produzione materiale, contro l’arbitrio del singolo individuo [nota 6]. E, ancora trentasei anni più tardi, nella Prefazione al discorso di difesa, Engels scriveva che esso è importante anche per il nostro tempo perché preserva « il punto di vista rivoluzionario rispetto al legalismo ipocrita del governo ». « Il fatto di esigere da un partito che esso debba sentirsi legato non solo di fatto, ma anche moralmente, dal cosiddetto ordinamento giuridico esistente; che esso debba promettere in anticipo che, qualsiasi cosa accada, non ha intenzione di rovesciare questa situazione giuridica, da esso combattuta, anche qualora esso sia in grado di farlo », ciò non significherebbe altro che esso partito « debba obbligarsi a mantenere in vita per l’eternità l’ordinamento politico sussistente ». Il piccolo borghese tedesco, certo, non ha mai fatto una rivoluzione, ma l’ha solo patita. « La richiesta del piccolo borghese tedesco, rivolta al partito socialdemocratico tedesco, ha dunque soltanto il significato che questo partito [...] non deve assolutamente collaborare a fare le rivoluzioni, ma le deve patire tutte » [nota 7]. Certo, a chi abbia presente solo il lato formale della democrazia, la continuità della situazione giuridica non può non apparirgli — in un certo senso — come la sua essenza, situazione giuridica che tanto più la garantisce quanto più è evoluta: l’inclinazione alla lealtà (loyale Gesinnung), pertanto, appare come la virtù specifica dei democratici. Va evitata soltanto ogni azione non parlamentare, che urti contro la santità dei diritti democratici fondamentali. Ma già il giovane Engels sapeva dire, intorno a questa santità, una parola che neanche oggi dovrebbe essere dimenticata dal proletariato. Egli difendeva energicamente l’« illegalità » dei cartisti e diceva: Página 131 Cogliamo l’occasione per dire due parole sul modo in cui si rispetta la santità della legge in Inghilterra. È vero, per il borghese la legge è sacra, poiché è opera sua, emanata con il suo consenso per sua protezione e vantaggio. Egli sa che, se anche una singola legge può danneggiare la sua persona specifica, tuttavia l’intero complesso della legislazione protegge i suoi interessi, e sa soprattutto che la santità della legge, la intangibilità dell’ordine [...] è il sostegno più valido della sua posizione sociale. Nella legge, allo stesso modo che nel proprio dio, il borghese inglese ritrova se stesso, per questo la ritiene sacra, e per gusto il bastone del poliziotto, che in fondo è il suo bastone, ha su di lui un potere calmante di efficacia mirabile. Per l’operaio invece le cose si presentano in maniera molto diversa. Egli sa anche troppo bene ed ha sperimentato anche troppo di frequente come la legge sia per lui una sferza fabbricata dal borghese e, se proprio non vi è costretto, non se ne cura [nota 8]. A ragione, dunque, nel capitolo (molto considerevole) sulla Democrazia, nel suo libro già citato, Trockij ha accennato al pericolo notevole che deriva, da questa tendenza psicologica della democrazia alla lealtà, per l’inclinazione di classe del proletariato. Lo Stato borghese-democratico, in verità, favorisce certo lo sviluppo della classe lavoratrice, ma « pone anche dei limiti a questo sviluppo con la legalità borghese, che accumula e inculca abilmente negli strati superiori del proletariato delle abitudini borghesi e dei pregiudizi legalitari » [nota 9]. Vediamo dunque, già prima di un’indagine più ravvicinata sul concetto di rivoluzione, che un’inclinazione rivoluzionaria non solo è possibile anche all’interno della democrazia, ma ha un significato molto positivo. Essa non è altro che l’aspirazione ad eliminare quei ‘limiti’, che anche Kelsen vuol sapere eliminati per la realizzazione della democrazia ‘pura’. Ma essa collega a ciò, allo stesso tempo, la comprensione del fatto che questa eliminazione è possibile solo contemporaneamente al rovesciamento di tutto il sistema sociale esistente, di cui quelle ‘limitazioni della democrazia’ appaiono come singoli lati, poiché, appunto, una democrazia libera da contraddizioni interne è possibile non come democrazia politica, ma solo come democrazia sociale. Che cosa significa dunque rivoluzione in senso marxista? Innanzi tutto, ancora una volta, un concetto storico: non è una contrapposizione di una rivoluzione in quanto tale a una evoluzione in quanto tale, bensí è la conoscenza — determinata da un certo livello di sviluppo delle forze produttive all’interno della forma capitalistica dei rapporti di produzione e stimolata dall’interesse di Página 132 classe del proletariato — di un nuovo compito sociale, legato alla volontà, nata in maniera altrettanto necessaria, di portare a termine questo compito, in particolare, di fare della presa di possesso sociale dei mezzi di produzione (e non della proprietà privata di essi) la base dell’ordinamento sociale. Il concetto di rivoluzione, nel marxismo, è identico a quello di rivoluzione sociale e in una parola sola significa: abolizione dell’opposizione di classe come fine, dominio del proletariato come mezzo per raggiungere questo fine. Nel caso che, al di là di questo concetto storico di rivoluzione, se ne cerchi ancora uno generale, questo può essere soltanto: volontà sociale di trasformazione sulla base di una conoscenza teoretica rovesciante. Nel marxismo, anche il concetto sociologico di rivoluzione non è affatto un concetto ‘semplicemente’’ economico, ma si perfeziona — come tutti i concetti del marxismo — come concetto sociale, cui appartiene dunque sempre la sua sovrastruttura ideologica, grazie alla quale soltanto esso diviene un concetto sociologico. E, entro questi limiti, nonostante sia redatta in forma idealistica, la nota definizione di Lassalle circa la distinzione fra rivoluzione e riforma va pur sempre definita classica: Rivoluzione significa rovesciamento e, quindi, si è avuta sempre una rivoluzione quando al posto della situazione esistente si è insediato, non importa se con la violenza o meno — in questo non si tratta affatto dei mezzi — un principio completamente nuovo. La riforma, invece, ha solo quando il principio della situazione esistente viene mantenuto e viene soltanto sviluppato nella direzione di esiti più miti o più coerenti e più giusti. Ancora una volta, neanche in questo caso si tratta di mezzi. Una riforma può realizzarsi attraverso insurrezioni e spargi‘i mento di sangue e una rivoluzione, invece, nella maniera più pacifica [nota 10]. Página 133 Se dunque non è affatto necessario, per la rivoluzione, che essa si sviluppi ‘in maniera violenta’, non è neanche affatto contrario al suo concetto — e questo è decisivo rispetto a Kelsen — il fatto che essa si compia ‘legalmente’. In sé e per sé, è pensabile che questo dominio del proletariato possa venire istituito assolutamente senza lottare grazie a una risoluzione parlamentare di maggioranza. Ma questo può interessare, in quanto lato essenziale di questo processo, tutt’al più i giuristi; per quanto riguarda l’importanza sociologica della rivoluzione, proprio tale questione — se è possibile istituire ‘pacificamente’ o ‘in maniera violenta’ il domiPágina 134 nio del proletariato — è del tutto secondaria. Poiché l’elemento essenziale consiste soltanto nel fatto che, con questo dominio del proletariato, subentra un cambiamento fondamentale nella funzione sociale del dominio, una rottura con il carattere che aveva avuto finora. Poiché è un dominio non piú finalizzato alla conservazione del potere di una classe e al mantenimento della struttura di classe dello Stato, bensí all’abbattimento di ogni potere di classe in generale, quindi anche di quello proprio, attraverso la trasformazione della vita fondata sullo Stato di classe in una vita fondata sull’assenza di classi, nella quale persino il dominio perda il suo carattere di oppressione. Nei verbali delle sedute del parlamento, qualora la rivoluzione sociale si compia in forma democratica, tutto questo può forse essere andato avanti senza una rottura rivoluzionaria della costituzione; si ha, per esempio, una maggioranza qualificata, che ha superato la proprietà privata, finora garantita dalla costituzione, nella forma di una risoluzione ‘legale ’. Ma ciò che al giurista, nelle sue formule, appare come ‘continuità’ dello Stato di diritto, dal punto di vista sociologico è il piú gigantesco mutamento della struttura economica dello Stato, di modo che ‘lo Stato’, prima e dopo, non è piú la stessa cosa. Rivoluzione sociale, per i marxisti, non significa necessariamente né rottura del diritto né utilizzazione della violenza in generale, bensí la trasposizione, consapevole del fine, della società in un nuovo ordinamento economico, che si è già preformato nel suo seno. Proprio Marx e En gels ci hanno insegnato a comprendere e hanno esposto per la prima volta nel Manifesto comunista, in modo lapidario, come all’interno della forma giuridica immutata siano possibili le più forti rivoluzioni sociali grazie allo sviluppo economico [nota 11]. Per noi, appunto, la rivoluzione non è, innanzi tutto, né un concetto giuridico, né un concetto politico, bensí sociologico, e si riferisce al mutamento nella disposizione della coscienza e della volontà rispetto alla struttura sociale dello Stato. Lo spostamento che avviene nella funzione sociale delle singole classi — uno spostamento ottenuto grazie al continuo della struttura sociale stessa — fa sí che, alla fine, ambedue le classi, sia la dominante sia la dominata, possano stare nell’organismo sociale solo dando luogo a contraddizioni: la prima, sempre meno capace di dominare lo Stato effettivamente nel proprio interesse e di garantire il godimento indisturbato del dominio — la guerra mondiale e, ancor piú, la ‘pace’ che ne è seguita sono una testimonianza non pi ú tralasciabile di ciò —; la seconda, sempre Página 135 piú limitata, nelle sue richieste di avanzamento, dalla società, quanto piú questa società diviene, in maniera del tutto chiara, la sua società, la società dei lavoratori. La rivoluzione, quindi, è soltanto il consapevole adattamento della forma esterna della società alla sua nuova struttura interna: certo, una rottura con il vecchio, ma non necessariamente una rottura del diritto, bensí piuttosto una rottura con le vecchie istituzioni e tradizioni, con la vecchia concezione borghese della società, con lo spirito dello Stato di classe, con tutta l’ideologia delle classi prima dominanti. Ciò che caratterizza dunque il concetto di rivoluzione, e per cui esso si distingue dalla semplice riforma, è il fatto che esso rompe l’identità dei fondamenti economici della società, il fatto che esso non è necessariamente una rottura della costituzione statale, ma è sempre una rottura della costituzione economica della società; il fatto che esso, come scriveva il giovane Marx, « non lascia restare in piedi i pilastri della casa », come facevano tutte le rivoluzioni semplicemente politiche poiché non attaccavano la proprietà privata dei mezzi di produzione e, quindi, non abolivano l’opposizione di classe stessa. Questo concetto sociologico di rivoluzione, ben lungi dall’essere non pensato (gedankenlos) o non scientifico, è addirittura un concetto precisamente nel senso di Kelsen, a patto che la sua idea di rivoluzione venga trasportata dal campo giuridico in quello sociologico. Nel suo libro da poco apparso e che fa bensí epoca nel campo della costruzione logica di una teoria del diritto — libro su cui dovrò ritornare sotto un altro aspetto — Kelsen illustra acutamente il concetto giuridico di rivoluzione affermando che il criterio decisivo non è se il mutamento è piú o meno profondo nello Stato, bensí se questo mutamento è stato prodotto costituzionalmente oppure attraverso una rottura della costituzione. Sarebbe per esempio immaginabile che una monarchia trapassi in una repubblica attraverso una risoluzione costituzionale, cioè attraverso una sanzione della risoluzione parlamentare da parte del monarca. Ciò non sarebbe una rivoluzione; lo sarebbe invece una proclamazione della repubblica per esempio attraverso un pronunciamento unilaterale del parlamento [nota 12]. Prescindiamo dal fatto che anche qui, ancora una volta, si palesa quanto la maniera di pensare puramente giuridica sia vuota, anzi priva di significato e, da ultimo, addirittura erronea, per quanto riguarda la comprensione quanto, in base a questo concetto, le trasformazioni piú esternamente possono essere ‘costituzionali’, perdono il loro mentre delle violazioni della costituzione, che, in sé, possono la marcia dello sviluppo sociale, vengono promosse dei processi sociali, in forti della società, che carattere rivoluzionario, essere insignificanti per Página 136 al rango di eventi ‘rivoluzionari’. Ma è certo che ciò che essenzialmente viene pensato nell’idea di rivoluzione, la rottura con l’identità dell’antico, il superamento della continuità, da un punto di vista giuridico è possibile soltanto grazie a una rottura costituzionale, che, appunto, fa succedere ad una forma giuridica un’altra forma, che non deriva da essa. Lo stesso succede nel caso della rivoluzione sociale: la costituzione della società, cui essa tende, non è un cambiamento della vecchia, bensí un’altra costituzione. Dal punto di vista della proprietà privata dei mezzi di produzione e della cura individuale dell’economia — per quanto questo punto di vista possa aver sperimentato delle limitazioni — non vi è alcun passaggio che conduca a quello della proprietà comune dei mezzi di produzione e della cura sociale dell’economia. Proprio il fatto che quelle ‘limitazioni’ valgono sempre come tali mostra lo iato delle concezioni, che, a partire da qui, realizza tutta l’ideologia economica, politica e culturale. Ma a questo punto emerge una nuova obiezione. Si dirà, e Kelsen anzi ha pensato questo, che il concetto sociologico di rivoluzione proprio ora si mostra contraddittorio, poiché, invero, nella rottura dell’ordinamento giuridico, il nuovo ordinamento non avrebbe alcun rapporto con il vecchio; ma la nuova costituzione sociale, proprio secondo le teorie di Marx e Engels, si sviluppa tuttavia sempre proprio dalla vecchia. È la vecchia disputa sul rapporto fra rivoluzione e evoluzione, che ai tempi del revisionismo di Bernstein ha prodotto un errore, che non è stato ancora superato. Un’opposizione fra evoluzione e rivoluzione, in rapporto al processo sociale, può essere assunta solo da chi colga i rapporti e le potenze economiche — che, secondo la concezione materialistica della storia, determinano in ultima istanza lo sviluppo storico — in quella maniera ‘materialistica’, de-spiritualizzata (geistfrei) e insulsa (geistlos), che abbiamo già in piú modi respinto. Se non si dimentica la frase di Marx: « Nella mia teoria l’elemento ideale è l’elemento materiale trasposto nella testa dell’uomo », allora si sa — e non lo si dimentica piú — che non esiste causazione economica, che non si compia in pari tempo nella testa dell’uomo. Il continuo cambiamento dei rapporti economici attraverso lo sviluppo del modo di produzione capitalistico si compie dunque soltanto grazie alla sua infinita trasposizione nelle teste degli uomini: cioè crea dapprima nella testa dei proletari la coscienza della loro situazione economica, poi la conoscenza dei mezzi per porvi rimedio e, infine, la volontà d’agire. Solo l’azione, però, crea il rimedio, solo l’azione produce il mutamento dei rapporti economici, crea il loro nuovo ordinamento. Certo, il marxismo ha sempre insegnato: « Una formazione sociale non perisce finché non si siano Página 137 sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza » [nota 13]. Ma ciò naturalmente non significa che queste nuove condizioni materiali di esistenza siano già la nuova società stessa. I critici dotti della concezione materialistica della storia ci attribuiscono sempre un tale « autonomismo dell’economia ». Al contrario, proprio riferendosi a questa preparazione ‘evolutiva’ della nuova società Marx descrive in maniera molto precisa e che non può dar adito a fraintendimenti la ‘missione storica’ della classe operaia, che deriva da questa evoluzione: « La classe operaia non ha da realizzare degli ideali, ma da liberare gli elementi della nuova società, di cui è gravida la vecchia e cadente società borghese » [nota 14]. Ecco che cos’è la rivoluzione: la liberazione degli elementi di un nuovo ordinamento. L’accenno al mutamento evolutivo dei fondamenti economici della rivoluzione, che fa parte dell’essenza del marxismo, non è dunque una contraddizione, ma non è altro che la determinazione sociologica della rivoluzione, il suo inserimento nella causalità sociale, che naturalmente è un continuum. Chi definisce ciò una contraddizione fra un contenuto evoluzionistico e una terminologia rivoluzionaria, in fondo non ha una chiara immagine del fatto che ogni nascita del nuovo — anche nell’àmbito dell’evoluzione biologica, quindi — considerata dal lato causale, riconduce al continuum delle sue condizioni. La rappresentazione secondo cui nuovi generi della serie della evoluzione biologica nascono attraverso un mutamento e un adattamento graduali, è riconosciuta già oggi come un fraintendimento dei fondamenti del darwinismo. Né la selezione artificiale né quella naturale può produrre qualcosa di nuovo, ma può solo valorizzare e mantenere il nuovo che si sia presentato spontaneamente e improvvisamente. L’evoluzione organica, pertanto, in generale è possibile solo grazie a una serie di rivoluzioni organiche continuate (mutazioni), ognuna delle quali rappresenta una rottura con il vecchio e l’inizio di un elemento nuovo. Si mostra cosí che rivoluzione e evoluzione,- in generale, non sono opposti; poiché la seconda si riferisce al rapporto causale dei cambiamenti, la prima al genere dei medesimi. Opposti sono semplicemente rivoluzione e riforma (variazione), in quanto la prima indica un cambiamento in seguito a una rottura con la situazione precedente, la seconda indica il cambiamento all’interno di questa situazione [nota 15]. Página 138 Una tale rottura con il vecchio è rappresentata dalla rivoluzione proletaria, che pone, al posto del dominio della borghesia e dei suoi principi di economia privata, il dominio del proletariato e dei suoi principi e delle sue istituzioni socio-economiche. Ma il giurista Kelsen si arresta all’apparenza formale: egli trova che prima vi era lo Stato borghese, adesso ve n’è ancora uno, solo che è proletario. Egli trova dunque degno di nota il fatto che qui Marx e Engels parlino di rivoluzione, là dove invece la continuità della democrazia porta a termine la transizione dallo Stato capitalistico a quello proletario (p. 30 [66]). Visto che Marx tiene fondamentalmente ferma la teoria dello Stato di classe proletario, che sarà sostituito, dalla rivoluzione sociale, al posto dello Stato di classe capitalistico, non si capisce facilmente perché egli polemizzi in modo cos í deciso contro la rappresentazione secondo cui, con la rivoluzione sociale, avrebbe luogo semplicemente un cambiamento del partito dominante nello Stato. Egli afferma che lo Stato dev’essere annullato. Ma, tuttavia, soltanto per essere riconosciuto in quanto Stato, e, invero, di nuovo in quanto Stato di classe! Non si tratta poi soltanto di una polemica su una parola, su una immagine intuitiva, se si parla di un ‘annullamento’ dello Stato di classe capitalistico, o di una ‘trasformazione’ del medesimo? (p. 32 [68]). Basta soltanto confrontare queste frasi con il contenuto concettuale della teoria marxista della società e dello Stato per toccare con mano, in maniera particolarmente drastica, l’incapacità assoluta del punto di vista giuridico-formale di porsi, sia pure soltanto per un istante, sul terreno di quella teoria, che esso vuol criticare. Basta il fatto che il dominio capitalistico e quello proletario fondino ambedue uno ‘Stato’, e, nell’essenza, non dovrebbe essere cambiato nulla! Il fatto che lo Stato proletario ha una funzione completamente diversa da quella dello Stato borghese; il fatto che, innanzi tutto, in quest’ultimo il carattere di classe è destinato a durare — ché anzi l’essenza di quest’ordinamento statale consiste appunto nel mantenerlo —, mentre, al contrario, nello Stato proletario il carattere di classe è soltanto il mezzo per abbattere il contrasto di classe stesso: tutto questo rimane fuori del campo visivo degli occhi del giurista, ciechi di fronte alla realtà della vita sociale. Per questo, anche per quanto riguarda l’esigenza marxiana di distruggere la macchina statale — esigenza che Marx definisce una necessità incondizionata della conquista proletaria del dominio Kelsen non sa cominciare in altro modo se non scorgendo anche in essa soltanto una contraddizione rispetto alla teoria evolutiva e una concessione ai bisogni della propaganda radicale. Con questa immagine della distruzione della macchina statale, dice Kelsen, si Página 139 può solo intendere che al posto di un determinato ordinamento statale ne viene posto un altro, oppure che al posto dei precedenti organi statali vengono impiegati uomini nuovi, oppure anche che vengono costituite funzioni statali del tutto nuove. In ogni caso la rottura della macchina statale si riduce comunque a un cambiamento della forma statale o degli organi statali o ad ambedue le cose (pp. 32-3 [68-9]). Ma il marxismo non s’interessa proprio di ciò cui il giurista, trionfante, assegna valore: del fatto, cioè, che anche dopo la rottura della macchina statale esiste ancora una forma statale. Questo è importante soltanto per Kelsen, perché egli identifica il concetto di Stato di Marx, che indica sempre uno Stato storico, con il suo Stato formale, che comprende tutte le possibili forme statali, e ora crede seriamente di dover dimostrare che, dopo l’annullamento o la distruzione dello Stato (Marx pensa di quello capitalistico), rimane ancora uno Stato (Kelsen pensa quello proletario). Naturalmente questa è poi una ‘vittoria’ del punto di vista giuridico su quello marxista, tanto piti facile quanto è una disputa del tutto vana, questa volta una vera e propria disputa sulle parole. L’essenziale di questa rappresentazione, fondamentalmente importante, della rottura della macchina statale, che Lenin ha meritevolmente risospinto al centro dell’attenzione della trattazione, mostrando che non era un’osservazione semplicemente casuale di Marx, bensí una concezione che si riaffacciava sempre, a partire da Il 18 brumaio, l’essenziale di questo concetto, dunque, sta appunto nella visibilizzazione della rottura con il vecchio, dell’annientamento del precedente contenuto economico e politico dello Stato, che la rivoluzione sociale dovrebbe compiere. L’istituzione dello Stato dei proletari, quindi, non significa soltanto il dominio di un nuovo partito nel milieu sociale rimasto per il resto immutato, bensí l’abolizione delle vecchie condizioni sociali di vita e l’introduzione di nuove condizioni da parte della classe in ascesa. Riguardo a questa rottura, in generale, vale ciò che Marx diceva della Comune di Parigi, che egli apprezzava come un primo esempio di questa rottura (si tratta di un brano citato anche da Kelsen senza essere effettivamente valutato): Il suo vero segreto fu questo: che essa fu essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto della lotta della classe dei produttori contro la classe degli accaparratori, la forma politica finalmente scoperta nella quale si poteva compiere l’emancipazione del lavoro [nota 16] Ma, naturalmente, se in questa frase si tralascia l’essenziale, cioè la forma nuova del lavoro sociale e, con aria trionfante, ci si accon Página 140 tenta soltanto del fatto che anche qui si parla di un ‘governo’ e di una forma ‘politica’, quindi di forme statali in generale, allora si raccolgono i concetti marxisti in un vaso così malfermo che non ne rimane nulla. Per questo anche tutta la critica penetrante che Kelsen dedica alla questione se la Comune di Parigi era effettivamente, nel senso di Marx e Engels, un primo esempio di una tale distruzione della macchina statale, non può non andare a insabbiarsi in dispute bizantine le pii ingannevoli. È quasi tragicomico vedere come qui la critica giuridica scorra sempre a lato del contenuto oggettivo dell’esposizione marxista e si lanci su ogni parola da cui può ricavare — ciò che il marxismo non ha mai pensato di contestare che anche la Comune era un’organizzazione costrittiva. L’abolizione dell’esercito professionale sarebbe non un superamento della forza militare, ma, essendo stato sostituito « con il popolo in armi », sarebbe solo la sua trasposizione in un’altra forma. Al posto del diritto di voto fondato sui privilegi sarebbe subentrato il diritto universale di voto: ancora una volta, una forma dello Stato « non distrutto ». E la sostituzione dell’istituto parlamentare con un istituto « che lavora », non significherebbe, come pensa Marx, l’annientamento del parlamentarismo, bensí la sua trasformazione in una forma che si approssima alla democrazia diretta, in quanto unisce alla legislazione anche il potere esecutivo. Un corpo rappresentativo « cessa forse di essere un parlamento (Parlament) — in tedesco, una Volksvertretung [rappresentanza popolare] — qualora gli spettino, accanto alla legislazione, anche funzioni esecutive, in particolare la scelta degli uomini cui è affidato l’esecutivo? » [p. 71], domanda Kelsen, facendo immediatamente, del fenomeno storico della Comune, la categoria giuridica di « una istituzione che lavora » in generale. Naturalmente. Naturalmente, quando si trasformi concettualmente una istituzione che legifera soltanto in una che allo stesso tempo amministra anche, ‘il’ parlamentarismo non cessa; ma nella trasformazione storica, di cui parla Marx e di cui in generale tratta la teoria marxiana, in tal modo cessa il parlamentarismo borghese, cioè cessa il fatto che la rappresentanza popolare ’ è al servizio degli interessi di dominio di una classe, che vuole il mantenimento dello sfruttamento economico e, quindi, dell’opposizione di classe, e viene sostituita con un istituto rappresentativo, che vuole proprio il contrario. Ha dunque un suo significato reale il fatto di non indicare due cose cosí diverse — diverse assolutamente come i due concetti di democrazia — con il medesimo nome. E quando Lenin a un certo punto dice di non potersi invero immaginare una democrazia senza corpo rappresentativo, ma di potersela bensí immaginare senza parlamentarismo, ha torto Kelsen nello scorgere in ciò « un rePágina 141 stringimento, non autorizzato, del concetto di parlamentarismo » (p. 35 [71]). Questa distinzione terminologica, piuttosto, contribuisce soltanto a richiamare l’attenzione sul fatto che, per il punto di vista marxista, l’unica cosa interessante è appunto non la forma giuridica, bensí la funzione sociale del suo contenuto. Altrimenti andiamo a finire in un modo tale di considerare le cose, per cui diviene in verità possibile una continuità della forma giuridica a partire dalle delibere di un villaggio di ottentotti per arrivare fino a quelle dei parlamenti attuali — certo anche esternamente confortata da una serie di fenomeni che ricordano, in queste moderne istituzioni, la civiltà degli ottentotti —, ma che tuttavia è soltanto la continuità di una nebbia concettuale, in cui scompaiono tutti i connotati caratteristici delle cose. Invece, proprio questa considerazione critica, assai insufficiente, della Comune di Parigi, se ci teniamo a ciò che Marx considerò come la sua essenza — l’eliminazione della burocrazia, dell’esercito di professione e la trasformazione del parlamentarismo in un organismo di lavoro — proprio questa considerazione conduce a ciò che si potrebbe chiamare, in verità, non il problema centrale teorico, bensí pratico, della democrazia, conduce cioè alla questione della sua possibilità organizzativa. Di essa Kelsen si è occupato solo in maniera del tutto secondaria. Ciononostante non possiamo evitare di occuparcene un po’ piú dettagliatamente, perché dal chiarimento di questo rapporto dipende non solo una migliore comprensione di ciò che Marx scorgeva nella Comune, bensí, in particolare, diviene anche píú chiaro ciò che il marxismo s’immagina per concezione dello Stato del futuro. Página 142 Capitolo dodicesimo La democrazia e la sua organizzazione Se ai giorni nostri la democrazia è divenuta cosí spesso oggetto di profonda critica, di una scepsi quasi disperata, e ogni volta si risente parlare di crisi della democrazia, il motivo di ciò non risiede né nell’apparente contraddizione in cui essa si trova rispetto alla dittatura, né nel suo fallimento inevitabile all’interno del parlamentarismo dello Stato di classe. In base a queste due linee interpretative non esiste affatto un reale problema della democrazia, bensí soltanto dei fenomeni che debbono risultare contraddittori perché si applica il concetto di democrazia ,a una situazione sociale dello Stato che non gli corrisponde. Il problema effettivo della democrazia emerge in un orizzonte completamente diverso. R. Michels nel suo stimolante libro intitolato La sociologia del partito politico ha il merito di essersi soffermato, sicuramente non tra i primi, ma in modo piuttosto ampio, su questo problema, e dopo di lui W. Hasbach [nota 1] e in particolare M. Weber hanno trattato con efficacia, da un altro angolo visuale, il medesimo argomento [nota 2]. Il problema specifico della democrazia consiste nel fatto che essa, a quanto pare, per le esigenze interne alla sua organizzazione, deve svilupparsi in modo contraddittorio. Ovunque, infatti, deve ricorrere a una qualche forma di rappresentanza, non appena oltrepassa la piccola struttura di una comunità primitiva, nella quale è ancora possibile un esercizio diretto della democrazia, e persino in questa emerge un capo al quale la democrazia si assoggetta. Sembra perPágina 143 tanto insita in ogni democrazia la tendenza ad alimentare da se stessa nuovi conflitti, che vanificano l’uguaglianza e la solidarietà tra i suoi membri. Per questo motivo Michels parla addirittura di una inflessibile legge di oligarchia, che si manifesta all’interno della democrazia [nota 3], e che, espressa in una formula molto sintetica, suona all’incirca cosí: « La organizzazione è la fonte del dominio degli eletti sugli elettori, di coloro che ricevono un incarico su coloro che lo conferiscono, dei delegati sui deleganti » [nota 4]. Si tratta di una tendenza organica che è comune a tutte le forme di democrazia, sia a quelle rivoluzionarie che a quelle conservatrici. « Si sarebbe tentati di vedere in ciò una tragicommedia: le masse si accontentano di impiegare tutte le loro forze nel consentire l’alternarsi dei loro signori » [nota 5]. A questa tendenza irreversibile si aggiunge un altro elemento a rendere cosí problematica la democrazia e che consiste nel fatto che tutte le forme di organizzazione che essa deve produrre, per raggiungere i suoi scopi, immediatamente, per cosí dire, vanno sclerotizzandosi, si irrigidiscono in un puro meccanismo, in una macchina. Gli organi si convertono presto in una burocrazia, in un ceto con dei propri interessi di classe e di dominio, i quali rappresentano nuovamente un elemento di conflittualità all’interno della democrazia. Questo aspetto della sua evoluzione è stato trattato in particolare da M. Weber, il quale ha dimostrato che la burocrazia non è soltanto un prodotto dello Stato o dell’amministrazione statale, ma che già all’interno dei partiti politici, dunque nelle forme essenziali, attraverso le quali si manifesta la democrazia moderna, il peso maggiore della loro attività e della loro influenza è sostenuto dall’apparato che ogni partito ha sviluppato per la propria organizzazione e che questo apparato è completamente diretto da una burocrazia di partito, la quale appare tanto pii indispensabile quanto pii sono estese le masse che il partito abbraccia. « In tutte le organizzazioni il lavoro effettivo è svolto in misura crescente da impiegati e da agenti di ogni tipo. Tutto il resto è solo vernice ed apparenza » [nota 6]. Weber considera questa burocratizzazione come una tendenza necessaria, tale da non dover essere neppure contrastata. Infatti è ciò che garantisce una direzione razionale, costruita su basi professionali, degli affari (Ge schafte). A questo punto si profila la domanda che costituisce propriamente la questione decisiva della democrazia: com’è possibile ancora, in generale, la democrazia di fronte a questo doPágina 144 minio incontrastato e inevitabile della tendenza alla burocratizzazione? [nota 7] Ancor prima di questi critici della democrazia e dell’affermazione di una classe di politici di professione (Berufspolitikertum) F. Engels ha svolto una critica altrettanto radicale e proprio in relazione alla situazione dei partiti americani, presa in considerazione dagli autori precedenti. Engels però era sin dall’inizio consapevole che la sua critica non colpiva la democrazia in generale, bensí la democrazia borghese. Nella sua Introduzione allo scritto di Marx La guerra civile in Francia ha richiamato l’attenzione sul processo di autonomizzazione degli organi della società, quale si attua anche in una repubblica democratica, che trasforma i suoi funzionari (Beamten) da servitori in suoi padroni. In nessun paese — scrive Engels — i ‘politici’ formano una sezione della nazione cosí separata e cosí potente come nell’America del Nord. Quivi ognuno dei grandi partiti che si alternano al potere viene a sua volta governato da gente per cui la politica è un affare. [...] E noto come da trenta anni gli americani cerchino di scuotere questo giogo diventato insopportabile e come, a dispetto di ciò, affondino sempre più nella palude della corruzione. Proprio in America possiamo vedere nel miglior modo come si compia questa autonomizzazione del potere dello Stato rispetto alla società, di cui in origine esso era destinato a non essere altro che uno strumento. Quivi non esiste dinastia, non nobiltà, non esercito regolare [...] non burocrazia con impieghi stabili e con diritto alla pensione. E ciononostante ci sono due grosse bande di speculatori politici che entrano in possesso del potere, alternativamente, e lo sfruttano per gli scopi più corrotti, e la nazione è impotente contro questi due grandi cartelli di politicanti, che si presumono al suo servizio, ma che in realtà la dominano e la saccheggiano [nota 8]. Anche all’interno del movimento operaio proletario questo problema da molto tempo si è imposto persino alla coscienza delle masse. La linea antiautoritaria dell’anarchismo e il successivo sindacalismo sono, per l’appunto, forme nelle quali lo sforzo di lottare contro la burocratizzazione e di garantire alle masse un’immediata e più decisiva influenza fu tra le cause principali del loro sorgere e della loro straordinaria forza d’attrazione, che momentaneamente esercitarono sui lavoratori. In particolare, l’esigenza sindacalista dell’action directe poté diventare cosí popolare perché con essa non si esprimeva semplicemente una capacità di agire in modo diretto e con degli effetti immediatamente visibili sullo Stato di classe, ma perché anche questa azione era attuabile solo attraverso l’intervento immediato e diretto delle masse stesse. Página 145 In tal modo il singolo poteva cullarsi nella illusione di non essere più costretto a farsi rappresentare come elettore, ma di poter agire immediatamente per i suoi scopi, in quanto membro autonomo di una collettività. È ancora molto vivo nel nostro ricordo con quanta irresistibile forza d’attrazione l’idea dei consigli operai, dopo la rivoluzione russa, si sia impadronita ovunque delle masse, non solo perché essa era avvolta dall’alone romantico, allora non ancora manifesto, che doveva accompagnare il bolscevismo, ma perché sembrò mettere a disposizione uno strumento reale, attraverso il quale le masse, nella fabbrica, nel commercio, nella filiale d’agenzia, nell’ufficio, nei luoghi in cui lavoravano e si associavano, venivano poste nella condizione di infrangere le forme sclerotizzate di una direzione politica e sindacale, e di stabilire al loro posto la propria vitalità rivoluzionaria, quale nuovo principio organizzativo [nota 9]. L’attenzione sempre crescente che il socialismo inglese delle gilde attira su di sé è anch’essa il risultato di un movimento di resistenza, che scaturisce dalle spinte ricorrenti delle masse verso la democrazia diretta, e che è rivolto contro la burocratizzazione, la meccanizzazione e la separazione di una casta dirigente all’interno della democrazia. Anche qui agisce, come motivo propulsivo, il fatto che la salvezza non risiede nella rigida centralizzazione a partire dall’alto, bensí soltanto nella costruzione dell’organizzazione sociale a partire dal basso, sulla base, dunque, delle masse autonomamente attive e determinantisi in organizzazioni locali. Il futuro dei sindacati — si legge in Cole — non dipende dai grandi dirigenti nazionali, bensí da quelli locali nonché dai dirigenti delle aziende, dipende dalla minoranza intelligente all’interno della massa [...] Il movimento dei sindacati deve diventare nuovamente democratico, deve basarsi sulle aziende, perché da queste deriva l’origine e il completamento del suo potere. Nella misura in cui le aziende diventeranno il fulcro della vita sindacale, s’imporranno spontaneamente anche le altre esigenze: nuove funzioni, nuovi metodi, un nuovo apparato e uomini nuovi [nota 10]. Il superamento di questo destino della democrazia, per cui essa deve capovolgersi in oligarchia e arenarsi in una forma burocratica, appare impossibile a Michels. L’unica soluzione può consistere — a suo avviso — pertanto solo nel « paralizzare il più possibile » queste tendenze nocive, compito questo che dev’essere svolto principalmente dalla « pedagogia sociale ». Del resto, il Página 146 valore della democrazia consiste, per lui, nel fatto che, rispetto all’aristocrazia e alla monarchia, è « il male minore » [nota 11]. Il giudizio di M. Weber non è cosí totalmente pessimistico. Egli prende, per cosí dire, il toro per le corna, individuando in ciò che Michels chiama la tendenza alla oligarchia una via di uscita per la democrazia. Nella formazione di energiche personalità di dirigenti, ma responsabili di fronte alle masse, risiede l’unica possibilità di impedire la sclerosi della democrazia in una macchina burocratica. Il rimedio dev’essere ricercato quindi nello sviluppo di un sentimento politico, cioè di una facoltà di decidere in modo autonomo e con senso di responsabilità sociale negli affari della pubblica amministrazione e di governo. « I politici devono bilanciare il dominio dei funzionari » [nota 12]. Per quanto M. Weber abbia ragione nel criticare la caricatura del parlamentarismo, che si affermò in Germania prima del crollo, e sia legittima anche oggi, anzi proprio oggi, la sua stroncatura del carattere assolutamente apolitico della borghesia tedesca, immersa nel culto dell’autorità [nota 13], pure si può dubitare che la formazione, sicuramente necessaria, di una classe dirigente, politicamente matura, possa essere uno strumento efficace per prevenire la trasformazione della democrazia da una forma di autodeterminazione delle masse in un dominio su di esse attraverso i loro dirigenti [nota 14]. Sull’altro versante il pessimismo di Michels è cosí Página 147 scarsamente motivato che egli stesso individua nella « pedagogia sociale » una via d’uscita che avrebbe dovuto significare per lui qualcosa di più che uno strumento per paralizzare le tendenze dimostratesi pericolose per la democrazia, se avesse preso in considerazione anche la trasformazione dell’ambiente che si produce in una democrazia sociale. Una tale analisi però è indispensabile; infatti, che la democrazia, in quanto democrazia politica, debba svilupparsi in modo contraddittorio è stato riconosciuto anche da noi come una necessità. Ci si chiede se ciò sia valido anche per la democrazia sociale. Su questo problema nodale della democrazia Kelsen non si è propriamente soffermato. Lo sfiora soltanto quando si mette a discutere della importanza, da lui completamente ignorata, del concetto socialista della trasformazione di un governo esercitato su uomini in un’amministrazione di cose, e identifica immediatamente la tendenza della democrazia sociale all’abolizione e al superamento di una casta autoritaria di funzionari con la soppressione pura e semplice dei funzionari in genere. In tal senso il problema di come si possa conciliare l’esigenza di una classe di funzionari, formata su base professionale, con l’autodeterminazione democratica, diventa per lui la monotona « contraddizione », che attraversa tutto il suo libro, e di cui ci occuperemo più diffu samente, « tra anarchia e organizzazione, tra la teoria politica e la teoria economica » nel marxismo (pp. 88-9 [135 ] ). In ogni caso dobbiamo ammettere che non di rado nella letteratura socialista e anarchica la necessità, anche per la società socialista, di una classe di funzionari di professione (berufsmassigen Beamtentums) fu ignorata, perché non si prestò sufficiente attenzione al fatto che la lotta contro la burocrazia non era diretta contro la formazione specialistica, bensí contro la sua separazione in una classe specifica, con dei propri interessi e aspirazioni di potere, in breve appunto contro la sua dimensione autoritaria. Solo la maggiore « vicinanza allo Stato » del proletariato, il suo prendere contatto in modo più approfondito, attraverso l’imporsi dei problemi della socializzazione, e in particolare attraverso la conquista di molte amministrazioni comunali, con i compiti relativi alla gestione di grosse aziende, ha acuito lo sguardo circa la necessità di una formazione professionale anche per questo genere di attività. Questa esperienza ci ha insegnato che appartiene alle molteplici illusioni della democrazia piccolo-borghese la sua rappresentazione preferita, secondo la quale i compiti organizzativi della democrazia sociale si semplificherebbero e ridurrebbero a tal punto da potere essere svolti da chiunque e per giunta come seconda occupazione. Nella misura in cui Kelsen individua anche in alcune Página 148 affermazioni di Lenin una simile concezione [nota 15], ha sicuramente ragione nella sua polemica verso il bolscevismo. Ma il bolscevismo spontaneamente si è liberato molto presto di questa opinione erronea e che ritroviamo solo ai suoi inizi, come lo stesso Kelsen del resto ha dovuto ammettere sulla base del brano, da lui citato, tratto dal famoso discorso di Trockij Arbeit, Disziplin und Ordnung, nel quale si dice: La democratizzazione non consiste affatto in ciò, (questo è l’abc pei ogni marxista), nel negare il valore delle persone, che sono in possesso di conoscenze specialistiche, ma nel sostituirle ovunque e sempre attra verso collegi elettorali. E se Kelsen ritiene (p. 123 [170] ) che nella repubblica dei soviet anche questo principio elettivo per gli organi pubblici non poté essere salvaguardato senza eccezioni, poiché lo stesso Trockij non lo fece valere per l’Armata rossa, gli bastava proseguire nella lettura per vedere come Trockij non considerasse in generale questo principio elettivo come « l’ultima parola della costruzione economico-statale della classe operaia ». Il passo in avanti deve consistere nell’autolimitazione dell’iniziativa dei compagni, nella giusta e vantaggiosa autolimitazione della classe operaia la quale sa in quale momento il rappresentante eletto dai lavoratori può dire una parola decisiva e quando è necessario cedere il posto al tecnico, allo specialista che è fornito di conoscenze determinate, al quale si deve conferire una maggiore responsabilità e che deve essere sottoposto a un attento controllo politico [nota 16]. E Lenin stesso, la cui vera grandezza politica consiste non solo nel riconoscere prontamente i suoi errori, ma anche nel confessarli e nel correggerli, mostrando una coraggiosa assenza di riguardo verso se stesso e verso le opinioni dei suoi ciechi seguaci, dichiara già nel marzo del 1918: Senza specialisti che dirigano i diversi settori della scienza, della tecnica, della ricerca, il passaggio al socialismo è impossibile, giacché il socialismo esige un’avanzata cosciente delle masse verso una produttività del lavoro maggiore rispetto a quella del capitalismo e che parta dai risultati raggiunti dal capitalismo [nota 17]. Página 149 Ma la nostra analisi non concerne il bolscevismo, bensí la democrazia in generale e a tale riguardo mi sembra che il pericolo, indicato come inevitabile, di una contraddizione, che si sviluppa fatalmente in essa, tra le sue intenzioni e la forma organizzativa che deve assumere, scompaia non appena si consideri la democrazia nella sua forma specifica, in quella sociale, liberata dunque dai conflitti economici tra le classi. Smetteremo quindi anche di concepire la democrazia in una relazione logicamente necessaria, quasi di identità, con l’attuale forma statale e avremo acquisito quella fluidità nel modo di rappresentare le cose, che è indispensabile se si vogliono perseguire sviluppi sociali nel futuro. La degenerazione della democrazia in seguito al costituirsi di una casta di funzionari pubblici di professione, e la sua trasformazione da un’organizzazione che consente al popolo di autodeterminarsi in uno strumento per il suo dominio da parte di questa casta, mi sembra che siano impedite in modo decisivo da due contromovimenti che oggi sono riconoscibili come tendenze verso una democrazia sociale, perché i loro effetti si fanno già sentire ed è sulla base di essi che possiamo essere sicuri che gli uomini del futuro, i quali vorranno proporsi come loro ideale la democrazia, sapranno anche trovare dei rimedi completamente nuovi. Su questi principi, per cosí dire portanti, di ogni democrazia Marx ha richiamato l’attenzione con particolare vigore. Si tratta in primo luogo della formazione politica delle masse, della loro apertura ad una coscienza di classe proletaria, rivoluzionaria, il che rappresenta però soltanto l’aspetto fenomenico, relativo alla nostra epoca, e colorato, per cosí dire, attraverso di essa, di una coscienza sociale, di un sentimento sociale. Il secondo elemento concerne la costruzione dal basso dello « Stato », cioè della vita fondata sulla solidarietà sociale, a partire dunque dalle piccole, ristrette relazioni sociali, ancora piene di vita, quali si costituiscono sulla base di legami locali, aziendali, di natura economicocollettiva, nel quadro della soddisfazione piú diretta dei bisogni. Ciò non comporta una ricaduta nel modello rappresentativo primitivo o, come si dice volentieri, ‘piccolo-borghese’ dell’utopismo. Viene operata soltanto una generalizzazione del principio già da molto tempo confermato dalla storia della democrazia, soprattutto nella sua forma inglese, secondo il quale ciò che di democratico riesce ad attuarsi all’interno della società classista, ha potuto svilupparsi solo in base al principio di autogestione dal basso dei comuni e delle comunità finalizzate a uno scopo. A un primo sguardo lo sviluppo che conduce dalla molteplicità e dal frazionamento politici ai grandi Stati centralizzati nazionali e autoritari di oggi sembra indubbiamente contraddire la tendenza Página 150 all’autogestione di tipo federativo. Ma sia Marx che Engels hanno posto l’accento sul fatto che dobbiamo considerare questa linea di sviluppo verso il centralismo statale solo come un fenomeno transitorio, prodotto da forze e situazioni storiche specifiche e non come una tendenza sociale universalmente valida. Quest’ultima opinione è piuttosto solo il frutto di un’abitudine di pensiero acritica. La vita sociale dell’uomo si svolge già da secoli in forme sociali organizzate sempre crescenti e più centralizzate. Non dobbiamo stupirci se, come dice Engels, « sin da bambini si è abituati a ritenere che gli affari comuni all’intera società non possano essere curati diversamente da come finora è stato fatto, cioè attraverso lo Stato e i suoi organi di autorità al loro posto » [nota 18] il che vuol dire in modo autoritario e burocratico. Solo che il potere statale centralizzato, con tutti i suoi organi dappertutto presenti: esercito permanente, polizia, burocrazia, clero e magistratura — organi istituiti in base al piano di divisione del lavoro sistematica e gerarchica — risale ai tempi della monarchia assoluta, quando servi alla nascente società borghese come arma potente nella sua lotta contro il feudalesimo [nota 19]. Il centralismo del potere statale, al di là di ogni sua trasformazione nella forma di una repubblica democratica o di un costituzionalismo parlamentare, è rimasto dal punto di vista interno identico a sé, come il più potente strumento di potere nelle mani dei proprietari, fino all’ultima forma in cui si è manifestato come imperialismo. Indubbiamente Marx ha conosciuto quest’ultimo solo nella sua forma bonapartista, ma lo ha caratterizzato, nonostante l’accordo esteriore che esso presenta con le forme democratiche, in un modo che risulta valido anche per il presente, allorché dice di esso: L’imperialismo è la forma più prostituita e insieme conclusiva di quel potere statale che la nascente società borghese aveva cominciato ad elaborare come strumento della propria liberazione dal feudalesimo, e che la società borghese nel momento del suo massimo sviluppo aveva trasformato in uno strumento di asservimento del lavoro al capitale [nota 20]. Marx, invece, individua nella Comune parigina la forma della « repubblica sociale ». Il che significa: La Comune di Parigi doveva naturalmente servire da modello per tutti i grandi centri industriali della Francia. Una volta stabilito a PaPágina 151 rigi e nei centri periferici l’ordinamento comunale, il vecchio governo centralizzato avrebbe dovuto cedere il posto anche nelle province allo autogoverno dei produttori. Questo autogoverno doveva diventare « la forma politica anche del villaggio più piccolo » e al di sopra di queste comuni si doveva costruire un sistema di rappresentanze distrettuali e infine l’assemblea nazionale [nota 21]. È dunque chiaro che si deve abbandonare l’idea di un’autodistruzione inevitabile della democrazia pura. Negli organismi di autogoverno che ivlarx prefigura ancora soltanto a livello territoriale, ma che già nel sistema sovietico risultano fondati sull’ordinamento aziendale, e che nel socialismo delle gilde sono costruiti su un sistema globale di organizzazione dei bisogni, l’antico Stato Leviatano si scinde in una pluralità multiforme di corpi collegati da interessi e scopi comuni. Al loro interno, pertanto, il fatto di essere informati, l’interesse, la cultura e la solidarietà dei membri stabiliscono una base per la nomina e il controllo degli organi, che si configura in un modo completamente diverso rispetto a ciò che è possibile fare in una situazione in cui le masse popolari stanno in un rapporto passivo verso gli organi che hanno contribuito a nominare e a eleggere. L’ignoranza delle funzioni di ufficio e professionali, l’impossibilità di estendere un controllo su di esse, l’assenza di ogni potere organizzativo non soltanto nei confronti dei funzionari, bensí anche verso i propri deputati sono i fattori che hanno impedito per molto tempo all’opinione pubblica, anche nei grandi Stati parlamentari, di riacquistare la consapevolezza che tutti questi organi pubblici sono di fatto una realtà di cui ciascuno è partecipe e che contribuisce a determinare. Questa estraneazione delle masse, anche nel caso in cui hanno partecipato all’elezione, si può cogliere emblematicamente nel modo in cui anche uomini colti reagiscono nei confronti di atti compiuti dal governo e di decisioni parlamentari. Di fronte alla imposizione di una nuova tassa è possibile sentire esclamare in tono particolarmente acceso: “Ma guarda che cosa vanno a decidere di nuovo quelli! ”. Oppure si tenta di scoprire con curiosità che cosa escogiteranno quelli, cioè il governo e il parlamento, ecc. È completamente assente la consapevolezza che “coloro che stanno in alto” e “coloro che stanno dentro” sono stati collocati ai loro posti dagli uomini che stanno in basso e all’esterno e, cosa che occorrerebbe valutare con più attenzione, possono nuovamente essere allontanati. Nelle forme politiche della « Comune » una tale estraneazione non è possibile o è possibile soltanto con maggiore difficoltà, e Página 152 in questo modo la spinta più forte a una degenerazione della democrazia viene a perdere la sua efficacia. L’interesse comune, la conoscenza materiale e collettiva dei compiti amministrativi, dei bisogni e delle necessità della rispettiva sfera di organizzazione non solo tiene uniti i membri della comunità in una salda consapevolezza delle proprie responsabilità, ma induce anche i loro rappresentanti a rapportarsi in un modo completamente nuovo rispetto a essi; si tratta, infatti, di un rapporto in cui la superiorità degli organi non costituisce più un pericolo, in quanto può tornare solo a vantaggio degli obiettivi, anzi delle aspettative dell’intera sfera di interessi della comunità. È soltanto a partire da ciò che una posizione autoritaria (obrigkeitliche) si converte in un’autorità (Autoriat) effettiva, interiormente avvertita, riconosciuta, anzi auspicata e forse persino amata; allo stesso modo all’interno di un partito o in una scuola artistica, filosofica o altro, i seguaci si subordinano a un capo, riconosciuto superiore, non solo da un punto di vista materiale, ma con venerazione, con gioia per l’opera, con piacere nei confronti della guida sicura, anzi molto spesso direttamente con amore. Com’è naturale lo « Stato », che si costruisce su una tale ‘comunalizzazione’ delle sue componenti è qualcosa di profondamente diverso dall’attuale Stato centralizzato, anche nella sua forma democratica. Dobbiamo guardarci dall’applicare senz’altro le categorie del presente a questo prodotto della democrazia sociale, che appartiene dunque al futuro sociale. Già Marx si è opposto a che si consideri la costruzione della repubblica sociale, basata su una rete di comuni, unicamente come una ricaduta in antiquate e ristrette forme di vita di piccoli Stati, di cui il medioevo ci ha fornito l’esempio nelle sue strutture cittadine, oppure come « una forma portata all’estremo dell’antica lotta contro l’eccesso di centralizzazione dello Stato moderno » [nota 22]. E, se ciò risulta valido per la struttura ancora territoriale della comunalizzazione (Kommunisierung) dello Stato, teorizzata da Marx, un tale discorso riguarda in misura maggiore la forma più recente di questa comunalizzazione (Kommunisierung) della società, portata a compimento dalle idee organizzative del sistema consiliare e del socialismo delle gilde. Rispetto a questo nuovo problema, che costituisce il nodo reale dell’organizzazione di una democrazia sociale, non è più possibile ricorrere al vecchio contrasto tra centralismo e federalismo. Ciò fu intuito da Marx quando, riferendosi alla Comune come al modello della nuova organizzazione sociale, disse: Página 153 L’unità della nazione non doveva essere spezzata ma al contrario organizzata attraverso la distruzione di quel potere statale che pretendeva di essere l’incarnazione di questa unità ma indipendente e superiore alla nazione stessa, nel corpo della quale era nondimeno solo un’escrescenza parassitaria [nota 23] Anzi, Engels, quattordici anni più tardi, sottolinea che già nella rivoluzione francese del 1789 l’autogoverno dei dipartimenti, delle circoscrizioni e dei comuni costituí la leva più importante della rivoluzione e che ciò non si pose in conflitto con la centralizzazione che fu innalzata su questa base. Un autogoverno locale e provinciale è cosí poco in contraddizione rispetto alla centralizzazione politica e nazionale, quanto non è necessariamente connesso con quell’ottuso egoismo cantonale e comunale che ci viene incontro cosí disgustosamente in Svizzera e che nel 1849 in Germania tutti i tedeschi meridionali, sostenitori di una repubblica federale, dovevano assumere a modello [nota 24]. La dissoluzione dello Stato in una tale rete associativa di comuni, consigli e gilde non ha dunque assolutamente niente a che vedere con l’attuale contrapposizione tra centralismo e federalismo. La centralizzazione politica ed economica che si esprime oggi nello Stato e nei cartelli è principalmente uno strumento di potere e di dominio; nel contrasto tra centralizzazione e decentramento non si manifesta un semplice principio organizzativo, bensí il conflitto esistente tra i vari gruppi di potere all’interno della sfera statale ed economica. In questo caso la centralizzazione è pertanto possibile sempre soltanto ‘dall’alto’, cioè attraverso la volontà di un gruppo di potere che gode di una posizione di preminenza e che impone il suo dominio agli altri interessi contrastanti; al contrario la centralizzazione che si attua in una democrazia sociale è il prodotto organico che si sviluppa spontaneamente a partire dai bisogni di singoli gruppi di interesse, dunque dal basso, cos í come sono appunto le necessità della produzione, dell’impresa o anche soltanto i vantaggi, che scaturiscono dall’unificazione, a consigliare una tale organizzazione che si pone al di sopra dei singoli raggruppamenti. Questo aspetto della questione è ignorato da E. Bernstein nel suo libro Der Sozialismus einst und jetzt, il quale ripete però di fatto solo i più vieti errori del libro del 1899 I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia con cui scese in campo contro il marxismo. Già in quell’occasione aveva presentato Página 154 come sostanzialmente analoghe le idee di Marx circa la comuna lizzazione e quelle di Proudhon [nota 25], ma non aveva avuto ancora il coraggio di qualificare lo stesso pensiero di Marx come « piccolo-borghese ». A questa affermazione perviene nel suo scritto piú recente [nota 26], il cui tratto distintivo consiste nel caratterizzare ciò che Bernstein chiama il socialismo di oggi in base a un piú accentuato distacco da Marx, rispetto al socialismo di un tempo. In primo luogo occorre precisare che dalla critica, che Marx rivolge a Prouhon, non deriva che Proudhon non abbia formulato nessun concetto esatto, e che perciò ogni coincidenza tra le vedute di Marx e le sue conduca inevitabilmente a bollare Marx come un « piccolo-borghese ». Al contrario, l’interpretazione cos í diffusa del « federalismo » della teoria anarchica come un modo di pensare piccolo-borghese appartiene ai molteplici luoghi comuni e pregiudizi consolidati riguardo all’anarchismo. Indubbiamente il « federalismo » anarchico, in particolare nei suoi rappresentanti iniziali, spesso non è sostenuto da un’adeguata intuizione della complessità e dell’estensione mondiale della vita economica moderna, ma ciò non incide sul valore del pensiero fondamentale, in base al quale un sistema di effettiva libertà sociale non può essere costruito su una centralizzazione relativa semplicemente alla sfera economica. In maniera molto istruttiva per una migliore comprensione dell’anarchismo, da auspicare proprio nell’interesse del socialismo, suona quanto afferma il socialista delle gilde Cole, un uomo dalle vedute moderne, né piccolo-borghese né anarchico. A suo avviso í socialisti delle gilde sono pervenuti alla elaborazione di una nuova teoria politica basata sul « riconoscimento che un dominio puramente industriale non può rappresentare un progresso rispetto a uno puramente politico » [nota 27]. Si può veramente credere che Marx, allorché espose il suo pensiero sulla comunalizzazione della società, non fosse consapevole del fatto che non si trattava pii di una comunità a economia piccolo-borghese, bensí, come Bernstein obietta con comica serietà al grande critico del sistema capitalistico mondiale, di paesi « con imprese moderne [...] e con rapporti economici che oltrepassano di gran lunga l’ambito della comunità »? [nota 28]. A questo punto l’esposizione di Bernstein che nretende di essere cosí rigorosa, sfocia soltanto in un’esibizione della propria incapacità di riflettere su opinioni consolidate. La sua obiezione, ad esempio, circa il fallimento cui andrebbe incontro una tale Página 155 comunalizzazione, in relazione al compito specifico di regolare il corso di un fiume, a causa degli interessi assolutamente divergenti tra gli abitanti della valle e quelli dei monti, dimostra che Bernstein si rappresenta le comuni semplicemente come degli individui sottratti a ogni connessione sociale, che agiscono e litigano gli uni con gli altri. Al contrario, com’è ovvio, l’ampia connessione di interessi e di distribuzione delle forze sociali, quale esisteva già prima nello Stato, continua a sussistere, nella sua globalità, anche dopo, dunque non solo pretende di essere rispettata, ma ottiene anche di fatto ciò, sfruttando le necessità poste in essa, con l’unica differenza che ora tale processo si sviluppa con la partecipazione degli interessati, perciò spesso con maggiore efficacia, talvolta con minore efficacia di prima. Inoltre, se non si pone piú a fondamento la rappresentazione delle comuni, quali finora si sono sviluppate, ma quella di una gilda che sin dall’inizio si ponga oltre i confini di una comunità, risulta assolutamente incomprensibile come una società organizzata in questo modo non possa di volta in volta elaborare il criterio cui deve ispirarsi la centralizzazione, che essa giudica opportuna e che sarà imposta anzi dalla natura della cosa stessa. Cosí vediamo anche Cole prendere le mosse proprio dalle « colossali dimensioni » che le organizzazioni economiche e politiche hanno assunto nello Stato capitalistico e che tendono ad ampliarsi sempre piú attraverso l’imperialismo e la formazione di trusts. Ma — a suo avviso — già nella stessa Inghilterra, per non parlare dei paesi in cui si è verificata una rivoluzione proletaria, si è dimostrato che la democrazia comporta un’inversione di tendenza. Ciò non significa che le potenti unità economico-politiche del capitalismo si scindano in piccoli gruppi indipendenti; ma la democrazia determina sicuramente un esteso processo di decentramento e di scomposizione, cui fa seguito di nuovo una riunificazione su base federalistica. E, come se si rivolgesse direttamente a Bernstein e a critici del genere, aggiunge: La tensione verso una superiore forma di organizzazione e centralizzazione è la conseguenza naturale dell’attuale situazione della classe operaia, ma non ci autorizza ancora a trarre nessuna conclusione su quale forma di organizzazione il popolo sceglierà in seguito alla sconfitta del capitalismo. [...] Una cosa è certa: la tendenza a creare organizzazioni locali in una società libera e democratica si imporrà con forza [nota 29]. Página 156 Giustamente il marxista R. Hilferding definisce le intuizioni del socialismo delle gilde come l’espressione di un modo di pensare empirico, semplicistico e asistematico, ma che, in quanto scaturito dall’esperienza diretta dei lavoratori, può rappresentare una specie di rivitalizzazione per le idee marxiste dello Stato e della lotta di classe [nota 30]. Ed è in tal senso che egli sottolinea in particolar modo che la concezione dello Stato dei socialisti delle gilde rispecchia le concrete tendenze evolutive che conducono o « verso un’economia basata sull’antagonismo capitalistico o verso un’economia armonico-socialista » [nota 31], cioè, nella nostra terminologia, rispecchia l’opposizione fra una democrazia politica e una democrazia sociale. L’esigenza di una comunalizzazíone dello Stato attuale non mira dunque a un puro federalismo o a un decentramento, ma è in primo luogo la richiesta fondamentale di abolire i conflitti di classe e, insieme, l’ipotesi di una nuova forma di organizzazione della società senza classi, basata su organismi di autogoverno e concepita dall’angolo visuale di uno spirito di partecipazione e di responsabilità che organizza gli uomini in modo nuovo, anche dal punto di vista interiore. Ed è in questa prospettiva che effettivamente il centro di gravità della futura democrazia non risiederà nella politica, bensí nella pedagogia, in un’accezione completamente diversa e piú ampia, rispetto al modo in cui veniva concepita da Michels. Infatti questo tipo di pedagogia, nella sua azione globale e peculiare, oggi non è ancora possibile; essa sarà un prodotto del nuovo assetto sociale senza classi, in cui potrà finalmente attuarsi l’ideale, da lungo tempo ambito, di comunicare una cultura politica che sia al tempo stesso una cultura sociale e etica, in quanto queste tre sfere di valutazione finiranno col coincidere. In un capitolo successivo ci occuperemo piú diffusamente dell’obiezione assurda, ma che proprio per questo motivo non smette di circolare e che purtroppo è ripresa da Kelsen, secondo la quale è prova di un utopismo ingenuo e non scientifico, una sorta di fede nei miracoli, l’ipotizzare, per quanto riguarda la società socialista, uomini diversi da quelli attuali. Vedremo come una tale obiezione sia cosi poco giustificata quanto lo sarebbe il comportamento di un sapiente di un popolo primitivo, il quale volesse dimostrare che non è possibile immaginare uomini diversi da quelli primitivi. Ma un sapiente di quell’epoca storica sarebbe ancora autorizzato a fare ricorso a questo tipo di logica, in quanto è per l’appunto un uomo appartenente a una cultura primitiva. Noi muoviamo viceversa dal fermo presupposto che l’ideologia è una funzione dell’economia ,e che Página 157 il mutamento globale, quale finora non si è mai attuato, dell’economia di una società solidale, fondata sugli strumenti della tecnica e della cultura moderne, avrà delle ripercussioni sullo spirito e l’animo delle generazioni cresciute in essa. In ogni caso qui l’educazione e i costumi si dispiegheranno in tutto il loro itnmènso campo d’azione. Non possiamo neppure immaginare che cosa sarà in grado di attuare un tipo di educazione che non sia piú costretta a contrastare gli sforzi dell’individuo per emergere e svilupparsi, ma che viceversa valorizzi queste tensioni, in quanto impulsi favorevoli agli scopi della nuova organizzazione sociale! Se i grandi spiriti del XVIII secolo, Lessing e Herder, Rousseau e Kant, Schiller e Fichte, Pestalozzi e Owen, hanno venerato nella educazione una potenza miracolosa capace di porre su nuove basi il mondo, in ciò peccarono di ingenuità, in quanto non si avvidero che l’educazione di uomini nuovi non può andare disgiunta da un immenso processo di dissoluzione degli antichi rapporti borghesi, che del resto nella loro epoca non si ponevano affatto come superati, ma che allora cominciavano a svilupparsi nella loro peculiare struttura contraddittoria. In se stesso il pensiero, che attribuisce una forza socialmente creativa e un ruolo importante all’educazione, conserva una sua validità, sebbene nel XVIII e XIX secolo esso rappresenti soltanto una geniale anticipazione di effetti che saranno pienamente sperimentati forse solo nel XXI. Già oggi l’educazione sociale nel senso di un’educazione orientata in base ai compiti e agli obblighi di una società senza classi, cioè un’educazione socialista, rappresenta lo strumento essenziale per l’affermazione di una cultura realmente sociale e di un modo di pensare e di sentire democratici [nota 32]. Una comunalizzazione della vita sociale e una educazione sociale sono, a mio avviso, i rimedi giusti ai guasti provocati dall’attuale centralizzazione e burocratizzazione all’interno della democrazia. Giustamente il famoso giurista Klein, che non si può assolutamente definire un socialista, nel suo libro sull’essenza della organizzazione oggi afferma che nelle attuali formazioni comunitarie, laddove è assente una conflittualità interna, probabilmente non si svilupperà neppure una tendenza all’oligarchia. Non si può parlare di un vero e proprio dominio, di un comandare da un lato e di un obbedire dall’altro, soprattutto in organizzazioni nelle quali, come accade in società religiose, in associazioni artistiche e scientifiche e in unioni del genere, le persone, che hanno un ruolo Página 158 direttivo, hanno bisogno della collaborazione attiva dei soci. Al contrario esse debbono avere tanta piú considerazione per le opinioni e i desideri dei soci, quanto piú sanno che la loro impresa andrebbe incontro a un fallimento se, per un dissenso tra la direzione e gli altri membri, l’organizzazione smarrisse la sua capacità organizzativa [nota 33]. Si può veramente ipotizzare che le cose andrebbero diversamente in gilde, comuni e consigli del futuro? Ma è sterile disputare su questo argomento come su tutte le cose di cui non abbiamo diretta esperienza. Lo abbiamo fatto solo nei limiti in cui è stato necessario per dimostrare la falsità dell’opinione secondo la quale la democrazia sarebbe destinata fatalmente a degenerare in una forma di dittatura autoritaria e in una burocrazia sclerotizzata. Come non è possibile proiettare nella futura organizzazione sociale le forme statali attuali, cos í dobbiamo apprendere la validità del detto della lancia che guarisce da sola le ferite che procura. Le insufficienze e i guasti della democrazia possono essere superati solo dalla democrazia, se essa non è piú un fenomeno che trova la sua realizzazione nello Stato, ma una democrazia effettiva e valida in se stessa. Anche qui si rivela la straordinaria forza del punto di vista marxista che fornisce quella chiarezza indispensabile per non indicare con il medesimo concetto di Stato’ due cose cosí completamente diverse come lo Stato di classe democratico e la democrazia senza classi. Esso costituisce l’accesso tanto alla comprensione dello Stato quanto a quella della democrazia. Página 159 Capitolo tredicesimo La dittatura L’analisi precedente ha restituito il senso effettivo, cioè sociologico, dei concetti di Stato, democrazia e rivoluzione, liberandoli dalle prospettive astratte, in cui hanno subito le piú strane deformazioni, e in base a ciò è venuta emergendo contemporaneamente la loro ineliminabile interconnessione. Si è dimostrato anche, però, che ambedue i risultati sono possibili solo se questi concetti vengono considerati dal punto di vista del conflitto e della lotta di classe, che consente di cogliere la dimensione storica in cui essi si manifestano, e non dal punto di vista della loro forma giuridica, che occulta la loro realtà storica. A questo punto non ci resta che applicare lo stesso metodo all’ultimo concetto della critica di Kel sen, quello di dittatura. Il problema di cui ci occupiamo qui è, definito in breve, questo: come mai Marx ed Engels, i quali pure si mossero, in linea di massima, sul terreno della democrazia, poterono indicare nel concetto di dittatura la meta della lotta di emancipazione del proletariato. Ci si chiede, in altri termini, se democrazia e dittatura siano o no in contraddizione reciproca. Si mostrerà anche come questo problema appartenga a quel genere di quesiti che vengono dibattuti nel modo piú appassionato possibile, sebbene o proprio perché in realtà non sono affatto dei problemi, ma acquistano il loro carattere problematico solo in virtú di questioni impostate in modo erroneo, sono pertanto dei falsi problemi. Ma prima di imboccare la strada che ci condurrà alla discussione di questo stato di cose, liberi dagli ostacoli che ci impediscono l’accesso alla questione effettiva, vorrei osservare subito che la cosiddetta dittatura del bolscevismo russo non sarà affatto presa in considerazione nel• la nostra indagine. Essa infatti non corrisponde in nessun modo alla teoria marxista, quale è stata esposta in primo luogo dagli stessi capi del bolscevismo russo. Anche dal loro punto di vista Marx ed Engels hanno inteso senz’alcun dubbio, con la dittatura Página 160 del proletariato, il dominio della classe proletaria, basato, se non sulla sua maggioranza numerica, — sebbene anche questo sia il senso di questo concetto in Marx ed Engels — sulla sua preminenza nella connessione sociale complessiva. Poiché in Russia il proletariato non costituisce né la maggioranza della popolazione, né dispone di un netto predominio in seno all’organizzazione sociale russa — predominio che, com’è noto, spetta ai contadini — e poiché neppure come classe il proletariato esprime una maturità, che si estenda a tutti i suoi membri, il concetto di dittatura ha subito, in Lenin e Trockij e quindi nella teoria bolscevica nel suo complesso, una fatale correzione, in base alla quale non ha designato piú la dittatura della classe del proletariato, ma solo di una parte di questa, della cosiddetta avanguardia, del reparto avanzato della élite operaia. Del resto anche Trockij ha dovuto ammettere ciò nel suo libro intitolato Terrorismo e comunismo, nel quale afferma « che la dittatura dei soviet è stata resa possibile mediante la dittatura del partito ». Diversamente la dittatura in generale non sarebbe affatto possibile. « Il dominio rivoluzionario del proletariato ha nel proletariato stesso come presupposto il dominio politico di un partito con un programma chiaro e una ferrea disciplina interna » [nota 1] La radice di una tale correzione apportata al concetto di dittatura, che conserva sí la terminologia marxista, ma si allontana dallo spirito del marxismo, per sfociare in quello di un Blanqui, si ritrova già nel libro di Lenin Stato e rivoluzione, in cui si afferma che il proletariato è l’unica classe capace di porsi alla testa di tutte le altre classi lavoratrici sfruttate. Da ciò scaturisce — secondo Lenin — l’autorizzazione, per quella parte del proletariato che ha già raggiunto una consapevolezza di classe, a guidare, come avanguardia, « l’intero popolo » [nota 2]. All’interno di questo modo di pensare, che sostituisce al ruolo di guida, già pienamente acquisito, sul piano economico, dal proletariato, la sua semplice capacità, resta del tutto irrisolta la questione se il restante « intero popolo » voglia lasciarsi guidare o se non si metta piuttosto a combattere dapprima nel modo piú violento possibile contro questo tipo di direzione, per quanto essa possa risultare conveniente rispetto ai suoi specifici interessi economici. In tal modo il pensiero della dittatura del proletariato, che in Marx ed Engels rappresenta la forma conclusiva della lotta di tutta la classe proletaria, nel bolscevismo passa ad indicare l’inizio di una lotta di classe del proletariato, che diversamente non avrebbe affatto la possibilità di giungere a maturazione. Dalla dittatura del proletariato, la quale esprime l’autoaffermazione vittoriosa dei suoi intePágina 161 ressi di classe, si sviluppa la politica di un gruppo dirigente che dovrebbe operare nell’interesse del proletariato, ma che in fondo è solo una variante del dispotismo illuminato che credeva anch’esso di esercitare il suo potere nell’interesse del popolo. La dittatura bolscevica non ha dunque, né nella teoria né nella prassi, niente a che vedere con il problema marxista della dittatura. La sua teoria è solo un tentativo, scaturito dai bisogni della lotta rivoluzionaria in Russia, di giustificare la propria tattica e, insieme a questa, andrà incontro, al pari di molte altre cose nel bolscevismo, a una radicale trasformazione. Se si vuole comprendere il significato del concetto di dittatura nel contesto del marxismo teorico si può, anzi si deve, tralasciare tutto ciò che Kelsen adduce come elemento per criticare le contraddizioni esistenti tra questo concetto bolscevico di dittatura da un lato e il pensiero stesso della democrazia e il marxismo dall’altro, e che spesso viene a coincidere con la critica che Kautsky, Otto Bauer, Hilferding e io abbiamo svolto [nota 3]. Kelsen ritiene di aver rivelato la contraddittorietà di questo concetto per il fatto che la dittatura del proletariato diviene possibile, secondo l’opinione di Marx ed Engels, solo quando il proletariato è in grado di rappresentare la maggioranza della popolazione, il che significa però che questo concetto trapassa in quello di democrazia. Ma il problema del rapporto della dittatura con la democrazia non consiste affatto in ciò. La questione se alla dittatura sia o no necessaria la maggioranza è diventata oggetto di un cosí animato dibattito soprattutto a causa della tattica bolscevica, ma finisce col trascurare il problema effettivo, cosí come lo hanno visto e risolto Marx e Engels. Il senso specifico del concetto di dittatura può essere colto solo se non si perde di vista il duplice significato del concetto di democrazia, in base al quale esso desiPágina 162 gna tanto la democrazia politica quanto quella sociale; e in base a ciò l’idea di dittatura sta a indicare che la democrazia politica, poiché è pur sempre una forma di dominio di classe, non è stata né sarà mai possibile senza dittatura in generale. La dittatura del proletariato non è pertanto qualcosa di inaudito, ma rappresenta — sebbene nelle forme della democrazia politica — la sostituzione della dittatura borghese con quella proletaria. Non ci sembra opportuno soffermarci più diffusamente su questo argomento: esso emerge dall’insieme coerente di quanto finora è stato esposto. Nella democrazia borghese sussiste indubbiamente la dittatura delle classi dominanti. Ciò affiora immediatamente con rozza evidenza ogni qualvolta, nei periodi cosiddetti critici, le classi dominanti sospendono la costituzione dello Stato, proclamano lo stato di emergenza e sguinzagliano soldati, magistrati e polizia dietro le masse diventate ‘sediziose’. In quella occasione il giurista offre la propria assistenza e dimostra che tutto si è svolto ‘in modo costituzionale’: la corte suprema ‘riconosce’ che nessuna legge è stata violata. Com’è possibile dunque che si attui una dittatura? Lo statista Bismarck, spirito cinico e geniale nell’accezione borghese del termine, era andato più vicino alla conoscenza realè e, soprattutto, si era mostrato più sincero nella consapevolezza della propria forza, non solo allorché impose per lunghi anni alla socialdemocrazia delle leggi speciali, ma anche quando, prossimo a morire, definí il carattere dittatoriale del dominio borghese con le seguenti parole: La socialdemocrazia rappresenta per la corona e lo Stato una minaccia di guerra più pericolosa di quanto non lo siano oggi le nazioni straniere e deve essere trattata da parte dello Stato come una questione di guerra e di potere, piuttosto che come una questione giuridica. [nota 4] Bisogna tener presente che questo tipo di dittatura è sicuramente esercitata da una minoranza su una maggioranza, sebbene essa sia resa possibile solo in quanto gl’interessi effettivamente dominanti sanno ottenere l’appoggio di larghi settori della popolazione, i quali credono che in tal modo i loro interessi siano favoriti [nota 5]. Página 163 La dittatura del proletariato, dunque, all’interno della democrazia politica non rappresenta più affatto un problema. Se il proletariato domina è naturale che anch’esso imposti il suo dominio come una questione di potere di contro alle tendenze sociali antagonistiche, come a suo tempo ha fatto la borghesia. Il fatto che, dunque, nelle situazioni critiche, la libertà di stampa, la libertà d’assemblea, la libertà d’associarsi ecc. di certe parti del popolo — che poi s’identificheranno con la classe dominante abbattuta — vengano limitate o tolte, non costituisce affatto una contraddizione rispetto alla ‘democrazia’. Finora infatti si è sempre trattato unicamente della democrazia politica, il cui fondamento non è ancora uno Stato senza classi. La soppressione delle libertà politiche non è altro che la necessaria prosecuzione della lotta di classe del proletariato, solo che esso utilizza ora gli strumenti fornitigli dallo Stato, allo scopo di eliminare più rapidamente tutti i residui dell’antico sistema. Anche Engels per questo motivo ha respinto, nella lettera sul programma di Gotha, che Bebel ha pubblicato nelle sue memorie, la pretesa del « libero Stato popolare », che il proletariato dovrebbe fondare, in quanto ha visto in esso un confuso discorrere a vuoto. Poiché lo Stato è indubbiamente un fenomeno transitorio di cui ci si serve nella lotta, nella rivoluzione, per annientare i propri nemici, è pura follia parlare di un libero Stato popolare: fin quando il proletariato si serve dello Stato, non lo utilizzerà nell’interesse della libertà, ma per l’annientamento dei suoi avversari e non appena si può parlare di libertà cessa di sussistere lo Stato in quanto tale [nota 6]. In breve, l’uso dello Stato per la soppressione dei nemici del proletariato non è altro che « lo stato di eccezione » del governo proletario, il quale tanto meno può essere considerato come una contraddizione rispetto alla democrazia, in quanto esso, in base al presupposto che la dittatura del proletariato è possibile solo come dittatura della maggioranza della popolazione nel senso che Marx e Engels hanno attribuito a tale espressione, si basa anch’esso sulla decisione della maggioranza. A questo punto va richiamata l’attenzione su un lavoro, molto Página 164 interessante, di Cari Schmitt-Dorotic [nota 7]. Esso tenta di esporre il concetto di dittatura « dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria » — come si legge nel sottotitolo del libro — da un punto di vista storico, come « concetto centrale della dottrina costituzionale e dello Stato ». Comunque, questo concetto sarebbe divenuto uno slogan politico a un punto tale che, proprio a partire da ciò, si spiegherebbe l’avversione dei teorici del diritto quanto al tenerne conto. Dorotic cerca invece di costruire il concetto di dittatura come concetto giuridico. Ciò avviene grazie a due distinzioni molto importanti e che creano molta chiarezza. Innanzitutto, si opera una distinzione fra dittatura e dispotismo; quindi, all’interno della prima, fra due forme della medesima, fra la dittatura commissaria e la dittatura sovrana. Ogni dittatura, in particolare, è caratterizzata dal fatto che essa è, invero, un mezzo eccezionale, ma, innanzi tutto, è soltanto un mezzo per realizzare un determinato ordinamento giuridico. Ciò esprime la differenza fra dittatura e dispotismo. « Una dittatura che non mirasse a un obbiettivo corrispondente a un’idea normativa (però da realizzare nel concreto), che non si prefiggesse cioè di rendersi superflua, si ridurrebbe a un dispotismo arbitrario » 8. La dittatura nega certo anche il diritto esistente, ma non per mettere al suo posto il puro arbitrio: essa nega il diritto esistente per portare a compimento il diritto. L’interna dialettica del concetto sta in questo, che la negazione riguarda proprio quella norma che attraverso la dittatura si vuole assicurare nella realtà storico-politica. Può aversi cioè un’opposizione fra il dominio della norma che si vuole attuare e il metodo adottato per attuarla. Dal punto di vista della filosofia del diritto, qui è l’essenza della dittatura, cioè nella possibilità generale di una separazione fra norme del diritto e norme di attuazione del diritto [nota 9]. La dittatura commissaria, ora, è quella forma di attuazione eccezionale del diritto, che è normativizzata nella costituzione esistente stessa, come del resto già il diritto statale romano prevede che possa essere ordinata una dittatura. « Il potere assoluto del dittatore poggia su di una autorizzazione ricevuta da un organo costituzionale preesistente » [nota 10]. La dittatura commissaria sospende in concreto la costituzione medesima per difenderne l’esistenza. [...] L’autonomia metodologica del problePágina 165 ma della attuazione del diritto emerge qui con la massima chiarezza [..] Di conseguenza la dittatura è un problema di realtà concreta senza cessare con ciò di essere anche un problema giuridico [nota 11]. Anche la dittatura sovrana è una tale forma di attuazione del diritto, che si oppone alla situazione giuridica esistente, ma essa non vuol piú conservare questa stessa, bensí scorge nell’insieme dell’ordinamento esistente la situazione che attraverso la sua azione vuole eliminare. Essa « non sospende una costituzione esistente per un [ ...] diritto costituzionale, bensí cerca di creare una costituzione, che essa considera come la costituzione autentica » [nota 12]. Anch’essa si richiama a una costituzione, a una norma, ma che devono essere create per la prima volta. Si potrebbe credere che, quindi, questa forma di dittatura si sottragga a ogni trattazione giuridica; che si tratti di una semplice questione di potere. « Le cose però si presentano diversamente se si suppone un potere che, pur non essendo costituito in vinti di una costituzione, ha con ogni costituzione vigente un nesso tale da apparire come potere fondante. ...] È questo il significato del pouvoir constituant »[nota 13]. SchmittDorotié intende con ciò la concezione, sviluppata dopo la rivoluzione francese, della sovranità popolare, della sovranità dell’insieme solidale del popolo. La dittatura sovrana trova dunque la sua legittimazione nell’idea giuridica, che del resto sta a fondamento di ogni costituzione stabilita, della corrispondenza con la volontà generale. Il dittatore rimane anche in questo caso commissario, « ma commissario diretto del popolo in virtú del potere non costituito, ma costituente del popolo, e dunque un dittatore che detta legge anche al suo mandante senza cessare per questo di dipenderne quanto alla propria legittimazione » [nota 14]. Quest’analisi estremamente lucida nel libro viene illustrata nel corso di un’esposizione rigorosamente storica e, come risultato dell’indagine, che coincide con la nostra impostazione generale, viene sottolineato che non si può « definire in generale la dittatura come la soppressione della democrazia » perché essa è solo un mezzo per raggiungere uno scopo determinato [nota 15]. Al contrario mi sembra che il concetto di dittatura sovrana possa essere chiarito nel suo autentico significato sulla base di quanto finora ho detto riguardo alla distinzione tra le due forme di democrazia, cos i come esso può a sua volta convalidare questa distinzione. Rispetto alla concezione giuridica formale-positivistica di Kelsen queste analisi di ordine concettuale sicuramente Página 166 saranno risultate inutili. A favore di una sostanziale convergenza (che Kelsen respinge in quanto giusnaturalistica) parla il fatto che anche Schmitt-Dorotie alla fine si rivolge contro Kelsen, per il quale il problema della dittatura è cosí poco un problema giuridico, quanto un’operazione al cervello è un problema logico, coerentemente col suo formalismo relativistico, il quale ignora che in questo caso si tratta di qualcosa di completamente diverso, del fatto che cioè l’autorità dello Stato non può essere concepita separatamente dal suo valore. [nota 16] A prescindere dall’infelice paragone con l’operazione al cervello dobbiamo essere d’accordo con l’autore. Il suo pensiero, tradotto dal modo di esprimersi ideologicogiuridico in quello sociologico, significa che il nesso tra il « valore » dello Stato e la sua « autorità » esige l’indicazione dei determinati contenuti concreti e sociali i quali di volta in volta pretendono di rappresentare l’« autorità » della forma giuridica. La nostra interpretazione della dittatura del proletariato come « stato di eccezione » risulta pertanto applicabile in modo non contraddittorio, dal punto di vista giuridicoformale, all’interno del concetto di democrazia sociale. Solo di recente si è divenuti consapevoli che, per rappresentare in modo chiaro la dittatura del proletariato, bisogna liberarsi dalla tentazione di vedere esemplificato questo concetto di dittatura nella situazione del bolscevismo russo. Ciò che là si è chiamato dittatura del proletariato, è, come abbiamo in precedenza dimostrato, molto lontano dall’essenza di questo concetto, quale viene inteso dal marxismo, per il quale designa sempre un dominio di classe, il dominio dunque della classe del proletariato, mentre in Russia neppure la maggioranza del proletariato, ma solo una parte di esso, anzi in fondo soltanto una cerchia ristretta di rivoluzionari decisi e che perseguono in teoria l’interesse del proletariato, esercita, in condizioni assolutamente singolari, una dittatura sull’intera società, vale a dire anche sul proletariato. Se si prescinde per il momento da questa situazione che porta solo il nome di dittatura del proletariato, mentre in realtà esprime semplicemente il terrorismo di un partito, diventa pienamente comprensibile che, fin quando la democrazia sarà semplicemente una democrazia politica, anche il parlamentarismo piú perfetto non escluderà una privazione dei diritti della minoranza, anzi la legittimerà, in quanto tale democrazia si basa sulla decisione della maggioranza. Fin quando uno Stato si trova dilaniato dai conflitti economici tra le classi, malgrado assicuri a tutti molto democraticamente il diritto di voto, non è una rappresentanza poPágina 167 polare, perché in esso non esiste un popolo solidale. Pertanto, anche nelle forme dell’autodeterminazione del parlamento si compie soltanto un episodio della lotta di classe. E la maggioranza democratica del parlamento, nello Stato di classe, esprime sempre una volontà di potenza della classe che comanda sulla maggioranza e impone, attraverso di essa, le sue leggi e ottiene la loro osservanza. Se Marx parla ad un certo punto di dittatura della borghesia, ciò non prova, come ritiene Kelsen, che questo concetto sia rivoluzionario solo sul piano terminologico, mentre in realtà sarebbe un concetto di tipo evoluzionistico, perché la borghesia esercita questa dittatura solo attraverso il parlamento, ma rafforza la nostra tesi, secondo la quale la democrazia e la dittatura sono soltanto due lati di una medesima realtà. Per questo motivo anche Marx, ad esempio, definisce la repubblica parlamentare in Francia con Luigi Bonaparte al vertice « come un governo di aperto terrorismo di classe » [nota 17] La dittatura e la democrazia non sono pertanto in contraddizione perché non possono essere contrapposte l’una all’altra” [nota 18]. La dittatura è essa stessa una forma di democrazia, vale a dire di quella politica. Si può dire soltanto: democrazia e terrorismo sono in Página 168 contraddizione, perché il terrorismo rappresenta sempre il potere’ di una minoranza. Parimenti possiamo affermare che la dittatura e la democrazia sociale sono in contraddizione, perché il dominio della maggioranza in una democrazia sociale, che si realizza in assenza di un vitale conflitto di interessi della minoranza, non è per l’appunto una dominazione sulla minoranza, bensí solo un deliberare a suo nome e nella sua volontà. Questo è anche il senso delle osservazioni fatte da Lenin contro le quali polemizza fraintendendole Kelsen (p. 98 [147 ] ): « Noi non auspichiamo l’avvento di un ordinamento sociale in cui non venga osservato il principio della sottomissione della minoranza alla maggioranza » [nota 19], e, alcune righe prima: « La democrazia non s’identifica con la sottomissione della minoranza alla maggioranza ». Kelsen rileva a questo punto una contraddizione. Ma in base al contesto generale in cui si trova inserito il brano è chiaro a che cosa Lenin intenda riferirsi: nell’ordinamento sociale si verifica una subordinazione (Unterordnung) della minoranza, ma non una oppressione di questa da parte della maggioranza. La democrazia sociale non si identifica dunque con la sottomissione della minoranza, perché in essa non esistono interessi di dominio da parte della maggioranza. In questo caso è la minoranza a subordinarsi spontaneamente, nella democrazia politica al contrario, nello Stato, secondo la terminologia marxista, essa viene costretta a questa subordinazione dall’intero sistema di potere dello Stato. Ma che cosa accade, si chiede Kelsen, se la minoranza non si subordina? Kelsen trova, ancora una volta, contraddittoria la risposta data da Lenin, in quanto ritiene che Lenin — che avrebbe per l’appunto indicata come necessaria questa subordinazione anche nella società futura — neghi ora, improvvisamente, questa necessità. In particolare Lenín dice: Ma, aspirando al socialismo, noi abbiamo la convinzione che esso si trasformerà in comunismo, e che scomparirà quindi ogni necessità di ricorrere in generale alla violenza contro gli uomini, alla sottomissione di un uomo a un altro, di una parte della popolazione a un’altra, perché gli uomini si abitueranno a osservare le condizioni elementari della convivenza sociale, senza violenza e senza sottomissione. A questo riguardo Kelsen osserva stranamente: il che dunque significa: ci aspettiamo un ordinamento sociale senza subordinazione (p. 99 [147]). Egli ignora completamente la distinzione decisiva tra sottomissione (Unterwerfung) e subordinazione (Unter ordnung), tra minoranza omogenea ed eterogenea; egli costruisce, ancora una volta, le sue forme sociali nello spazio asfittico e indeterminato di concetti puramente formali, per cui, com’è natuPágina 169 rale, una sottomissione è anche una subordinazione, e pertanto una società senza sottomissione sarebbe anche senza... subordinazione: come se sottomissione e subordinazione fossero identiche. Del resto dovremo tornare più diffusamente su questa significativa distinzione sociologica e sulla questione della costrizione sociale in relazione alla discussione sul presunto anarchismo della concezione marxista della società. Non resta ora che discutere l’obiezione secondo la quale la dittatura del proletariato, se non è dunque più espressione di una minoranza, ma di una maggioranza, è una cosa del tutto superflua, che viene alla fine vanificata dalla democrazia. Infatti, in base al presupposto della democrazia come fondamento della dittatura del proletariato, quest’ultimo si troverà a fronteggiare, in maggioranza schiacciante, un piccolo gruppo di capitalisti, di proprietari terrieri e di parassiti di ogni genere. Non sarà quindi come sparare con cannoni su passeri? A che servirà la repressione esercitata nei confronti di un pugno di oppressori di un tempo diventati ormai impotenti? Sarà sufficiente applicare le nuove leggi, contro di essi, cosí come contro ogni altro, ad esempio contro un proletario che avrà opposto resistenza. A che scopo dunque ricorrere alla forza e a leggi speciali contro questa piccola minoranza (pp. 16-7 e 102-3 [48-9 e 150-1 ])? Ma una domanda del genere, e il modo di concepire che sta a suo fondamento, sono possibili solo se si considerano appunto le cose in modo puramente formale e, quindi, se si guarda a una distinzione soltanto numerica tra i partiti che agiranno all’interno del nuovo ordinamento statale. In base a una tale concezione i membri sconfitti delle classi dominanti dovranno perdere, insieme alla loro posizione di classe, anche i loro sentimenti e i loro interessi di classe. Questa rappresentazione si connette alla visione meccanicistica che attribuisce un ruolo determinante all’economia e che già nel capitolo sul concetto di classe abbiamo dovuto respingere. Se ripensiamo a come in quell’occasione abbiamo riconosciuto che all’essenza di una classe appartiene il fattore ideologico della sua coscienza di classe, diventa senz’altro chiaro che una classe non cessa di esistere per il solo fatto che le condizioni economiche, che hanno presieduto alla sua nascita e alla sua esistenza, sono state eliminate. Fino a quando esisteranno membri di questa classe i quali abbiano la volontà di ripristinarla e i quali nel loro modo di essere spirituale e volontario esprimano l’interesse di conservare la loro posizione di classe e perfino si preoccupino di diffondere questa volontà e questo interesse, di fare propaganda presso i coetanei, e di educare i giovani a ciò, fino a quel momento ci sarà ancora questa classe e continueranno ad esistere conflitti di classe. E una tale conflittualità è tanto più periPágina 170 colosa in quanto, nonostante il proletariato abbia la maggioranza, non può costruire in un sol colpo la società socialista, ma in diverse sfere della organizzazione economica, politica, religiosa e culturale ancora per molto tempo dovranno essere trascinati importanti residui delle precedenti condizioni di vita, che potranno costituire altrettanti punti di partenza di una reazione di classe. A tale riguardo, già nel 1905, contro coloro che trovavano insolito il ricorso alla violenza nei confronti di una minoranza, Lenin scriveva: « Essi si sbagliano perché non prendono in considerazione questo fenomeno nel suo sviluppo. Dimenticano che il nuovo potere non cade dal cielo, ma sorge, si evolve accanto, contro l’antico potere, in lotta contro di esso » [nota 20] In breve, costoro ignorano che le pure forme della democrazia non dicono nulla circa il loro contenuto. Contro una minoranza che si trova anch’essa sul terreno della classe dominante, il cui dominio si propone di esercitare soltanto in modo diverso, e del potere della quale aspira ad essere maggiormente partecipe, non è necessaria nessuna repressione, sebbene anche ciò sia spesso accaduto. Ma non appena la minoranza mira a rovesciare lo stesso dominio di classe, la sua impotenza momentanea non è un buon motivo per risparmiarla. perché diversamente le sarebbe fornita l’occasione per attirare a sé un potere pii! ampio. Ancora una volta, vediamo quanto risulti dannoso, in una critica sociologica dei concetti marxisti, trascurare la distinzione tra classe e partito, che sicuramente non viene presa in considerazione a livello giuridico. La dittatura del proletariato è il potere di una classe contro l’altra, non contro un partito, un potere che non dev’essere perseguito semplicemente fino alla detronizzazione di questa classe, ma fino al suo annientamento, perché solo a partire da ciò è possibile una società senza classi. A questo punto parlare di un pugno di uomini e stupirsi per il fatto che contro di essi è necessario il ricorso alla violenza (Gewalt), ha lo stesso significato che se ci si stupisse che nell’ottobre 1921 l’Europa centrale si sia trasformata in un deposito bellico contro un pugno di carlísti. L’intera questione diventerà un problema solo per un rappresentante della democrazia, o, piú precisamente, per un burocrate della democrazia, il quale nel suo ufficio di registrazione non abbia alcuno schedario per la realtà storica. I teorici bolscevichi nei loro scritti e discorsi hanno sviluppato, con grande precisione, il senso specifico della dittatura del proletariato, concepita come potere di classe. Su questo punto essi non si sbagliano affatto per quanto riguarda il lato teorico, rispetto al quale al contrario hanno messo in luce molte cose che si erano dileguate dalla coscienza di parecchi marxisti, ma hanno fatto una Página 171 errata applicazione di questa teoria alla propria politica. t indubbiamente il segno di un errore fatale scrivere, come fanno nella nona delle Tesi sulla rivoluzione sociale: Finora si è insegnata la necessità della dittatura del proletariato senza avere indagato la forma di questa dittatura. La rivoluzione socialista russa ha scoperto questa forma; è la forma della repubblica dei Soviet, concepita come forma duratura di dittatura del proletariato e (in Russia) dello strato piú povero dei contadini. [nota 21] Già l’inclusione « in Russia » dei contadini piú poveri prova che in questo caso non è piú possibile parlare di dittatura del proletariato. E la storia interna della repubblica dei soviet, con la sua terribile lotta all’ultimo sangue contro i contadini e con la capitolazione finale del comunismo davanti a essi, dimostra che non è il caso di parlare di una solidarietà di interessi tra queste classi, la quale sarebbe la sola a poter basare la dittatura sulla maggioranza della popolazione. Ciò che resta è la dittatura del governo centrale moscovita. Ma nonostante la mortale contraddizione esistente nel bolscevismo tra la teoria e la prassi, che ha avuto per conseguenza in Russia il declino graduale della ‘dittatura’ economica e politica ‘del proletariato’ [nota 22], la decima tesi esprime sul piano concettuale in modo eccellente il carattere della dittatura del proletariato come un potere che, anche all’interno della democrazia, rimane nella sua essenza sempre il potere di una classe contro un’altra. Ivi si legge: Il senso della dittatura del proletariato consiste, per cosí dire, nello stato di guerra permanente contro la borghesia. t dunque evidente che tutti coloro che si lamentano per le azioni violente dei comunisti, dimenticano completamente che cosa significhi effettivamente una dittatura. La rivoluzione stessa è un atto di rozza violenza ’. La parola dittatura in tutte le lingue non significa niente altro che un regime di violenza. L’importante è qui il contenuto di classe della violenza. In tal modo viene fornita la giustificazione storica della violenza rivoluzionaria. [nota 23] A questo punto vorrei aggiungere un’osservazione che si riferisce a una distinzione fatta da Kautsky riguardo al concetto di dittatura. Egli distingue tra la dittatura come forma di governo e come circostanza (Zustand), e in base a ciò ritiene che solo la prima possa essere oggetto di una controversia. Infatti che il proletariato, nel Página 172 passaggio dalla società capitalistica a quella socialista, dovrà dare vita provvisoriamente a una circostanza di dittatura, è anche per lui un dato indiscutibile [nota 24]. Soltanto mi sembra che questa differenziazione non sia complessivamente molto intellegibile, e che possa condurre piuttosto a un inevitabile fraintendimento circa il concetto di dittatura. Ciò che evidentemente Kautsky pensa è che bisogna guardarsi dal concepire la dittatura del proletariato come una forma durevole della società socialista e non piuttosto come una circostanza di transizione, momentanea. Questo pensieto non è espresso in modo appropriato attraverso la contrapposizione tra i concetti di circostanza e forma di governo. Infatti, com’è ovvio, la semplice circostanza della dittatura del proletariato, sebbene sia e debba essere qualcosa di momentaneo, tuttavia, nel corso della sua durata è necessariamente una forma di governo, vale a dire appunto il dominio del proletariato, lo Stato proletario. E, inoltre, la durata della fase di transizione non può essere valutata in anticipo, né riguarda la trattazione teorica della dittatura. La transizione può durare anni o decenni, ma teoricamente è una fase transitoria, il che non va preso semplicemente nel senso che ‘tutto passa’, ma nell’accezione specificamente marxista, in base alla quale il suo superamento, il suo declino sistematico, è qui lo scopo consapevole dell’attività di governo del proletariato. Ma, proprio in base a ciò, nel quadro di quest’attività, essa si pone come una ’circostanza durevole, che va mantenuta in modo permanente fino a quando l’obiettivo non sia stato raggiunto. Se dunque Kautsky polemizza contro le Tesi sulla rivoluzione sociale, precedentemente citate, perché parlano di una « dittatura durevole », di uno « stato di guerra permanente » e, per quanto riguarda la dittatura, affermano addirittura (nella nona tesi): « Qui non si può parlare di un fenomeno transitorio nel senso ristretto del termine, ma della forma dello Stato che s’impone nel corso di un’intera epoca storica » [nota 25], la sua polemica può colpire solo l’identificazione, proposta dai bolscevichi, della costituzione dei soviet con la dittatura del proletariato e forse solo questo è il suo obbiettivo. Ma sussiste il pericolo che questa critica delle tesi, piú volte citate, venga riferita anche al concetto della dittatura stessa, e per questo occorre bensí dire che — una volta svincolato il suo contenuto dalla sua applicazione alla Russia — va considerata come un’eccellente caratterizzazione di ciò che Marx ed Engels hanno inteso con la dittatura del proletariato. Non vi può essere alcun dubbio sul fatto che la dittatura dovrà durare lungo un’intera epoca storica, vale a dire durante la fase di pasPágina 173 saggio dalla società capitalistica a quella socialis di essa manterrà in piedi una forma di governo, quella dello Stato proletario, attraverso la quale alimenterà — sul fondamento della democrazia, piú precisamente della democrazia politica, anzi come suo sbocco —, uno stato di guerra permanente contro la borghesia. In tal senso si risolve dal nostro punto di vista il tormentato problema del rapporto tra dittatura e democrazia. La dittatura del proletariato è possibile solo all’interno della democrazia, il che vuol dire sorretta dalla maggioranza della popolazione, ma essa giunge a compimento soltanto attraverso la democrazia ed esercita il potere in quanto democrazia. Una contraddizione continua a sussistere solo per colui che pensa alla democrazia sociale, all’interno della quale indubbiamente la dittatura è impossibile, ma che non esiste ancora, le cui condizioni devono essere appunto create dalla dittatura del proletariato. Se la democrazia sociale è un regno celeste, come i nostri avversari affermano in tono di derisione, — di questo argomento torneremo a discutere — è inutile in ogni caso, fino a quando restiamo sulla terra della democrazia politica, chiedere di essere partecipi dei suoi benefici. Página 174 Capitolo quattordicesimo Governo e amministrazione La critica ‘immanente’ del concetto marxista di Stato, coi quale Kelsen vuole mettere in luce la contraddizione interi questo concetto, sembra però trovare il suo compimento soli nella dimostrazione che la teoria politica marxista della sop sione del dominio di classe e dello Stato conduce a un’ass autonegazione. Dal suo punto di vista non vi è alcun dubbio i teorici marxisti, nella loro terminologia che si limita a una negazione dello Stato, non si rendono affatto conto che tutt argomenti, che essi adducono contro lo Stato, sono in grad formularli solo attraverso concetti statali. In tal senso K vuole presentarci la dottrina marxista della « estinzione dello to » come una sorta di farsa, nella quale con grande frago Stato viene condannato a morte, mentre già si aggira inton suoi mortali nemici, lieto nella sua nuova condizione. E noi n sti sembriamo una riedizione del buon semplicione della comf di Molière che non finiva di stupirsi quando gli venne dem per tutta la vita aveva parlato in prosa: mentre con rabbi devamo di ‘sopprimere’ lo Stato non abbiamo fatto altro la vita, e proprio attraverso questa ‘soppressione’, che lavorare a favore dello Stato. La spiegazione di questa opinione sulla ridicola contradd esistente nel marxismo, proprio nel suo pensiero centrale, in quello della soppressione dello Stato, va individuata nello stesso luogo in cui abbiamo già visto profilarsi le altre fonti di fraintendimento e di incomprensione da parte della critica giuridica nel fatto che i concetti con cui opera sono appunto diversi dai nostri e quindi anche termini, apparentemente identici, hanno un contenuto radicalmente differente. Una critica del genere è destinata a restare sterile, anzi a riuscire addirittura dannosa. In primo luogo impedisce al critico la comprensione del suo oggetto e quindi getta in uno stato di irrimediabile confusione tutti coloro che non Página 175 sono in condizione di riconoscere la diversità dei punti di parteni da cui muovono il critico e ciò che viene criticato. Con un’uni osservazione possiamo mettere in luce tutto il lato tragicomic della critica che viene qui rivolta alla dottrina marxista dello Stato: la soppressione dello Stato, di cui parlano Marx ed Engel riguarda lo Stato di classe, quella di cui parla Kelsen, lo Stato in generale. Per questo motivo, se Marx ed Engels hanno ragionl non gli rimane piú niente, e la concezione marxiana conduce, sl condo Kelsen, difilato ll’anarchismo. La critica kelseniana mucn da un’equazione, pienamente giustificata sul piano formale-giur dico — in un orizzonte quindi ancora una volta limitato — m che non ha alcun significato a livello sociologico. L’equazione e questa: Stato = organizzazione costrittiva. Da ciò scaturisce che per lui la soppressione dello Stato coincide con la soppressione dell’organizzazione costrittiva. Se pertanto può dimostrare che anche la società socialista dovrà disporre di un’organizzazione confluiva, che anche in essa ci saranno un governo, delle funzioni politiche, organi pubblici, sistemi per regolare l’economia, in breve tutta una rete organizzativa che dovrà reggersi sulla costridone predisposta contro gli oppositori -- a meno che non si lebba produrre l’interruzione di ogni progresso sociale — in tal nodo il marxismo è confutato e si prova che la sua teoria dello ;tato è un controsenso, una vera assurdità. In una tale polemica ion si prende in considerazione il fatto che il marxismo col con’etto di Stato intende riferirsi solo a una determinata forma stoica di organizzazione costrittiva, cosí come si ignora che Porgalizzazione costrittiva, che continuerà a esistere dopo la soppressione li quella forma storica di Stato, sarà sul piano culturale e psicoociologico, ma in particolare su quello sociologico, qualcosa di otalmente diverso. Per Kelsen organizzazione costrittiva è a aganizzazione costrittiva. Che cosa venga ottenuto con la forza, chi l’ottenga, in che modo venga ottenuto, non ha assolutamente importanza; non è all’altezza dei concetti giuridici e può solo offuscare la purezza del pensiero giuridico [nota 1]. Página 176 Con la individuazione dell’equivoco relativo al concetto di Stato, che sta a fondamento di tutta la critica kelseniana e rende di fatto possibile il suo effetto principale, lo smascheramento della tendenza anarchica del concetto marxista di Stato, è diventato invero superfluo soffermarsi ulteriormente su questa parte del libro. Se ciò in seguito nondimeno è accaduto, e perfino con una certa ampiezza, non è stato solo perché si tratta del pensiero fondamentale e specifico della critica kelseniana, al quale occorre rivolgere con insistenza la nostra attenzione, come all’obietitvo di tutta la sua indagine. Non sarebbe affatto necessario per noi occuparci ancora di esso, una volta chiarita l’inesattezza del suo punto di partenza. Ma ciò può avere degli effetti positivi, se, ripercorrendo questa via sbagliata, attraverso l’inevitabile ignoranza che essa manifesta nei confronti del contenuto specifico dei concetti marxiani, riacquistiamo una chiara consapevolezza della specificità del metodo sociologico e vediamo riconfermata l’insufficienza della critica giuridica nei suoi confronti. Kelsen individua nella dottrina marxista della distruzione dello Stato, della sua soppressione attraverso l’eliminazione dei conflitti di classe, non solo un contenuto fortemente contraddittorio, ma persino una spiccata tendenza all’anarchismo. Per questo motivo intitola il par. 9: L’ideale anarchico del comunismo (p. 44 [par.10, p. 841), parla ripetutamente di un fondamentale orientamento individualistico del pensiero di Marx ed Engels (pp. 26 e 42 [57 e 78]) e ritiene perfino che non si possa parlare di un conflitto teorico tra socialismo e anarchismo (p. 43 [82-3]). Questa direzione di pensiero individualistica viene a trovarsi per giunta — secondo Kelsen — in un contrasto molto stridente rispetto alla presentazione economica della società socialista la quale non sarebbe affatto possibile senza una straordinaria regolamentazione della vita economica. Sembra esserci una certa ironia nel fatto che Engels da un lato individui nell’anarchia dello Stato di classe la radice dello sfruttamento, dall’altro annunci « in un sol tratto » nella comunità comunista la liberazione dallo sfruttamento, sebbene essa, non essendo piú uno Stato, non conoscendo quindi Página 177 nessuna forma di costrizione, si costruisca comunque sull’anarchia della produzione (p. 53 [92]). Già il Manifesto dei comunisti crede di poter rinunciare all’ordine costrittivo dello Stato. Esso insegna — secondo Kelsen — che con la soppressione delle differenze di classe ogni produzione viene a concentrarsi nelle mani degli individui associati e il potere pubblico perde il suo carattere politico (p. 13 [43]). Con ciò non si afferma soltanto che il potere pubblico viene a perdere il suo carattere di dominio di classe, pur continuando a esistere in quanto tale. Ma, nella misura in cui il Manifesto designa come meta la sostituzione della società classista attraverso « una associazione, in cui il libero sviluppo di ognuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti », esso mira — secondo Kelsen — alla fine del potere pubblico in generale. Infatti il carattere di questa associazione può essere interpretato per lui solo nel modo seguente: « Una libera associazione, in opposizione a una organizzazione costrittiva, a una organizzazione di dominio, al sistema di un potere pubblico, in breve: a uno Stato» (p. 17 [48]). Per ora fermiamoci qui. È utile dipanare immediatamente l’equivoco di cui rischiamo di essere vittime insieme al critico; dopo aver visto in un’altra occasione come Kelsen identificasse ordinamento costrittivo e Stato, emerge ora che egli identifica quest’ultimo anche con un ordinamento di dominio, in quanto per lui il termine dominio è solo un elemento giuridico, cioè puramente formale. Noi al contrario distinguiamo tra dominio e amministrazione, gestione degli affari (Geschdftsleitung), come abbiamo già dovuto fare nel corso della discussione sul concetto di democrazia. Adoperiamo il termine dominio solo dove sussistono importanti conflitti di interesse, in una forma tale che alla volontà vitale degli uni può essere imposta la volontà contrapposta degli altri. Solo nel caso in cui un’organizzazione costrittiva racchiuda una tale eterogeneità tra i membri che stanno in essa, si trasforma in dominio, nella eteronomia di coloro che esercitano l’ordinamento costrittivo rispetto a coloro che sono assoggettati. Qui l’ordinamento costrittivo risponde, pertanto, sempre all’interesse specifico di un gruppo appartenente alla comunità. Nell’ipotesi in cui viceversa esista una omogeneità di interessi vitali, come accade in assenza di conflitti economici tra le classi, l’ordinamento costrittivo si trasforma nell’autonomia di coloro che stanno in essa: esprime il loro interesse comune e sta al servizio di tutti. Indubbiamente in ambedue i casi ogni singolo è assoggettato al dominio dell’ordinamento costrittivo, ma non è assoggettato tutt’e due le volte allo stesso modo, la differenza decisiva consiste nel fatto che l’ordinamento costrittivo in un caso si configura in termini di dominio, nell’altro appare come libertà. Questa differenza noi marxisti la esprimiamo, riservando il Página 178 concetto di Stato alla prima forma di organizzazione costrittiva, e adoperando un termine preferibilmente diverso da quello di Stato per la seconda forma, per evidenziare in essa la radicale trasformazione della funzione della organizzazione costrittiva. Non si parla dunque per niente del fatto che la società comunista, per il solo fatto che non è più uno Stato, sarebbe anche priva di costrizione. La soppressione dello Stato esprime appunto in Marx qualcosa di diverso che in Kelsen, perché ciò di cui parla Marx non è ‘lo Stato in sé’, bensí lo Stato di classe, e sotto questo aspetto, sia dello Stato capitalistico sia di quello proletario di classe. Sulla distinzione tra omogeneità ed eterogeneità degli interessi vitali si appuntava, come sappiamo, la stessa differenza tra democrazia politica e democrazia sociale, vale a dire tra democrazia apparente e democrazia reale. Abbiamo anche visto come la democrazia reale è possibile solo dopo il superamento dello Stato di classe, vale a dire anche di quello proletario. Se pertanto Kelsen afferma ad un certo punto in tono di derisione che una democrazia reale non è, in base alla concezione marxista, uno Stato (p. 42 [78] ), (vale a dire uno Stato di classe), con questa proposizione, assolutamente esatta, ma da lui ritenuta un’assurdità, testimonia semplicemente come la particolare terminologia che egli adopera sia destinata a girare a vuoto in un circolo infinito intorno al significato dei concetti marxisti. Non può accadere niente di diverso se si definisce, come fa Kelsen, il pensiero fondamentale, che risale a Saint-Simon, della trasformazione del governo, da un dominio su persone in un’amministrazione di cose, come una rappresentazione, « la cui apparenza seducente non può celare, ad un esame più approfondito, l’intima insostenibilità » (p. 54 [96]). Siamo ansiosi di scoprire in che cosa debba risiedere l’intima insostenibilità di un pensiero che l’intera storia teorica del socialismo moderno ha trattato come una tra le nozioni più significative e stimolanti. La risposta è stupefacente: tutto il contrasto tra una amministrazione di cose e un governo di uomini è soltanto’ apparente. Infatti per Kelsen non vi è alcuna amministrazione di cose, che non sia un’amministrazione di uomini, cioè la determinazione di una volontà umana da parte di un’altra; non vi è alcuna guida di processi produttivi, che non sia governo su delle persone, cioè motivazione di una volontà umana da parte di un’altra (p. 55 [97]). Innanzi tutto, abbiamo qui la riprova che invece di stabilire delle concrete distinzioni, si continua a giocare con le parole, come veniva fatto sin dall’inizio con l’ambiguità prodotta tra i termini kelseniani di Stato e dominio. Non resta che chiamare governo la direzione dei processi produttivi e immediatamente ci troveremo Página 179 di fronte a « una medesima realtà » che, come governo, dovremc incontrare ad esempio nella Russia zarista, nella Germania gugliel mina, nell’Inghilterra e nella Francia dell’imperialismo e nella società socialista. Ovunque ci imbattiamo — come si dice? — nella « motivazione di una volontà umana ad opera di un’altra » In questo modo sicuramente ogni distinzione tra governo e amministrazione viene superata ’ attraverso la vuotezza di un concetto formale che si adatta ad ogni convivenza umana. Ma pet ,ancorare più saldamente la confutazione della distinzione tra ur governo su uomini e un’amministrazione di cose, non è sufficiente a Kelsen il fraintendimento formale-giuridico; deve mettere in gioco anche l’equivoco materialistico del marxismo. Per Kelsen la differenziazione tra un governo su uomini e una amministrazione di cose ha nel complesso le sue radici più profonde nel materialismo economico. Nella misura in cui cioè l’economia diviene, per il marxismo, un processo impersonale di produzione, un movimento di « forze produttive » e di « rapporti di produzione » ipostatizzati, essa si libera — in questa astrazione condensata in una realtà fittizia — dagli uomini e dalle loro relazioni di motivazioni, cioè dalle loro relazioni di dominio, che, in quanto sistema politico, in quanto diritto e Stato, apparentemente conducono un’esistenza separata. E invece Kelsen crede di dover insegnare a noi marxisti: «Le cose e i processi produttivi non si adattano, in quanto tali, all’ordinamento economico. Suo oggetto sono soltanto le volizioni e gli atteggiamenti umani » ,(p. 55 [97]). In nessun luogo affiora più chiaramente di qui che la critica kelseniana del marxismo non è penetrata nello spirito di questa dottrina, ma ritiene di poter lavorare solo su singole citazioni, sebbene numerose, le quali del resto sono rimaste per essa un possesso del tutto frammentario. Diversamente infatti non le poteva sfuggire che proprio ciò rispetto a cui pretende di fornire degli insegnamenti al marxismo, rappresenta il punto nodale e l’ele mento teorico decisivo dell’opera di Marx. Appartiene ai pensieri fondanti dell’analisi del processo di produzione capitalistico ciò che Marx sintetizza nel famoso capitolo sul « carattere feticistico della merce » del primo libro del Capitale. Proprio ciò che Kelsen rimprovera al marxismo come una ipostatizzazione ’ del processo produttivo e dei rapporti di produzione, viene chiamato da Marx il carattere feticistico dei processi economici all’interno dell’economia capitalistica, perché essi simulano una indipendenza oggettiva, e le relazioni sociali tra gli agenti della produzione, tra gli uomini che stanno dietro di esse, si rivelano come il suo segreto. Página 180 L’arcano della forma di merce consiste dunque, semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini la immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali di quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto sociale tra oggetti esistente al di fuori di essi produttori. [...] Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini stessi. [nota 2] Già nel saggio popolare Lavoro salariato e capitale si può trovare attuata, in forma più concisa e tuttavia magistrale, la dissoluzione dell’apparenza oggettiva del modo di produzione capitalistico. E, a proposito dei rapporti di produzione ivi si dice: « Per produrre, essi [gli uomini] entrano gli uni con gli altri in determinati legami e rapporti, e ...] la produzione ha luogo soltanto nel quadro di questi legami e rapporti sociali ». E, come la produzione stessa può essere compresa soltanto come processo di natura umana, ma sociale, cosí anche i mezzi di produzione non sono affatto semplici ‘cose’. I mezzi di sussistenza, gli strumenti di lavoro, le materie prime di cui il capitale è costituito, non furono essi prodotti e accumulati in determinate condizioni sociali, in determinati rapporti sociali? Il capitale non è dunque soltanto una somma di prodotti materiali; esso è una somma di merci, di valori di scambio, di grandezze sociali. E...] Soltanto il dominio del lavoro accumulato, passato, materializzato, sul lavoro immediato, vivente, fa del lavoro accumulato capitale. [nota 3] A questo punto non è più possibile soffermarsi ulteriormente sul modo in cui l’analisi economica di Marx dissolve il feticismo dei rapporti economici del mondo borghese, operazione che Kelsen chiama l’astrazione condensata in una realtà fittizia. Marx dimostra come il modo di produzione capitalistico costringa ogni lavoro sociale ad apparire al suo interno come un lavoro privato e come, per questo motivo, il nesso sociale specifico della produzione debba rimanere celato sia ai capitalisti che agli operai. Attraverso i concetti di lavoro sociale e di valore di scambio, l’ultimo dei quali manifesta e al tempo stesso nasconde la natura sociale del lavoro, Página 181 l’analisi economica marxiana attua la soppressione del carattere fantasmagorico di una vita indipendente dei fenomeni economici e, lungi dal separare í rapporti di produzione e le forze produttive dall’uomo, conduce entrambi in una relazione molto stretta, che dev’essere caratterizzata in modo preciso, con l’agire e l’essere motivato dell’uomo. Solo grazie alla motivazione economica le ‘cose’ ottengono nel processo di produzione la loro efficacia in quanto forze produttive e rapporti di produzione. Una macchina filatrice di cotone è una macchina per filare il cotone. Soltanto in determinate condizioni essa diventa capitale. Sottratta a queste condizioni essa non è capitale, allo stesso modo che l’oro in sé e per sé non è denaro e lo zucchero non è il prezzo dello zucchero. [nota 4] Ma si dovrebbe trascrivere l’intero Capitale per ovviare agli equivoci che si trovano nella critica di Kelsen. Rispetto al nostro obiettivo i riferimenti già forniti sono sufficienti a evidenziare come il modo di pensare di Kelsen si lasci sfuggire nel suo complesso quello di Marx ed Engels. A questo punto risulta chiaro che per il marxismo la distinzione tra governo e amministrazione è cosí importante, proprio in quanto non gli può essere addebitato di inostatizzare i rapporti economici, che al contrario contribuisce a dissolvere. Viene dimostrato che questa ipostatizzazione è un’illusione necessaria nella società borghese di classe, la quale, dietro la condizione impersonale e anarchica dell’economia, in ciò molto simile a uno stato di natura, occulta il carattere umano e sociale dei fenomeni economici. Al contrario, con l’eliminazione di questa anarchia, vale a dire con la subordinazione della produzione al controllo della società, sparirà sempre piti anche l’apparente naturalità della produzione ed emergerà il suo carattere umano e sociale. Si passerà in misura crescente da un processo che domina gli uomini a un processo che viene dominato da essi. Ciò potrà attuarsi pienamente però soltanto attraverso la soppressione dei conflitti di classe e la organizzazione conforme a un piano della produzione, collocandosi dal punto di vista del fabbisogno della totalità. Allora sparirà anche l’ultima categoria, apparentemente contraddittoria, il valore di scambio, al posto del quale subentreranno la valutazione e la distribuzione sociali. La produzione si sarà trasformata completamente da uno strumento col quale una parte della società domina le altre, in un processo attraverso il quale la totalità sociale conserva e soddisfa se stessa. Questo pensiero è formulato da Engels nel brano citato anche da Kelsen, nel quale si dice che Saint-Simon ha anticipato a livello di pensiero Página 182 la totale conversione della politica in economia, e viene sin tetizzato in un altro brano con le parole famose: L’organizzazione in società (Vergesellschaftung) propria degli uomini, che sinora stava loro di fronte come una legge elargita dalla natura e dalla storia, diventa ora loro propria libera azione. Le forze obiettive ed estranee che sinora hanno dominato la storia passano sotto il controllo degli uomini stessi. Solo da questo momento gli uomini stessi faranno con piena coscienza la loro storia, solo da questo momento le cause sociali da loro poste in azione avranno prevalentemente, e in misura sempre crescente, anche gli effetti che essi hanno voluto. t questo il salto dell’umanità dal regno della necessità al regno della libertà. [nota 5] Com’è naturale anche il marxismo non mette in dubbio un istante quanto Kelsen ritiene di dover obiettare contro di esso, e cioè che « un dominio della natura da parte degli uomini non è possibile senza un dominio degli uomini su stessi, senza, cioè, la subordinazione a un ordinamento umano » (pp. 55-6 [98]). Al contrario Marx ed Engels ci hanno insegnato a vedere proprio nella sfera economica, che è poi una sfera sociale, l’ambiente attraverso il quale per la prima volta diviene possibile una forma di dominazione della natura. Ma ciò che conta è per l’appunto questo ambiente economico, o, per esprimerci nel linguaggio di Kelsen, il tipo « di subordinazione degli uomini a un ordinamento umano ». Kelsen stesso dev’essere consapevole che non tutte le forme di subordinazione sono equivalenti, in quanto aggiunge incidentalmente una frase che, dal suo punto di vista, appare marginale: « II dominio ’ dell’uomo non dev’essere naturalmente un asservimento ’ basato sullo sfruttamento » (p. 56 [98]). Anche qui la critica di Kelsen nel suo complesso si insabbia in concetti del tutto formali. La « subordinazione » degli uomini a un ordinamento umano per lui comprende sia l’amministrazione di un’economia collettiva, sia l’asservimento basato sullo sfruttamento, ambedue le cose sono per Kelsen « dominazione », e in questo modo di vedere, che rinuncia a ogni caratterizzazione sociologica, sicuramente la distinzione tra un governo su uomini e un’amministrazione di cose deve ridursi a un pensiero « privo di consistenza interna ». Infatti in questo vuoto concettuale, corrispondente a una « dominazione di uomini » assolutamente indeterminata, non esiste effettivamente nessun punto stabile che possa fornire un appiglio. A rendere pii difficile la soluzione degli equivoci di una teoria si aggiunge il fatto che esiste una logica propria degli equivoci, Página 183 attraverso la quale dai suoi errori si sviluppa un sistema nella cui interna coerenza il fraintendimento iniziale si consolida in un modo tanto piú stringente in quanto, grazie alla logica delle conclusioni, ci si illude riguardo alla erroneità del punto di partenza. In questa occasione abbiamo visto infatti come l’inesattezza nella interpretazione del significato del concetto di Stato in Marx risulti confermata e rafforzata dalla falsa teoria circa una presunta ipostatizzazione dei processi economici e politici — un modo di vedere che per un marxista è assolutamente inconcepibile, perché ogni processo economico è per lui contemporaneamente un fenomeno riguardante la vita giuridica e statale, e proprio nel marxismo ogni processo economico ha la sua sovrastruttura ideologica. Ora questa strana interpretazione del marxismo si rafforza ulteriormente in Kelsen attraverso la conclusione, che per lui naturalmente sembra scaturita dallo stato reale delle cose, mentre è solo il prodotto dei suoi errori, secondo la quale nella ipostatiz zazione dell’economia si trova « la radice teorica della scissione, così caratteristica del marxismo, tra teoria politica e teoria economica ». In questa prospettiva ambedue le teorie devono alla fine sfociare in quella contrapposizione secondo la quale « la dottrina economica di Marx conduce a una rigida organizzazione dell’economia, collettivistico-centralizzata — cioè, però, conduce tuttavia agli uomini che fanno economia; mentre la dottrina politica, evidentemente, aspira a un ideale anarchico-individualistico » (p. 55 [97-8]). Questa conclusione è esatta quanto lo sono le premesse: la contraddizione tra ciò che Kelsen chiama teoria economica e teoria politica del marxismo si fonda unicamente su una comprensione assolutamente inadeguata, che Kelsen rivela, in generale, circa la teoria economica marxista e in particolare circa la concezione materialistica della storia, come avevamo avuto modo di constatare già a sufficienza. Non modifica granché la situazione il fatto che Kelsen si sia richiamato nella sua interpretazione a un’opinione comune, diffusa sicuramente solo presso gli studiosi borghesi, riguardo al ‘materialismo’ economico in Marx ed Engels. Ciò dimostra soltanto che il marxismo viene criticato molto pitl di quanto non sia capito e che si crede sempre che, in base a un numero oiuttosto esteso di citazioni tratte dalle opere di Marx ed Engels, ci si possa risparmiare lo studio della loro dottrina nel suo insieme. Per quanto riguarda l’opinione, sostenuta ancora pi ú frequentemente da Kelsen nel suo libro, riguardo alla contraddizione esistente in Marx ed Engels tra un collettivismo economico e un anarchismo politico — un pensiero questo che non costituisce solo un’osservazione casuale, bensí il risultato specifico in cui deve sfociare la critica kelseniana — bisogna dire che un tale esito Página 184 è divenuto possibile non solo attraverso i fraintendimenti cui si è accennato circa l’analisi economica e la concezione materialistica della storia in Marx ed Engels; a ciò si aggiunge però anche una rappresentazione non molto chiara del contrasto specifico esistente tra socialismo e anarchismo. Solo cosi Kelsen poteva far russare il concetto marxista di libertà come ‘anarchico’. Poiché a tale riguardo neppure tra i socialisti regna la dovuta chiarezza, vogliamo fornire la possibilità di una valutazione piú approfondita di questo problema [nota 6]. Página 185 Capitolo quindicesimo Excursus sull’anarchismo 1. La negazione della costrizione, della legge e dell’autorità Che l’anarchismo non sia equivalente a una dottrina dell’assoluta mancanza di ordine e di totale arbitrio viene oggi comunemente riconosciuto anche dalla critica dotta avversaria. Una testimonianza particolarmente significativa di come una tale veduta non sempre sia esistita, e di come ancora oggi non sia del tutto bandita una certa opinione popolare borghese, la quale vede nell’anarchismo semplicemente la soppressione di ogni ordinamento, ci viene fornita da Karl Diehl, che nelle sue lezioni molto utilizzate su Sozialismus, Kommunismus una’ Anarchismus ritiene necessario respingere esplicitamente l’opinione secondo la quale « l’anarchismo rappresenta solo una setta di criminali, priva di ogni programma politico e sociale » [Nota 1] Ma, in generale, a partire dallo scritto di Stammler [Nota 2], che ha esercitato un influsso molto profondo sul giudizio relativo all’anarchismo, si ammette che anche l’anarchismo sia una dottrina dell’ordinamento sociale, solo tale da escludere la costrizione e da fondarsi sulla semplice convinzione. Se questa distinzione abbia una qualche validità dovrà essere stabilito in seguito. Ma se è una constatazione indiscussa che anche l’anarchismo è una dottrina dell’ordinamento sociale, ad essa generalmente si accompagna la rappresentazione, secondo la quale l’anarchismo comunque nega la costrizione. E, nella misura in cui non si ha una rappresentazione chiara di che cosa significhi questo rifiuto della costrizione, per cui non si solleva affatto la domanda intorno al genere di costrizione che l’anarchismo rifiuta, se cioè il concetto, Página 186 di costrizione non sia in questo caso qualcosa di specifico, che non viene caratterizzato in modo sufficientemente chiaro dal termine costrizione, sorge quella confusione nel modo di vedere, a causa della quale il concetto di anarchismo deve alla fine apparire nuovamente come un concetto pienamente contraddittorio. Infatti non si può pensare da ultimo un ordinamento senza costrizione messa in atto contro la minaccia di disordine. Il rifiuto, pertanto, di ogni costrizione mette in dubbio la serietà della volontà di instaurare un ordinamento anche nella società anarchica. E sicuramente questa contraddizione è molto diffusa anche nella propaganda popolare dell’anarchismo, ché in generale, anzi, l’approfondimento rigoroso dei suoi concetti e delle sue intuizioni non è tra le virtú dell’anarchismo. Ciononostante è vero che anche l’anarchismo aspira a un ordinamento e perciò non rifiuta la costrizione in quanto tale, ma soltanto la costrizione che scaturisce dall’antagonismo di classe su cui si basa un ordinamento di dominio. L’anarchismo difende l’assenza di leggi solo nel senso che respinge la legge intesa come volontà di potenza codificata di una classe sociale sulle altre. L’ordinamento che scaturisce al contrario dalla comunità solidale di interessi e di lavoro delle persone unificate da essa, non solo l’anarchismo lo riconosce in quanto tale, lo designa persino molto spesso come legge, ma è anche deciso a difenderlo con tutti gli strumenti di potere messi a disposizione dalla società solidale. Per un’esatta comprensione dell’anarchismo e — ciò che ad essa è collegato —, del suo rapporto col socialismo, l’elemento essenziale consiste nel non restare legati a concetti puramente formali e di non rassicurarsi con la frase, che l’anarchismo rifiuta ’la costrizione ’. Ci si deve piuttosto chiedere: che tipo di costrizione viene rifiutato? A questa domanda non si può rispondere da un punto di vista formale-giuridico, ma solo attraverso l’analisi della diversa natura sociale che la costrizione rappresenta, a seconda che sia esercitata in una società di classe o in una senza classi. Se consideriamo in questa prospettiva la cosa, risulta che propriamente nessuno dei teorici riconosciuti come anarchici ha negato la costrizione nella società; e ciò vale invero non solo per i teorici di orientamento comunista, ma anche per quelli di tendenza individualistica. Cosí Proudhon non rifiuta affatto la regolamentazione della vita sociale attraverso leggi e, ciononostante, dice di sé: « Sebbene io sia assolutamente un amico dell’ordine, sono anche anarchico nel significato pieno della parola » [Nota 3]. Egli pone il quesito: L’autorità Página 187 dell’uomo sull’uomo è giusta? Tutti rispondono: No, l’autorità dell’uomo non è che l’autorità della legge, la quale dev’essere giustizia e verità » [Nota 4]. E ambedue questi termini non significano per lui una semplice enunciazione etica, ma, come viene chiarito soprattutto nell’ultimo capitolo dell’opera citata in precedenza, il riconoscimento critico e sociale che in un ordinamento della società, che in luogo della diseguaglianza economica ha posto l’uguaglianza delle condizioni di benessere per ognuno, le leggi non si presentano piú come un esercizio di potere da parte di alcuni uomini contro altri uomini, bensí come regole della loro esistenza, che scaturiscono dalla natura della società e che si producono grazie all’esplorazione scientifica della medesima. Tutto ciò che è materia di legislazione e di politica è oggetto di scienza, non d’opinione: il potere legislativo appartiene solo alla ragione metodicamente riconosciuta e dimostrata. [...] Giustizia e legalità sono altrettanto indipendenti dal nostro assenso che la verità matematica. [...] Il popolo è il custode della legge, il popolo è il potere esecutivo. Ogni cittadino può affermare: Questo è vero; quello è giusto; ma la sua convinzione impegna lui solo: affinché la verità ch’egli proclama divenga legge, occorre che sia riconosciuta. Ora, che cosa vuol dire riconoscere una legge? vuol dire verificare un’operazione di matematica o di metafisica: vuol dire ripetere un esperimento, osservare un fenomeno, constatare un fatto. Solo la nazione ha il diritto di dire: Prescriviamo e ordiniamo. [Nota 5] Come si vede Proudhon non mette di fatto in dubbio che anche la società anarchica avrà un ordinamento e delle leggi, che potranno essere imposte con la forza, ma vuole soltanto richiamare l’attenzione sul fatto che questa costrizione ha un carattere diverso da quella esistente in una società classista. Essa si trasforma, da una costrizione di uomini contro uomini, in una costrizione dell’ordinamento oggettivo su tutti, allo stesso modo in cui le leggi matematiche o fisiche esercitano una costrizione nei confronti di tutti. Una tale legge, « risultando dalla scienza dei fatti e di conseguenza fondandosi sulla stessa necessità, non urta mai l’indipendenza » [Nota 6]. Tra parentesi dobbiamo osservare come il pensiero di Saint-Simon, trattato così sprezzantemente da Kelsen, e che riguarda la trasformazione del governo sugli uomini in un’amministrazione di cose, ritorni qui, in Proudhon, in una forma autonoma, e come esso domini anche l’intero sviluppo del pensiero socialista. Questa intuizione fondamentale della sostituzione del governo con un’amministrazione, non solo non esclude, com’è naturale, l’appliPágina 188 cazione della forza contro coloro che turbano questa amministrazione, ma esso è appunto uno dei còmpiti dell’amministrazione stessa. Ma, probabilmente, un tale cambiamento totale del carattere dell’ordinamento elimina a tal punto le occasioni in cui esso può essere turbato che, queste ultime, effettivamente, potranno essere piuttosto, quasi esclusivamente, di natura patologica o criminale. In un’opera successiva Proudhon adopera l’espressione « mutualismo » per indicare il carattere cambiato del nuovo ordinamento costrittivo. A ognuno s’impone la domanda se egli vuol rispettare le regole, « che unicamente, secondo la natura delle cose, sono in grado » di garantire nel massimo grado il benessere e la libertà di tutti. « Se dici di no, sei un selvaggio. Ti sei staccato dalla comunità e ti sei reso sospetto. Niente può proteggerti. Per la piú piccola offesa chiunque ti può uccidere e lo si può al massimo rimproverare di crudeltà gratuita verso una bestia feroce » [Nota 7]. Ovviamente non ci interessa stabilire, né in Proudhon, né in qualsiasi altro anarchico successivo, il modo in cui si sono raffigurati il futuro ordinamento della società, bensí soltanto dimo strare come ad essi non sia mai venuto in mente di ipotizzare una società in Cui non risultasse possibile applicare la costrizione contro coloro che fanno resistenza. Anarchismo significa per essi assenza di dominio, ma non di autorità e di costrizione. Assolutamente affine è la dottrina di Bakunin. Egli ritiene necessario chiarire esplicitamente, in che senso intende essere anarchico: soltanto nel senso che vuole abolire ogni ordinamento giuridico basato su privilegi. In una parola, noi respingiamo tutte le legislazioni, autorità c sistemi di influenze (Beeinflussung), basati su privilegi, brevettati, ufficiali e legali, anche se sono scaturiti dal suffragio universale, giacché siamo persuasi che si possono volgere sempre a vantaggio di una minoranza dominante e sfruttatrice contro gli interessi della stragrande maggioranza asservita. In questo senso siamo effettivamente anarchici. Ma, in un altro brano leggiamo: Da ciò deriva forse che io respingo ogni autorità? Questo pensiero è lungi da me. Se mi occorrono degli stivali, mi rivolgo all’autorità del calzolaio, se si tratta di una casa, di un canale, o di una ferrovia, interpello l’autorità dell’architetto o dell’ingegnere. Per una qualsiasi scienza specialistica mi rivolgo a questo o a quell’uomo di cultura. [Nota 9] Página 189 Cosí vanno le cose nella vita quotidiana. Ma anche nella vita sociale esiste un’autorità che garantisce un ordine stabile della società. L’unica grande e onnipotente autorità, al tempo stesso naturale e razionale, l’unica che possiamo rispettare, sarà quella scaturita dallo spirito collettivo e pubblico di una società fondata sulla eguaglianza e la solidarietà e il rispetto umano reciproco di tutti i suoi membri. [Nota 10] Del tutto in accordo con ciò, ma in modo ancora piú evidente, viene affermato un’altra volta: Per quanto sono un nemico di ciò che in Francia si chiama disciplina, così riconosco nondimeno che una disciplina uguale, non automatica, ma volontaria e meditata, tale da accordarsi con la libertà degli individui, è e resterà sempre necessaria; e precisamente ogni volta che molti individui uniti spontaneamente vorranno svolgere qualche lavoro o azione in comune. Questa disciplina non è quindi niente altro che l’accordo spontaneo e meditato tra tutti gli sforzi individuali per il raggiungimento di un obiettivo comune. Nell’istante dell’azione, nel mezzo della lotta, com’è naturale, i ruoli si scindono, in base alle capacità di ciascuno, valutate e giudicate dall’intera comunità: gli uni dirigono e comandano, altri eseguono gli ordini. [...] In questo sistema non esiste un vero e proprio potere. Il potere risiede nella comunità (Gerneinschaftlichkeit) e diventa la autentica espressione della libertà di ognuno, la leale e sincera realizzazione della volontà di tutti; ognuno obbedisce solo perché colui che dirige gli ordina ciò che egli vuole fare. Se, in relazione alla comprensione della distinzione, comune anche al socialismo, tra sottomissione (Unterwerfung) e subordinazione (Unterordnung), sembra che essa, in Bakunin, risulti riferita principalmente soltanto alla disciplina della lotta rivoluzionaria, tuttavia non vi è alcun dubbio che egli con ciò vuole caratterizzare l’essenza di un ordinamento sociale in generale, in cui l’esercizio della costrizione non si basi sul dominio di un uomo sugli altri, ma sulla solidarietà di tutti. Anche per gli anarchici esiste dunque obbedienza a comandi e a leggi, solo che questi saranno costituiti internamente in modo diverso dalle leggi attuali. Ciò è confermato esplicitamente da Bakunin: Che cos’è libertà? Che cos’è schíavitú? La libertà consiste forse nella ribellione alle leggi? No, se si tratta di leggi naturali, economiche e sociali, che non vengono imposte in modo autoritario, ma stanno nelle Página 190 cose, nelle relazioni, nelle situazioni stesse, di cui esprimono lo sviluppo. Sí, se viceversa sono leggi politiche e giuridiche che vengono imposte da uomini a altri uomini, sia arbitrariamente col diritto della forza, sia ipocritamente, in nome di una qualche religione o dottrina metafisica, sia infine in virtù di quella finzione, di quella bugia democratica che è il suffragio universale. (Nota 12) Certamente l’anarchismo già nella propaganda bakuninista e a partire da essa, quasi sempre, fino ai giorni nostri ha fatto a tal punto della lotta contro ogni autorità e legalità semplici parole d’ordine per la mancanza di giudizio e i puri istinti di potere delle masse, che da tutto ciò si è sviluppata quella forma retorica e contraddittoria che è a tutt’oggi l’anarchismo. Infatti nella sua forma concettuale esso vive ormai solo nei libri. Ma che proprio a questa forma concettuale non sia estranea la costrizione contro coloro che fanno resistenza può essere desunto con chiarezza da una circostanza molto interessante e significativa, dal punto di vista storico-letterario e storico in generale. Infatti solo cosí è stato possibile a Marx ed Engels dimostrare, attraverso la critica del bakuninismo, resasi necessaria sulla base della lotta interna all’Internazionale, che proprio da questo socialismo, che vuole apparire cosí antiautoritario ’, scaturisce un richiamo addirittura imperioso all’autorità, sia nella lotta rivoluzionaria, che nella nuova società che dev’essere fondata ex novo”. Cosí si legge nelle Pubblicazioni della società ’Il Giudizio Popolare ’, che erano al servizio del movimento bakuninista, in un articolo intitolato Principi fondamentali dell’ordine sociale futuro, che, dopo la rivoluzione, tutti i mezzi di sussistenza diventeranno immediatamente di proprietà comune. Viene annunciato il lavoro obbligatorio per tutti, la fondazione di società operaie (arteli) e viene abbozzato un piano di lavoro. Nel corso di un certo tempo, ogni individuo deve entrare nell’uno o nell’altro artel’, a sua scelta. coloro che saranno rimasti isolati o non si saranno aggregati a gruppi operai senza una ragione valida, non avranno diritto di acc né alle mense comuni, né ai dormitori comuni, né a qualunque edificio destinato al soddisfacimento dei differenti bisogni dei fra Página 191 lavoratori, o agli edifici che contengono prodotti, materiali, viveri o strumenti destinati ai rami della società operaia costituita; in breve, chi senza una ragione valida non ha aderito a un artel’, rimane senza mezzi di sussistenza. Tutte le strade, tutti i mezzi di comunicazione gli saranno interdetti; non gli rimarrà che l’alternativa tra il lavoro o la morte. [Nota 14] Negli stessi termini si esprime Kropotkin, in relazione a coloro che vorranno turbare l’ordine basato sulla libera associazione dei gruppi produttivi confederati: « Dal momento che volete porvi sotto particolari condizioni ed evitare le file dei compagni, è molto probabile che nelle vostre quotidiane relazioni con gli altri cittadini farete la seguente esperienza. Vi si tratterà come un fantasma della società borghese e vi si sfuggirà (...)» (Nota 15). Per Kropotkin non è affatto in questione che la solidarietà dei compagni che fanno parte dei gruppi, nei casi rari in cui, secondo la loro opinione, sarà turbato in modo malevolo e irragionevole l’ordine, potrà fare ricorso a strumenti di costrizione che di sicuro non dovranno avere niente in comune con quelli adoperati dall’attuale diritto penale. A tale riguardo ci sarà ancora qualcosa da dire. Se cosí stanno le cose presso gli anarchici di tendenza comunista, è molto interessante vedere come l’atteggiamento degli anarchici individualisti, rispetto all’ammissione di una costrizione per garantire l’ordine sociale, sia di gran lunga più deciso. Max Stirner combatte contro lo Stato, in nome della libertà, della particolarità (Eigenheit). In seguito ci occuperemo ancora di questo concetto fondamentale per la comprensione del rapporto fra socialismo e anarchismo. Stirner non prova nessun interesse per la libertà pura, come se la rappresenta la borghesia. Non ho nulla da obiettare contro la libertà, ma ti auguro qualcosa in più che non la sola libertà; tu non dovresti semplicemente essere libero, sciolto da ciò che non vuoi, dovresti anche avere ciò che vuoi, non dovresti essere soltanto ’libero ma anche proprio (Eigner). (Nota 16) Per salvaguardare questa particolarità (Eigenheit) al posto dello Stato subentra l’associazione degli egoisti. Ciò non significa però che per Stirner venga a cadere ogni eventuale regolamenatzione costrittiva. « Sarebbe stolto pretendere che non sia esercitato alcun potere su ciò che è mio. Soltanto che l’atteggiamento che mi imporrò nei suoi confronti sarà radicalmente diverso, rispetto a quello Página 192 avuto nell’epoca religiosa » (Nota 17), alla quale, secondo Stirner, appartiene anche la nostra epoca con il suo dogma della « sacralità della legge ». Suona invero molto anarchico ’, allorché Stirner dice: « Se io ho o non ho diritto, non c’è nessun giudice che possa stabilirlo, all’infuori di me stesso ». Ma questa frase esprime appunto dunque soltanto il mutato atteggiamento interiore del è singolo rispetto al concetto di diritto, in base al quale esso non è più concepito come un potere estraneo, esteriore e persino misterioso, posto al di sopra di lui, ma con ciò non si nega affat un legame effettivo con esso. Infatti subito Stirner aggiunge: Suciò gli altri possono soltanto giudicare e valutare, se essi sono d’accordo col mio diritto e se questo sussiste anche per essi come diritto » (Nota 18). Il « diritto di tutti », il « diritto della umanità », viene respinto da Stirner solo nella misura in cui esso è uno strumento per opprimere il singolo in nome di una comunità che non abbraccia anche lui. « Non lo difenderò come un diritto di tutti » (dunque ciononostante si parla di un difendere) « ma come il mio diritto [... ]» (Nota 19). È assolutamente sbagliato dunque ritenere che la « associazione degli egoisti » rappresenti unicamente un gruppo sciolto giacché all’unico è consentito in fin dei conti tutto ciò che vuole. La questione è intesa in termini completamente diversi da Stirner. « Troverò mai in una qualche società una libertà cosí illimitata di potere (Diirfens)? Sicuramente no.» E se colui che sostiene lo Stato pensa trionfante che in questo modo si ritornerà all’antico Stirner risponde: « Niente affatto! Si tratta di una cosa comp tamente diversa se io faccio capo ad un io o ad un popolo, ad universale » (Nota 20). Si vede con molta evidenza qui che per Stirner l’importante non è negare l’ordinamento costrittivo, in quanto tale, bensí mostrare il carattere profondamente mutato che assumerà dopo la soppressione della organizzazione sociale di classe esistente e dopo la soppressione della ideologia statale, che deriva da essa, di una legge universale ’. Soltanto ora si comprendono interamente le seguenti frasi che illuminano con estrema chiarezza l’atteggiamento degli anarchici verso la questione della costrizione’. Vi è una differenza se attraverso una società è la mia libertà o la mia particolarità (Eigenbeit) ad essere limitata. Nel primo caso la società è un’associazione, un accordarsi reciproco, un’unione; ma quando minaccia il tramonto della particolarità, la società rappresenta un potere per sé, un potere che sta al di sopra di me [...]. In relazione alla libertà, però, lo Stato e l’associazione non sottostanno a una diversità Página 193 senziale. La seconda può sorgere ed esistere senza che la libertà sia mítata, altrettanto poco quanto lo Stato si concilia con una libertà limitata. E...] Certo, l’associazione non solo offrirà un grado maggiore di libertà, ma, in particolare, potrà essere ritenuta una nuova libertà ’, ..rché, grazie ad essa, ci si sottrae ad ogni costrizione tipica della vita atale e sociale; ma tuttavia essa conterrà ancora abbastanza illibertà mancanza di volontarietà. Perché, appunto, il suo scopo non è . libertà, che essa al contrario sacrifica alla particolarità (Eigenbeit), La tuttavia soltanto alla particolarità. (Nota 21) Non si può esprimere il fatto che anche l’ordinamento sociale ‘anarchico’ sarà, nella sua forma molto individualistica, un ordinamento costrittivo, in modo piú drastico di quando si dice, come fa Stirner, che nei confronti dell’arbitrio del singolo non ci si comporterà diversamente dallo Stato. Prendiamo infine Benjamin Tucker. In una conferenza a carattre propagandistico, destinata a esporre il contenuto essenziale della sua dottrina, dice: Ci si chiede: ”che cosa dovrà accadere con quegli individui che sicuramente continueranno a infrangere la legge, aggredendo i loro vicini? ”. Gli anarchici rispondono che la soppressione dello Stato lasscerá sussistere un’unione difensiva che non si fonderà più a lungo su una base di tipo costrittivo, ma su una volontaria e che contrasterà gli aggressori con tutti gli strumenti di cui sarà necessario avvalersi. Ma si tratta per l’appunto di ciò che già abbiamo ”, è la risposta. Essi (gli anarchici) vogliono in fondo dunque solo un cambiamento i nome ”. Non precipitiamo le cose, per favore. Si può affermare anche per un solo istante con serietà che lo Stato, perfino quale esiste si qui in America, sia una istituzione puramente difensiva? Sicuramente no, eccetto per quelli che vedono dello Stato solo la sua manifestazione piú tangibile — i poliziotti agli angoli della strada. [...] Indaghino pure i codici. Troveranno che ben i nove decimi di tutte le leggi esistenti, servono non ad attuare quella fondamentale legge sociale, ma ,[...] a far sorgere e a conservare monopoli di proprietà commerciali, industriali, finanziari, i quali derubano il lavoro di una grossa fetta Dell’utile che verrebbe ricavato in presenza di un potere completamente libero. (Nota 22) Trasferito dal linguaggio impreciso di Tucker in concetti chiari, ciò significa che si può parlare di un’associazione difensiva che subentra allo Stato, soltanto nel caso in cui si fondi, invece che sul conflitto tra le classi, sulla solidarietà economica, la quale pone, in luogo della « base di tipo costrittivo », vale a dire dell’ordinamento Página 194 istituito dalla classe dominante, un ordinamento volontario basato quindi sulla solidarietà di interessi tra i membri della comunità. E cosí anche Tucker conclude con quel brano di Proudhon, citato precedentemente, in cui si minacciano coloro che turbano questo ordinamento, di essere esclusi dalla società e di essere trattati da selvaggi (Nota 23.) Nella sua opera principale Instead of a Book. A Fragmentary Exposition of Philosophical Anarchism (New York 1893), si trova espresso in modo ancora pili chiaro di qui il punto di vista indicato. Purtroppo non ho potuto procurarmi questo libro. Ma il Dr. Paul Eltzbacher, nel suo scritto Der Anarchismus, che riferisce in modo molto obiettivo sull’argomento, ha fornito estratti cosí ampi di questo libro, da restituire con chiarezza il carattere della dottrina di Tucker nella sua globalità. Questo anarchico insegna dunque: La resistenza contro un’aggressione esterna non è a sua volta un’aggressione, bensí una difesa. É anche giustificato impedire tali violazioni. Inoltre è indifferente se questa resistenza Proviene da un singolo contro altri singoli, oppure da parte di una comunità contro un criminale per impedirgli di nuocere. Saranno valide pertanto anche nell’ordinamento anarchico delle norme giuridiche, vale a dire norme che riposano su una volontà generale, e la cui osservanza viene imposta con tutti i mezzi, anche con la prigione, la tortura e la pena di morte. Di fronte alla violazione della persona o della sua proprietà legittima gli anarchici sono decisi a rendere impossibili innanzitutto le cause di queste violazioni (Verletzungen); bensí ”di fronte ad esse non rifuggiamo neppure da alcuna disposizione violenta (Gewaltmassregel) che sembri consigliata dalla ragione e dalle circostanze ”. ” L’anarchismo riconosce il diritto di arrestare, di perseguire, di condannare e punire il delinquente. ” Con ciò non viene esercitato un dominio, dominio infatti è l’assoggettamento di un uomo pacifico a una volontà estranea. Al contrario il perseguire (Verfolgung) in questo caso è la difesa contro un uomo aggressivo, che interferisce nella volontà solidale dei suoi compagni, e il suo assoggettamento. ”Non esiste nessun principio della nostra vita associata il quale ci impedisca di difenderci in ogni modo da un’aggressione ”. Su tutti questi casi si pronunceranno le corti d’assise, ma non in conformità a una legge rigida, bensí attraverso una libera scoperta del diritto in ogni singolo caso. (Nota 24) La visione esatta, secondo la quale il concetto di anarchia non significa disordine ma solo assenza di dominio, dev’essere ampliata, pertanto, nel senso che esso non solo non esclude ma comprende anche il concetto di un ordinamento costrittivo della vita sociale, Página 195 solo che esso insegna appunto il mutamento sociologico di questo carattere della costrizione, in seguito al quale le persone ad esso assoggettate non l’avvertiranno più come una costrizione. Se gli anarchici negano il diritto ’ e ’la legge ’, si tratta sempre del ritto e della legge di una società di classe, è sempre quel genere di imposizione di norme sociali che si rivolge il singolo come una realtà estranea, ostile ai suoi interessi vitali. Ciò lo abbiamo già visto in Bakunin e Stirner e cosí leggiamo in modo addirittura esemplare in Kropotkin. La legge è un prodotto relativamente moderno; infatti l’umanità è esistita per secoli e secoli senza ima legge scritta. [...] Le relazioni reciproche tra gli uomini a quel tempo erano regolate in base a consuetudini e a costumi, che la ripetizione continua rende sacri e ognuno nella propria infanzia ha assimilato. [...] Ma non appena la società incominciò a scindersi sempre più in due classi contrapposte — di cui l’una cerca di imporre il proprio dominio all’altra, l’altra cerca di sottrarvisi — iniziò la lotta. Il vincitore di oggi si affretta a rendere immutabile il fatto compiuto. [...] La legge fa la sua apparizione, benedetta dai preti, con le armi dei soldati al suo servizio. (Nota 25) Gli anarchici negano questa legge, questo diritto, che una volta Holderlin ha definito acutamente « il dispotismo della legge, l’ingiustizia sotto le specie del diritto », e a proposito del quale egli aggiunge con amarezza che « il figlio del Nord lo sopporta senza riluttanza ». Perché, se l’orientale — per una sorta d’impulso all’ossequio — sopporta il suo dispotismo dell’arbitrio, « nel Nord si crede troppo poco alla vita pura e libera della natura, per non attaccarsi con superstizione a ciò ch’è legale » (Nota 26) . t questa forma contraddittoria, in cui si manifestano la legge e il diritto, ad essere combattuta dagli anarchici, ma non un vincolo legale e giuridico, che, al contrario, vogliono per la prima volta realizzare socialmente, come emanazione di una giustizia e di una solidarietà reali (Nota 27). Página 196 Per esaminare ciò in modo abbastanza chiaro, non ci resta che sottolineare infine come la costrizione di un ordinamento costrittivo della vita sociale non debba attuarsi necessariamente nelle forme in cui si sviluppa oggi, vale a dire in una società che si basa sull’antagonismo di classe, nella quale l’ordinamento giuridico è effettivamente una costrizione per intere fasce della popolazione, limitate nei loro interessi sociali da essa. In che cosa consiste dunque la costrizione ’ dell’ordinamento giuridico? In minima parte nel fatto che qualcuno viene costretto direttamente a fare qualcosa, Página 197 per lo piú soltanto nell’indurlo a desistere da un certo modo di agire o di non agire, da lui altrimenti auspicato. La costrizione giuridica ottiene l’esecuzione di certe prestazioni che sono consentite dal diritto, oppure la omissione di azioni vietate, da un lato, attraverso l’inflizione di pene per colui che disubbidisce, dall’altro attraverso l’esecuzione (Execution), vale a dire imponendo un risarcimento statale a seconda dei mezzi del debitore. Ambedue le forme che garantiscono in modo costrittivo l’ordinamento giuridico non solo sono possibili anche in una società anarchica, ma sono persino contenute nel suo concetto di un ordinamento che si conserva grazie all’interesse unitario e solidale di tutti. Solo che il carattere degli strumenti di costrizione ha subito una profonda trasformazione corrispondentemente al livello di civiltà di questo ordinamento sociale. Oggi, anzi, non conosciamo neppure le sanzioni penali (Stralmittel) della C.C.C., dell’ordinamento penale del tribunale criminale (Halsgericht) di Carlo V, senza le quali la giurisprudenza progredita di allora — e quella carolina costituiva un progresso — non era certamente in grado d’immaginarsi una organizzazione costrittiva del diritto. Ma si tratta pur sempre di una punizione, sia che s’imprigioni colui che ha trasgredito un ordinamento sociale, sia che lo si escluda dal godimento della società. (Nota 28) E finché un membro della società resta e vuole restare Página 198 nel suo seno, può essere sempre reso responsabile, con ciò che è in suo possesso, dei danni e dell’inadempienza di contratti stipulati. Non potrà accampare pretese nei confronti della società, non rivendicherà il diritto di acquistare beni, di utilizzare istituti scientifici e culturali, di visitare i teatri ecc.; e non costituisce forse una punizione se la società gli sottrarrà tali pretese o gli proibirà siffatti godimenti, fino a quando non avrà adempiuto ai suoi impegni? Ma si tratta tuttavia evidentemente di un tipo di costrizione diverso rispetto a quello dell’ordinamento giuridico esistente perché l’applicazione di una tale costrizione si presenta come un semplice provvedimento volto a garantire un interesse amministrativo comune ai membri della società, il che significa che mira a salvaguardare un ordinamento nel quale non sussiste nessun conflitto di interessi, ma che può essere turbato nel caso specifico solo per stoltezza, o per le passioni o la criminalità di un singolo. Com’è naturale anche in questo ordinamento può svilupparsi un nuovo conflitto di interessi, a noi ancora sconosciuto, il quale produrrà un nuovo raggruppamento norl solidale dei membri della società. Quindi anche questa società sarà posta davanti a un nuov problema sociale di cui oggi però non possiamo ancora occuparci (Nota 29). Página 199 2. Ordinamento giuridico e ordinamento convenzionale Molto ha contribuito al fondamentale equivoco circa l’obiettivo anarchico della società concepito nei termini di un ordinamento sociale non solo privo di dominio, ma anche di costrizione, la determinazione concettuale (Begriffsbestimmung) che di esso ha dato Rudolf Stammler nella sua esposizione critica dell’anarchismo (Nota 30). Sulla base della sua presentazione l’anarchismo invero non aspira affatto al disordine, ma al contrario a un nuovo ordinamento sociale, tale però da non essere piú regolato attraverso il diritto. Esistono cioè, insegna Stammler, due tipi di ordinamento esterno della vita sociale, per i quali si deve completamente prescindere dalla eticità intesa come una imposizione di norme (Norrnierung) che si rivolgono alla interiorità dell’uomo: statuizione (Satzung) giuridica e regole convenzionali (Konventionalregel). La distinzione non risiede all’incirca nel fatto che la prima regolamentazione prende le mosse dallo Stato, la seconda no. Il diritto, piuttosto, può svilupparsi anche in organismi non statali, ad esempio in un’orda, in un popolo nomade o in una comunità come la Chiesa. La distinzione consiste esclusivamente in ciò: il diritto « avanza la pretesa di obbligare, del tutto indipendentemente dall’approvazione di coloro che sono assoggettati al diritto. [...] La regola convenzionale, nel suo significato specifico, vale solo in virtú consenso di colui che è assoggettato », sia che questa (regola) Página 200 venga espressamente seguita oppure riconosciuta attraverso una tacita obbedienza (ivi, pp. 23-4). L’anarchismo è la teoria di un ordinamento della vita sociale caratterizzato dal rifiuto di principio della costrizione, e che si basa semplicemente su regole convenzionali. Contro questa differenziazione già Kelsen ha formulato l’obiezione decisiva, secondo la quale essa è assolutamente insufficiente dal punto di vista logico, perché adopera il concetto di validità (Geltung) della regolamentazione in modo ambiguo e pertanto qui del tutto indeterminato. La validità di una norma può significare prima di tutto che essa effettivamente è valida, cioè viene di fatto seguita, ma in secondo luogo che essa deve essere seguita. Se si verifica il primo caso abbiamo che per il diritto il consenso o il riconoscimento da parte di chi vi è sottoposto è altrettanto essenziale quanto lo è l’essere seguite per le regole convenzionali. Al contrario nella seconda ipotesi — ed è quella che maggiormente ci interessa, infatti soltanto questo significato di validità è rilevante per l’esame delle forme di regolamentazione - il riconoscimento o - il consenso di coloro che sono assoggettati a delle regole sono, anche per le regole convenzionali, cosí poco essenziali quanto per le regole giuridiche. « Infatti anche quelle debbono essere osservate a prescindere dal fatto che il soggetto desideri o ritenga utile ciò. » Molto giustamente Kelsen dice che l’esempio fornito da Stammler per una norma convenzionale: « Chi non dà soddisfazione si trova fuori del codice d’onore cavalleresco », non dimostra affatto quanto Stammler si proponeva di fare, che cioè le norme convenzionali, da questo momento in poi, mancando un riconoscimento da parte del vigliacco ’, non hanno piú alcun valore per costui. L’esempio dimostra, bensí, proprio il contrario. Il codice cavalleresco perderebbe anzi ogni significato se potesse essere privato della sua efficacia per il mancato riconoscimento arbitrario da parte di colui che lo trasgredisce. « Nel disprezzo che colpisce chi nega la soddisfazione si palesa chiaramente che anch’egli sottostà al codice d’onore ». Non si potrebbe anzi neppure parlare della violazione di una regola convenzionale, se, chiunque non la seguisse, si ponesse per ciò stesso al di fuori della medesima (Nota 31) . Ora, in che cosa scorge Kelsen la differenza fra regola giuridica e regola convenzionale? Al riguardo egli non si è espresso in maniera particolare, perché, chiaramente, egli non attribuisce affatto a questa differenza lo stesso significato che le dà Stammler. Solo occasionalmente Kelsen ritiene che la differenza fra queste due regolamentazioni stia proprio là dove va cercata la differenza fra leggi giuridiche e leggi etiche, in particolare, nel fatto Página 201 che le seconde devono semplicemente essere seguite, mentre le prime possono anche essere applicate. Il diritto è un complesso di norme, che non devono semplicemente valere, ma la cui validità viene portata a compimento anche in caso di disobbedienza. La differenza della statuizione giuridica rispetto alla regola convenzionale consiste appunto « nella sua specifica possibilità d’applicazione ». La regola convenzionale può essere violata senza che colui che l’ha violata venga colpito, « come avviene invece nel caso del diritto, da un’organizzazione creata a questo scopo, con le conseguenze dell’ingiustizia da lui commessa ». Ciò che pertanto distingue l’una e l’altra regolamentazione è il fatte che la statuizione giuridica può essere non solo seguita, ma anche applicata, che essa ha dunque una possibilità di validità, per dir meglio: una possibilità di efficacia in piú rispetto alla regola convenzionale, e che ad essa è essenziale — proprio a causa della sua possibilità di applicazione — un’organizzazione esterna: il tribunale — in senso piú ampio, lo Stato. (Nota 32). Anche questa differenziazione di Kelsen dev’essere considerata come assolutamente insufficiente, e la indicazione della sua incompletezza ci introduce contemporaneamente alla conoscenza dell’elemento essenziale, di cui qui si tratta per la comprensione dell’anarchismo e del suo rapporto col socialismo: vale a dire che tra regole convenzionali e regole giuridiche non esiste in generale nessuna distinzione di ordine concettuale, ma sono soltanto diverse formazioni storiche dell’ordinamento costrittivo in generale. Prescindiamo qui per il momento completamente dall’imposizione di norme etiche (sittlichen Normierung), con la quale Kelsen ha messo in cosí stretta connessione la regolamentazione convenzionale, ma consideriamo immediatamente il presunto tratto distintivo tra regole convenzionali e regole giuridiche. Se appartiene all’essenza della regola giuridica il fatto che possa essere applicata ciò vale altrettanto per la regola convenzionale. L’importante è che si ponga in una relazione precisa l’applicazione con la norma a essa corrispondente. L’applicazione di una norma significa che per il violatore possono essere messe in atto delle conseguenze per la sua trasgressione della norma. Ma questo è ciò che si verifica in tutte le regolamentazioni di tipo convenzionale. O si incorre in una multa convenzionale, o si produce un’esclusione dalla comunità convenzionale, oppure il violatore viene punito con la revoca della stima e dell’accettazione sociali che altrimenti gli spetterebbero. Un” emarginazione’ e un ’boicottaggio’ permanenti sono forse conseguenze dell’infrazione di una norma meno sensibili di Página 202 una pena pecuniaria di mille corone o di ventiquattr’ore d’arresto? E non è neanche giusto che alla regola convenzionale manchi l’organizzazione per portare a compimento queste conseguenze dell’infrazione di una norma, né quelle originarie, né quelle create a questo scopo. La comunità degli uomini che fungono da portatori della regola convenzionale è essa stessa l’organizzazione originaria, non diversamente da com’è la comunità giuridica che amministra il diritto come semplice esercizio. E non di rado le regole convenzionali prevedono addirittura l’insediamento di tribunali arbitrali, cioè di un’organizzazione costituita per la loro applicazione. Se il violatore non si sottopone a questo tribunale arbitrale, ad esempio a un tribunale d’onore, ciò ostacola il funzionamento e il giudizio del tribunale tanto poco quanto accadrebbe se il delinquente o colui contro cui è intentato un processo non si presentasse, nonostante la citazione, davanti al tribunale dello Stato. La regola convenzionale non si distingue pertanto dalla regola giuridica né per la pretesa di validità, né per la possibilità di applicazione. Ambedue le regolamentazioni hanno una medesima essenza; come risulta anche dal fatto che continuamente regole convenzionali confluiscono, sotto forma di usi (Usancen) o di diritto consuetudinario, nel diritto, nella misura in cui vengono applicate da tribunali. Se ciò è possibile solo perché delle disposizioni positive della legge lo consentono, questa possibilità tuttavia dimostra che non sono elementi contenuti nell’essenza della regolamentazione convenzionale, bensí in primo luogo l’imposizione di norme (Normierung), voluta dalla legislazione, ad aver ricacciato la regolamentazione convenzionale in un ruolo puramente sussidiario. Ma esiste bensí una distinzione all’interno della regolamentazione sociale in generale, vale a dire a seconda dell’ampiezza e del significato dello scopo, da cui essa scaturisce. Ogni regolamentazione persegue un fine e viene da esso determinata. Dallo scopo che sta alla base del gioco di carte fino a quello dell’assicurazione e accrescimento della vita, si dischiude una serie innumerevole di scopi dei quali ognuno stabilisce il suo sistema di regolamentazione specifico. E a seconda della finalità la regolamentazione può essere di estensione piú o meno ampia. Esistono scopi, che si presume siano posti in ognuno, perché sono i fini etici. E da essi scaturisce un certo numero di regole sociali, che hanno un’estensione molto ampia, che abbracciano tutti gli uomini, valgono per tutti coloro che vogliono essere membri della comunità sociale. Ciò significa che la loro autoesclusione dalla comunità viene già colta come una violazione di questo sistema di regolamentazione. L’idea di una validità universale della regolamentazione, in quanto fondata su scopi, che ciascuno deve avere, è la vera e propria idea del diritto, propriamente detta. Essa comprende dunque le regole Pàgina 203 convenzionali, aventi uno scopo necessariamente universale, dalle quali si distinguono le altre regole convenzionali, per il fatto che i loro fini sono indifferenti dal punto di vista morale, e perciò sono rimesse a un atto arbitrario con cui possono essere istituite oppure no. Ciononostante anch’esse rientrano nella medesima categoria di regolamentazione, perché, una volta fissato il loro scopo, si immergono (per cosí dire) nell’idea di diritto. Ciò è testimoniato dal fatto che innanzitutto anche il contenuto di queste regolamentazioni non può mai entrare in conflitto con l’idea di diritto, e in secondo luogo, una volta che è stato stabilito lo scopo, la norma che scaturisce da esso, vale anche se uno di coloro che partecipano dello scopo non vuole attenersi a esso, anzi piuttosto questo comportamento d’ora in poi sarà considerato come cattivo’, persino nel senso delle regole convenzionali. Non è affatto ingiusto non proporsi come fine il gioco delle carte, ma barare al gioco non è semplicemente una violazione della convenzione del gioco delle carte, bensí è anche un’ingiustizia. Non considero affatto una carenza di quest’analisi, ma al contrario un utile chiarimento della essenza di quella struttura peculiare che noi abitualmente contrapponiamo, in quanto diritto, alla morale, il fatto che in questo modo l’idea di diritto appaia alla fine fondata sulla morale. Questo contrasto tra morale e diritto — come immediatamente dovrà essere dimostrato —, va spiegato in base alla trasformazione (Umformung) storica che la regolamentazione convenzionale deve sperimentare in una formazione sociale, che si basa sul conflitto di classe e che cosí rende possibile a una classe di imporre i suoi interessi parziali come interessi universali. La profonda distinzione istituita da Kant tra diritto e moralità resta ciononostante valida. Infatti costituirà sempre una differenza, se l’osservanza della norma scaturisce dal dovere o da altri motivi. Ma proprio perché la distinzione tra moralità e diritto consiste nel fatto che il comportamento ispirato dalla legge può fare a meno del sentimento del dovere (Pflichtgesinnung), non si può ignorare nondimeno che ogni legalità deve poter essere anche adempimento del dovere, e che una legalità, la quale non possa essere ciò (adempimento del dovere), viene avvertita sempre come una contraddizione rispetto all’idea di diritto. Rientra perciò nell’essenza del diritto il poter essere seguito in modo etico e il divario tra moralità e legalità è solo una realtà di ordine psicologico, ma non una diversità concettuale. La cosiddetta eteronomia del diritto non riguarda la sua essenza normologica, anzi viene piuttosto esclusa da questa, ma semplicemente il modo in cui esso si manifesta sul piano psicologico. Anche il diritto come insieme di norme che debbono essere universalmente seguite, senza riguardo al fatto che il singolo le riconosca anche di fatto, può Página 204 avanzare questa pretesa, solo perché il singolo deve riconoscere queste norme, il che significa non seguirle semplicemente, ma riconoscerle come un dovere. Ma il dovere può derivare soltanto dall’autodeterminazione autonoma della coscienza etica. Ciò che occulta ogni volta questo carattere della regolamentazione giuridica è che nel diritto positivo, nella legislazione statale dunque, è contenuta tanta ‘validità’ la quale sicuramente non è né etica, né autonoma. Rappresenta però l’inizio del chiarimento di questa discussione cosí intricata, riguardante il diritto e la morale, il comprendere infine che il diritto positivo non è innanzitutto e in primo luogo né diritto né morale, ma lo strumento di potere di un’organizzazione di dominio, e che pertanto non si può prendere le mosse dal diritto vigente, se si vuole cogliere l’essenza normologica del diritto, ma si può soltanto chiedere come mai sia possibile che il carattere di diritto possa essere attribuito a un ordinamento che contraddice il suo concetto. Risulterà allora che la distinzione all’interno di ogni regolamentazione sociale esteriore, vale a dire, tra una regolamentazione i cui fini sono necessari dal punto di vista morale e un’altra i cui fini sono moralmente indifferenti, è diventata significativa sul piano storico nella misura in cui determinati fini risultano provvisti di un potere cos í grande, da trovarsi in condizione d’imporre a ognuno il proprio sistema di regolamentazione. E solo a partire da questo momento si profila la distinzione tra regole giuridiche e regole convenzionali, nel senso comune del termine, che è per l’appunto solo di carattere storico-sociologico, vale a dire esprime il fatto che diventa diritto quella regolamentazione che prende l’avvio dallo Stato, cioè da una struttura sociale, in cui una classe dominante può fare del contenuto di proprie o di determinate regolamentazioni convenzionali un comandamento universale. E a questo punto sorgerà naturalmente una poderosa differenza tra i due tipi di regolamentazioni, in quanto il diritto ’ può essere imposto non grazie alle istituzioni create da esso, cioè dai membri della convenzione, per ottenere la sua applicazione, bensí grazie ai mezzi di potere creati e utilizzati dalla classe dominante. In questo modo il diritto ’ diviene quella struttura contraddittoria, che sicuramente si fa beffe di ogni elaborazione teorica, nel senso che dal punto di vista formale sembra possedere una validità universale, mentre sul piano del contenuto esprime solo una volontà parziale dei membri della comunità (Nota 33) Página 205 Ora anche da questo lato è stato posto in risalto che la distinzione specifica tra regole convenzionali e regole di diritto positivo, si riduce a quella esistente tra una regolamentazione che poggia sulla solidarietà di interessi e un’altra che, viceversa, si basa sul conflitto di interessi, e che l’apparenza per cui nella prima non esiste costrizione giuridica, consiste solo nel fatto che presso di essa è escluso dal punto di vista concettuale il carattere di eteronomia della regolamentazione, sebbene nel singolo caso essa possa risultare eteronoma sul piano psicologico. La negazione e la soppressione dello Stato, inteso come un dominio di classe e come strumento per applicare (Anwender) un ordinamento giuridico, il quale perciò dev’essere necessariamente un ordinamento di dominio, e la sua sostituzione per mezzo della regolamentazione convenzionale dei membri della comunità non significa in nessun modo quindi la negazione di una costrizione giuridica, ma unicamente il totale mutamento sociologico del suo carattere. 3. La distinzione specifica tra anarchismo e socialismo Forse Kelsen a questo punto della nostra esposizione ci obietterà che in realtà abbiamo soltanto portato acqua al suo mulino, essendoci data premura di provare la sua tesi, secondo la quale tra marxismo e anarchismo non esiste nessuna differenza di principio per quanto riguarda l’obiettivo sociale (p. 42 [ 78]). A ciò si deve rispondere che l’affermazione di Kelsen è certamente esatta, ma in un senso completamente diverso da quello che egli le attribuisce. In effetti non esiste nessuna distinzione di principio tra socialismo e anarchismo per quanto concerne l’obiettivo sociale, ma non perché il socialismo è in fondo anarchismo, bensí perché anche l’anarchismo è pur sempre socialismo, il che significa che è stato ed è un’organizzazione solidale della società. A prescindere Página 206 da ciò sussiste però un’enorme differenza tra le due direzioni, soltanto che si tratta essenzialmente di una distinzione attinente alla tattica, e che sicuramente, presso i singoli teorici dell’anarchismo, risale a una diversità delle concezioni di fondo riguardo all’essenza dell’unione (Verband) sociale e al modo di agire della legalità sociale. Sotto questo aspetto soltanto si può e si deve parlare di una diversità di principio tra anarchismo e marxismo. Il punto di partenza dell’anarchismo, concepito come teoria sociale, è l’individuo, quello del marxismo la società. L’anarchico costruisce la società sulla base del comportamento individuale, interpretato in un certo modo, sia che si tratti dell’egoismo cosciente di se stesso, di Stirner o di Tucker, oppure della reciprocità di Proudhon e di Kropotkin, o dell’amore di Tolstoj. Il marxismo viceversa conosce l’individuo solo come un membro della connessione sociale, dalla quale è interamente destinato all’odio e all’amore, all’egoismo e alla reciprocità; e questi ruoli caratteriali e la loro ampiezza gli vengono ogni volta assegnati in base alla sua posizione all’interno del processo produttivo. Ma questa diversità che esiste reallente in linea di principio tra marxismo e anarchismo, non si manifesta nell’obiettivo della trasformazione sociale, ma appunto nella via che essi considerano indispensabile per il raggiungimento di questo obiettivo, cioè nel tipo di percorso dello sviluppo sociale che essi espongono. Nel marxismo la volontà rivoluzionaria delle masse matura in relazione a questo obiettivo all’interno dello sviluppo economico, il quale progressivamente deve condurre strati sempre phi estesi della, società in conflitto con l’ordinamento economico e giuridico esistente. La ribellione della coscienza è la conseguenza di un processo economico. Nell’anarchismo questa ribellione è la prima cosa che dev’essere creata, anche se soltanto in un piccolo gruppo di uomini decisi, i quali, come capi, trascineranno con loro le masse e susciteranno in esse la volontà rivoluzionaria. Il marxismo vede prodursi in modo necessario la rivoluzione (Umwalzung) sociale, l’anarchismo ritiene che prima avviene meglio è. Per la comprensione dell’essenza specifica del socialismo e del suo rapporto con l’anarchismo mi sembra indispensabile diventare pienamente consapevoli — malgrado la diversità in linea di principio del punto di partenza teorico — di questa diversità puramente storico-tattica delle due direzioni per quanto concerne l’obiettivo, la quale sicuramente ha condotto, nell’immagine storica del movimento operaio, a enormi conflitti che hanno diviso in modo fatale la forza del socialismo. Ma dobbiamo guardarci, da un lato, dal sottovalutare il livello ideale (Ideenhöhe) dell’anarchismo e il suo significato per il socialismo stesso, dall’altro, dal rinsecchire il socialismo attraverso la eliminazione del pensiero della libertà e Página 207 dello sviluppo individuali, che è anche suo proprio, facendone un ideale produttivo, puramente economico, quale esso non è mai stato né sarà mai, in quanto movimento che vive nelle masse. Se gettiamo uno sguardo nella storia del socialismo, emerge che ciò che Kelsen chiama la tendenza anarchica del marxismo, la negazione dello Stato e l’accentuazione della libertà dell’individuo, di cui dovremo ancora discutere specificamente, ha rappresentato sin dall’inizio una componente essenziale di ogni sistema di pensiero socialista. In tal senso i grandi utopisti come Fichte e Weitling sarebbero tanto anarchici quanto Bakunin o Tucker A Saint-Simon risale il pensiero fondamentale, che Kelsen invero a torto (p. 178 di questo libro) ha presentato come una tesi tanto costante quanto inconsistente della concezione anarchica, secondo la quale il governo deve trasformarsi da un dominio sugli uomini in un’amministrazione di cose. In Robert Owen troviamo un disinteresse, che impronta tutto il suo modo di agire e che si accorda pienamente con l’anarchismo, troviamo anzi un rifiuto cosciente della lotta per i diritti politici, per la qual cosa si comportò, com’è noto, in modo assolutamente passivo di fronte al movimento cartista. Egli definisce ripetutamente leggi e governi come le fonti del male. Cosí dice una volta in un brano programmatico, che agli uomini viene imposta un’organizzazione sociale imperfetta attraverso « una trinità del potere ». Questa consiste: « in primo luogo, in religioni rivelate, escogitate dagli uomini; in secondo luogo, in leggi che sono in contrasto con le leggi della natura; in terzo luogo, in governi, basati sull’ignoranza e l’egoismo degli uomini [...] ». Al loro posto subentreranno ordinamenti per la produzione e la distribuzione della ricchezza, i quali sostengono se stessi, poggiano su una base scientifica, senza il ricorso al sistema barbarico e ingiusto finora adottato di punizioni personali e di ricompense personali. Questi nuovi ordinamenti consisteranno in istituti, ognuno dei quali è destinato all’assorbimento e alla conservazione di una comunità di 500-2000 anime nel consueto rapporto tra uomini, donne e ragazzi; tali comunità si reggeranno grazie all’aiuto del loro sapere piú avanzato e del loro zelo professionale diretto con cura, e si sosterranno attraverso gli ausili illimitati della chimica e della meccanica, che saranno applicate per liberare gli uomini da tutte le incombenze dannose alla salute e spiacevoli. (Nota 34) Il discorso di Owen concorda quasi alla lettera con la descrizione di una comune ‘anarchica’ di Bakunin o di Kropotkin. Fourier, infine, a maggior ragione di Proudhon dovrebbe essere Página 208 chiamato il padre dell’anarchismo. Egli appartiene insieme a Stirner ai filosofi dell’anarchismo, senza cessare con ciò di essere annoverato tra i più brillanti precursori del socialismo. Il suo pensiero conduttore, infatti, è lo sviluppo completamente libero dell’individuo attraverso il dispiegamento di tutti gli impulsi naturali, guidato da nessun’altra potenza all’infuori di quella della « naturale attrazione ». « La scelta completamente libera del lavoro, determinata dagli impulsi, è la destinazione dell’uomo ». Essa raccoglie gli uomini in « serie » e « file » di bisogni lavorativi, che si uniscono nei falansteri, all’interno dei quali in questo modo la produzione non è più organizzata attraverso una costrizione economica o politica, bensí « come lavoro organizzato su base societaria (sozietar)». Una rete di siffatti falansteri dissolve, nello scambio e nel sostegno reciproci, le precedenti aree economiche organizzate statalmente, la cui essenza Fourier non si stanca di caratterizzare come un sistema di violenza (Vergewaltigung) nei confronti della stragrande maggioranza dei suoi membri. Lo stato civilizzato, che cos’è? « Una minoranza, i dominatori, arma degli schiavi, che tengono a freno una maggioranza di schiavi disarmati » (Nota 35). Storicamente, dunque, la negazione dello Stato e della costrizione di dominio non costituisce una differenza all’interno della storia del socialismo. A partire da Godwin tutti i pensatori della rivoluzione sociale rappresentano più o meno questo punto di vista, e l’elemento decisivo è stato piuttosto unicamente la negazione dell’ordine economico capitalistico, e l’esigenza di un nuovo ordinamento della produzione e della distribuzione delle merci. Anche tra i pensatori che fanno parte dei precursori spirituali dell’anarchismo, con un’unica caratteristica eccezione, nessuno, né Godwin, né Fourier, né Stírner, si è dichiarato anarchico; questi ultimi due Página 209 hanno al contrario definito l’ordine economico capitalistico come la vera e propria anarchia e se stessi come coloro che lottano contro di essa. L’eccezione riguarda Proudhon il quale già nel suo scritto Che cos’è la proprietà? si è presentato esplicitamente come un anarchico. Ma proprio in questo caso è assolutamente chiaro che egli con ciò intende la negazione e la soppressione dello Stato e del diritto di classe, e infatti anche Marx, nella sua ampia e appassionata requisitoria contro Proudhon, non menziona affatto in genere il suo anarchismo’, inteso come obiettivo, cioè come sostituzione dell’ordinamento di dominio con una libera associazione fondata sulla reciprocità, poiché ciò non costituiva un elemento differenziante rispetto al socialismo. Ma certamente già nella Miseria della filosofia Marx combatte quelle rivendicazioni tattiche che dovevano sfociare nell’indirizzo assunto da certe direzioni dell’anarchismo posteriore, in particolare il rifiuto della lotta politica ed economica dei lavoratori, in vista di un successo parziale all’interno della società esistente. Marx caratterizza questa tattica, che concepisce la rivoluzione proletaria come un rovesciamento (Umwalzung) esclusivamente sociale, senza nessuna via traversa (Umweg) politica o economica, come una sorta di utopismo, come lo sforzo « di lasciare da parte l’antica società per potere entrare tanto meglio nella nuova società » (Nota 36). Di fronte a ciò Marx già in quest’opera giovanile richiama l’attenzione sul fatto che nel mondo basato sui conflitti di classe non può darsi ancora una rivoluzione sociale che non sia anche politica, e che anche la coalizione economica dei lavoratori, oltre agli scopi puramente economici, deve assumere, attraverso l’acquisizione di potere che essa conferisce alla classe operaia, un carattere necessariamente politico. Non si dica che il movimento sociale esclude quello politico. Non vi è mai un movimento politico, che non sia anche contemporaneamente un movimento sociale. Soltanto in un ordine di cose, in cui non vi saranno più classi e conflitti tra le classi, le evoluzioni sociali cesseranno di essere rivoluzioni politiche. (Nota 37) Questa è dunque la critica di Marx all’ ‘ anarchismo ’ di Proudhon; essa si riferisce esclusivamente alla via scelta per raggiungere l’obbiettivo, e né Marx né Engels hanno considerato Proudhon altrimenti che un socialista, solo, certo, alquanto utopista e piccoloborghese. Successivamente Proudhon ha sostituito, com’è noto, la denominazione di anarchismo ’ con quella di mutualismo ’. Ed è interessante il fatto che, dopo che l’anarchismo si è presentato come partito autonomo, esso non abbia voluto — come fra poco Página 210 sentiremo dire da Kropotkin — essere chiamato, sin dall’inizio e proprio riferendosi a Proudhon, anarchismo ’, per evidenziare il fatto che non voleva essere identificato con quello. In particolare si dovrebbe pensare, con ciò, al rifiuto, da parte di Proudhon, della lotta rivoluzionaria e alla sua propensione utopistica a favore di uno sviluppo pacifico in direzione della reciprocità (Gegenseitigkeit) grazie all’organizzazione del credito. La differenziazione tra socialismo e anarchismo si sviluppa per la prima volta in concetti chiari e di partito a cominciare dall’attività svolta da Bakunin contro l’Internazionale diretta da Marx e, perfino quest’attività, non significava ancora una distinzione per quanto riguardava il fine, bensí, in questo caso, e proprio ora, significava una distinzione semplicemente per quanto riguardava la via attraverso cui raggiungere questo fine, per quanto riguardava la tattica e le forme del movimento proletario. Era emersa con ciò una tendenza del socialismo, diversa da quella marxista, e che inizialmente non chiamava affatto se stessa anarchica. Ed è significativo che anche Marx ed Engels, proprio nei loro scritti polemici pubblicati in quel periodo contro i fondatori di questa tendenza parlino di essi non come di anarchici, ma come di « socialisti antiautoritari ». La denominazione di anarchico per questo movimento veniva adoperata in effetti più dagli avversari borghesi, che sotto la pressione della « propaganda » nichilista « dell’azione », facevano, a dire il vero, di ogni erba un fascio e denunciavano ogni lotta contro l’ordine esistente come « anarchica ». Per il piccoloborghese, anche se non necessariamente ignorante, ancora ai giorni nostri anarchico e socialista sono una medesima cosa. Riguardo alla origine di questa denominazione di partito (Parteibezeichnung) Kropotkin dice: Ci si rimprovera di aver scelto, come nostra denominazione, il termine anarchia, che incute timore a tanta gente. [...] Prima di tutto dobbiamo osservare che un partito di lotta, il quale si fa portavoce di nuove aspirazioni, raramente ha la possibilità di scegliere autonomamente il proprio nome. Non sono i mendicanti di Brabante, ad avere inventato questo nome, che più tardi divenne coti popolare. [...] La stessa cosa ’è accaduta agli anarchici. Allorché in seno all’Internazionale sorse un movimento che negava la legittimità dell’autorità allo interno dell’associazione e si ribellava a ogni forma di autorità in generale, questo gruppo prese — all’interno dell’Internazionale — dapprima il nome di tendenza federalistica, più tardi antistatale o antiautori tana. In quel periodo esso evitò persino di chiamarsi anarchico. La parola An-archia, cosí si scriveva allora, sembrava avvicinare troppo il nuovo gruppo ai seguaci di Proudhon, le cui idee di riforma economica venivano, in quella fase, combattute dall’Internazionale. Ma proprio per provocare confusione gli avversari si compiacquero di adoperare Página 211 questo nome; del resto esso permise loro di sostenere che le uniche aspirazioni del nuovo partito erano quelle di provocare disordine e caos, senza pensare alle conseguenze. Il movimento anarchico si affrenò ad adottare il nome che gli era stato dato. All’inizio esso insisteva ancora sul trattino tra an e archia, in quanto metteva in evidenza che in questa forma An-archia, derivata dal greco, significa senza dominio e non disordine; tuttavia ben presto assunse il nome, cosi come era, senza cercare di dare lavoro supplementare ai correttori di bozze e una lezione di greco ai propri lettori. (Nota 38) Nello scritto polemico di Marx Un complotto contro l’Internazionale vediamo che gli anarchici sono combattuti semplicemente in quanto rappresentano una tendenza retorica, poco chiara a se stessa e contraddittoria, del socialismo; essi vengono definiti membri dell’Alleanza della democrazia socialista (Allianzisten), anti autoritari, rivoluzionari sleali ’, ma non anarchici. Piuttosto, il concetto di anarchia viene difeso da Marx contro di essi. Scrive Marx nella circolare interna dell’ultimo Consiglio generale dell’Internazionale: L’anarchia, ecco il grande cavallo di battaglia del loro maestro Bakunin che di tutti i sistemi socialisti ha ripreso soltanto le etichette. Per anarchia, tutti i socialisti intendono quanto segue: una volta raggiunto lo scopo del movimento proletario: l’abolizione delle classi, il potere dello Stato che serve a mantenere la grande maggioranza dei produttori sotto il giogo di un’esigua minoranza di sfruttatori, si dissolve e le funzioni governative si trasformano in semplici funzioni amministrative. L’Alleanza affronta il problema al capo opposto. Proclama l’anarchia nei ranghi proletari [...].(Nota 39) Marx rivendica qui espressamente per tutti i socialisti il concetto di anarchia, inteso come assenza dello Stato, il che significa sempre in lui la soppressione del dominio di classe. La sua polemica concerne solo la tattica contraddittoria e disonesta, che divide e confonde il proletariato, mediante la quale gli ‘ Alleanzisti ’ mirano a questo obiettivo, la loro lotta retorica contro l’autorità, mentre contemporaneamente, in associazioni segrete, pongono le basi per un’autorità illimitata del comitato centrale, e il putschismo con cui essi vogliono persuadere i lavoratori che lo Stato può essere abolito ’ dall’oggi al domani. Del tutto analogamente la critica di Engels verso gli anarchici nel suo scritto, apparso nel 1873, I bakuninisti al lavoro sfocia soltanto nella dimostrazione che la tattica raccomandata da Bakunin come l’unica effettivamente rivoluzionaria, non solo non ha raggiunto Página 212 il suo obiettivo, ma è destinata al fallimento. Egli non rimprovera agli anarchici il fatto di essere tali, cioè la loro volontà di distruggere lo Stato, — anch’egli si propone una cosa del genere — ma che, imboccando la strada del putschismo, non potevano affatto restare anarchici. « Invece di sopprimere lo Stato, essi hanno tentato piuttosto di creare una moltitudine di nuovi e piccoli Stati. » Egli dimostra che gli anarchici avevano una visione cos í poco realistica delle necessità economiche e politiche della lotta di classe del proletariato, che furono costretti, « non appena si trovarono di fronte a una vera situazione rivoluzionaria, a gettare a mare tutto il loro programma precedente » (Nota 41), prima di tutto il rifiuto di partecipare all’attività politica, in particolare alle elezioni, quindi il disinteresse nei confronti di una rivoluzone che non conduca a un’immediata emancipazione (Ernanzipation) del proletariato, e infine il rifiuto di entrare a far parte di governi borghesi rivoluzionari. L’intera critica di Engels si riferisce sempre unicamente a questa forma, contraddittoria sia dal punto di vista teorico che tattico, del movimento operaio bakuninista, ma in nessun luogo a’un rifiuto del suo obiettivo anarchico. Ciò affiora con particolare evidenza nel risultato finale riassuntivo: « In breve i bakuninisti in Spagna ci hanno fornito un esempio insuperabile di come non va fatta una rivoluzione » (Nota 41). E per questo ancora nel 1894, nella Prefazione alla riedizione del suo saggio contro i bakuninisti, cfefinisce l’azione degli anarchici una « caricatura del movimento operaio » In compenso anche Engels, e quasi negli stessi termini di Marx, difende contro gli anarchici il concetto di « anarchia », vale a dire l’abolizione dello Stato. In un articolo apparso nel 1874, e diretto contro i seguaci italiani di Bakunin, che N. Rjazanov ha reso di nuovo disponibile nella « Neue Zeit », leggiamo: Tutti í socialisti sono d’accordo nel ritenere che lo Stato e con esso l’autorità politica spariranno in seguito alla rivoluzione sociale futura; che cioè le funzioni pubbliche perderanno il loro carattere politico e si trasformeranno in funzioni amministrative che soprintendono agli interessi sociali. Ma gli antiautoritari pretendono che lo Stato politico sia soppresso in un sol colpo, ancor prima che siano aboliti i rapporti sociali che lo hanno prodotto. (Nota 43) Página 213 Anche qui la critica di Engels nei confronti degli antiautoritari è riferita al lato contraddittorio e deleterio della loro tattica. Infatti subito dopo ciò prosegue: Essi pretendono che il primo atto della rivoluzione sociale debba essere l’abolizione dell’autorità. Ma hanno mai visto una rivoluzione, questi signori? Una rivoluzione è indubbiamente la cosa più autoritaria che vi sia, un atto attraverso il quale una parte della popolazione impone la sua volontà all’altra parte con fucili, baionette e cannoni, tutti mezzi quindi molto autoritari; e il partito che ha vinto, deve conservare il suo dominio attraverso il terrore che le sue armi incutono ai reazionari. [...] Dunque o una cosa o l’altra: o gli antiautoritari non sanno essi stessi che cosa dicono e in tal caso provocano solo confusione, o lo sanno e tradiscono la causa del proletariato. In ambedue i casi favoriscono solo la reazione. (Nota 44) D’altra parte Engels nella lettera sull’abbozzo del Programma di Gotha, che Bebel ha pubblicato, davanti alla pretesa, formulata nell’abbozzo, del « libero Stato popolare » ha energicamente respinto, com’è noto, questo tipo di discorso e proprio in riferimento al fatto che con ciò si dava inutilmente agli anarchici la possibilità di criticare l’adorazione dei socialisti per lo Stato. Si dovrebbe lasciar cadere tutte le chiacchiere intorno allo Stato — scrive Engels — in particolare a partire dalla Comune che già non era più uno Stato propriamente detto. Lo Stato popolare » ci è stato gettato in faccia fino alla nausea, da parte degli anarchici, sebbene già lo scritto di Marx contro Proudhon, e successivamente il Manifesto comunista, affermino direttamente che con l’introduzione dell’ordine sociale socialista lo Stato si dissolve da se stesso e scompare. (Nota 45) Non si può sottolineare con maggiore evidenza che l’obiettivo dell’anarchismo è lo stesso di quello del socialismo marxista. E ogni critica che Marx ed Engels rivolgono agli anarchici mira soltanto a dimostrare, come abbiamo visto, sempre di nuovo che l’anarchismo è da un lato una direzione di pensiero assolutamente utopistica, ma dall’altro che con la sua teoria individualistica e, ancor più, con la sua azione insensata, ha compromesso e reso Página 214 sospetto ai lavoratori l’obiettivo importante e necessario dal punto di vista economico del raggiungimento di una società senza Stato [Nota 46]. 4. Socialismo e individualismo Come risultato delle analisi precedenti possiamo forse indicare l’esatta comprensione del fatto che, per quanto riguarda l’obiettivo, socialismo e anarchismo rappresentano soltanto due vie diverse per un medesimo punto d’approdo, la società senza classi, la dissoluzione dello Stato. Questa conoscenza è un presupposto fondamentale per una migliore comprensione del rapporto storicospirituale tra queste due direzioni, storicamente differenziate, della lotta di classe del proletariato, e in tal modo ci si sottrae una volta per tutte alla tentazione di scorgere, in ciò che Kelsen chiama la componente ‘anarchica’ del marxismo, una contraddizione interna rispetto alla sua visione di fondo socialista. Piuttosto questi elementi ‘anarchici’ solo nel marxismo ricevono il loro consolidamento teorico, nella misura in cui essi non si presentano come una semplice protesta contro la costrizione statale, ma come un prodotto dello sviluppo economico. Lo Stato non viene ‘soppresso’, ma ‘si estingue’, vale a dire: nel corso di un grande processo storico di sviluppo, nel quale sia le condizioni di vita esteriori, sia gli uomini, che stanno in esse, vengono cambiati, anche l’ordinamento costrittivo della società si trasforma radicalmente. Ma per consolidare questa valutazione piú esatta delle relazioni tra socialismo e anarchismo, è indispensabile fare ulteriore chiarezza su un punto che non solo nella polemica di Kelsen, ma, anche al di là di essa, nelle frequenti discussioni su socialismo e Página 215 individualismo richiede una qualche delucidazione. Si tratta cioè dell’ambiguità relativa al concetto di individualismo e di libertà individuale. In particolare tutto ciò che Kelsen afferma riguardo al presunto ‘individualismo’ degli scritti giovanili di Marx, è vittima di questa ambiguità. Vorrei sin dall’inizio, sulla base di alcuni criteri generali evidenziare questa ambiguità e annullarla attraverso una rigorosa separazione dei due significati. Individualismo può significare in un caso l’affermazione (Durchsetzung) senza limiti del proprio Io, nell’altro semplicemente il dispiegamento (Entfaltung) onnilaterale del proprio Io. La prima volta individualismo significa un assoluto atomismo del punto di vista in base al quale il singolo, in quanto vive in una condizione di isolamento, vede il mondo, e il prossimo, per cosí dire, solo come il campo — disteso intorno a sé — delle sue aspirazioni egoistiche, ma nell’altro caso rappresenta una tendenza verso l’approfondimento (Verinnerlichung) e il perfezionamento della propria personalità, la quale, in quanto tale, non conduce alla frattura rispetto agli altri uomini, ma sente l’armonica fusione con essi come un elemento del proprio coerente sviluppo vitale. L’individualismo nel primo significato è un tendere verso l’autogodimento, nell’altra accezione è un tendere verso l’autoformazione; l’obiettivo del primo tipo di individualismo è il dispotismo della persona, quello dell’altro l’autodisciplina della personalità; il primo lascia l’individuo libero di fare, l’altro lo pone sotto la guida di una individualità. Ibsen, che cosí di frequente è stato screditato come un profeta dell’individualismo, mentre fu solo lo straordinario apostolo di una teoria della individualità, ha rappresentato stupendamente le due aspirazioni, che cosí spesso gli uomini confondono, in quanto la piú bassa assume la maschera di quella piú elevata, nelle due figure di Peter Gynt e Brandi, i quali nelle loro sentenze che denotano scelte di vita (Lebenswahlsprüche) tracciano con insuperabile plasticità il carattere fondamentalmente diverso delle due direzioni: “sii sufficiente a te stesso” suona il motto dell’individualismo, “sii fedele a te stesso” quello dell’individualità. Se chiamiamo individualismo l’aspirazione alla formazione (Bildung) di una personalità e individualità libere, che sviluppano pienamente se stesse, ci adeguiamo con ciò a un uso linguistico invero molto diffuso, ma tale da risentire abbondantemente della imprecisione del linguaggio popolare, vale a dire che non si propone una differenziazione concettuale, ma soltanto di esprimersi appunto in modo sbrigativo e irriflessivo. Per un esame scientifico e una critica di teorie e prese di posizione sociale, un tale uso linguistico è del tutto inadeguato. In questo senso Fichte, ad esempio, sarebbe un ‘individualista’, addirittura estremo, e, se quePágina 216 sto individualismo conduce inevitabilmente all’anarchismo, anche un anarchico, in quanto egli era effettivamente persuaso «che lo scopo di ogni governo è quello di rendere superfluo il governo». Infatti tutti i suoi scritti prescrivono il libero dispiegamento della personalità; e tuttavia nessuno ha non soltanto identificato con piú vigore di lui tale libero sviluppo con l’assoggettamento al dovere etico, ma, oltre a ciò, esposto il concetto di un individuo incentrato in se stesso, come una semplice apparenza paralogica [Nota 47]. Proprio quest’ultima circostanza richiama la nostra attenzione sul fatto che il tendere al dispiegamento della personalità, nella libertà di tutte le sue facoltà, è pienamente compatibile con un punto di vista universalistico, (volendo adoperare questa espressione altrimenti — in particolare dal punto di vista gnoseologico — molto ingannevole). Se per universalismo si intende la intuizione, secondo la quale l’individuo non va considerato come un atomo, che può esistere in modo autonomo, ma soltanto una componente indisgiungibile di una connessione che oltrepassa l’essere individuale, allora Fichte è l’esempio piú illuminante del fatto che il tendere verso l’individualità non solo non è necessariamente in conflitto con tale universalismo, ma addirittura lo presuppone. E in quanto questa aspirazione verso l’espressione (Ausprägung) della propria personalità viene definita molto frequentemente anche individualismo, bisogna tener presente che esiste un tipo di individualismo, che non sta in conflitto con il cosiddetto universalismo. La diversità tra le due direzioni, celata sotto lo stesso nome di individualismo, affiora in tutta la sua evidenza se ci si sofferma sull’altro concetto che si trova in una relazione molto intima con quello di personalità, il concetto di libertà. Infatti anche questo termine designa un duplice contenuto. Da un lato può significare la mancanza di ogni vincolo (Gebundenheit), dunque l’assoluta assenza di limiti e di leggi; dall’altro, al contrario, proprio l’assoggettamento della volontà a una legge, che però non è altro che quella della volontà stessa, quindi il vincolo (Gebundenheit) del volere attraverso l’autodeterminazione. È superfluo discutere piú a lungo sul fatto che soltanto l’ultimo significato dà un concetto di libertà realmente non contraddittorio. E questo non è all’incirca soltanto il concetto di libertà della filosofia classica tedesca — la quale ha tentato di fondarlo su un piano puramente gnoseologico — ma quella rappresentazione della libertà alla quale fa ricorso anche il semplice pensare di ogni giorno, se soltanto comincia a rendersi conto del contenuto di ciò che pensa. È vero, Página 217 al primo sguardo, la coscienza comune ritiene che la libertà consista nell’assenza di ogni genere di limiti, nel poter fare dunque ciò che a ognuno piace. Ma se si richiama l’attenzione sul fatto che questo ‘piacere’ una volta è un capriccio che fa smarrire ogni altra considerazione, un’altra volta è una impetuosa agitazione, di cui si è vittima, in un terzo caso è un calcolo egoistico di cui internamente ci si vergogna, un’altra volta, infine, è una totale mancanza di senno e solo di tanto in tanto una risoluzione che proviene realmente da un intimo convincimento, appare immediatamente chiaro che in ognuno di questi piaceri individuali il volere non era affatto ‘libero’, l’agente non faceva affatto ciò che gli riusciva gradito, bensí ciò che la situazione, in cui veniva precisamente a trovarsi, desiderava per mezzo suo. A questo punto viene fuori l’autentico e il solo possibile significato di libertà, che è quello di obbedire si, ma soltanto a se stessi, di riconoscere invero una legge, ma di eseguire soltanto un comando che sale dalla propria interiorità. È immediatamente chiaro che i due significati del concetto di libertà vengono a coincidere con i due significati del concetto di individualismo. Quel primo significato in cui l’individualismo corrispondeva pienamente a un’affermazione totale e senza riguardi dell’individuo, fa propria l’opinione, secondo la quale la libertà è per l’appunto assoluta mancanza di limiti. L’altro significato, secondo il quale l’individualismo comporta la espressione della individualità della personalità, del proprio carattere, richiede apertamente, come suo completamento, il concetto di libertà nel senso dell’autodeterminazione, la quale — si tratta di un elemento che non occorre sviluppare, perché rappresenta lo straordinario esito della filosofia classica tedesca — non può essere niente altro che un’autodeterminazione etica, in quanto è la sola ad essere possibile in modo non contraddittorio. E in relazione al nostro oggetto è particolarmente importante trarre da ciò un’ulteriore conclusione: la libertà nel senso dell’autonomia della volontà è un concetto assolutamente sociale. Appartiene ai piú gravi equivoci, di cui è stata ed è ancora vittima la filosofia kantiana, cosí spesso fraintesa, il fatto che essa viene concepita come una filosofia individualistica, perché ha ricercato, apparentemente, sia la legalità del processo conoscitivo che di quello volitivo, solo nel singolo individuo e in riferimento a esso, viceversa è sembrata non avere alcuna considerazione per il dato di fatto (Faktum) costituito dalla società. Ma non si presta sufficiente attenzione a come in Kant e, quindi, in tutta la filosofia classica tedesca posteriore, l’individuo sia soltanto una forma fenomenica, in cui si dispiega un contenuto il cui significato, che va oltre l’individuo e raccoglie spiritualmente gli individui in valori validi uniPágina 218 versalmente, costituisce anzi esattamente il problema nodale della filosofia critica. Già una volta ho fatto perciò rilevare che, sebbene il concetto di sociale da Kant fino a Feuerbach non sia stato, in quanto tale, ancora coniato dal punto di vista terminologico, tuttavia questa filosofia nella sua globalità dev’essere caratterizzata come il primo importante tentativo di una fondazione gnoseologica del nesso sociale, una caratteristica che spero di esporre presto dettagliatamente. Nell’ambito del nostro discorso bisogna sottolineare come già in Kant la legge fondamentale dell’autonomia del volere, l’imperativo categorico, attraverso la sua formula: “agisci in modo che tu possa volere che la massima delle tue azioni diventi legge universale”, stabilisca, tra il singolo individuo e tutti gli altri che lo circondano, una connessione che non è niente altro appunto che la connessione sociale. Il concetto di libertà come autonomia del volere è del resto possibile in modo non contraddittorio solo in un sistema di volere, il che significa però in un sistema sociale: e perciò la libertà in questo senso è possibile, proprio come si è già visto in relazione all’individualità, solo da un punto di vista universalistico. Nel disconoscimento di questo rapporto, nella scarsa chiarezza circa il diverso significato nel quale si può discutere di individualismo e di libertà, risiedono le effettive contraddizioni e le incomprensioni che sono proprie principalmente della tendenza individualistica dell’anarchismo, come si fa sentire con particolare intensità nella agitazione popolare attraverso opuscoli e giornali. Anzi in generale la concezione di fondo della vita sociale è il vero e proprio errore fondamentale di questa tendenza nel suo complesso, la quale però nel suo rappresentante piú geniale, Max Stirner, di fatto è piú un rifiuto delle sublimazioni del nesso sociale, inteso nel senso di vincoli in sé sacri del diritto, della legge e dello Stato, anziché una dissoluzione di questi vincoli stessi [Nota 48]. Infatti è oltremodo istruttivo vedere che proprio questo individualista estremo ha avuto uno scarsissimo interesse per «la libertà illimitata». La sua opera principale non si intitola “Il Página 219 libero e la sua proprietà”, bensí L’unico e la sua proprietà. E l’intero libro si è sforzato di sottolineare questa distinzione. Si legge nell’importante capitolo sulla ‘particolarità’ (Eigenheit). Non ho nulla da obiettare contro la libertà, ma ti auguro qualcosa in piú che non la sola libertà; tu non dovresti semplicemente essere libero sciolto da ciò che non vuoi, dovresti anche avere ciò che vuoi, non dovresti essere soltanto ‘libero’, ma anche ‘proprio’ (Eigener). E subito dopo: Che differenza tra la libertà e la particolarità! Di molte cose è possibile liberarsi, ma non già di tutte. [...] Al contrario la particolarità (Eigenheit) costituisce la mia essenza ed esistenza, ciò che io stesso sono. Libero sono da ciò da cui mi distacco, sono proprietario (Eigner) viceversa di tutte le cose che ho in mio potere e su cui esercito un potere. Mio proprio lo sono sempre e in tutte le circostanze in cui comprendo di possedere me stesso e non mi degrado in qualcosa d’altro. [Nota 49]. In conclusione: Che una società, ad esempio lo Stato, restringa la mia libertà mi indigna poco. Debbo consentire che la mia libertà sia limitata da potenze di ogni genere, da chiunque risulti píú forte, anzi da ogni uomo che mi circonda e se fossi lo zar di tutte le Russie non godrei di un’assoluta libertà. Ma la particolarità è ciò che non voglio lasciarmi sottrarre. [Nota 50] Pertanto l’individuo, radicalmente trasformato, di cui parla Stirner, si chiama un «unico», perché deve svilupparsi in una individualità che sia sempre qualcosa di unico. La unicità di Stirner non indica un isolamento, ma particolarità, specificità, e la proprietà dell’unico non è un possesso materiale, bensí il possesso di se stessi, un’autodeterminazione. Solo che in Stirner questa grandiosa condotta di pensiero, con la quale si è attestato come uno schietto discendente della filosofia classica tedesca, ha assunto quella svolta, in virtú del suo tratto ‘antimetafisico’, in termini di estremo individualismo, quella svolta che forse è piú verbale che oggettiva, ma che ad ogni modo ha continuato ad agire nel primo significato. Ma, per quanto riguarda la cosa stessa nessuno Página 220 ha rappresentato l’individuo che pensa puramente a se stesso, l’egoismo ottuso e ‘maniaco’, la misera sfera dell’utile personale e il meschino isolamento da ogni altra cosa, in una cosí brillante caratterizzazione psicologica, vedendo in essi una forma di mancanza di libertà e di «ossessione», come ha fatto appunto Stirner [Nota 51]. Cosí si dimostra che anche nel piú estremo individualismo l’obiettivo non è la libertà come assenza di limiti, che non tollera alcuna costrizione, ma la particolarità, la quale, dove lo ritenga utile, cioè nei casi in cui scaturisce dalle sue condizioni di vita e di sviluppo, impone a se stessa l’autolimitazione come sua propria volontà e come suo proprio vincolo. Esiste una differenza — dice Stirner — a seconda che attraverso una società è la mia libertà o la mia particolarità ad essere limitata. Nel primo caso sorge solo un’associazione, un’intesa, un’unione; ma se è la particolarità ad essere minacciata di morte, la società è una potenza per sé, una potenza su di me [...]. [Nota 52] In conclusione possiamo dunque dire: il concetto di individualismo è duplice, in quanto può significare tanto l’affermazione senza riguardi dell’individuo, quanto la tendenza perseverante verso la formazione della propria personalità; sia la libertà senza limiti, che sicuramente è solo una libertà immaginaria, sia anche la libertà dell’autodeterminazione della personalità. Il nucleo effettivo dell’individualismo resta indubbiamente la concezione fondamentale del primato del singolo nei confronti della società, in modo tale che questa sorge soltanto come risultato dello stare insieme e del cooperare dei singoli; e nei limiti in cui il marxismo, che prende le mosse dalla socializzazione dell’individuo, non conosce un individuo, esistente per sé, che si unisca ad altri individui solo per formare la società, si trova in linea di principio in conflitto con ogni individualismo. Ma i concetti di libera individualità e di libera autodeterminazione, al contrario, non sono tali da essere collegati necessariamente con quella intuizione di fondo individualistica, né come suo presupposto, né come suo risultato. Piuttosto essi in ciascuna delle due tendenze, pensate fino in fondo, eliminano il presupposto fondamentale dell’individualismo, il che non impedisce che si trovino di fatto molto spesso collegati col modo di pensare individualistico e sembrino addirittura fornire ad esso una giustificazione etica. In ogni singolo caso in cui si discute di libertà dell’uomo, di autodeterminazione da parte dell’Io, di liberazione della personalità, bisogna sempre indagare prima di che tipo di individualismo e di quale libertà si parla e si vedrà poi Página 220 che non di rado l’esposizione individualistica racchiude un contenuto universale, per cui condannando un ragionamento in quanto individualistico viene messa a nudo soltanto la propria mancanza di chiarezza concettuale. Ma l’apice della confusione viene pienamente raggiunto, allorché si equipara individualismo a anarchismo, per cui le rappresentazioni universalistiche di libertà e individualità appaiono addirittura ridicolizzate, come un tendere verso una libertà di tipo ‘anarchico’. Con ciò può dirsi senz’altro concluso, in questo contesto, un excursus sull’anarchismo, che si è protratto un po’ a lungo. Non si è trattato di una difesa dell’anarchismo: la sua essenza storica specifica, la sua tattica contraddittoria, sconcertante e dannosa della lotta di classe in generale non è da difendere, ma unicamente da combattere. Ma proprio questa lotta può risultare vincente solo se su una serie di concetti e rappresentazioni, — abolizione dello Stato, soppressione dell’autorità, eliminazione della costrizione, libertà dell’individuo ecc. — i quali sono comuni sia al socialismo che all’anarchismo, esisterà una maggiore chiarezza. In questa ‘difesa’ dell’anarchismo si è trattato esclusivamente della dissoluzione dell’apparente collegamento di questi concetti con l’anarchismo e di evitare, sulla base di ciò, i fraintendimenti in cui incorre la critica kelseniana, la quale parla di un anarchismo della concezione marxista, il che sarebbe possibile in essa solo a patto di una mortale autocontraddizione — si è trattato dunque soltanto di una migliore comprensione del socialismo marxista. Questa migliore comprensione la si dovrà ora applicare. Página 222 Capitolo sedicesimo Il presunto anarchismo del marxismo 1. L’idea di liberazione Se vogliamo soffermarci piú dettagliatamente sulle affermazioni fatte da Kelsen riguardo alla contraddizione di fondo, anarchica, presente nel marxismo, conviene prendere le mosse immediatamente dal punto in cui ci siamo fermati nell’ultimo capitolo, dall’idea di libertà. In questa idea, che gioca sicuramente un ruolo importante nel marxismo, Kelsen scorge particolarmente accentuata la tendenza anarchica del pensiero marxista — cioè, in Kelsen, la tendenza alla organizzazione non costrittiva della società. A suo avviso il socialismo conduce da un lato, sulla base dello sviluppo economico, a un sistema di economia regolata con criteri rigorosamente razionali, dall’altro si presenta nella coscienza di Marx ed Engels in primo luogo come una liberazione dell’individuo. Questa concezione ‘anarchica’ Kelsen la trova già formulata negli scritti giovanili di Marx, e principalmente il mio saggio su L’idea socialista di liberazione in Karl Marx [Nota 1] gli ha fornito il materiale per un’affermazione del genere. Solo che egli ha compreso cosí poco i principi marxiani, là presenti, nel contesto globale da cui provengono, che l’idea sociale di emancipazione in Marx gli si è trasformata immediatamente «nella idea individualistica di libertà» (p. 20 [51]); l’elemento caratterizzante di quest’ultima consiste per Kelsen nel fatto che da essa scaturisce, come senso dello sviluppo sociale, la liberazione della società, dunque uno stato di libertà che è in contrasto con i precedenti vincoli economici e politici (p. 21 [52-3]). Per Kelsen dunque uno stato di libertà equivale all’anarchia, soltanto perché esso ‘evidentemente’ significa la soppressione dei vincoli sia politici che economici. Ma lo stesso Kelsen in quel brano accenna al fatto che già dal giovane Marx Página 223 questa soppressione è concepita come un movimento storico, ma non procede all’applicazione di una tale affermazione. Egli non si avvede che in Marx non si tratta di uno sviluppo che da «una situazione vincolante (Gebundenheit) in generale» conduca a uno stato in cui non esistono vincoli, tale da non essere neppure piú uno stato sociale, ma del superamento di una determinata situazione storica vincolante attraverso un nuovo ordinamento sociale predisposto a livello economico, il quale solo in relazione all’ordinamento precedente deve apparire piú libero, perché in esso non può esistere piú un potere di classe. Del resto è straordinario e molto istruttivo per la comprensione della psicologia della ricerca, vedere come anche un pensatore critico e acuto possa nondimeno restare cosí irretito nel suo schema di pensiero da non riuscire semplicemente, al di là di esso, a pervenire alla stessa valutazione dei nessi che apertamente non si adattano a questo schema. Cosí Kelsen, in modo addirittura inconcepibile, ha frainteso nel suo complesso il significativo concetto di emancipazione, che svolge un ruolo essenziale nelle opere giovanili di Marx e nel quale si trova espresso per la prima volta, sebbene in forma ancora ideologica, il punto di vista sociale marxiano, nella misura in cui un tale concetto viene interpretato semplicemente come una parola d’ordine di liberazione individuale. E questo fraintendimento appare tanto piú incomprensibile in quanto il mio saggio, citato in precedenza, cui si richiama anche Kelsen, è dedicato interamente al chiarimento di questo concetto e in particolare alla differenza decisiva istituita da Marx tra emancipazione politica e emancipazione umana. Su questa analisi complessiva Kelsen non si è soffermato neppure di sfuggita e vedremo come da ciò scaturisca la polemica, che manca completamente il bersaglio, contro il concetto marxista dello «Stato politico». Non posso qui ripetermi e pertanto mi limiterò a quel tanto che è necessario dire in questa occasione. Il concetto di emancipazione non è in Marx, già a partire dagli scritti giovanili, un concetto di redenzione (Erlösung) individuale, ma senz’altro una categoria storico-sociale. In base a ciò si spiega l’insistenza con la quale Marx sottolinea che l’emancipazione non è possibile come un atto di liberazione individuale, ma solo su una base sociale, in virtù del fatto che di volta in volta «una determinata classe, muovendo dalla sua situazione specifica, intraprende l’emancipazione generale della società» [Nota 2]. Per questo motivo l’idea di emancipazione, quale finora si è manifestata, era contraddittoria. Nei casi in cui cioè la situazione specifica della classe emancipatrice contiene essa stessa ancora elementi di dominio e di oppressione, come accade ad Página 224 esempio nella emancipazione della borghesia, anche l’emancipazione è soltanto parziale. Perciò Marx distingue questa emancipazione, in quanto puramente politica, da quella universalmente umana, che non avrà per risultato la libertà del borghese, bensí la libertà dell’uomo. L’emancipazione umana può dunque attuarsi solo muovendo dal punto di vista di una classe le cui condizioni di libertà siano tali da avere un carattere universale, «di una sfera, che non si può emancipare senza emanciparsi da tutte le restanti sfere della società e con ciò emancipare tutte le rimanenti sfere della società» [Nota 3] — in breve dal punto di vista del proletariato. Come si vede la emancipazione umana, nel giovane Marx, non è un anelito verso una redenzione individuale (Erlösungssehnsucht), ma nient’altto che la rivoluzione sociale del Marx maturo. E la definizione della emancipazione come un’emancipazione umana doveva addirittura porre l’accento — indubbiamente sotto l’influsso di Feuerbach, che proprio in quel periodo aveva svolto la sua azione di stimolo — sul lato generico (Gattungsmässige), sull’elemento sociale di tutte queste idee di libertà, lotta e rivoluzione, per cui già si annuncia il passo in avanti di Marx rispetto a Feuerbach. Infatti in quest’ultimo il lato generico, l’uomo, è un’astrazione filosofica, mentre in Marx una formazione concreta va compresa sempre nel contesto storico — di classe, cui appartiene. L’«idea di liberazione» non è dunque in Marx un pensiero individualistico ma un processo sociale-storico, che, da un’ideologia ‘politica’, nella quale la lotta è finalizzata ancora a un semplice cambiamento giuridico, spinge verso una ideologia ‘umana’, nella quale si combatte per il mutamento delle forme sociali di vita. Per questo motivo per Marx la rivoluzione politica è soltanto un’emancipazione parziale, l’emancipazione umana viceversa è totale. In ambedue i casi però si tratta di processi sociali, la cui essenza comporta che il singolo si ritrovi proprio nella prima ipotesi isolato, in quanto libero cittadino, e proprio nell’altra solo come membro di una comunità umana può sperare di diventare libero. Il singolare disconoscimento di questa natura assolutamente sociale del concetto di emancipazione umana, che comprende l’individuo solo all’interno del genere, e il suo capovolgimento in un principio individualistico di redenzione, conducono Kelsen ad una conclusione quasi grottesca per ogni marxista, in quanto egli individua nella frase di Marx: «La natura umana è la vera comunità umana» [Nota 4] l’ammissione di un... individualismo estremo «che nella sua applicazione pratica al problema sociale non indietreggia affatto Página 225 davanti all’audace conseguenza dell’anarchismo» (p. 26 [57] ). Non si sa davvero che cosa dire di fronte a una tale affermazione! Tanto può allontanarsi dalla intima verità del pensiero marxiano, il quale in realtà non è facilmente disconoscibile in base alla connessione dell’intero, una critica che ritiene di poter esercitare la propria funzione in relazione a singole parti di questo lavoro concettuale, a proposizioni assunte isolatamente, per giunta con delle proprie rappresentazioni e non con quelle dell’oggetto criticato. Kelsen ha evidentemente identificato la frase precedente con la espressione di Protagora, secondo la quale l’uomo è la misura di tutte le cose. Poi, però, egli ha tuttavia trascurato il fatto che lo stesso concetto è tradotto dall’individualismo dei grandi sofisti nell’universalismo di Feuerbach. La proposizione bollata da Kelsen come anarchica proviene sicuramente da Feuerbach, filosofo entusiasta, che finora nessuno ha mai giudicato come un individualista, e ancor meno come un anarchico. Ma se si sa che Marx si esprime qui completamente al di fuori della concezione di Feuerbach, allora si vede subito che l’essenza umana, di cui Marx qui parla, non è l’io sovrano dell’individualista ma l’essenza generica dell’uomo, cioè ciò che Marx ha chiamato piú tardi la sua essenza socializzata; in particolare, il dato di fatto sociologico fondamentale, che l’individuo in tutti i suoi modi di agire ‘individuali’, nel pensare, sentire e volere, è in relazione sin dal principio con gli individui della sua specie, e, nella sua manifestazione storica, sin dall’inizio può esistere solo all’interno di rapporti sociali. In tal modo diviene chiaro perché l’essenza umana è «la vera comunità» degli uomini. Ogni legame sociale infatti, ogni Stato, qualsiasi forma di comunità ha già il suo presupposto in questa originaria socialità del singolo uomo, sia come fondamento concettuale, sia come fondamento reale. 2. Forze politiche e forze sociali. Lo ‘Stato politico’ Sicuramente Kelsen, prigioniero — come in un cerchio magico — dei suoi pregiudizi individualistici riguardo a Marx, non sa che farsene di questo concetto marxiano di ente generico (Gattunswesen). Esso costituisce per lui motivo d’imbarazzo ed egli rimane perplesso di fronte alla frase famosa, secondo cui l’emancipazione umana è compiuta solo quando «il reale uomo individuale [...] nel suo lavoro individuale, nei suoi rapporti individuali è divenuto ente generico, soltanto quando l’uomo ha riconosciuto e organizzato le sue ‘forces propres’ come forze sociali, e perciò non sePágina 226 para piú da sé la forza sociale nella figura della forza politica» [Nota 5]. Per questo Kelsen ritiene che, in particolare, poiché lo Stato tuttavia non è niente altro che una organizzazione delle forze sociali, la distinzione della forza sociale da quella politica può significare soltanto che, in quest’ultima, sia stata organizzata una parte delle forze sociali; per cui la divisione della forza sociale da quella politica verrebbe superata o perché tutte le forze sociali vengono organizzate politicamente, o perché scompare ogni organizzazione politica delle forze sociali. Nella prima ipotesi la società viene completamente statalizzata, nell’altra cessa di esistere lo Stato, cioè ogni forma di organizzazione costrittiva. Marx avrebbe sostenuto questa seconda ipotesi e il rilievo conferito all’essenza generica, con il contemporaneo rifiuto dello Stato, si spiega solo in base al fatto che «egli ha in mente la libera associazione degli individui» (pp. 25-6 [57]). A questo punto si può vedere ancora una volta in azione il formalismo dei concetti kelseniani che sovrappone di volta in volta questi ultimi al senso specifico del loro oggetto. Per funzioni politiche, quindi anche per forza politica, Kelsen intende sempre una funzione dello Stato, in quanto organizzazione costrittiva in generale. Perciò per lui le funzioni politiche e le funzioni statali coincidono e l’espressione «Stato politico», che si ritrova in Marx ed Engels, è un controsenso (p. 44 [84]). Ma proprio questo uso linguistico avrebbe dovuto richiamare l’attenzione di Kelsen sul fatto che una tale assurdità esiste solo nel suo pensiero e che per il marxismo in fin dei conti ha ancora un senso parlare di uno Stato non politico, perché il concetto di politico ha in questo caso un significato specifico, vale a dire è in una determinata antitesi rispetto all’elemento sociale. Marx infatti già negli scritti giovanili col termine Stato non intende l’organizzazione costrittiva, in quanto tale, ma lo Stato borghese, dunque un dominio di classe storicamente determinato. In base a ciò per lui atti politici e forze politiche sono fenomeni storici, nei quali appunto la loro natura sociale, in quanto tale, è ancora dissimulata dietro la forma particolare, attraverso la quale si presentano come esercizio di interessi statali. Nello Stato borghese le sue funzioni non appaiono, né possono farlo, come funzioni sociali perché non rappresentano il punto di vista della società, bensí quello di una sua parte, della classe che domina la società. Certo lo Stato, come dice Kelsen, non è nient’altro che un’organizzazione assolutamente determinata delle forze sociali, ma non ancora un’organizzazione sociale, in quanto in essa le forze sono organizzate solo in vista del dominio di classe, pertanto anche qui le forze sociali non sono comprenPágina 227 sibili, per il singolo, come le sue proprie funzioni generiche, ma come potenze che gli sono estranee, oggettivatesi contro di lui. Il concetto di «Stato politico» compare in Marx già negli «Annali franco-tedeschi» e costituisce per lui una prima, anche se molto felice, espressione per indicare la fondamentale nozione sociologica secondo la quale la forma statale è solo una forma di vita storica della società e, precisamente, una forma tale che in essa la conflittualità interna viene occultata dietro l’esteriore forma solidale di un preteso interesse pubblico. Perciò Marx, nel famoso carteggio che apre sul piano programmatico gli «Annali franco-tedeschi», afferma che lo Stato politico, inteso come una forma dell’interesse generale, presuppone invero «ovunque la ragione come realizzata», ma che «altrettanto ovunque incorre nella contraddizione tra la sua destinazione ideale e i suoi presupposti reali». E prosegue: «Da questo conflitto dello Stato politico con se stesso si può pertanto sviluppare ovunque la verità sociale» [Nota 6]. Già qui incontriamo quel pensiero fondamentale della conoscenza e critica sociologiche, che doveva dispiegarsi nella concezione materialistica della storia, che consiste nel mettere a confronto le forme politiche fenomeniche della vita sociale con la struttura sociale stessa che sta a loro fondamento, che esse per cosí dire dissimulano, e da cui scaturisce immediatamente il loro conflitto interno: l’antitesi tra la loro forma ideale e universale e il loro contenuto particolare. Una tale contraddizione non è assolutamente casuale ma deve necessariamente affiorare in questa forma sociale di vita. Infatti, come Marx dichiara in un’analisi che, al di là della forma ancora puramente ideologica, penetra a fondo nell’essenza della società borghese, «lo Stato politico perfetto rappresenta, secondo la sua essenza, la vita generica dell’uomo, in contrasto con la sua vita materiale» [Nota 7], vale a dire staccato dalle particolari condizioni materiali di esistenza degli uomini che vivono in questo Stato. «Tutti i presupposti di questa vita egoistica continuano ad esistere all’esterno della sfera statale, nella società civile, ma come caratteristiche della società civile». Che i cittadini siano imprenditori o lavoratori, possidenti o nullatenenti, sazi o affamati, con diritto alla pensione o privi di assistenza — tutto ciò resta una loro faccenda privata, che non riguarda la sfera politica dello Stato, il quale comprende solo gli ‘interessi pubblici’ non quelli ‘egoistici’ del singolo cittadino. Questa singolare struttura della vita sociale è caratterizzata da Marx con l’espressione «Stato politico», che non è affatto un pleonasmo, come Kelsen ritiene, ma deve porre l’accento su una Página 228 profonda contraddizione radicata nel concetto di Stato, che sicuramente non emerge sulla base di una considerazione giuridica, ma solo di una considerazione sociologica. E proprio il fatto che per Kelsen l’espressione «Stato politico» è un pleonasmo, mentre per il marxismo con questo termine si discopre la grande prospettiva storica della politica (Politik) intesa come una lotta per lo Stato verso la politica (Politica) nel senso di un’amministrazione solidale della società, è la riprova che nel marxismo i medesimi termini designano concetti del tutto diversi che in Kelsen e ogni critica la quale non si soffermi sul loro significato, è fatica sprecata. Nello Stato ‘politico’ le forze politiche debbono presentarsi scisse da quelle sociali, perché in primo luogo la forma politica comprende solo una parte delle relazioni sociali, appunto quelle che servono gli interessi dominanti, e, in secondo luogo, la sfera di interessi sociali esclusa, che concernono in particolare il sistema attraverso il quale la vita del singolo è assistita nella sua globalità, in base a questa esclusione dalla sfera politica in generale non viene compresa nella sua natura sociale, ma si configura come interesse privato dell’individuo. L’intera discussione, penetrante e critica, di Marx sulla duplice vita che nello Stato borghese ogni individuo, in quanto cittadino e uomo privato, conduce proprio in relazione ai suoi rapporti sociali [Nota 8], è stata ignorata da Kelsen, al pari dell’analisi dettagliata di questo rapporto, svolta nel mio saggio [Nota 9]. In fal modo viene sicuramente tralasciato il contesto, in cui la separazione della forza politica dall’interesse privato da un lato, e dalle forze sociali dall’altro, acquista in Marx il suo significato specifico, che consiste appunto nel fatto che entrambi, sia l’interesse privato, sia la forza politica, sono per Marx delle forme di coscienza che mistificano se stesse, in quanto si riferiscono a un contenuto che in realtà va compreso esclusivamente sul piano sociale. Questa falsa coscienza può, anzi deve, scomparire, solo quando l’uomo individuale, come dice Marx, sarà diventato anche nei suoi rapporti, soltanto in apparenza individuali, essenza generica, il che vuol dire quando sarà pervenuto a un ordinamento sociale in cui attraverso l’organizzazione sociale consapevole della produzione e della distribuzione, diventerà chiaro a tutti che anche l’attuale sistema ‘individuale’ che garantisce l’esistenza (Lebensfürsorge) e la soddisfazione dei bisogni, è un atto strettamente connesso all’esistenza e al lavoro del genere — una dimostrazione questa che, per quanto riguarda l’attuale fase capitalistica, con la sua apparenza di agenti della produzione isolati e di una distribuzione puramente privata, è stata fornita, com’è noto, dall’analisi Página 229 economica del Capitale. Ciononostante il contrasto che oppone datori di lavoro, apparentemente indipendenti, e prestatori d’opera, anch’essi liberi, e la concorrenza sul mercato tra possessori di merci, in apparenza del tutto autonomi, in breve tutta questa «soggettivizzazione dei fondamenti materiali della produzione, che caratterizza l’intero modo di produzione capitalistico» [Nota 10], fa sí che in questo agire di fattori solo apparentemente del tutto autonomi, la loro connessione sociale può imporsi «unicamente come una soverchiante legge naturale contrapposta all’arbitrio individuale» [Nota 11]. Senza alcun dubbio lo Stato politico, in particolare nella sua forma compiuta, nella democrazia, rappresenta una forma di liberazione da strutture piú antiche dello Stato non politico, nelle quali, come accadeva nell’assolutismo, nel feudalesimo, o persino nella teocrazia i vincoli sociali tra cittadini, le loro relazioni umane con l’intero, ciò che Marx chiama le esigenze di una emancipazione umana, scompaiono completamente dietro il carattere di potenza soggettiva degli interessi di dominio individuali che reggono e costituiscono lo Stato. Qui la conflittualità, caratteristica dello Stato politico, tra il suo riferimento all’universalità (interessi pubblici) e la sua effettiva struttura economica, non solidale, non può ancora affatto esprimersi, perché lo Stato viene a trovarsi, per cosí dire, nella sfera di proprietà del signore, dunque ha assolutamente un carattere apolitico. Perciò Marx dice: «L’emancipazione politica costituisce decisamente un grande progresso, essa non è propriamente l’ultima forma dell’emancipazione umana in generale, ma l’ultima all’interno della visione del mondo finora dominante» [Nota 12]. Al di sopra di essa c’è ancora soltanto il passo verso la compiuta emancipazione umana, attraverso il superamento dello Stato politico, il che vuol dire attraverso una coincidenza tra le forze politiche e quelle sociali, in una società senza classi e che è diventata per questo motivo solidale. Un medesimo fraintendimento circa il concetto di politico, per cui la soppressione della forma politica in Kelsen significa anarchia, mentre in Marx significa l’eliminazione delle forme ancora illusorie in cui si esprime la connessione sociale stessa, si ripete in un passo successivo, in un modo ancora piú increscioso, vale a dire nella critica del Manifesto del partito comunista. In quest’ultimo Kelsen scorge addirittura proclamato l’anarchismo. Infatti la conquista del potere politico da parte del proletariato, il quale in questo modo crea innanzitutto uno Stato proletario, cioè una organizzazione costrittiva proletaria, viene presentata qui da Marx, Página 230 cosi dichiara Kelsen, unicamente come una transizione alla società senza classi. Una volta che questo obiettivo sia stato raggiunto, «il Manifesto del partito comunista ritiene di poter fare a meno dell’ordinamento coercitivo». In esso tuttavia si legge: «Quando, nel corso dell’evoluzione, le differenze di classe saranno sparite e tutta la produzione sarà concentrata nelle mani degli individui associati, il potere pubblico perderà il carattere politico» [Nota 13]. Ma l’espressione «carattere politico del potere pubblico» è, per Kelsen, un pleonasmo. Infatti «il potere pubblico è politico, perché e nei limiti in cui è un potere pubblico, cioè un ordinamento costrittivo» [p. 47]. Perciò l’affermazione che il potere pubblico perde il suo carattere politico può significare in effetti solo che esso cessa di esistere, in quanto tale. Può sembrare, invero, che il Manifesto del partito comunista per potere pubblico intenda innanzitutto soltanto il dominio di classe. Ciononostante esso in realtà guarda al cessare di ogni forma di potere pubblico. Le parole conclusive del capitolo decisivo suonano infatti: «Al posto della vecchia società borghese con le sue classi e con i suoi antagonismi di classe subentra un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è condizione per il libero sviluppo di tutti» [Nota 14]. Per Kelsen questo richiamo alla forma futura di società resta poco chiaro, ma una cosa tuttavia è certa, a favore della quale parla il duplice rilievo dato all’elemento della libertà, che la meta del socialismo è vista in una «associazione libera in opposizione a un ordinamento costrittivo, a una organizzazione di dominio, al sistema di un pubblico potere, in breve, in opposizione allo Stato» (pp. 16-8 [48]) [Nota 15]. Dunque anche nel Marx maturo, nel Manifesto del partito comunista Kelsen individua lo stesso dilemma di prima: in conclusione la separazione della forza politica dalle forze sociali — visto che è negato, in via di principio, il trapassare di tutte le forze sociali nello Stato — può consistere solo nella dissoluzione di ogni potere politico nella libertà, cioè nella assenza di costrizione. Ma noi già conosciamo lo scambio tra concetti, di cui è vittima la criPágina 231 tica kelseniana. Fa parte dei molteplici equivoci del formalismo concettuale di Kelsen il fatto che per esso il termine ‘politico’ sia sempre equivalente al termine ‘statale’, e quest’ultimo a sua volta si identifichi con ‘interesse generale’ o ‘interesse pubblico’. In Marx viceversa l’espressione ‘politico’ significa esattamente il contrario, vale a dire che il meccanismo dello Stato di classe comporta necessariamente che in forma politica compaiano sempre soltanto dei contenuti di parte della connessione sociale, i quali però si spacciano per contenuti universali, sia che si costituiscano come interessi di dominio e attraverso la legislazione statale vengano imposti come universali, sia che si costituiscano come interessi rivoluzionari e nella ideologia della classe che aspira a sollevarsi si presentino come universali. Per Marx, dunque, interessi politici, forze politiche e potenza politica, in sé e per sé, non coincidono mai tout court con interessi e forze generali e col potere pubblico. Perciò è falso dire, come fa Kelsen, che è pleonasmo discutere del carattere politico del potere pubblico. Per il suo punto di vista formale, per il quale carattere politico, potere pubblico e Stato sono dei concetti del tutto identici e soltanto delle espressioni differenziate per indicare l’«organizzazione costrittiva», espressione che di per sé è assolutamente indeterminata, una tale affermazione è sicuramente esatta. Ma per il punto di vista sociologico di Marx c’è un senso pregnante, anzi c’è per la prima volta il senso veramente grandioso della sua teoria dello sviluppo sociale nell’affermare che, sulla base della trasformazione economica, nelle fondamenta della società da lui indicata, il potere pubblico perde il suo carattere politico, cioè il suo carattere di antagonismo di classe, con la necessaria conseguenza che nello Stato possa presentarsi come potere pubblico, dunque come potenza politica, ciò che è in realtà soltanto un potere di parte e contrapposto all’interesse pubblico. È assolutamente vero che per un istante Kelsen ha rivelato una visione piú lucida, affermando che può sembrare che per potere politico il Manifesto del partito comunista intenda il dominio di classe. Ma subito lascia cadere questa premessa iniziale che unicamente renderebbe possibile la comprensione. Ora non solo sembra cosí, ma è cosí di fatto. Se Kelsen non restasse semplicemente legato a singole citazioni e se avesse attinto, viceversa, alle ricche fonti del marxismo nella loro globalità, saprebbe che già Marx, poco tempo prima del Manifesto del partito comunista, ha chiarito i concetti di libera associazione e di trasformazione del potere politico proprio nella connessione in cui sono stati esposti in precedenza da noi. Egli dice: La classe lavoratrice sostituirà, nel corso dello sviluppo, all’antica società civile un’associazione che escluderà le classi e il loro antagonismo, Página 232 e non ci sarà piú un potere politico propriamente detto, perché il potere politico è precisamente l’espressione pubblica del conflitto di classe all’interno della società civile. [Nota 16] Giova ad esplicitare, contemporaneamente, il contrasto tra forze politiche e forze sociali, di cui si è discusso prima, cosí come a far affiorare ancora una volta in modo inconfondibile l’uso linguistico marxiano del termine ‘politico’, quando leggiamo oltre il passo già citato: Non esiste un movimento politico che non sia contempolaneamente anche sociale. È solo in un ordine di cose, in cui non vi saranno piú classi né antagonismo di classe, che le rivoluzioni sociali cesseranno di essere rivoluzioni politiche. [Nota 17] La eliminazione della scissione tra forze sociali e forza politica non si trova affatto davanti al dilemma posto da Kelsen, per cui essa deve produrre come effetto o il confluire della società nello Stato, o l’anarchia, ma rappresenta piuttosto il passaggio da una socialità inconsapevole e sottratta perciò a ogni regola, ad una socialità cosciente e regolata. Perciò il nuovo Stato diviene sia per Marx che per Engels una condizione di libertà, concetto che Engels ha espresso nella frase famosa, secondo la quale sarebbe questo il salto dal regno della necessità a quello della libertà; ciò non avviene perché in questo nuovo assetto l’ordine costrittivo della società venga dissolto, ma perché tutti i legami sociali dell’individuo non gli si contrappongono piú come una potenza incomprensibile, per cosí dire esteriore, bensí scaturiscono dai propri rapporti vitali, che sono diventati del tutto trasparenti e che vengono costituiti in modo consapevole insieme con i suoi compagni stessi. Marx del resto nella fase ‘della maturità’ ha fornito espressamente dei chiarimenti, anche per coloro che erano ancora bisognosi di un tale commento, sul modo in cui dev’essere interpretata questa libertà, su come va pensata effettivamente la «libera associazione», in quanto forma di produzione sociale, tanto sospettata da Kelsen di anarchismo. Il regno della libertà comincia di fatto solo là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria, [...] La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; Página 233 che essi eseguono il loro compito con il minore impiego possibile di energia e nelle condizioni piú adeguate alla loro natura umana e piú degne di esse. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. [Nota 18] In tal senso dunque nella costruzione cosciente dell’essenza generica dell’uomo non si verifica una dissoluzione di ogni ordinamento costrittivo, ma solo il mutamento indubbiamente imponente del suo carattere sociologico, che da non solidale diviene solidale, e ciò trasforma la costrizione, da una funzione di dominio, in un criterio di misura della finalità e nello stesso grado la limita a un minimo necessario. E sulla base di ciò, ma sicuramente anche solo in questo contesto, diviene sempre piú esplicito il significato assolutamente non individualistico, ma grandiosamente sociale della frase, secondo la quale l’essenza umana è la vera comunità dell’uomo. Senonché Kelsen ha ricavato da essa non solo l’individualismo, ma perfino una tendenza all’anarchismo. Ma come si perviene a ciò? Egli vede tracciato questo esito nelle seguenti parole di Marx: La rivoluzione in generale — il crollo del potere esistente e la dissoluzione degli antichi rapporti — è un atto politico. Il socialismo non può dunque realizzarsi senza una rivoluzione. Esso esige questo atto politico, in quanto ha bisogno della distruzione e della dissoluzione. Ma non appena inizia la sua attività organizzatrice, non appena emergono la sua finalità immanente, la sua anima, allora il socialismo si scrolla di dosso il suo involucro politico. [Nota 19] A tale riguardo Kelsen osserva che la rivoluzione politica in Marx, poiché fa ancora ricorso alla violenza, è pura distruzione, il socialismo al contrario è un’attività costruttiva e organizzatrice, in quanto annuncia l’ideale della società liberata dal mezzo politico, cioè dalla costrizione statale (p. 26 [57]). Kelsen avrebbe dovuto alla fine fare attenzione in questo brano al fatto che il concetto di politico, contrapposto a quello di sociale, indica in Marx qualcosa di diverso dal contrasto dello Stato, nel senso di un’organizzazione costrittiva in generale, rispetto a una vita sociale non statale, liberata da ogni costrizione. In genere il contrasto, da cui muove Marx nel pensiero precedente, non è tra l’organizzazione politica e quella sociale, ma tra rivoluzione e socialismo. In relazione alla prima egli dice che è sempre un atto politico e distruttivo, perché ogni rivoluzione è l’azione di una parte della società Página 234 contro le altre, al fine di condurre l’intera società in una forma di piú ampia e consapevole socialità; il politico qui, come sempre in Marx, è quella forma storica della società, nella quale essa, a causa dell’antagonismo dello Stato di classe, può apparire per l’appunto solo come una lotta tra le sue componenti, aventi interessi divergenti sul piano economico. E il socialismo può spezzare questo involucro, non perché dissolva la organizzazione costrittiva, ma in quanto «la sua attività organizzatrice» d’ora in poi fonda tale costrizione sulla volontà cosciente e concorde di tutti i membri della comunità, liberati dai conflitti di classe, e in tal modo trasforma radicalmente il carattere sociale della «costrizione» la quale resta sempre formalmente ancora una costrizione contro i trasgressori. 3. La rottura della macchina statale Se ci si rende conto del grave danno che l’adozione di concetti ambigui arreca in Kelsen, si può anche comprendere per quale motivo Marx ed Engels non vedevano di buon grado che si adoperassero il concetto di Stato per indicare il nuovo assetto sociale auspicato dal socialismo, e, rispettivamente, predisposto dallo sviluppo economico. Ciò non dipende, come Kelsen pensa, dalla tendenza a occultare il fatto che anche la società socialista non può fare a meno della costrizione, ed è quindi pur sempre uno ‘Stato’ (p. 40 [76]), ma per porre l’accento sulla radicale trasformazione del carattere della costrizione. Questo dato viene fuori anche nel caso in cui si definisca, al pari di Kelsen, la società socialista assolutamente come uno Stato, se è vero che si tratta appunto di uno Stato cosí totalmente diverso dallo Stato di classe di oggi, e anche dallo Stato proletario di domani. L’essenziale è la comprensione sociologica di questo ‘totalmente diverso’, sul piano economico, psicologico, morale e perciò, da ultimo, anche organizzativo, e non la circostanza, in base alla quale, com’è naturale, anche in questo assetto sociale esisteranno assoggettamento e subordinazione, organi e competenze e rapporti cui potrà applicarsi naturalmente, dal punto di vista formale, il concetto di diritto, di costituzione e di legge. Marx vuole esprimere questo totale mutamento sociologico dell’ordinamento sociale, allorché scrive a Kugelmann della necessità di non «trasferire da una mano ad un’altra la macchina burocratica e militare, come è avvenuto fino ad ora, ma di spezzarla» [Nota 20]. Kelsen, naturalmente, in questa rottura della macchina statale scorPágina 235 ge soltanto o una rappresentazione poco chiara oppure una forma di anarchismo. Egli dice: Se si domanda che cosa si possa intendere con l’immagine della rottura della macchina statale in generale, allora, detto senza metafore, s’intende o che al posto del vecchio ordinamento statale ne viene posto uno nuovo, ma tuttavia pur sempre un ordinamento statale; oppure che non viene posto alcun ordinamento, cioè viene creata una situazione di anarchia; oppure che, semplicemente, al posto degli organi che realizzavano il vecchio ordinamento, vengono ordinati altri uomini come esecutori; oppure che, con un nuovo ordinamento statale — quindi, con un cambiamento fondamentale delle norme statali di organizzazione — viene collegato anche un completo cambiamento degli organi statali (pp. 32-3 [68-9]). Kelsen distingue pertanto fra quattro casi, che possono essere cosí elencati: 1) anarchia; 2) forma statale non diversa in linea di principio da quella precedente; 3) mutamento in linea di principio della precedente forma statale, con un cambiamento completo degli organi statali; 4) semplice ricambio dei precedenti organi statali. È chiaro che, rispetto alla trasformazione ipotizzata da Marx, soltanto il terzo caso è preso in considerazione. Se dello Stato di classe non sussisteranno né le sue precedenti forme di organizzazione, cioè i rapporti di classe che al suo interno determinano le funzioni statali, né i suoi organi, le istituzioni destinate all’esercizio del potere di classe, ma questi saranno soppressi nel corso di una lotta storica in cui si farà piú o meno ricorso alla violenza da parte della classe rivoluzionaria, un tale processo viene chiamato da Marx la rottura della macchina statale, anche se il nuovo ordine non è, naturalmente, un’anarchia, ma disporrà di un suo proprio ordinamento costrittivo che scaturirà dai suoi compiti e interessi. Infatti viene spezzata appunto la macchina dello sfruttamento e dell’oppressione di una classe da parte dell’altra, ed è questo l’elemento essenziale nel senso sociologico. In questa prospettiva non cambia niente il fatto che lo Stato proletario stesso sia ancora uno ‘Stato’, nel significato attribuitogli da Marx, cioè uno Stato di classe. È solo il segno del formalismo assolutamente sterile di Kelsen, che dissolve confusamente ogni possibilità di comprensione, se, insistendo nell’apparenza della sua rigida definizione, fa carico al marxismo della contraddizione di parlare contemporaneamente della rottura della macchina statale, mentre il proletariato costruisce lo Stato proletario e del fatto che Marx ed Engels non definiscono piú la Comune parigina come un vero e proprio Stato, mentre dall’altro lato la descrivono, ciononostante, come la dittatura del proletariato, il che significa però come lo Stato sotto il dominio del proletariato. La distinzione decisiva tra Página 236 lo Stato proletario e quello capitalistico, che indubbiamente non può essere colta in una considerazione puramente giuridica, ma solo riferendosi alla funzione sociologica di entrambi, deve sfuggire completamente a Kelsen: il fatto che lo Stato capitalistico vuole essere una forma duratura della organizzazione sociale, mentre lo Stato proletario ha sin dall’inizio la consapevolezza di essere una forma di transizione (Uebergangsform) e di avere in ciò il principio organizzativo del suo esistere e del suo agire. Ed è per questo motivo che Marx ed Engels riguardo alla Comune parigina affermano che essa non era uno Stato vero e proprio, il che non significa che non disponesse di nessun ordinamento costrittivo, e fosse dunque pressappoco una forma di anarchismo, ma che essa aveva come obiettivo quello di eliminare, attraverso la soppressione dei rapporti di classe, la forma statale, cioè il dominio di una classe sulle altre, in questo caso dunque anche il suo proprio dominio. Gli stessi avversari politici ed economici della Comune erano ben consapevoli che essa non era piú «un vero e proprio Stato». Perciò veniva accusata di distruggere la cultura borghese da parte dei sostenitori di quest’ultima. La Comune — scrisse Marx —, essi [gli avversari] esclamano, vuole abolire la proprietà, la base di ogni civiltà! Certo, signori, la Comune voleva abolire quella proprietà di classe che fa del lavoro di molti la ricchezza di pochi. Essa voleva l’espropriazione degli espropriatori. Voleva fare della proprietà individuale una realtà trasformando i mezzi di produzione, la terra e il capitale, che ora sono essenzialmente mezzi di asservimento e di sfruttamento del lavoro, in semplici strumenti di lavoro libero e associato. [Nota 21] Ma, il giurista, di tutta quest’intenzione della Comune non scorge nulla, e neanche gl’interessa. Egli bada semplicemente al mutamento della forma della sua amata organizzazione costrittiva, cercando di scoprire se continua ad esistere e, in tono trionfante, domanda: Orbene, che cosa accade nella Comune di Parigi, cioè quali sono — nell’esposizione di Marx — i processi essenziali? Essi possono essere esaustivamente riassunti nel fatto che al posto di una forma statale monarchica fu data una costituzione democraticorepubblicana, fusa con alcuni elementi di democrazia diretta e che fu realizzato un cambiamento degli uomini che attuavano l’ordinamento statale (p. 33 [69]). Effettivamente? Ed esaustivamente? Ed è veramente questo l’elemento essenziale nell’esposizione di Marx? È un po’ come se uno, cui venga raccontato che un oratore che scoppiava di spirito e di vita si è improvvisamente abbattuto al suolo, colpito da un Página 237 colpo apoplettico, dicesse che niente di essenziale è mutato nell’ordine in cui sono disposte le molecole che compongono il corpo dell’oratore per il fatto che, al posto di una forma vivente, è subentrata una morta combinazione (Verfassung) permeata da certi elementi di rigidità, la quale tuttavia rappresenta pur sempre una forma di ordinamento degli elementi corporei, con la sola differenza che prima era rivolta alla coesione del corpo e ora alla sua disgregazione. Nel riassunto ‘esaustivo’, fatto da Kelsen, della esposizione marxiana non viene considerato proprio ciò che Kelsen in verità cita, ma che non sa adoperare altrimenti che come utilizza i suoi ripetuti equivoci formali. Marx, il quale naturalmente sapeva molto bene che la Comune di Parigi era ancora uno Stato nel senso politico del termine, la chiama «una forma politica eminentemente capace di espansione, mentre tutte le precedenti forme di governo erano state essenzialmente repressive». Questa capacità espansiva consiste nel superamento della forma di oppressione. Infatti il suo vero segreto fu questo: che essa fu essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto della lotta della classe che produce contro la classe usurpatrice, la forma politica finalmente disvelata, nella quale poteva compiersi finalmente la liberazione economica del lavoro. [Nota 22] Dunque il dato essenziale non consiste per Marx, come ritiene Kelsen, nel fatto che anche la Comune sia stata una forma politica, perciò, come Kelsen aggiunge con aria di trionfo, «un governo», una «repubblica», quindi uno Stato (pp. 33 [69]), ma che si sia costituita come una siffatta forma politica in cui poteva giungere a compimento la soppressione della forma politica dello Stato stesso. Questo ‘residuo’ della esposizione marxiana della Comune sta sicuramente al di sotto del riassunto ‘esaustivo’ di Kelsen, cosí come la realtà in generale sparisce per colui che si intrattiene in castelli in aria. È inutile soffermarsi dettagliatamente sulla critica che Kelsen rivolge alla Comune e che approda ovunque alla dimostrazione che anche la Comune non fu «una anarchia», il che vuol dire che non rinunciò a una qualche forma di organizzazione costrittiva. La estenuante confusione tra concetti il cui significato giuridico-formale viene applicato, in espressioni come rappresentanza popolare, parlamentarismo, polizia, governo ecc., a contenuti completamente diversi sul piano sociale, rende la lettura di questa critica tanto incresciosa quanto sterile; una sua confutazione dettagliata non apporterebbe niente di nuovo in linea di principio e può pertanto essere affidata a tutti coloro che hanno seguito la nostra analisi. Página 238 4. L’estinzione dello Stato Come l’espressione marxiana «rottura dello Stato» non significa anarchismo nel senso di una distruzione della organizzazione costrittiva della vita sociale, bensí soltanto nel senso della distruzione di un’organizzazione di dominio, lo stesso vale anche per l’altra immagine, adoperata da Engels, dell’ «estinzione dello Stato». Essa non si riferisce alla forma di società in quanto tale, ma semplicemente al tempo (Tempo) della sua trasformazione, ed è formulata polemicamente nei confronti degli anarchici, che pretendono di abolire lo Stato ‘tutto d’un colpo’. In tal senso, l’espressione engelsiana dell’«estinzione dello Stato» fa riferimento unicamente al fatto che la trasformazione dell’organizzazione costrittiva della società, da una forma di dominio in una forma di amministrazione sociale, è un lungo processo storico, nel quale sia le vecchie istituzioni sia gli uomini di un tempo sono destinati a perire, prima che la nuova forma di società possa effettivamente sviluppare la sua vera e propria essenza. Concepita in forma polemica contro gli anarchici di allora, molto opportuna verso i sindacalisti e bolscevichi di oggi, l’espressione engelsiana dell’«estinzione dello Stato», tuttavia, non è molto felice, e va di gran lunga posposta all’espressione marxiana della distruzione della macchina statale. Ma non perché, come ritiene Kelsen, lo Stato in generale non possa estinguersi, ma in quanto una tale espressione ha lo strano sapore che la trasformazione e il rovesciamento dello Stato di classe in una società senza classi possano avvenire in modo graduale e senza un abbattimento violento degli antichi rapporti, delle vecchie istituzioni e delle vecchie forme di coscienza. L’idea della «estinzione» dello Stato spinge troppo vicino la realizzazione del socialismo a quel concetto seducente, e che, tuttavia, falsifica grossolanamente tutto il senso dello sviluppo economico, che si realizza solo attraverso l’azione degli uomini, di una pacifica ‘transcrescenza’ della società capitalistica in quella socialista. Quest’ultima cresce all’interno della società capitalistica solo allo stesso modo in cui nel ventre materno cresce il bambino, il quale deve pur sempre essere distaccato dal cordone ombelicale, e lo Stato si estingue, al pari della placenta, solo dopo che da esso si è staccato il nuovo organismo. L’estinzione, in questo caso, e la transcrescenza (Hineinwachsen), in quel caso, sono, ambedue le volte, metafore imperfette di un processo che, essenzialmente, non è processo organico, bensí un processo della vita sociale, e il quale scorre in quella forma che il processo della vita sociale deve assumere al livello non solidale quale è esistito finora, cioè nella forma della lotta. Página 239 Capitolo diciassettesimo Il ‘miracolo’ della organizzazione senza Stato Ma Kelsen giudica l’affermazione marxista della necessaria soppressione dello Stato, dopo l’eliminazione dei conflitti di classe, non solo contraddittoria, ma anche assolutamente arbitraria e indimostrabile perfino all’interno della concezione marxista. Egli ritiene che la conclusione cui perviene il marxismo, in base alla quale là dove non esistono conflitti di classe non esiste piú neppure uno Stato — e questo significa, in Kelsen, come sappiamo, che non c’è alcuna organizzazione costrittiva — è del tutto insostenibile. Infatti, a suo avviso, non viene cercata neanche l’ombra di una dimostrazione per il fatto che insieme con lo sfruttamento economico e con l’opposizione di classe scompariranno anche tutti quei fenomeni sociali che — del tutto indipendentemente dal mantenimento o dall’eliminazione dell’opposizione di classe e dello sfruttamento — rendono necessario un ordinamento costrittivo, un potere pubblico ovvero un dominio politico (p. 18 [48]). È proprio vero che in un ordinamento economico comunista non ci sarà piú niente che possa far ribellare gli uomini, spingerli a proteste e sollevazioni? Non esiste realmente nessun’altra forma di opposizione a un ordinamento sociale che non sia quella di classe (p. 80 [pp. 127-8])? Ma, a prescindere da ciò: l’eliminazione dello sfruttamento trasformerà cosí radicalmente la natura umana che ognuno eseguirà spontaneamente il lavoro assegnatogli, anche se con ciò, come accade sempre in una pianificazione centralizzata del lavoro, non sempre potranno essere soddisfatti i suoi bisogni individuali? Non dovrebbe essere consentito a un ordinamento sociale, che non potrà essere tuttavia un semplice ordinamento economico, di proteggersi, con minacce di costrizione, da tali turbamenti? E altrettanto per prevenire l’insorgere di nuovi conflitti di classe? E l’ipotesi secondo la quale nell’ordinamento Página 240 comunista non esisteranno pericoli di questo genere non è l’esempio classico di un’utopia non scientifica (p. 18 [49])? E infine si chiede Kelsen: è possibile un ordinamento economico, rispondente a un piano, che possa rinunziare ad una costrizione? Non è piú che paradossale il fatto che lo Stato che, nella sua trasformazione dell’apparato costrittivo borghese in quello proletario, aumenta in maniera insospettata quanto a potenza e competenza, proprio nello istante in cui raggiunge l’apice di questo sviluppo, debba scomparire, dissolversi misteriosamente nel nulla? [...] No, qui c’è un miracolo: abbiate solo fede! (p. 19 [49]). Sí, qui c’è un miracolo, abbiate solo fede, ma non quello ipotizzato da Kelsen e che gli appare solo come il frutto di una immaginazione fertile, libera da tutti i vincoli del pensiero scientifico, bensí al contrario si tratta di quel miracolo, cui si presta molto meno attenzione, che riguarda il modo in cui anche il pensiero scientifico piú rigoroso non è in grado, di tanto in tanto, di sottrarsi ai vincoli dei concetti e dei modi di vedere abituali, quando si tratta dei vincoli dell’ideologia della classe borghese. Se non si è in grado di rappresentarsi lo Stato, i cittadini e il loro rapporto reciproco, in un modo diverso rispetto alle forme dell’attuale conflittualità di classe, modificabili solo sul piano giuridico, è inevitabile che si giunga a considerare la teoria sociale marxista non solo come un cumulo di contraddizioni, ma a scorgere in tutto ciò che essa afferma riguardo alla diversità e alla novità delle sue condizioni sociali e degli uomini una sorta di utopia pura e di favole per fanciulli che s’interessano di politica. Ciò che Kelsen espone qui riguardo al ‘carattere paradossale’ del marxismo, alla sua mortale contraddizione, in base alla quale, da una parte, esso estenderebbe, nell’organizzazione comunista della società, l’organizzazione costrittiva della società in maniera inaudita rispetto allo Stato odierno e, tuttavia, dall’altra parte, esso parla di una scomparsa dello Stato, dobbiamo considerarlo confutato dalle nostre precedenti argomentazioni, allo stesso modo in cui lo sono state le affermazioni kelseniane sulla necessità di una costrizione anche all’interno dell’ordinamento comunista della società. Già nel corso della discussione sull’anarchismo abbiamo constatato a sufficienza quanto sia sbagliato identificare la soppressione del carattere di dominio con l’organizzazione costrittiva in generale. Ma, se questa ‘costrizione’ viene posta in una contraddizione interna rispetto alla libertà, diviene necessario, di fronte al disconoscimento, tipico dell’ideologia borghese, dell’assenza specifica della ‘costrizione’, soffermarci piú da vicino sulla sua natura. Già nel Manifesto del partito comunista, tra le misure immediate che i comunisti devono adottare, allo scopo di convertire l’ordiPágina 241 namento sociale esistente nel nuovo ordinamento, si richiede: «Uguale obbligo di lavoro per tutti e istituzione di eserciti industriali» [Nota 1]. Sicuramente questa affermazione, in sé e in connessione con tutte le altre richieste, avanzate in quella occasione, in direzione di una centralizzazione dell’economia, sta a indicare semplicemente un provvedimento transitorio, ma non nel senso che esso vuole condurre da un’economia organizzata in base a un piano a un’altra totalmente disorganizzata e priva di costrizione, bensí, da una forma ancora piena di residui dell’economia e dell’ideologia borghese e, quindi, necessariamente inadeguata, a un modo di produzione completamente rivoluzionato nelle istituzioni e negli uomini. Nel Capitale Marx descrive, una volta, la trasparenza raggiunta dai rapporti economici, in quanto relazioni umane, all’interno di un’economia comunista, con le seguenti parole, che fanno pensare a Stirner: «Immaginiamoci infine, per cambiare, un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale» [Nota 2]. Egli ritiene superfluo aggiungere che questa società, benché non sia uno Stato, ma una associazione di uomini liberi, naturalmente può lavorare solo socialmente, in quanto essa si subordina alla costrizione che scaturisce oggettivamente dalla natura della produzione comune e sicuramente renderà adeguatamente inoffensivi tutti coloro che turberanno questa costrizione, cioè il lavoro stesso. Come se non bastasse anche Engels ha sviluppato questo punto e proprio contro la parola d’ordine dei bakuninisti dell’annullamento di ogni autorità. Nell’articolo, già in precedenza menzionato, apparso sulla rivista «La Plebe», scrive: Dovunque, l’azione combinata, la complicazione dei procedimenti, dipendenti gli uni dagli altri, si mette al posto dell’azione indipendente degli individui. Ma chi dice azione combinata, dice organizzazione; ora, è possibile avere l’organizzazione senza l’autorità? [Nota 3] Engels chiarisce tale impossibilità ricorrendo all’esempio di un cotonificio e al funzionamento di una ferrovia, e, in questo, il nucleo centrale delle delucidazioni consiste sempre nel mostrare l’emergere del momento costrittivo di cui si tratta in questo caso, dell’autorità che agisce in questo caso, a partire dalle necessità oggettive della collaborazione. In tal senso egli dice: Página 242 L’automata meccanico d’una grande fabbrica è molto piú tiranno di quanto lo siano mai stati i piccoli capitalisti che impiegano operai. Almeno per le ore di lavoro si può scrivere sulle porte di queste fabbriche: Lasciate ogni autonomia, voi ch’entrate! Se l’uomo con la scienza e il genio inventivo si sottomise le forze della natura, queste si vendicano su lui sottomettendolo, nel mentre ch’egli le impiega, a un vero dispotismo, indipendente da ogni organizzazione sociale. Voler abolire l’autorità nella grande industria, è voler abolire l’industria stessa; distruggere la filatura a vapore per ritornare alla conocchia. [Nota 4] Autorità e subordinazione non vengono concepiti piú come concetti attinenti allo Stato, bensí come concetti puramente economici e tecnici, delle cose, per l’appunto, che, «indipendentemente da ogni organizzazione sociale, s’impongono a noi colle condizioni materiali nelle quali noi produciamo e facciamo circolare i prodotti» [Nota 5]. Non si può dire pertanto che l’ordinamento sociale socialista neghi o anche soltanto disconosca la necessità di una costrizione che scaturisca dalle condizioni del lavoro sociale. Cosí, già nel commento al Programma di Erfurt, Karl Kautsky scrive che la produzione socialista «è inconciliabile con la completa libertà del lavoro, cioè la libertà del lavoratore di lavorare dove e come egli vuole». Poiché la socialdemocrazia non può eliminare la dipendenza del lavoratore dal meccanismo economico di cui costituisce una rotellina, ma al posto della dipendenza del lavoratore da un capitalista, i cui interessi sono opposti ai suoi, porta la sua dipendenza da una società di cui egli stesso è membro, una società di compagni che godono gli stessi diritti e hanno gli stessi interessi. [Nota 6] Ma non si può vedere in questa organizzazione costrittiva una contraddizione rispetto all’obbiettivo di libertà propugnato dal socialismo, come accade fin troppo spesso, allorché si parla, in riferimento a ciò, di un ordinamento di tipo casa di correzione, di un’istituzione di lavori forzati e cose del genere. Se si adoperano siffatti argomenti in un dibattito politico, ciò può risultare funzionale solo agli scopi di coloro che non sono interessati alla ricerca della verità, ma a gettare il discredito sull’avversario. Ma ciò che provoca stupore è il fatto che rappresentazioni di tal genere si manifestino anche nelle critiche a Marx che si presentano in veste scientifica e ivi prendano se stesse molto sul serio. Cosí, per esempio, Degenfeld-Schonburg, in uno scritto per il resto molto stimolante sui motivi economici del marxismo, ritiene che quaPágina 243 si tutti i pensatori marxisti vengano a trovarsi, davanti alla questione di dover decidere se la società futura sarà costruita sulla libertà o sull’autorità, «in un dissidio interno», che è fin troppo comprensibile. Infatti, poiché essi non possono negare la necessità della costrizione per quanto riguarda il lavoro, si trovano — secondo DegenfeldSchonburg — in imbarazzo col problema della libertà. E anche questo autore, per il resto molto ponderato, ritiene necessario richiamare l’attenzione sul fatto che ogni lavoro costrittivo costituisce la tomba dell’attività produttiva e sul fatto che «la costrizione, che sarebbe necessaria per dare a tutta la nostra economia una direzione centralizzata, dovrebbe essere di una pesantezza in sospettata e opprimente» [Nota 7]. Innanzi tutto vorrei chiedere: un impiegato delle ferrovie o uno delle poste si è mai sentito in balia di un’insopportabile costrizione, non parlo naturalmente del lavoro straordinario che oggi è costretto a svolgere, ma perché lavora in una delle aziende maggiormente centralizzate? È veramente credibile che l’impiegato di una rete ferroviaria, che viene collegata ad altre, finora indipendenti, in vista di una nuova e unica amministrazione, si senta, in seguito a questa concentrazione, piú avvilito di quanto fosse prima? L’errore concettuale è, in questo caso, il medesimo di quello che ricorre in tutte queste ‘critiche’ alle istituzioni future di una società completamente nuova. Si trasferiscono le attuali rappresentazioni, immutate, in un ambiente completamente diverso dal punto di vista psicologico ed economico e poiché oggi l’ordinamento del lavoro, all’interno di una fabbrica, è tale da contrapporsi agli operai, è loro imposto dall’industriale e tiene conto semplicemente o tuttavia innanzi tutto dei suoi interessi, ci s’immagina allo stesso modo anche l’ordinamento futuro del lavoro. Ma, tutto ciò che nella società socialista sarà ordinamento costrittivo, scaturirà dalla volontà comune degli interessi. E, come già oggi i consigli d’azienda, nella fabbrica capitalistica, possono trasformare in modo decisivo l’ordinamento costrittivo ivi dominante, nelle sue funzioni e, alla fine, anche nella sua portata, allo stesso modo la situazione futura del lavoro in generale dipenderà, nelle grandi come nelle piccole cose, soltanto da un tale sistema di tali consigli dell’economia. Un ordinamento, che scaturisce soltanto dalle necessità obbiettive della produzione e della distribuzione e viene posto dagli uomini che vivono e attuano queste necessità, resta senza dubbio un’organizzazione costrittiva. Ma definirlo un ordinamento da casa di correzione o parlare, in generale, della sua «pesantezza» è un po’ come dire che la costrizione che consiste nel Página 244 muovere ambedue i piedi quando si cammina è una violenza arrecata alla mia libertà e grava, ad ogni mio passo, con una pesantezza insopportabile. A ciò si aggiunge ancora il fatto che la questione fino a che punto quest’ordinamento economico esige una centralizzazione di tutto il processo lavorativo stesso e non, semplicemente, una statistica centrale della produzione e una distribuzione centrale della produzione, non è affatto una questione di principio per il socialismo, ma essa riceverà una risposta sulla base delle necessità e utilità del processo di produzione stesso. E, infine, non si può dimenticare che la ‘costrizione al lavoro’ si presenterà, anche esternamente e internamente, in maniera notevolmente diversa dalla costrizione al lavoro in una istituzione odierna per il lavoro coatto, anzi addirittura soltanto in una fabbrica odierna. Infatti, senza abbandonarci a profezie, che sono superflue, è proprio dell’essenza della società socialista e, quindi, dell’essenza dei suoi concetti una riduzione considerevole dell’orario di lavoro, un miglioramento delle condizioni soggettive e oggettive del lavoro e una delimitazione a pochi anni dell’obbligo di lavorare. Ora, ci s’immagini uno statuto del lavoro (Arbeitsverfassung) con un tempo di lavoro giornaliero di otto ore, nelle condizioni della società socialista, che destinerà ognuno al lavoro per cui egli si senta piú portato o, per lo meno, non per lavori tali per cui egli sia inadeguato e che debbano risultargli sgradevoli, inoltre, una durata del lavoro che lasci completamente libero ogni membro della società, con trent’anni, dopo circa un decennio di periodo di lavoro — chi definisca un tale ordinamento una ‘costrizione insopportabile’, anzi, chi lo definisca soltanto una contraddizione rispetto alla libertà, solo perché questo ordinamento, per un tempo limitato, sottopone ogni singolo agli scopi da lui stesso voluti, chi fa questo, non fa altro che giocare con le parole costrizione e libertà. La stragrande maggioranza dell’umanità, che quasi soggiace all’odierno tormento del lavoro e all’odierno stato di necessità, anela a una tale ‘costrizione’, a un tale ‘attentato alla sua libertà’. Non si può quindi parlare di una oscillazione circa il rapporto di costrizione e libertà nel socialismo, né per quanto riguarda Marx e Engels, né per quanto riguarda i marxisti. Ci si ricordi dell’espressione di Marx a proposito del regno della necessità, al di là del quale soltanto può svilupparsi il regno della vera libertà della persona. Degenfeld-Schonburg stesso rinvia alle parole di Kautsky, con cui egli una volta ha condotto questo ‘problema’ in una formula risolutiva: costrizione per quanto riguarda il lavoro, al di fuori del lavoro libertà [Nota 8]. Página 245 Ma quando egli aggiunge che «questa è, naturalmente, solo una perifrasi per esprimere il dato di fatto di un’economia completamente costrittiva» [Nota 9], con quest’ultima proposizione egli dà soltanto spazio alle associazioni d’idee píú volgari ed acritiche, che si stabiliscono nel caso della parola costrizione, e rinunzia a ogni consapevolezza della distinzione che, dalla casa di correzione fino alla cooperazione minuziosamente regolata di un’organizzazione economica corporativistica, sussiste sia nel modo di essere oggettivo sia nel modo in cui soggettivamente viene avvertita l’organizzazione costrittiva [Nota 10]. Página 246 In conclusione, bisognerebbe far riferimento, nel contesto del nostro discorso, al fatto che la caratterizzazione di ogni vincolo dell’arbitrio individuale, attraverso norme che si contrappongono ad esso, è già una formulazione indeterminata, ma, al tempo stesso, pericolosa, perché trascura completamente la struttura sociologica e psicologica di questo vincolo. Come sul piano sociologico la questione decisiva consiste nello stabilire se l’individuo, soggetto a vincoli, li vive come le sue forme necessarie e indispensabili di vita e di lavoro, cosí, anche sul piano psicologico bisogna stabilire se l’individuo assume su di sé i vincoli o se si contrappone ad essi. Nel primo caso, si compie la trasformazione caratteristica della ‘costrizione’ in un ‘autorità’ riconosciuta. Ci si rammenti, tuttavia, come anche presso i teorici dell’anarchismo questo tipo di autorità, che scaturisce dalla natura della cosa, non solo non è affatto negata, ma, al contrario, l’abbiamo vista caratterizzata come l’unica vera autorità [Nota 11]. Ed è solo uno dei molteplici modi di giudicare superficiali, particolarmente diffusi riguardo a questa questione, ritenere che l’autorità, che si basa sul riconoscimento di una necessità ammessa, di una superiorità riconosciuta e fors’anche rispettata, costituisca una contraddizione rispetto alla libertà, una pura costrizione. Il riconoscimento dell’autorità di un ordinamento, che s’impone come ovvio perché utile, o di un capo, di un organizzatore, di un maestro, è anch’esso un atto di libertà da parte di colui che opera il riconoscimento. Nelle sue ricerche sui fenomeni di sub-ordinazione e di sovraordinazione sociale, Georg Simmel nota molto acutamente che, per l’analisi sociologica di questi rapporti, è della massima importanza chiarire il grado di spontaneità e di partecipazione del soggetto subordinato, di contro al suo frequente occultamento, operato dal modo di rappresentare superficiale. Ciò che ad esempio si chiama ‘autorità’ presuppone una libertà da parte di colui che è assoggettato all’autorità in una misura maggiore di quanto non si sia abitualmente disposti a concedere, «essa non è fondata, neppure nei casi in cui sembra ‘opprimere’ colui che è assoggettato, su una costrizione e su un semplice doversi piegare». Un’autorità si attua — per Simmel — solo in virtú del fatto che o una personalità oltrepassa il Página 247 suo significato puramente soggettivo per esprimere un’istanza oggettiva, per cosí dire sovraindividuale, o, viceversa, una potenza sovraindividuale, lo Stato, la Chiesa, la famiglia, conferiscono a una singola personalità un tale valore. In quest’ultimo caso il significato sovrapersonale si è per cosí dire trasmesso dall’alto ai singoli; nella prima ipotesi, al contrario, esso è scaturito dalle sue caratteristiche intrinseche. Nel punto in cui si attua questo passaggio e capovolgimento deve subentrare visibilmente la fede, piú o meno volontaria, da parte di colui che è assoggettato all’autorità; infatti lo spostamento tra il valore sovrapersonale e il valore della personalità, che aggiunge a quest’ultima un di più, anche se ancora minimo, rispetto a quanto le spetta in modo dimostrabile razionalmente, viene compiuto proprio dalla fede nell’autorità stessa, è un evento sociologico, che richiede la collaborazione spontanea anche dell’elemento subordinato. [Nota 12] Anche ciò che Max Weber ha definito dominio carismatico, che dal punto di vista contenutistico è piú una dipendenza basata sull’amore e la fiducia anziché una sottomissione, sebbene anche in esso la costrizione non sia minore che in quest’ultima, è la prova di quanto sia scarsamente rilevante dal punto di vista sociologico affermare che non è possibile nessuna subordinazione senza costrizione [Nota 13]. Ora, non si può indicare nessun motivo valido per cui anche nella società socialista, anzi, qui piú facilmente che altrove, visto l’innalzamento culturale in essa reso possibile, non debbano sorgere in tutti i campi dell’attività sociale siffatti vincoli carismatici e autoritari, derivanti dalla natura della cosa e dall’attività di determinate persone, i quali vincoli manterranno in piedi un ordinamento altrettanto saldo, ma non cosí oppressivo come quello esistente nello Stato attuale, il quale semplicemente pone al posto dell’autorità riconosciuta (Autorität) l’autorità imposta dall’esterno (Obrigkeit) e, al posto del carisma, la violenza (Gewalt). Sicuramente, per coloro che non sentono l’autorità o il carisma del nuovo ordinamento di vita e di lavoro, la costrizione che scaturisce da esso avrà il significato di un’oppressione e, nel caso di trasgressione, si opporrà anche ad essi come violenza. Ma in questa occasione essi, tuttavia, non sono spinti a questa contrapposizione da rapporti che stanno al di fuori della loro volontà, come accade sempre oggi. Essi suscitano contro di sé la violenza, attraverso la loro stessa violenza, rivolta contro la solidarietà degli altri. Página 248 Ma, prescindendo completamente da ciò, si può dire che per i marxisti non è affatto paradossale e ancor meno è un miracolo il fatto che ‘lo Stato’, al culmine della potenza che l’‘apparato costrittivo’ raggiungerà e deve raggiungere nella società socialista, debba dissolversi ‘in modo misterioso’ nel nulla, come ritiene Kelsen, perché il culmine, cui si fa riferimento qui, non è affatto il culmine dello Stato odierno, che non esisterà piú, bensí un livello dell’organizzazione sociale, a partire dal quale quello dello Stato di classe non sarà piú visibile, sarà sparito nei bassopiani della storia, dai quali il cammino ha condotto in alto fino ad esso. A questo punto potremmo interromperci e porre fine al nostro tentativo di districare le argomentazioni critiche avversarie, che in ogni caso si è protratto abbastanza. Ma siamo stati spinti a fare ciò dalla necessità: infatti, è sempre sùbito pronto il fraintendimento grazie al quale acquista per se stesso e per altri il valore psicologico di verità. La sua risoluzione costa infinitamente piú fatica e richiede complicati accorgimenti, come abbiamo avuto modo di vedere. Ma, per quanto ciò sia stato già fatto, resta ancora un aspetto da trattare, che ha procurato alla confutazione kelsiana dell’ordinamento marxista dello Stato e della società una cosí forte risonanza: il fatto cioè che Kelsen si sia unito al rimprovero prediletto e consolidato circa il carattere assolutamente utopistico del socialismo e abbia collegato questo argomento trito e ritrito in un nesso molto stretto e che per questo motivo appare convalidato sul piano scientifico, con la sua interpretazione individualistica e anarchica della immagine marxista della società. A tale riguardo dobbiamo fare ancora, in conclusione, alcune considerazioni. Página 249 Capitolo diciottesimo L’utopismo in Marx ed Engels Utopismo! non poteva mancare, qui, questa, che è l’ultima parola della critica borghese alla teoria politica del marxismo. Comunque, per Kelsen, questo carattere utopistico del socialismo deriva in maniera del tutto ovvia dalla sua interpretazione anarchica del medesimo. Poiché con la soppressione dello Stato cessa ogni organizzazione costrittiva, la nuova società diverrà possibile solo se gli uomini cesseranno di essere violenti, cattivi, folli, ribelli, o anche soltanto pigri e trascurati, in breve, se la natura umana si trasformerà in modo fondamentale. «Ma, se una cosa può chiamarsi utopismo, è proprio la fede in un mutamento radicale della natura umana» (p. 56). Tuttavia sia Marx sia Engels basano le loro intuizioni riguardo alla società futura su un tale ottimismo sociale, che è sopito nel fondo della loro anima; in tal senso Marx parla di processi storici «che trasformeranno le circostanze e gli uomini completamente» (p. 56 [102]), e Engels spera in «una nuova generazione, cresciuta in condizioni sociali nuove, libere», che possa scrollarsi di dosso «tutto il vecchiume dello Stato» (p. 56 [102]). «Ed è comprensibile: perché, senza una tale ipotesi psicologica, la teoria dell’estinzione dello Stato rimane appesa per aria» (p. 57 [104]). Sicuramente questa ipotesi trova un sostegno nel fatto che il marxismo rende scarsamente conto della forma concreta che assumerà la società futura e, riguardo a essa, dice soltanto, in modo del tutto generico, che al suo interno non esisterà piú né sfruttamento né oppressione. Ma, ammesso che ciò sia giusto, viene con ciò detto che in tale ordinamento sociale niente potrà far ribellare gli uomini o spingerli a proteste e sollevazioni? «Lo sviluppo verso forme piú elevate e migliori di società in generale e di economia in particolare dovrebbe essere definitivamente precluso con il comunismo?». E perché questo sviluppo dovrebbe compiersi diversamente da come si è compiuto finora, cioè in forma di opposizione? «Veramente non c’è nessun’alPágina 250 tra opposizione contro un ordinamento sociale se non una opposizione di classe [...]?» (p. 80 [pp. 127-8]). In queste argomentazioni di Kelsen ritroviamo le due obiezioni contro il socialismo, che fanno parte delle battute che circolano nelle assemblee popolari contro i socialisti: 1) per realizzare il socialismo gli uomini dovrebbero prima diventare degli angeli; 2) il socialismo si ritiene il regno dei cieli, al di là del quale non v’è piú alcuna beatitudine. Da ciò scaturisce che, poiché nell’àmbito di questo discorso gli uomini non solo non vengono presentati come angeli, bensí come diavoli, e la terra come una valle di lacrime, che, per necessità naturale, in virtú di qualche esigenza metageologica non può non restare la stessa valle di lacrime, risulta chiaro che il socialismo è una rappresentazione buona per bambini grandi e piccoli, ovvero, volendo esprimerci in termini scientifici, è una dottrina chiliastica. Ma come stanno, in realtà, le cose col socialismo? Ciò che nel pensiero marxista costituisce propriamente il suo progresso, per cui esso si vede separato — in quanto socialismo scientifico — dal socialismo utopistico, è il fatto che esso considera il fine socialista non altrimenti che come un prodotto di uno sviluppo storico concreto, che quindi dev’essere raggiunto e configurato soltanto grazie agli uomini, quali sono ora. Ma naturalmente ciò non significa — come ritengono, con una conclusione insolitamente ingannevole, quasi tutti i critici di Marx — che gli uomini debbano per questo restare uguali. È significativo: nel medesimo istante in cui ci s’indigna o in cui ci si prende gioco del marxismo, perché esso giungerebbe all’assurdità di una condizione finale immutabile della società, gli si contrappone una ‘natura umana’ eterna, immutabile, per la cui mancata considerazione le sue speranze di sviluppo dovrebbero diventare miseramente motivo di scandalo. Ma se prescindiamo dapprima da qnesto elemento della famosissima immutabilità della natura umana, il senso specifico del socialismo marxista è esattamente questo, di mostrare come sia possibile, sulla base dello sviluppo economico, un ordinamento sociale per l’uomo in tutta la sua peccaminosità, il quale rende innocua questa ‘peccaminosità’, perché limita ad un minimo le necessità delle trasgressioni e le possibilità delle loro manifestazioni. Esso è qui del tutto d’accordo con Kant, il quale già si doveva lamentare del fatto che, di contro alla sua idea di una costituzione repubblicana degli Stati e alla lega dei popoli che ne scaturiva, «molti affermano che dovrebbe essere uno Stato di angeli: infatti gli uomini, con le loro tendenze egoistiche, non sarebbero capaci di una costituzione di forma cosí sublime». E a ciò Kant risponde: Página 251 Il problema della costituzione di uno Stato è risolvibile, per quanto l’espressione possa sembrare dura, anche da un popolo di diavoli, purché siano dotati d’intelligenza. Il problema si riduce a questo: come ordinare una moltitudine di esseri ragionevoli, che desiderano tutti assieme di sottoporsi per la loro conservazione a pubbliche leggi, alle quali ognuno nel segreto del suo animo tende a sottrarsi, e come dare a esseri di questa sorta una costituzione tale che, malgrado i contrasti derivanti dalle loro private intenzioni, queste si neutralizzino l’un l’altra, di maniera che essi, nella loro condotta pubblica, vengano a comportarsi come se non avessero affatto cattive intenzioni. [Nota 1] Per il socialismo d’impronta marxista il nuovo ordinamento sociale non è affatto, innanzi tutto, un problema morale, e del resto neanche per Kant questo problema significava «il miglioramento morale degli uomini», bensí un problema di organizzazione sociale, la questione fino a che punto possa venir utilizzato il meccanismo della natura nelle disposizioni degli uomini, quali sono ora, per realizzare un ordinamento sociale piú armonico. Sicuramente l’ordinamento socialista della società e, ancor prima, la propaganda e l’insegnamento socialisti ce la metteranno tutta per suscitare le forze morali dell’uomo, per rafforzarle e mobilitarle per le sue idee. Ma il socialismo non fonda la sicurezza interna del nuovo ordinamento sociale su una nobilitazione o su una moralizzazione, bensí sul fatto che esso limiterà gli impulsi verso azioni immorali e criminali in maniera essenziale rispetto all’ordinamento odierno. La società odierna rende difficile ai poveri — e piú del novanta per cento si trovano oggi in questa situazione — vivere in modo virtuoso, anche soltanto nel senso esteriore del termine, cioè in modo conforme ai comandamenti della morale e del diritto. La nuova forma della società vuole, al contrario, fare della costrizione sociale al comportamento illegale e immorale un’eccezione. Si rifletta solo un istante a quanti crimini e atti immorali, che oggi fanno apparire la ‘natura umana’ cosí ‘diabolica’, vanno imputati alle condizioni sociali, anzi addirittura alle leggi esistenti. Indigenza, corruzione, ignoranza, alcolismo, generano la quasi totalità dei delitti, di cui la società attuale soffre, e a questi si aggiungono ancora i ‘criminali’ come tali considerati per legge, per esempio coloro che si rendono colpevoli di procurato aborto, o di omosessualità, o di vilipendio della religione, o di vagabondaggio o di cose del genere [Nota 2]. Quanto poco si faccia affidamento, nell’idea marxista di una nuova società, sull’angelicità degli uomini, vorrei chiarirlo preferibilmente con una metafora. Che cosa si fa oggi in un Página 252 luogo nel quale circolano molti uomini, che hanno per lo piú l’amabile consuetudine di non chiudere la porta alle proprie spalle? Ci saranno quelli che diranno: si applichi una targhetta con la richiesta: “Per favore, chiudere la porta!”. Benissimo: ma questo significa voler migliorare gli uomini, cioè fare affidamento sulla loro gentilezza, sul loro riguardo, anzi anche sulla loro attenzione, in breve: fare affidamento sul fatto che essi sono ‘angeli’. E il risultato dimostra che ciò non giova a nulla. No, l’unico rimedio per tenere la porta chiusa è... installare un sistema di chiusura automatica e mettere una targhetta: “Non chiudere!”, e in tal modo non si dipenderà piú dalla buona volontà dei singoli né dalla loro malvagità o negligenza e la porta resterà ugualmente ogni volta chiusa. E questo è il senso in cui l’ordinamento socialista riflette sulla natura degli uomini: creare istituzioni le quali cessino, per quanto è possibile, di fare affidamento sulla buona o addirittura disinteressata volontà, ma, a questo fine, eliminino anche i motivi che possono provocare una contraddizione rispetto all’ordinamento sociale, ponendo in questo modo la società sulla base di un meccanismo economico capace di funzionare, per le sue necessità obbiettive, in modo formalmente automatico, anche se naturalmente mantenuto in azione sempre attraverso lo spirito e la volontà dei suoi membri. Solo che questo spirito e questa volontà non hanno nessun motivo per turbare il meccanismo economico, piuttosto sono interessati a promuoverlo, perché non ne sono le vittime, bensí i suoi beneficiari. Ovviamente anche nell’ordinamento comunista della società esisteranno motivi di turbamento che non si radicheranno nei rapporti di produzione e di distribuzione, ma si tratterà di turbamenti derivanti dalla sfera sessuale, o che risulteranno da moti dell’animo di ogni genere, come ira, gelosia, odio, o, infine, da predisposizioni patologiche. Ma già oggi i delitti che derivano esclusivamente da una siffatta situazione personale degli autori e non da quella sociale costituiscono una minoranza esigua all’interno della criminalità di un paese. Ed è evidente per chiunque sia in grado soltanto di trasferirsi — per cosí dire — dalle condizioni oggi dominanti nell’ambiente sociale, completamente diverso, del nuovo ordinamento, che, anche a prescindere del tutto dalla trasformazione che inevitabilmente dovrà prodursi nello spirito e nei sentimenti, tali turbamenti di natura puramente personale dell’ordinamento dovranno diventare, in misura maggiore rispetto a oggi, dei casi isolati e delle eccezioni. Si deve ancora prendere in considerazione l’influenza che sul piano educativo eserciterà il nuovo modo di vivere, la crescita del livello culturale generale, la trasformazione delle relazioni reciproche tra i sessi in direzione di una facolPágina 253 tà decisionale fattasi internamente piú libera e esteriormente piú facile, la formazione di nuovi costumi popolari, e in generale, l’assuefazione a una nuova ideologia sociale. La supposizione che la criminalità si ridurrà a tal punto da divenire un’eccezione, una sorta di patologia sociale, nell’àmbito di un ordinamento sociale radicalmente diverso, che avrà eliminato in primo luogo tutte le cause della criminalità che nascono dalla lotta per l’esistenza e derivano dalle forti differenze della situazione sociale: tale supposizione non è affatto un utopismo non scientifico e una forma di ingenuo millenarismo. Al contrario: in questa direzione si muove ogni lotta contro la criminalità che vada presa sul serio, la quale, a partire da Tommaso Moro — che, significativamente, è insieme il primo teorico del comunismo — prende le mosse dalla consapevolezza che il crimine può essere combattuto effettivamente solo eliminando le cause del medesimo. «Si stabiliscono», scrive Moro nel suo libro vecchio piú di quattrocento anni, ma tuttavia ancora cosí attuale, «infatti, per chi ruba, pene gravi, pene terribili, mentre meglio era provvedere a qualche mezzo di sussistenza, acciocché nessuno si trovasse nella spietata necessità, prima, di rubare, e poi di andare a morte» [Nota 3]. Il modo di pensare che spinge ad aspettarsi dalla società comunista una percentuale quasi evanescente di criminalità rispetto alla situazione attuale, non ha quindi niente a che vedere con la fede acritica in una trasformazione fantastica della natura umana, ma, al contrario, scaturisce dalla concezione molto empirica, convalidata sul piano statistico, secondo la quale l’uomo e, in particolare, la sua criminalità sono un prodotto delle circostanze in cui vive. Se già da un pezzo si è sperimentato che il furto si trova in una relazione determinata con il livello del prezzo del grano, è realmente cosí utopistico che, tranne singoli casi, il furto sarà eliminato non appena non esisterà piú un prezzo del grano? Proprio se, secondo l’opinione di Kelsen, si ritiene di fatto «piú prudente», «nell’àmbito della scienza sociale empirica — soprattutto se si tratta di una profezia — fondarsi non sulla speculazione della dialettica, ma sull’esperienza positiva» (p. 19 [49]), si dovrà considerare questa scomparsa della criminalità come fenomeno sociale di massa e la sua trasformazione in casi individuali eccezionali come un fenomeno probabile e da attendersi in base al determinismo sociale. E l’atteggiamento opposto porrebbe proprio la riflessione positiva direttamente di fronte a un enigma inesplicabile. Ma a ciò si aggiunge che questa «fede nel cambiamento della natura umana», considerata da Kelsen e non solo da lui — vi è qui uno dei cavalli di battaglia della critica professorale a Marx — Página 254 cosí ironicamente, possiede un contenuto reale, anzi esatto, che proprio sulla base empirica non va trascurato, che serve da ovvio presupposto di tutte le nostre misure di pedagogia sociale e di politica sociale. Se non ci fosse consentito ammettere che attraverso mutate condizioni di vita e influenze diverse anche delle nature completamente corrotte possono cambiare, a che scopo allora tutte le nostre case di correzione, gli istituti di rieducazione, quelli contro l’alcolismo, e tutte le istituzioni che mirano ad aprire nuove strade in vista di un lavoro socialmente utile a tutti coloro che sono sviati dal punto di vista morale e penale? Il modo di pensare derivante dalla concezione del materialismo delle scienze naturali è andato avanti, in questa ‘fede’, fino a una sorta di fanatismo, in cui non riconosceva piú alcuna funzione alla natura umana nella formazione del suo carattere — rimanendo fedele del resto alla sua negazione dell’anima in generale — ma la considerava completamente soltanto come un pezzo di cera, che assumeva, sotto le pressioni delle relazioni, qualsiasi forma. In modo particolarmente significativo ciò viene espresso da Robert Owen, che prende le mosse dal materialismo, allorché afferma: Contro il principio che il carattere dell’uomo sia il prodotto di influenze esterne si è sollevata la obbiezione che ogni uomo possiede una coscienza innata [...]. La verità è questa: la coscienza,viene fabbricata esattamente come un tessuto di cotone o una qualsiasi altra merce. Per un indú possiamo apprestare una coscienza da indú, per un cannibale una coscienza da cannibale ecc. [...] Mi si dia un bambino e mi si consenta di condurlo in un ambiente qualsiasi e gli fabbricherò, a seconda dei casi, una coscienza ebrea, una coscienza cristiana, una coscienza indú, una coscienza maomettana ecc. [Nota 4] Ora, proprio il marxismo è ben lungi da una fiducia cosí ingenua nella possibilità di plasmare in modo passivo la natura umana, come invece sembrava quasi ovvio al materialismo che nega l’anima e, con essa, ogni autonomia delle leggi psichiche. E, proprio riferendosi a Owen, Marx scrive, già nelle sue tesi su Feuerbach, il concetto fondamentale per la sua concezione materialistica della storia: La dottrina materialistica per cui gli uomini sono prodotti dell’ambiente e dell’educazione, e per cui, pertanto, uomini mutati sono prodotti di un altro ambiente e di una mutata educazione, dimentica che sono proprio gli uomini che modificano l’ambiente e che l’educatore stesso deve essere educato. Essa quindi finisce per necessità col separare la società in due parti, una delle quali è sollevata al di sopra della società. (Per es. in Robert Owen). La coincidenza del variare Página 255 delle circostanze dell’attività umana, può essere concepita o compresa razionalmente solo come prassi rivoluzionaria. [Nota 5] Per Marx, dunque, la trasformazione della natura umana non è un miracolo incomprensibile, ma un momento necessario di un processo sociale, nel quale questa trasformazione scaturisce dall’attività degli uomini, con la quale essi, per lo piú inconsapevolmente, trasformano il loro ambiente sociale e che, naturalmente, a sua volta, viene non solo limitata, ma anche suscitata dalla situazione sociale di volta in volta esistente. Concordando completamente con questa concezione, Marx, già nella Miseria della filosofia — di contro all’opinione che le idee e i principi fanno la storia e che ogni principio ha il suo secolo, in cui si manifesta — domanda perché un principio si è manifestato, per esempio, nell’Undicesimo o nel Diciottesimo secolo, e non in un’altra epoca, e risponde che, per comprendere questo, ci si trova costretti a esaminare minuziosamente quali fossero gli uomini dell’XI, quali quelli del XVIII, quali fossero le rispettive necessità, le loro forze produttive, il loro modo di produzione, e quali fossero i rapporti fra uomo e uomo, risultanti da queste condizioni di esistenza. Ora, approfondire tutte queste questioni, non significa [...] rappresentare questi uomini come gli autori e contemporaneamente gli attori del loro dramma? [Nota 6] E Kelsen cita anche il principio — dell’epoca matura della teoria marxista — che concorda con queste concezioni fondamentali, nel quale Marx dice che la classe operaia «dovrà passare per lunghe lotte, per una serie di processi storici che trasformeranno completamente le circostanze e gli uomini» [Nota 7]. A questo punto deve tanto piú apparire un’ispiegabile incomprensione della teoria marxista dello sviluppo sociale quando Kelsen, attraverso la sottolineatura dell’espressione «trasformeranno completamente», e tralasciando invece la sottolineatura della parola «circostanze», scorge un miracolo. Se qui c’è un mistero, esso è stato già risolto da Marx, ancora una volta, nelle penetranti tesi su Feuerbach, ove si legge: «La vita sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che sviano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nella prassi umana e nella comprensione di questa prassi» [Nota 8]. Una tale comprensione è assente ogni qual volta si ritiene che circostanze, istituzioni e funzioni completamente mutate non debbano aver mutato niente nell’habitus psichico degli uomini che vivono in esse, anzi da esse sono prodotti. Página 256 Del resto l’intera critica di Kelsen è, a questo punto, tanto piú incomprensibile, e spiegabile solo in base al bisogno polemico di ricorrere a un argomento cosí ingannevole e di sicuro successo com’è la presunta dimostrazione dell’utopismo e della fede acritica nei miracoli, in quanto alla fine leggiamo, nel nostro critico stesso, la seguente ammissione: Certo, un ordinamento costrittivo che garantisca la produzione comunista dopo molto tempo produrrà dei costumi di pensiero e di volontà comunisti allo stesso modo in cui lo Stato del capitalismo ha fatto penetrare nella carne e nel sangue il rispetto per la proprietà privata (p. 79 [127]). Se si pensa inoltre che non si tratta semplicemente di ‘abitudini’, ma di tutto un sistema dell’ideologia, che rielaborerà e rappresenterà necessariamente la nuova condizione di vita nelle forme delle idee della ragione, della morale, del diritto, dell’arte, della religione, si avranno allora appunto quegli uomini trasformati del Ventunesimo o del Ventiduesimo secolo, che, in maniera assolutamente certa, saranno uomini diversi, cosí come noi oggi siamo uomini diversi da quelli dell’Undicesimo secolo, e che tanto piú saranno diversi, in quanto il fondamento economico della loro vita — senza lotte di classe, senza preoccupazioni per l’esistenza individuale — è mutato come non si è mutato ancora da secoli [Nota 9]. Página 257 Kelsen si sarebbe sicuramente stupito di meno per il ‘miracolo’ della trasformazione degli uomini nel futuro, se non avesse interpretato la concezione materialistica della storia — che sta al fondamento, in questo punto, come in ogni punto, del pensiero marxista — in modo appunto cosí inguaribilmente ‘materialistico’, come per lo piú accade. Infatti egli non avrebbe avuto nessun motivo per individuare una contraddizione del marxismo nel fatto che la concezione ‘materialistica’ fondamentale della estinzione dello Stato diventa — a suo avviso — comprensibile solo attraverso una «ipotesi psicologica» (p. 57 [104]), e che il marPágina 258 xismo è costretto a introdurre, se vuole realizzare la sua concezione della società ‘senza Stato’, un «fattore psicologico», vale a dire, la «nuova generazione», l’«abitudine» alle nuove condizioni (p. 70 [119]). I brani di Marx, citati in precedenza, nei quali sono svolti contemporaneamente i concetti portanti della sua concezione materialistica della storia, dimostrano come anche per Marx il «fattore psicologico» sia un elemento integrante della sua concezione materialistica della storia. Questo punto l’ho esposto cosí spesso e dettagliatamente, anche in questo libro, che posso accontentarmi semplicemente di farvi riferimento [Nota 10]. Il cosiddetto fattore psicologico non compare nel marxismo soltanto nel futuro, per il quale — secondo l’opinione di Kelsen — vale chiaramente la frase: «non si sa nulla di certo», per trarre d’impaccio, in questo modo, come un deus ex machina, lo ‘Stato del futuro’ trovatosi in gravi difficoltà, ma per chiunque citi i passi di Marx non semplicemente usandoli singolarmente, bensí li comprenda sulla base dello spirito vivente della sua concezione complessiva, non si può intendere neanche una parola della critica economica del passato fatta valere da Marx, non è comprerigibile in generale neanche un concetto della sua concezione della storia, se non si pensa sempre insieme l’uomo, l’essenza attiva, nella cui testa il processo materiale dev’essere innanzi tutto trasferito, per diventare processo economico e storico. La ‘fede’ nel ‘fattore psicologico del futuro’ non è nient’altro che l’ammissione di quell’elemento necessario di una legalità sociale, la cui sottovalutazione nel passato e nel presente viene cosí spesso imputata alla concezione materialistica della storia come peccato mortale e gravissima ignoranza. Ma, ciò che per il passato e il presente è una virtú e una condizione di scientificità, può tuttavia essere un vizio e una fonte di non scientificità per il futuro? I nostri critici non potevano contraddirsi davvero in maniera piú madornale. Non occorre dunque che ci occupiamo piú diffusamente, in quanto può considerarsi liquidata, dell’obiezione — tanto non scientifica quanto acritica — secondo cui il marxismo potrebbe costruire come possibile il suo nuovo ordinamento sociale solo nella fede Página 259 ingenua in un’umanità rinnovata e nobile al di là di ogni esperienza. Resta dunque ancora l’altro rimprovero, relativo al fatto che, secondo il socialismo, nella nuova società dovranno sparire tutte le imperfezioni, e cesserà di fatto, dunque, ogni sviluppo. È interessante considerare un po’ piú da vicino, in questa occasione, il meccanismo della critica dotta che entra in campo contro il marxismo e constatare come anch’esso lavori in modo contraddittorio. Da un lato, ci viene rimproverato di non tener conto dell’immutabilità della natura umana, dall’altro, di supporre l’immutabilità del nuovo ordinamento. Se si tratta del fatto che diciamo che nuovi rapporti produrranno uomini nuovi, allora siamo degli incorreggibili fanatici dello sviluppo; se diciamo invece che, inoltre, i nuovi rapporti si trasformeranno senza lotta di classe, solo per mezzo dell’attività sociale consapevole, per cui raggiungeranno un livello elevato di stabilità solidale, allora neghiamo lo sviluppo. In realtà, al marxismo non è mai venuto in mente — com’è naturale — di affermare che con l’eliminazione dei conflitti di classe cesserà lo sviluppo e sarà raggiunta una condizione di armonia assoluta e di equilibrio statico. Solo la forma dello sviluppo sociale viene trasformata. Esso finora si è svolto come una lotta tra le classi, cioè è emerso dal contrasto di sfere di esistenza che non solo si combattevano reciprocamente, ma che anche si escludevano nella loro pretesa di dominio. La società umana è esistita ed esiste, finora, ancora non come una realtà solidale, bensí — e del resto questa è stata la sua configurazione storica — come una struttura scissa, fin dalle fondamenta, in interessi vitali opposti, in cui ogni interesse parziale ha potuto ottenere la sua partecipazione al godimento dei vantaggi sociali solo attraverso la lotta e la violenza esercitata contro gl’interessi di parte contrapposti. Ogni progresso nel senso di una maggiore socialità, di una piú vasta solidarietà, di una piú completa coincidenza fra il concetto d’ideale della società e la sua effettiva esistenza, in breve, ogni sviluppo sociale è stato, finora, per cosí dire, soltanto il risultato involontario della lotta di classe: in quanto ogni classe oppressa, con la sua vittoria, eliminava la sua oppressione, il torto che l’opprimeva, l’irrazionalità dei rapporti che l’opprimeva, contemporaneamente scompariva una parte di questa oppressione, di questo torto e di questa irrazionalità in generale dalla vita sociale. Poiché il modo di esistenza finora esistente della società non è stato e non è quello della solidarietà, bensí quello della lotta delle sue classi l’una contro l’altra, la forma, finora esistente, dello sviluppo sociale, è stata ed è anche quella della lotta di classe [Nota 11]. Página 260 Ma da ciò non deriva che con l’abolizione delle classi sparirà lo sviluppo, bensí soltanto la lotta di classe. Ovviamente non è affatto necessario chiedersi, come fa Kelsen, se nella società senza classi gli uomini non si agiteranno piú per niente e se non saranno spinti piú da niente alla ribellione. Avremmo, al contrario, sicuramente ancora a sufficienza cose del genere. Infatti, proprio quando saranno sparite le preoccupazioni, assolutamente comuni, per l’esistenza, quando l’interesse propriamente ancora animale — per il nutrimento, i vestiti, la casa, per la cura di allevare e tirare su i giovani — non assorbirà piú la fetta principale di ogni interesse, sentimento e lavoro degli uomini, allora avrà avuto inizio l’epoca in cui gli uomini saranno diventati per la prima volta maturi per una reale delicatezza di sentimenti, e forse allora diverranno insopportabili parecchie cose che oggi sembrano del tutto sopportabili persino a persone colte, come ad esempio l’indifferenza in questioni riguardanti le visioni del mondo. Anzi si può ipotizzare che Página 261 nelle questioni della metafisica, della religione, dell’arte, si svilupperanno dei contrasti della cui intensità, che coinvolgerà realmente gli uomini, non abbiamo oggi né l’esempio né il presentimento. Non è dunque neppure vero che lo sviluppo dovrà cessare di svolgersi in modo conflittuale, bensí soltanto che non si tratterà necessariamente di conflitti di classe. Ci saranno contrasti d’opinione che formeranno l’intera scala, dalle semplici partizioni all’interno delle diverse organizzazioni amministrative fino alle grandi prese di posizione in fondamentali questioni culturali (Kulturfragen), ma senza che tali conflitti si estendano fino alla minaccia o anche solo alla restrizione dell’esistenza personale che, attraverso la nuova struttura economica, è sin dall’inizio esclusa da questi conflitti, e la cui garanzia, ugualmente sufficiente per tutti, sarà quindi una cosa ovvia, un senso comune sociale (ein soziales Adiaphoron), tanto quanto lo è stato finora, anche nelle piú violente lotte di classe, la comunanza dell’aria da respirare (certo non nelle abitazioni, ma) nella libera natura. Senza dubbio, è in sé ipotizzabile che anche dei conflitti riguardanti visioni del mondo possano essere decisi col ferro e col fuoco; le guerre di religione lo dimostrano. Ma, in primo luogo, bisogna tener presente che non ci sono stati mai, in generale, nella storia, dei puri conflitti tra visioni del mondo, ma che, per esempio, proprio le guerre di religione erano le forme puramente ideologiche, in cui erano decisi poderosi conflitti economici e politici, cosí che dall’asprezza delle questioni di potere e di esistenza di coloro che lottavano derivava la furia e la crudeltà nel modo di condurre la guerra, che, in fondo, contrastava addirittura con lo spirito delle dottrine religiose, che dovevano fornire la copertura. Ma, in secondo luogo, già il fatto che ripugna alla nostra attuale coscienza giuridica e sociale — per quanto il fanatismo possa ancora vivere nella massa — il decidere con la violenza le diversità di confessione religiosa, di fede e di visione del mondo, mostra in quale direzione si muove lo sviluppo spirituale. E ci si può immaginare quale successo dovrà avere, se non sarà piú semplicemente una menzogna ufficiale, bensí un’inclinazione culturale pura, resa per la prima volta possibile grazie all’educazione, alla formazione del carattere, all’esempio dato con l’esercitarla pubblicamente e, innanzi tutto, grazie all’eliminazione del suo intreccio con aspirazioni di potere, di carattere economico e politico. Una tale trasformazione spirituale non solo sarà possibile, ma, fino a un certo livello, si realizza già all’interno del mondo capitalistico ed è ancora in grado di crescere in esso. Ma soltanto in un ordinamento socialista si realizzerà in modo completo. Applicare a una tale previsione il luogo comune già pronto dell’ottimismo e dell’utopismo non significa altro che dare un nome piú gradito al proprio tradizionalismo e, inoltre, chiudere gli occhi davanti a ciò che si sviPágina 262 luppa intorno a noi e in vista del quale lavorano i migliori del nostro tempo: l’elevamento, in verità lento, ma tuttavia non inutile, del livello culturale di ampie masse. Il rimprovero di utopismo, rivolto al marxismo di recente, assume volentieri una veste moderna, nella misura in cui si ammanta di una veste di psicologia della religione e cerca di ‘spiegare’ il marxismo come una forma di millenarismo religioso. Al riguardo è stato addirittura scritto un libro da Fritz Gerlich, intitolato Der Kommunismus als Lehre vom tausendjährigen Reich, che è una raccolta degli equivoci piú tendenziosi sul marxismo e sulla concezione materialistica della storia. Quanto l’autore sia profondo nella sua critica del marxismo, lo si può dedurre dal fatto che egli cita, come teste principale a favore della fede marxista nell’«opera di redenzione e nella capacità di riscatto del proletariato», il comunista Weitling, poiché questi nel 1842 annunciava un nuovo messia [Nota 12]. Qui non c’è lo spazio né la necessità di controbattere nel dettaglio la concezione di Gerlich. Soltanto perché presso la dotta critica a Marx è divenuta molto diffusa la caratterizzazione del marxismo come una sorta di millenarismo ci sia consentito fare ancora le seguenti osservazioni al riguardo. Se si definisce il marxismo e il socialismo in generale millenarismo, non vengono sufficientemente distinte l’una dall’altra due cose che devono essere tenute rigorosamente separate: il marxismo e il socialismo come movimento e il marxismo e il socialismo come teoria. Se si pensa che i seguaci del socialismo marxista vi aderiscono con una sorta di entusiasmo religioso e che essi sperano nel e aspirano al fine del socialismo — la società senza classi dell’umanità solidale — con lo stesso fervore con cui i primi cristiani speravano nel e aspiravano al regno millenario e tutti i bisognosi di riscatto aspirano all’epoca del messia, con ciò si esprime solo una verità che concerne il carattere psicologico di ogni grande rivoluzione. Ma questa psicologia, che vuol apparire cosí critica, viene meno proprio dove inizia ciò che di caratteristico vi è nel marxismo e ciò attraverso cui esso si distingue dai precedenti movimenti millenaristici: il fatto, cioè, che appartiene precisamente al suo habitus psicologico fondare le sue speranze non su una fede puramente fanatica, ma su un’indagine oggettiva sociologica e economico-politica. Il marxismo è ‘millenaristico’ solo in virtú della coincidenza delle sue fredde analisi teoriche e dell’interesse del proletariato per lo sviluppo, interesse che esso non ha creato, ma semplicemente indagato. Non è il marxismo in quanto tale ad essere un millenarismo, ma le sue teorie si sposano, in modo necessario, nel proletariato, il quale le ha comprese, col suo Página 263 originario millenarismo, allo stesso modo in cui, per esempio, altrettanto necessariamente, in un Fritz Gerlich, si congiungono col suo originario conservatorismo, che in ogni millenarismo teme immediatamente una «fonte di sovvertimento» [Nota 13]. Il socialismo, in quanto movimento, è una corrente di azione, di prese di posizione e di valutazioni attive. In esso l’idealismo può e addirittura deve avere un ruolo di guida. Tutto ciò, e persino la fede fanatica e la dedizione piena di convincimento ad una grande speranza, in quanto semplici forme necessarie in cui deve presentarsi da un punto di vista psicologico il movimento, non dimostrano affatto che esso è millenaristico anche oggettivamente, cioè che il suo fine è un semplice sogno. Il ritenere che, poiché il socialismo marxista, in quanto movimento di massa, mostra molti tratti che concordano psicologicamente con i movimenti millenaristici del passato, proprio per questo debba necessariamente essere esso stesso una forma di millenarismo, è una delle conclusioni piú superficialmente ingannevoli che si possano trarre. Al contrario, è proprio il marxismo come teoria a chiarire non solo i tratti millenaristici del marxismo come movimento, ma a darci anche la chiave esplicativa del motivo per cui questo movimento non è un puro millenarismo e per cui i primi movimenti millenaristici non potevano non restare un puro millenarismo. È proprio la concezione materialistica della storia a metterci in condizioni di comprendere i millenarismi di tutte le epoche storiche, nella loro realtà sociale, e di superare la interpretazione assolutamente improduttiva di questi movimenti come semplici moti di fanatismo e profezie infondate, delle quali il gusto sazio della concezione borghese non può soddisfarsi. In tal modo, il marxismo dev’essere definito addirittura come la teoria del millenarismo. E se il millenarismo si configura come sogno del regno millenario, il marxismo, in quanto teoria, porta a compimento, rispetto a esso, l’opera di interpretazione di sogni (Traumdeutung), attraverso la quale rende manifesto il nucleo reale di questo sogno e lo solleva alla coscienza degli strumenti e dei fini chiari, in base ai quali diviene, da sogno millenario, la realtà divenuta matura di un futuro vicino. Con la rappresentazione barocca, in base alla quale la dottrina marxista della soppressione dei conflitti di classe e del venir meno delle lotte di classe equivale alla fine dello sviluppo e del progresso sociali in generale, è connessa ancora un’altra opinione, tanto notevole quanto strana, che non si presenta, è vero, esplicitamente, in Kelsen, ma che è forse da lui condivisa. E poiché talvolta una tale opinione la s’incontra persino nello schieramento marxista, vorrei qui soffermarmi brevemente su di essa. Talvolta Página 264 si sente dire, cioè, che la concezione materialistica della storia è contraddittoria, in quanto fa dipendere lo sviluppo storico dai rapporti economici e, in particolare, dalla lotta di classe. Se, pertanto, venisse raggiunta una condizione sociale, in cui non vi fossero piú lotte di classe, la concezione materialistica della storia non avrebbe piú alcun valore. Questo modo di vedere identifica le lotte di classe con le condizioni economiche della vita sociale in generale, cioè, identifica una struttura storica della base economica della società con questa base stessa. Ma tuttavia è chiaro che anche in una società socialista saranno pur sempre i suoi rapporti economici a costituire, qui come dappertutto, il fondamento e l’elemento determinante in ultima istanza delle sue forme di vita e di cultura. Solo in tal senso è giusto dire che i rapporti economici nella società socialista non avranno piú quell’importanza che costituisce, per cosí dire, un fato, nel senso cioè che essi soggiacciono alla regolamentazione consapevole. Ma proprio per questo, anzi, essi rendono possibile e determinano il carattere completamente diverso di questo ordinamento sociale, la sua struttura intellettuale e morale completamente diversa, in breve: la sua mutata sovrastruttura ideologica. Se già oggi notiamo come la fantastica industrializzazione della nostra produzione, il dominio favoloso dello spazio e del tempo, ha completamente trasformato il ritmo di vita degli uomini della civiltà (Kulturmenschen) odierna, allora è chiaro che la poderosa trasformazione dell’uomo sociale di un ordinamento sociale razionale del futuro sarà la conseguenza non certo di una manna miracolosa che scende sulla terra dal paese di Utopia, bensí sarà la conseguenza dei mutati rapporti economici, in cui poi gli uomini vivranno. La concezione materialistica della storia, pertanto, ovviamente, vale anche nell’ordinamento socialista della società, perché essa è anzi una teoria sociologica e non una teoria di economia politica. I princípi teorici dell’economia politica, che si riferiscono ai fenomeni dell’economia privata, perdono la loro validità non appena non vi sia piú nessuna economia privata. I concetti dell’economia politica sono appunto — come Marx ha sempre messo in rilievo — categorie storiche, e l’economia politica, nonostante il suo metodo astratto, è la scienza di un oggetto storicamente dato e storicamente transeunte. La sociologia, invece, è la scienza della vita della società in generale, la quale vita, in quanto tale, in verità ha avuto inizio una volta e una volta finirà, con il che, però, non scomparirà semplicemente l’oggetto di una scienza, bensí ogni scienza in generale. In tal senso, i concetti sociologici non sono categorie storiche e le conoscenze che essi offrono non sono semplicemente delle verità storicamente delimitate, ma costituiscono i presupposti della conoscenza di tutte le configurazioni storiche della vita sociale in generale. E cosí anche la concezione materiaPágina 265 listica della storia — quale noi l’intendiamo e quale l’abbiamo di continuo esposta in questo libro — è una teoria sociologica, che comprende la vita sociale prima e dopo delle lotte di classe, e che anzi spiega non solo perché le lotte di classe sono dovute nascere, ma anche quando esse possono venir superate. E, pertanto, essa rimane, anche nella società senza classi, la teoria dello sviluppo sociale; il fatto che gli uomini piú fortunati di quel tardo futuro avvertiranno i loro rapporti economici meno di noi, il fatto che, presso di essi, la bella espressione di Theodor Vischer, secondo cui «l’elemento morale si comprende sempre da sé», varrà anche per l’elemento economico, non cambia la legge sociologica della concezione materialistica della storia, allo stesso modo che il dato di fatto, per cui noi normalmente non avvertiamo la pressione dell’aria, non elimina le leggi della pressione atmosferica. Página 266 Capitolo diciannovesimo Perché non veniamo compresi? Se ora, alla fine delle nostre ricerche, diamo uno sguardo complessivo al tentativo, operato da Kelsen, di fornire al marxismo una critica immanente della sua concezione dello Stato e della società, vediamo con chiarezza per quale motivo un’impresa del genere non poteva riuscirgli: egli ha criticato singole frasi di Marx e Engels, ma non è penetrato nell’intima sostanza di questa teoria, ne è rimasto letteralmente al di fuori e, di fatto, è rimato sempre all’interno del suo punto di vista. Egli sperimenta soltanto su se stesso ciò che per lui, e per molti dotti, è un vuoto e monotono slogan di partito della socialdemocrazia, il fatto cioè che esiste una distinzione tra scienza borghese e scienza proletaria, ed egli stesso ne è un esempio illuminante. Questa distinzione, che Marx e Engels hanno sottolineato sempre nel modo piú energico possibile, non ha niente a che vedere con la svalutazione della scienza a livello di lotte tra partiti, come una critica non immanente è sempre pronta ad affermare con grande enfasi e sdegno morale. Ma anch’essa è soltanto una differenziazione sociologica, assolutamente oggettiva, vale a dire, corrisponde alla constatazione dei limiti, che, anche per quanto riguarda la scienza apparentemente imparziale e apartitica, sono tracciati nella coscienza del pensatore, a seconda che egli si sia liberato o meno delle barriere della visione borghese del mondo. Chi pensa nelle categorie del mondo borghese, come se esse costituissero gli elementi effettuali (Seinselemente) della vita sociale in generale, deve costruire una ‘scienza’ dei fenomeni della vita sociale completamente diversa da quella di colui, nel cui modo di pensare la interpretazione di tutte le attuali forme sociali di vita, in quanto fenomeni puramente storici, è diventata un elemento imprenscindibile del suo pensare, anzi della sua esperienza vissuta. Questo è ciò cui pensano molti marxisti, allorché parlano del marxismo nei termini di una concezione del mondo (Weltauffassung). Nel senso stretto del termine, indubbiamente, esso non Página 267 è una concezione del mondo, perché, in generale, non è filosofia, ma teoria, sociologia. Esso non è neppure però — come lo considera Kelsen — una teoria singola, isolata nel pensiero dei suoi sostenitori, che possa essere compresa interamente strappando via singoli concetti o proposizioni. Cosí come le conoscenze della moderna scienza della natura si sono unificate nello spirito di colui che è cresciuto in esse fino a formare una immagine del mondo; cosí come esse costituiscono la nostra concezione della natura; allo stesso modo, i pensieri del marxismo compongono per il marxista la sua immagine sociale del mondo e gli consentono di esperire la storia e la società solo nel quadro di questa concezione globale. Cosí come è impossibile che un uomo dell’antichità, con la sua immagine del mondo cosmica, completamente diversa, possa rivolgere una critica immanente al concetto di natura quale è stato elaborato per la prima volta dalla moderna scienza della natura — egli dovrebbe infatti porsi al di fuori della sua costituzione spirituale antica e diventare un uomo moderno — allo stesso modo è impossibile, alla luce di una concezione globale essenzialmente borghese, criticare in modo immanente la concezione marxista. E non si dica — cosa che forse Kelsen obietterà — che una teoria deve essere nondimeno comprensibile a tutti e che con i princìpi della logica, i quali valgono allo stesso modo per tutti, può essere rivolta contro tutti una critica ugualmente valida. Certo, la logica del pensiero è uguale per tutti, ma non cosí la psicologia del pensiero. Se la logica fosse la produttrice della verità, allora Kelsen avrebbe ragione, ma essa è puramente uno strumento del processo produttivo della verità e, circa il modo in cui dev’essere applicato questo mezzo, decide la psicologia della ricerca. È questa a porre al singolo ricercatore i confini per l’uso della sua logica, i quali non devono affatto contemporaneamente i limiti della logica stessa. È la psicologia della ricerca, in ultima istanza, a tracciare non solo i limiti della logica personale del ricercatore, ma ad agire già prima nella scelta dei problemi da trattare. Che, ad esempio, un ricercatore come Kelsen ritenga già pienamente risolto il problema del diritto e dello Stato nell’indagine giuridico-formale su entrambi, il fatto che egli si accontenti di un’ontologia giuridica, la quale da ultimo sfocia in un positivismo giuridico, che trasforma addirittura in un imperativo di questa tendenza scientifica il caratterizzare tutte le questioni relative alla trasformazione dell’ordinamento giuridico concreto, come esterne alla scienza giuridica, come questioni metagiuridiche, tutto ciò è soltanto una riconferma molto significativa di un orientamento caratteristico, precedente a ogni ricerca, dal quale, sebbene naturalmente in modo inconsapevole, scaturisce appunto il pensiero borghese. Il marxismo chiama Página 268 scienza borghese un tipo di ricerca e proletaria l’altro tipo, non perché siano proletari e borghesi coloro che vengono presi in considerazione in quanto portatori della scienza. Questo, per lo piú, non si verifica affatto, almeno per quanto concerne i proletari, che non hanno avuto l’opportunità di studiare, e anche i dotti borghesi non sono sempre dei borghesi. Ancor meno questa distinzione si riferisce al fatto che la ricerca in un caso viene svolta consapevolmente nell’interesse borghese, nell’altro consapevolmente nell’interesse del proletariato. Ma questo termine non indica altro che la tendenza della costituzione spirituale dello scienziato, il fatto, cioè, se essa è tale da esser cresciuta formalmente insieme con l’ordinamento sociale esistente, per cui non è in grado di pensare nulla al di fuori delle categorie del medesimo e, giunto ai suoi limiti, il quieto pensiero logico viene subito staccato dalle manifestazioni d’affetto verso le serie di concetti che conducono al di là di esso, oppure il fatto se appartiene alla sua coscienza scientifica stessa questa capacità di pensare al di là della parzialità storica del presente e del passato. E soltanto perché il proletariato appare come portatore sociale di una condizione della vita sociale richiesta da questa capacità di pensare al di là (Hinausdenken), e soltanto perché questo proletariato, d’altra parte, è determinato nella direzione del pensare al di là dalla sua situazione sociale, solo a causa di questa coincidenza, sociologicamente data, del pensare al di là e dell’andare al di là della società presente, solo a causa di questa coincidenza nel proletariato Marx e Engels definivano questo modo di pensare come il modo di pensare proletario e la scienza da esso guidata scienza proletaria. Sarebbe stato meglio indicare quest’opposizione come un’opposizione fra scienza stazionaria e evolutiva. L’altra definizione, però, perlomeno ha il vantaggio di far emergere insieme anche la determinazione sociale di queste forme diverse della scienza e, quindi, di richiamare l’attenzione sul fatto che, in questo caso, non si tratta di una suddivisione logica delle scienze, bensí di una distinzione storica, di psicologia sociale, fra l’una e l’altra scienza [Nota 1]. Cosí, anche nelle controversie di questo libro, in fondo, erano i grandi contrasti esistenti tra la concezione sociale borghese e quella proletaria a guidare preliminarmente l’interesse teorico, anzi, a determinare addirittura i limiti della sua estensione. Ma, proprio ciò ha condotto il confronto con le acute opinioni critiche del nostro autore a un risultato che ha oltrepassato di gran lunga l’intenzione della sua critica. Poiché non solo ci ha convinto — conPágina 269 ducendoci necessariamente dalla frammentarietà di singoli problemi alla concezione complessiva del marxismo — della compattezza interna di questa teoria, ma ha reso chiaro, sulla base di un eccellente esempio, che si può bensí essere di un’opinione diversa da quella del marxismo, ma che però questo non basta ancora per confutarlo.