Parte prima La ragione

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FISCHER, J. L. I diritti naturali. In: FISCHER, J. L. La crisi della
democrazia, 2. ed. Torino: Giulio Einaudi, 1977. p. 19 - 26.
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Parte prima La ragione
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Capitolo primo
I diritti naturali
i. L’ordine del mondo medievale, come abbiamo già notato, conosceva
e motivava un intero sistema di ineguaglianze e stabilite da dio, che
nella loro proiezione sociale dovevano manifestarsi come ineguaglianze
corporative. Per il fatto di essere sanzionate, e sanzionate da dio,
dovevano prendere il carattere di ineguaglianze legali. L’intera gerarchia
sociale non aveva nei confronti di dio nessun diritto: tutto ciò che essa
era ai singoli livelli, lo era per grazia divina. Il rapporto dell’uomo con
dio era dunque un rapporto del tutto personale, non però del tutto
diretto, bensí mediato secondo i gradi nei quali si distribuiva la grazia
divina.
Il rapporto con dio era il piú diretto presso i santi. Il governo vero e
proprio risiedeva in dio, esso era però affidato da dio al potere spirituale
e al potere laico; anche qui però non in parti uguali, bensí di nuovo
secondo un ordine gerarchico: diretto rappresentante di dio nelle cose
spirituali sulla terra diventa il papa come capo della chiesa visibile;
diretto rappresentante nelle cose laiche diventa il capo di tutto il mondo
cristiano, l’imperatore cristiano romano. Come ogni creatura era
obbligata a servire il proprio creatore, ugualmente servile doveva essere
anche il rapporto dei sottomessi rispetto alle autorità stabilite da dio.
Questo rapporto lo chiamiamo rapporto di sudditanza, se guardiamo dal
basso della gerarchia sociale verso l’alto, e rapporto di fidecommissione,
se guardiamo dall’alto in basso; l’ordine sociale che realizzava questi
rapporti lo chiamiamo ordine corporativo feudale.
Non è necessario spiegare ampiamente né che queste motivazioni
ideologiche
in
molti
aspetti
sanzionavano
semplicemente
la
stratificazione di potere medievale, né che la prassi
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sociale del tempo non corrispondeva allo schema ideale qui disegnato.
Dovremmo piuttosto dedicare attenzione ai destini delle istituzioni
laiche. In uno schema semplificato, l’uno accanto all’altro
(eventualmente l’uno contro l’altro) stanno il potere del re, i ceti dei
signori, dei prelati e dei cittadini, l’ultimo dei quali - sorgendo più tardi costruiva la propria posizione politica in lotta con le potenze precedenti
(nella realtà naturalmente i rapporti tra questi ceti ammettono i più vari
raggruppamenti difensivi e offensivi). Ma in ogni caso l´ordine
gerarchico dei ceti si conservava, e con esso l’ineguaglianza dei politici,
che culminava con l’assoluta mancanza di diritto del ceto piú numeroso,
cioè di quello contadino.
Le basi stesse del cristianesimo, sulle quali era costruita l’ideologia
medievale, contenevano però momenti assai efficaci che dovevano
minacciare la gerarchia feudale delle disuguaglianze: davanti a dio non
vi era differenza tra il ricco e il povero, tra il potente e il debole, qui
valeva soltanto il loro valore personale, misurato sulla devozione e sul
timore di dio. Ma non solo questo: uguale era anche la dignità umana
degli uomini. E se lo era davanti a dio, allora anche devante agli uomini.
Perché si giungesse a questa conclusione politica di un postulato in
sostanza religioso, dovevano naturalmente essere soddisfatte diverse
condizioni, ma esso poi avrà una sanzione ugualmente efficace - intendi
religiosa - come il postulato religioso, finora consacrato, delle
ineguaglianze sociali.
Molto prima però sorge un altro postulato al quale era destinato un
ruolo significativo nell’ulteriore sviluppo del pensiero democratico; il
postulato della sovranità della società. Lo incontriamo - dopo precedenti
sporadici casi - nel xvi secolo nella riforma, non nel senso democratico
bensí in quello corporativo. Questo postulato è diretto dunque contro
l’assolutismo di governo non in nome di una desiderabile organizzazione
sociale democratica, bensí nel nome di un’organizzazione corporativa
che con la propria autonomia freni la crescita del potere del re o
Signore. La sovranità cosí intesa conteneva dal punto di vista ideologico
una serie di elementi che sono sintomatici per la nascita del pensiero
democratico. Il più significativo di essi è la finzione del conPágina 21
tratto sociale, con la quale doveva essere motivata l’esigenza della
sovranità sociale. Le radici di questa finzione sono con tutta probabilità
bibliche e rimandano agli accordi che il signore concludeva con il proprio
popolo. Religiosa è anche la forma primaria di questa finzione e religiosi
sono finalmente anche i motivi della sua nascita. Il popolo - veniamo a
sapere - dapprima concluse un contratto con dio, con il quale
prometteva obbedienza a lui e ala legge divina; un secondo contratto
concluse poi con il re o signore, trasportando su di lui la sovranità del
governo delle cose laiche. Gli impegni che derivavano da questo secondo
contratto non possono naturalmente annullare gli impegni che
derivavano dal primo, e il signore che avesse sorpassato i limiti della
competenza a lui riconosciuta toglieva con ciò stesso ai suoi sudditi
l’obbligo di obbedienza. La società non ha soltanto il diritto di rivoltarsi
contro di lui bensí - secondo l’insegnamento dei piú radicali
«monarcomachi» - anche il diritto di assassinarlo.
Il condizionamento sociale di questa ideologia è evidente: si trattava di
motivare e giustificare le ribellioni e le resistenze che si avenano durante
la riforma. Questa ideologia in ultima analisi infrange il pensiero
gerarchico medievale nel senso che i ceti bassi istituiscono il piú alto
governo sociale. Il modo in cui questo procedimento viene motivato e le
sanzione sono per ora ancora di natura religiosa.
2. Nella forma nella quale abbiamo preso conoscenza con la teoria del
contratto sociale finora, il diritto divino (ius divinum) precedeva il diritto
naturale (ius naturale). Era possibile spiegare el governo come diretta
conseguenza del contratto tra suddito e signore senza che per questo la
sovranità sociale cosí postulata perdesse la sanzione religiosa. Ancora
un passo e il diritto naturale sarà privato del suo fondamento ideologico,
e avrà la base della sola sanzione della regione.
Perché si giungesse a questo decisivo rivolgimento, la ragione doveva
essere «lillerata» dalle catene dogmatiche che fino ad allora la
incatenavano. Questa liberazione significò per molto tempo soltanto che
la sanzione religiosa era una sanzione sufficiente soltanto quando essa
otteneva anche il consenso della ragione individuale. Questa ragione poi
non
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doveva essere una ragione direttamente individuale, bensí una ragione
«naturale». Se volessimo usare una terminologia filosofica piú precisa
troveremmo che la sua presupposta naturalità doveva essere soltanto
una trascrizione dell´evidenza razionale, nella quale il razionaIimo
moderno scorge il fondamentale criterio della verità. Poiché poi il regno
di questa evidenza è - accanto alla sfera puramente logica - la sfera
matematica, la ragione «naturale», che si indirizza alla realtà senza
differenza, si sforzerà di esprimerla in modo matematico, e a questo suo
sforzo non sfuggirà neanche la realtà sociale. L’«unità» fondamentale
diventerà l´individuo, che crea il «tutto» della società ad immagine della
sua stessa essenza. Alla ragione «misurante» questa essenza deve
apparire come l’essenza di tutte le unità reali misurabili: sotto l’angolo
visivo della «inerzia» che - in proiezione psicologica - diventa
«autoconsirvazione». Poiché si tratta di un’essenza «naturale», poiché è
conseguenza della «legge naturale», essa è rispetto all’individuo anche il
suo «diritto naturale». Rispetto alla società, di qui deriva il compito di
assicurare tutto ciò che l’inclividuo può considerare un suo diritto
naturale. Ma poi la società stessa cessa di essere qualcosa di naturale, è
un fatto di accordo e contratto, il risultato del contratto sociale che gli
individui concludono a difesa e assicurazione dei propri diritti «naturali».
Alla ragione «misurante» la realtà si rompe in unità misurabili, che
diventano tali soltanto se sono omogenee. Perché La società soddisfi
questa esigenza, i singoli individui devono prima diventare rispetto a
essa omogenei, il che significa «uguali». Se capovolgiamo ora questa
deduzione partendo dall’individuo, l’eguaglianza sociale appare come un
diritto fondamentale individuale naturale, al quale deve essere
assimilata e adattata tutta la società. La motivazione ««razionale» di
questa uguaglianza ne fa infatti una necessità tanto esistenziale come
morale; l’obbligatorietà dell´evidenza apparentemente logica resta
imperativa, cosicché ciò che abbiamo scoperto essere l’espressione
(apparentemente)
oggettiva
dell’ordine
della
realtà
è
contemporaneamente un diritto morale ugualmente obbligante; la
«legge naturale» è anche il «diritto naturale».
L’uguaglianza degli uomini davanti a dio e davanti alla legge di dio
annunciata dalla scrittura doveva condurre con
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severa logica all’uguaglianza dell’uomo rispetto all’uomo e alla sua
uguaglianza davanti alla legge e ancor piú davanti alla legge «naturale».
Creatore di questa uguaglianza era dio, egli dunque aveva dotato l’uomo
di quegli uguali diritti la cui naturalità era confermata – nella coscienza
individuale – da una evidenza in ugual misura logica e morale.
In nessun luogo si può seguire con più chiarezza la conseguenza,
dipendenza e vicendevole influenza delle due sfere ideologiche di cui
abbiamo trattato come nelle classiche parole della «Dichiarazione di
indipendenza» delle colonie nordamericane (1776): «We hold these
truths to be self-evident, that all men are created equal; that they are
endowed by their Creator with certain unalienable rights; that among
these are life, liberty, and the pursuit of happiness. That, to secure
these rights, governments are instituted among men, deriving their just
powers from the consent of the gover ned; that whenever any form of
government becomes destructive of these ends, it is the right of the
people to alter or to abolish it, and to institute a new government,
laying its foundation on such principles, and organizing its powers in
such form, as to them shall seem most likely to their safety and
happiness » [Nota 1].
Da questa prospettiva potremo anche apprezzare l’influenza della
riforma religiosa sulla « riforma» politica. Agli inizi, come mostrava il
caso dei monarcomachi, l’esigenza della sovranità sociale si muove su
binari corporativi piuttosto che democratici. Né si possono designare
come democratiche le opinioni del calvinismo nella loro forma originaria,
in quanto anche qui in realtà al posto della democrazia si fa valere la
ierocrazia (governo dei religiosi). Furono molto piú le sette protestanti
che – difendendosi sia dai cattolici
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sia dalle chiese protestanti ufficiali - diventarono portavoce della
tolleranza religiosa e della libertà, portando queste esigenze anche nella
prassi politica. Qui si manifesta nel modo piú forte la forza motrice vera
e propria di tutto questo periodo, l´individualismo, sia pure di nuovo nel
fondamentale mascheramento dell´individualismo radicale religioso.
La nuova intensità della fede religiosa i sforza di avvicinare la vita della
comunità religiosa ai modelli forniti dalla prassi cristiana primaria; ma
ugualmente essa, può condurre alla coscienza della autonomia politica,
come è testimoniato dal caso dei levellers. La circostanza che simili casi
sono limitati a un circuito sociale relativamente ristretto ci invita alla
prudenza, per non sopravvalutare l’influenza politica diretta della
riforma. Dobbiamo tener sempre presente che si tratta qui di una
corrente larga, con molte ramificazioni e intersecazioni, che può essere
caratterizzata generalmente come reazione contrastante al precedente
ordine culturale e sociale. Poiché poi in questo ordine il momento
religioso aveva un netto sopravvento sugli altri, è soltanto naturale che
le prime forme della reazione contro di esso avranno di nuovo carattere
religioso. Accanto a ciò però, e spesso da questa base religiosa,
cominceranno ad emergere timidi tentativi di esprimere e motivare
ideologicamente il senso del mutamento, tentativi che gradualmente si
allontaneranno sempre piú dalla base religiosa per assumere forme
sempre piú autonome.
Nella conclusione di questo capitolo tentiamo di individuare il rapporto
che corre tra i postulati fondamentali dai quali nasce la nuova ideologia
democratica.
In primo piano c´èl`individuo, al quale devono essere motivati e
assicurati i diritti naturali. Se formuliamo l’esigenza dei diritti individuali,
il senso di questa richiesta può essere solo questo, che proclamiamo
diverse libertà individuali che la società è tenuta a rispettare. Dove
prima l’individuo si perdeva nel ceto e di qui in una serie di ulteriori
legami gerarchicamente graduati, soggiacendo ad essi dall’alto verso il
basso, ora la direzione deve essere completamente capovolta (e dunque
dapprima sovvertita): la base è la libertà individuale, di cui l’individuo
stesso può liberarsi soltanto per il fatto di sottometersi volontariamente
a vari legami, sociali o altri. Presupposto di questa libertà è però che
essa vale in misura
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uguale per tutti gli individui. Senza uguaglianza sociale non c´è libertà
individuale.
La prima conseguenza di questo fatto è il fenomeno apparentemente
paradossale che incontriamo nelle società moderne continuamente:
nonostante la loro base sia individualistica, addirittura atomizata, i
rapporti normativizzati tra i «liberi» individui mirano ad una generalità
quanto maggiori possibile. Mentre l’ordine legale della società medievale
era complicato fino all’inverosimile, non unitario e non omogeneo,
l’ordine legale moderno si caratterizza per la sua unitarietà, che
abbraccia in misura uguale tutta la sfera sociale. Mentre prima, in
accordo con ciò, la società era territorialmente frazionata, un vivace
miscuglio di unità amministrative e territoriali per lo più eterogenee, la
società moderna mira - attraverso il periodo transitorio dello stato
assolutistico centralizzante - alla creazione di stati grandi, relativamente
omogenei, che cristallizzano nella formazione della «nation politique».
(Che sorte abbia in questo processo il nuovo sistema economico
vedremo più tardi).
La seconda conseguenza è che la libertà potrà essere realizzata e
mantenuta soltanto quando sarà libertà nell’uguaglianza, cioé quando gli
individui liberi useranno la propria libertà in parte uguale in modo che
uno di essi non costringa l’altro o gli altri alla illibertà. Il «diritto» alla
libertà è necessariamente dovere rispetto alla libertà degli altri, e
siccome poi è un diritto «naturale» contiene anche un-obbligole
ugualmente «naturale» e quindi - come abbiamo detto - ugualmente
imperativo, il quale nella nota triade di slogans rivoluzionari è dato
dall’imperativo della «fraternità». Solo se si terrà conto di questo
obbligo morale l´uguaglianza resterà conciliabile con la libertà;
altrimenti essa sfocerà necessariamente in una serie di ineguaglianze. In
questo momento, essa ha forse perduto la propria giustificazione?
Vedremo che la democrazia del XIX secolo ha deciso altrimenti.
Quale sarebbe il senso positivo della libertà cosí annunciata, questo per
ora non lo sappiamo: esso sarà dato soltanto quando saranno delimitate
le sfere della competenza individuale e sociale. Tanto piú univoco è però
già ora il senso duale e sociale. Tanto più univoco è però già ora il senso
dell´uguaglianza: con essa si dice che non vi debbono essere
disuguaglianze sociali e quindi nemmeno legali, concretamente che non
ci devono essere disuguaglianze tra i ceti. Ma
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si dice anche che di tutte le cose che concernono i diritti dell´índividuo e
i diritti della società deve decidere ogni individuo in parte uguale: ciò
significa che portatore della sovranità nella società è il cittadino con
diritti uguali agli altri cittadini, dove la società appare come l´insieme di
tali cittadini uguali. Di fronte al precedente ordine sociale abbiamo, in
luogo della base corporativa, l´avvento di una base civile come la
caratteristica piú significativa della società democratica.
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