Dialettica aperta o negazione determinata? La discussione sulla dialettica nei “Seminari della Scuola di Francoforte” 1. Senso delle discussioni del 1939 su scienza e dialettica: il concetto di “teoria critica” Negli anni Trenta, prima dell’esilio americano, Adorno lavora alla Metacritica della gnoseologia, mentre Horkheimer pubblica una serie di saggi sulla “Zeitschrift für Sozialforschung” che verranno poi raccolti alla fine degli anni Sessanta da Alfred Schmidt sotto il titolo comune di Teoria critica. I Seminari della Scuola di Francoforte. Protocolli di discussione1 rappresentano una documentazione fondamentale dell’itinerario che porta dai primi scritti di Horkheimer sulla genesi della filosofia borghese della storia alla Dialettica dell’illuminismo, nel contesto di maturazione di un concetto post-metafisico di dialettica. I protocolli si riferiscono a discussioni avvenute in un periodo fra il 1931 e il 1946 e vanno dai primi seminari su “scienza e crisi” relativi a corsi universitari tenuti da Horkheimer nel semestre ‘31-’32 fino alle Diskussionen über eine geplante Schrift zur Dialektik (tradotto qui come “Salvezza dell’illuminismo”, pp. 174-183) dell’ottobre 1946. Questo scritto doveva costituire la seconda parte della Dialektik der Aufklärung, ma non venne portato a termine per il mancato accordo, evidente nel testo qui proposto, sulla funzione da assegnare alla dialettica. I protocolli sono per lo più testi dattiloscritti dalla moglie (e segretaria) di Adorno, Gretel. Non è perciò escluso che Adorno abbia avuto la possibilità di rimetterci mano. I protocolli del ’39 dei Seminari si possono dividere in due gruppi: - gruppo A, §§ 1-7 (gennaio 1939): discussioni sul concetto di individuo e sulla “preistoria della soggettività”, sulla critica del positivismo e sul concetto di mito, ovvero i grandi temi della Dialettica dell’illuminismo; - gruppo B, §§ 8-10 (febbraio-aprile e autunno 1939): discussioni su dialettica materialistica e logica dialettica, linguaggio e conoscenza, dominio della natura, marxismo. Doveva costituire la seconda parte o la prosecuzione della Dialektik der Aufklärung. Alcuni snodi di queste discussioni vengono in parte ripresi da Adorno nei corsi del ’51 (ora disponibili in ed. italiana con il titolo Il concetto di filosofia) e nella Metacritica della gnoseologia (pubblicata nel 1956). In questa sede ci occuperemo di quei protocolli di discussione nei quali la questione di fondo risulta essere la necessità di istituire la dialettica (in senso materialistico, concreto) a fondamento di una teoria critica capace di mantenere il rapporto con la fatticità. Significativo, e sotto certi aspetti sorprendente, il nesso che viene qui istituito tra fatticità e non identità (nel protocollo del 3 febbraio 1939 si legge che “gli interlocutori [scil.: Horkheimer e Adorno] riconoscono il concetto di fatto (come il “non identico””: p. 106). Le domande teoriche che sorgono da questo progetto e alle quali Horkheimer e Adorno cercano di dare una risposta convincente sono: 1 TH. W. ADORNO – M. HORKHEIMER, I Seminari della Scuola di Francoforte. Protocolli di discussione. A cura di F. Riccio. Milano: F. Angeli 1999 (traduzione parziale del vol. XII delle Gesammelte Schriften di Horkheimer [Nachgelassene Schriften 1931-1949. Frankfurt/M: Fischer 1985), relativo al lascito ritrovato nello Horkheimer-Archiv di Francoforte. 2 I. II. III. è ancora possibile un concetto rigoroso di verità dopo che la tesi idealistica dell’identità di soggetto e oggetto è stata messa fuori gioco? Ovvero: è possibile una dialettica critica senza metafisica idealistica? che cosa accade alla dialettica quando vengono aboliti i concetti soggettivistici di identità e totalità? ancora: che cosa accade alla dialettica quando abbraccia in maniera programmatica il materialismo gnoseologico ovvero l’idea che ogni concetto teorico è permeato di lavoro sociale? Excursus su teoria tradizionale e teoria critica Per comprendere il background teorico di queste discussioni bisogna richiamare brevemente almeno il noto saggio di Horkheimer del ’37 “Teoria tradizionale e teoria critica”, vero “antecedente” di questa discussione. Dialettica “materialistica” – termine che torna costantemente nelle conversazioni fra Adorno e Horkheimer del ’39 – non significa semplicemente marxismo, come si potrebbe forse sospettare, ma confronto della teoria con i molteplici aspetti dell’esperienza concreta: il richiamo al materialismo gnoseologico significa qui aderenza al materiale concreto, superando però lo specialismo scientifico classificatorio attraverso il ricorso a tutti gli ambiti di indagine unitariamente orientati. Si tratta cioè di quell’aderenza non-empiristica alla ricerca empirica che Adorno, richiamandosi a Benjamin, definirà micrologia. In Horkheimer vi è un forte impulso alla dialettica come capacità di intenzionare la totalità e quindi al sapere scientifico come interdisciplinarietà: dialettica significa quindi, concretamente, superamento delle unilateralità che caratterizzano il metodo scientifico dominante (positivistico e pragmatistico) tramite visione delle relazioni nel loro complesso. Vi è cioè un costante richiamo alla categoria di totalità di contro all’isolamento positivistico. In questo la teoria critica è erede legittima dell’idealismo. La dialettica è dunque il metodo che garantisce la concreta connessione tra i “singoli ambiti culturali” e “la loro reciproca dipendenza”2. Essa è animata da un impulso etico e da un costante richiamo all’impegno pratico “affinché i concetti riescano a interpretare le tensioni, i desideri e le aspettative dell’uomo” 3 . Ma proprio questo è ciò che lo scienziato “specializzato”, il tecnico, non fa: positivismo e pragmatismo sono al servizio della spiegazione chiara dei fatti al fine di consentire agli individui di manipolarli a seconda degli scopi che ciascuno, privatamente, si prefigge; entrambi poi credono che gli interessi particolari possano comporsi in un tutto unitario per realizzare l’interesse generale. Per questo è necessaria la dialettica. Essa spezza la presunzione ideologica della coscienza borghese, consistente nella riduzione della verità a ciò che socialmente funziona. Nella comprensione dialettica l’adesione al materiale, alla fatticità, fa sì che un determinato processo storico-sociale non possa mai venir inteso “come effetto”, scrive Horkheimer, “di singoli fatti immutabili; i suoi momenti si modificano piuttosto reciprocamente di continuo al suo interno, sicché non è neppure possibile distinguerli radicalmente l’uno dall’altro”4. In sostanza: Introduzione di M. Horkheimer a “Zeitschrift für Sozialforschung”, I (1932), pp. I-II. A. PONSETTO, Max Horkheimer: dalla distruzione del mito al mito della distruzione. Bologna: Il Mulino 1981, p. 152. 4 M. HORKHEIMER, Materialismus und Metaphysik (1933), in Kritische Theorie, cit., Bd. I; trad. it. Materialismo e metafisica, in Teoria critica, cit., vol. 1, p. 48. 2 3 3 mentre il richiamo ai “fatti” e a ciò che accade da parte di positivismo, pragmatismo ed empirismo è simmetrico e consustanziale al richiamo alle essenze immutabili della metafisica, la teoria critica non perde di vista il processo storico-sociale in cui viene costituendosi l’oggettività del dato. La teoria tradizionale presuntamente pura e incontaminata fissa rigidamente il “dato”, astraendolo dalla “genesi sociale dei problemi”, dalla “situazione reale in cui viene usata la scienza”, dai “fini per i quali viene impiegata” 5 . In questo modo lo sguardo critico, unendo marxianamente esposizione e critica, rivela l’astrattezza e l’estraniazione della teoria tradizionale dal contesto pratico di costituzione e, allo stesso tempo, la necessità di un mutamento di direzione nel lavoro di ricerca teorica; la teoria critica si propone quindi come l’inveramento dei momenti di criticità insiti nella teoria tradizionale e non come la sua confutazione. Il concetto stesso di teoria critica sorge pertanto in un contesto dialettico nel senso ampio del termine. Descrivendo lo stato di cose la teoria critica può finalmente giungere a manifestare la loro intrinseca inadeguatezza. Solo una teoria critica dialettica riesce pertanto a garantire quell’unità concreta di teoria e prassi vanamente perseguita dal positivismo e dal materialismo dogmatico, proprio perché essa non perde mai di vista la mediazione di lavoro sociale contenuta nell’oggetto. 2. La dialettica La dialettica in un senso più ampio è precisamente l’oggetto del contendere nelle discussioni del ’39 fra un Adorno, sostenitore di una dialettica già allora “negativa”, basata sulla negazione determinata e sulla necessità della critica immanente, e un Horkheimer, più propenso per una dialettica “aperta”, antiidealistica e materialistica, non necessariamente legata al primato della negazione determinata e che anzi accusa a un certo punto l’amico di rinviare sempre “alla X che chiama dialettica, mentre io mi riferisco allo sviluppo della ricerca scientifica, che almeno non è così indeterminata” (protocollo del 1939, qui p. 140). Si potrebbe forse leggere la Dialettica dell’illuminismo come il raggiungimento di un punto di equilibrio fra le due posizioni. Costanti del pensiero di Horkheimer sono dunque: - la difesa di un concetto “aperto” di dialettica; - la difesa del concetto di totalità in polemica con il positivismo; - l’assunzione metodologica del materialismo gnoseologico e dello storicismo antimetafisico. La dialettica di Hegel viene interpretata da Horkheimer come una dialettica conclusiva (abgeschlossene), alla quale egli contrappone la dialettica aperta o non conclusiva, probabilmente di ispirazione neokantiana (Tillich, Griesbach, Rickert6). Nell’interpretazione horkheimeriana la dialettica è filosofia concreta, in quanto fluidifica i concetti, li mostra nella loro interdipendenza e nella loro derivazione da rapporti sociali fattuali: “Il momento del fatto deve rientrare anche nella dialettica” (protocollo del 3 febbraio 1939, qui p. 109). Ivi, p. 187. Cfr. H. RICKERT, Grundprobleme der Philosophie. Methodologie, Ontologie, Anthropologie. Tübingen: Mohr 1934. 5 6 4 Per contro Adorno manifesta le sue perplessità sul concetto di “dialettica aperta” (protocollo del 5 aprile 1939, qui a p. 123-24), sul concetto di totalità (ivi, 126)7 (vero leit-motiv del pensiero dialettico adorniano: si pensi alla Logik des Zerfalls di Negative Dialektik, nella quale vi è un qualcosa di decostruttivo ante-litteram8) e sembra invece favorevole a recuperare dalla “teologia negativa” (ivi, 127) 9 un concetto di verità come “essenza della negazione” (ivi, 125). Va notata l’estrema prossimità di questo punto con l’ultima parte di Negative Dialektik, le Meditazioni sulla metafisica che, infatti, risalgono proprio a questi anni. Adorno concede a Horkheimer che la verità non consiste in nient’altro che “nel reciproco prodursi e riprodursi di fatto e costituzione. Non c’è un primo… La teoria critica non deve affatto porre la domanda sul primo. Appena ci si pone in questa prospettiva, si è già caduti nel feticismo del concetto” (ivi, 121)10. Dialettica sembra qui significare qualcosa come una storicità radicale (viene in mente l’inquietudine del finito nell’interpretazione marcusiana di Hegel11), una processualità che non si risolve in uno dei due poli in tensione (il fattuale e il concettuale) e che non è in alcun modo riducibile al movimento del concetto stesso. Con ciò Adorno non intende abbracciare qualcosa come la dialettica “aperta” di matrice neokantiana. La distanza da Hegel va, infatti, ben oltre l’alternativa secca tra conclusività sistematica (punto di vista della totalità e dell’identità) e apertura non conclusiva. Si tratta invece di chiarire se tutto in definitiva vada ricondotto all’ambito del pensiero: all’ontologia forte di Hegel, per cui l’in sé deve essere ricondotto in ultima istanza al per sé del pensiero, è necessario opporre non già un’altra ontologia, ma solo l’ontologia ironica “secondo cui non vi è più alcuna ontologia, per cui lo stesso concetto di fondamento ontologico deve essere sospeso” (ivi, 124). Anche qui si mostra il lato decostruttivo-postmetafisico di Adorno (derivante dalla sua matrice nietzscheana)12. A detta di Adorno già il cominciamento della logica hegeliana rivelerebbe l’intenzione profonda di Hegel, consistente nella liquidazione della filosofia prima, filosofia alla quale il pensiero hegeliano si riconsegnerebbe però alla fine, in quanto ontologizzerebbe il pensare. Proprio per questo Adorno sostiene che è necessario un “mutamento di funzione” rispetto alla dialettica hegeliana, “utilizzare lo schema Ivi: “Anche Lei crede che la verità sia la totalità…”. “…Tale dialettica non si può più conciliare con Hegel. Il suo movimento non tende all’identità nella differenza di ogni oggetto dal suo concetto; piuttosto essa ha in sospetto l’identico. La sua logica è logica della disgregazione, della forma costruita e oggettivizzata dei concetti, che il soggetto conoscente ha immediatamente di fronte a sé” (TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, Frankfurt/M: Suhrkamp 1966², p. 148). 9 Ivi: “…è impossibile una formulazione del concetto di verità senza un determinato concetto della teologia negativa”. 10 La questione è ripresa in una lettera di Adorno a Horkheimer del 23 ottobre 1937: “La questione di un concetto primo assoluto, foss’anche quello di essere, implica necessariamente conseguenze idealistiche, ossia riconduce in ultima istanza alla coscienza, e dall’altra, che una filosofia che tragga effettivamente queste conseguenze idealistiche si avviluppa in contraddizioni tali che la problematica stessa ne risulta falsa nel senso pieno del termine”. Cfr. anche TH. W. ADORNO, Zur Metakritik der Erkenntnistheorie. Studien über Husserl und die phänomenologische Antinomien. Stuttgart: Kohlhammer 1956, p. 32. 11 H. MARCUSE, Hegels Ontologie und die Grundlegung einer Theorie der Geschichtlichkeit. Frankfurt/M: V. Klostermann 1932. 12 Resta fermo, naturalmente, che, nonostante la critica adorniana abbia molti punti di vicinanza con quella di Heidegger e con il poststrutturalismo francese (stante appunto la comune matrice nietzscheana), essa vuole condurre un “processo di revisione razionale contro la razionalità” (TH. W. ADORNO, Philosophische Terminologie. Frankfurt/M: Suhrkamp 1974, Bd. I, p. 87) e non già la sua liquidazione in nome di una qualche esperienza più “originaria”. 7 8 5 [sic] hegeliano per qualcos’altro”, qualcosa cioè che sporga rispetto alla “differenza tra il chiuso e il non-chiuso” (ibidem). Il problema è appunto quello di capire che cosa Adorno intenda, in questa sede, per “mutamento di funzione” rispetto alla dialettica hegeliana. Cfr. il dialogo a p. 125: HORKHEIMER: Se Lei analizza quello che è la verità, allora perviene alla conclusione che la verità è, in un certo qual modo, un pensiero. ADORNO: Non si può determinare la verità come un pensiero, altrimenti si è già nella filosofia dell’identità. Il concetto di verità sfugge alla fissazione della critica della conoscenza. La verità non è nient’altro che l’essenza della negazione, ciò che di essa è falso. HORKHEIMER: Quindi si deve semplicemente dire no a tutto. ADORNO: Non vi è nessun’altra misura della verità se non la determinazione della dissoluzione dell’apparenza. HORKHEIMER: In tal modo Lei potrebbe invecchiare concludendo, ai limiti della teoria irrazionalistica del tipo di Ludwig Klages, che il pensiero compare solo là dove c’è un disturbo. La sua rimozione condurrebbe alla vita immediata. Dunque, l’unico criterio normativo che una teoria critica dialettica può ancora rivendicare se non vuole tornare alla logica soggettivistica dell’identità e della totalità è il dissolvimento di quelle condizioni che impediscono il mostrarsi effettivo del fatto stesso, di quell’apparenza che impedisce che l’apparenza stessa si riveli come tale. Entro questa differenziazione si possono allora comprendere meglio le apparenti divergenze fra Adorno e Horkheimer (talvolta pesanti, come in questo caso: Adorno equiparato a Klages!) nei protocolli del ’39: Adorno vuole eliminare i fraintendimenti che derivano dall’assunzione della dialettica materialistica. Come esempio Adorno cita, nei successivi colloqui, Lukács, nel quale opera ancora un modello idealistico di dialettica travestito da materialismo: dai rapporti di produzione ovvero dal carattere di merce di ogni relazione nel mondo capitalistico-borghese vengono dedotte le “ideologie”, secondo una Ableitung tipicamente idealistica, la quale in realtà nasconde “la pretesa della soggettività di dominare il mondo attraverso i suoi concetti” (protocollo 1939, qui p. 130). 3. Questioni 1. Quale valore possiamo allora attribuire a queste discussioni dialettiche? Esse sembrano infatti confermare proprio ciò che nella communis opinio costituisce la profonda inattualità della teoria critica dialettica, ovvero il saldo legame di negativismo dialettico e messianismo. Albrecht Wellmer ha sostenuto, a questo proposito, che l’intero Spätwerk adorniano non è nient’altro che la rielaborazione della tesi fondamentale della Dialektik der Aufklärung ovvero della “teoria della modernità definitivamente oscurata”13. Il negativismo dialettico è anche qui interpretato habermasianamente come un “vicolo cieco (Sackgasse)”14. 2. Tuttavia, a queste discussioni è possibile ancora guardare con interesse filosofico. Esse mostrano, a mio avviso molto chiaramente, come il modello dialettico faccia riferimento non già a una presunta conciliazione, a un Wesen 13 14 A. WELLMER, Endspiele: Die unversöhnliche Moderne. Frankfurt/M: Suhrkamp 1993., p. 227. Ivi, p. 229. 6 soggiacente allo Schein, ma, piuttosto, a “quel tanto di universale che si esprime concretamente nella critica determinata delle condizioni di uno stadio storico circoscritto e specifico”15 e non è dunque costretto ad abdicare di fronte al “fatto” del pluralismo multiculturale e alla contingenza ironica postmoderna. Il negativismo dialettico è pertanto non una “metafilosofia”16, ma la consapevolezza che è nello stesso articolarsi della Gegebenheit – e non in un punto di vista sottratto ad essa – che la teoria riesce a costituirsi criticamente senza ricadere nella teoria tradizionale e così a mostrare il mondo nelle sue fratture e nelle sue crepe, “come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica”17. 3. Da queste discussioni sulla dialettica emerge insomma con forza proprio quanto Wellmer (che non cita o non conosce questi testi), nel suo salvataggio in extremis di Adorno, ritiene essere l’eredità ancora spendibile del pensiero di Adorno, ovvero proprio la sua resistenza a tradurre senza residui la razionalità in discorsività. La traduzione habermasiana della non-identità nella comunicazione libera da dominio nei termini di una filosofia pragmatica del linguaggio, se ha il benefico effetto di dissolvere la “metafilosofia” di Adorno (=la connessione di negativismo dialettico e messianismo), ha però il grave difetto di annullare anche l’intuizione fondamentale di Adorno: l’idea del riconoscimento del non-identico presente tanto nella comprensione della realtà quanto nell’autocoscienza del soggetto. La Dialettica negativa non tratta delle strutture della comunicazione (ed è dunque errato criticarla per questo deficit), ma cerca di pensare una logica non-reificante dell’argomentazione, ponendosi non dal punto di vista del se ci debba essere un’argomentazione razionale, ma del come si possa costituire una siffatta argomentazione nel presente contesto storico diagnosticato come contesto di “universale accecamento”. 4. In definitiva, nel modello epistemologico basato sulla distinzione tra soggetto e oggetto, modello che ritorna costantemente nel pensiero di Adorno e che è al centro dei seminari dialettici del ’39, sono nascosti “elementi di un concetto di razionalità che non dice già della conciliazione, ma della possibilità di pensare la ragione anche senza la speranza di una conciliazione ultima”18. 15 G. PALOMBELLA, “Istituzioni e trascendenza in Herbert Marcuse”, Relazione al congresso internazionale Herbert Marcuse nel centenario della nascita, Goethe-Institut di Roma, 1998. 16 A. WELLMER, Endspiele, cit., p. 228. 17 TH. W. ADORNO, Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben. Frankfurt/M: Suhrkamp 1951, af. 153. Cfr. anche il saggio Wozu noch Philosophie? (in Eingriffe. Neun Kritische Modelle. Frankfurt/M: Suhrkamp 1963): “Un pensiero che si volge agli oggetti apertamente, coerentemente e a uno stadio di conoscenza più avanzata, è libero nei loro confronti anche perché non si fa prescrivere regole dal sapere organizzato. Esso rivolge verso gli oggetti la quintessenza dell’esperienza che ha accumulato, lacera il tessuto sociale che li nasconde, e li vede con uno sguardo nuovo… Il sogno della fenomenologia filosofica di “andare alle cose”, come uno che sogna di svegliarsi, potrebbe addirsi a una filosofia che quelle cose non spera di conquistare con il colpo di bacchetta magica della visione dell’essenza, ma pensa anche alle mediazioni soggettive e oggettive, e per farlo non assume come criterio il primato latente del metodo predisposto, che agli indirizzi fenomenologici, invece delle anelate cose, continua a presentare meri feticci, concetti artefatti” (p. 22 sgg.). 18 A. WELLMER, Endspiele, cit., p. 235.