Paolo Pejrone, In giardino non si è mai soli. Diario di un giardiniere curioso Introduzione - Il vero giardino Questo mio “diario” non avrebbe visto la luce se, a suo tempo, Nico Orengo non mi avesse incoraggiato e sostenuto. Lo ringrazio di tutto cuore, perché senza di lui e il suo sempre gentile, sincero e affettuoso appoggio, non avrei certamente scritto tutte queste cose. Scrivere vuol dire approfondire e pensare. E se non avessi approfondito e pensato credo che non mi sarei divertito tanto. Infatti, come tutte le grandi passioni, scrivere di un argomento così profondamente amato è stata per me una straordinaria occasione di viva, ragionevole e gustosa gioia. Il giardino, il suo mondo, i suoi spazi, le sue piante, le ricerche, le delusioni, le vittorie, i tentativi appartengono a un ambito ben definito. A ogni latitudine. Un giardino e il suo giardiniere sono complici e in qualche modo amici. Avranno sempre qualcosa di interessante, gradevole e vivo da raccontarsi, trasmettere e discutere. Il mondo del giardino, i suoi orizzonti e l’intima essenza dei suoi componenti sono meno immediatamente percepibili di quanto si pensi. Sostenuti da una robusta e necessaria dose di fatalismo e di indispensabile pazienza, i giardinieri, quelli veri, combattono strenuamente con le loro piante nel segno del giardino ideale. Con il solo fatalismo non si otterrà mai “quel” giardino cui i giardinieri, quelli veri, aspirano. Per conquistarsi un giardino in pace e di pace, c’è bisogno di tantissime guerre. A Russell Page vanno il mio più grande rispetto, la mia viva e imperitura ammirazione e, soprattutto, la più sincera e affettuosa, anche se purtroppo postuma, riconoscenza. Con Russell era più facile parlare di piante e viaggi che di architettura e giardini. Attraverso le piante e i viaggi si arrivava, sempre e comunque, a loro (ai giardini e all’architettura) in modo indiretto e semplice. Russell fu un Maestro vero, che, senza enunciare leggi o aforismi, insegnava. Affascinanti erano la sua enorme conoscenza, l’intelligenza e soprattutto unico era il suo profondo, magistrale e sostanziale rispetto per il mondo e per le persone che lo circondavano. I profumati e leggeri spiriti di Vita Sackville-West e di Harold Nicolson o quelli di Laurence Johnston e Rosemarie Verey, sono proprio sicuro, passerebbero turbati per il mio piccolo giardino: tutto è troppo semplice da me, tutto è troppo comune... Quanta strada, ancora, per avvicinarsi ai loro capolavori! I loro spiriti guarderebbero divertiti e un po’ spaventati il mio piccolo mondo: mai però potrebbero pensare che il mio giardino, per molti motivi, sia anche figlio e nipote dei loro! Certamente Donato Samminiatelli, Lavinia Taverna e Lulù Waldner sarebbero meno disorientati: sono stati, anche loro, grandi e sapienti giardinieri, ma, soprattutto, miei amici. Più agevolmente potrebbero leggere le note di quella strana, sghemba e dirupa sinfonia di piante, pietre, ricordi (e speranze) che è il cuore del mio giardino. Ricordo, inspiegabilmente, quel giorno di giugno in cui cominciai, per gioco, a piantare il mio piccolo orto, in un angolo dell’orto grande: da allora quante ore ho passato con le mani nella terra a seminare, trapiantare, coltivare e raccogliere! La strada degli orti e dei giardini non è tra le più facili: è piuttosto complessa e non è fatta di soli successi. I giardinieri, gli ortolani, i frutticoltori devono fare molta esperienza, per diventare “bravi”. L’esperienza, si sa, si ottiene solamente con tanta passione, tanto lavoro, tante osservazioni, tante verifiche, tanta pazienza e tantissimo tempo. È davvero difficile essere un bravo giardiniere subito, da giovane: ci vogliono parecchi anni di lenta maturazione. Qual è in verità l’elemento che accomuna le persone che abitano questo mondo variopinto, e ricco di differenze, di culture e di vita? Ritengo che non si possa essere veri giardinieri senza curiosità. Risposte articolate, intelligenti sono la premessa di grandi successi. Il perché è alla base di tutto. Quante domande si pone in un giardino un vero giardiniere? Quello che noi siamo soliti definire un giardino è spesso stato visto come creatura troppo laica, profana e vagamente inutile. L’orto e il giardino dei frutti hanno invece una loro matrice utile, laboriosa, cristiana (e sicuramente un po’ punitiva...). Nessuno può negare la bellezza di una pianta di carciofi o di quella del prezzemolo, o di un albero di arancio... Ma saranno forse meno belli i gelsomini e le rose, le viole o le peonie? Sono anche loro perfezioni, meno utili ma certamente dotate... di un’anima ! Certi giardini hanno un’anima viva, forte e facile da individuare. In altri l’anima è più nascosta. Ricordo un giardino pieno di mille attrazioni, intelligenze e stracolmo di piante. Ma purtroppo, a mio giudizio era un giardino senz’anima. Probabilmente era senz’anima la persona che ci viveva, che lo curava e l’aveva in un certo modo costruito. Sempre nello stesso ampio giardino, invece, trovai un’anima, spaventata e quasi nascosta, nell’orto, nei filari della vecchia vigna e nel pollaio, dove viveva qualcun altro. Questa persona curava con amore e intensità la vita di quella discosta parte della proprietà: l’anima di un giardino forse nasce e si rivela solamente dopo tante sincere, affettuose e assolute prove d’amore. E comunque non a tutti. Senza la memoria e i ricordi, molte piante del mio giardino mancherebbero di quella energia e di quella vita che loro soltanto possono trasmettermi. Senza i vivi e rassicuranti ricordi delle persone che nella vita mi sono state più vicine, il mio giardino sarebbe disabitato e miseramente squallido. Non c’è niente di più deprimente, limitativo e “virtuale” della fotografia di un giardino: una fotografia, anche se bella e ben riuscita, può comunicare molto poco di un giardino. Dove e come saranno i suoi rumori, i suoni, le temperature? Dove e come saranno gli umidi, i secchi e il loro profumo? L’acqua non è soltanto suono, specchio, vita, silenzio, colori o profumi: l’acqua può essere trasparenze, riverberi, alghe, fresco, rane, pesci, salamandre, oche e... zanzare. Dove saranno in una fotografia il ritornello armonico e ripetuto dei merli, quello allegro e vivace delle capinere? Dove sarà quel profumo forte, dolce e penetrante che solo si materializza su di un prato appena falciato? La rugiada (o le brine) rendono i contorni più netti, definiti e brillanti. Le luci del mattino e quelle della sera conferiscono ai giardini un maggior carattere e un certo fascino insinuante. La luce del mezzogiorno, più forte e violenta, aumentandone i contrasti ne appiattisce le sfumature. Quelle sfumature che soltanto un giardino adulto può avere. Vedere i giardini da dietro un obiettivo è uno dei più errati e fuorvianti modi di vederli. Vogliamo, invece, raccogliere forza e pazienza e visitarli, quando possibile, questi benedetti giardini? E cercare anche di capirli e studiarli? Vedute d’insieme e dettagli vanno osservati, e goduti. Ripetutamente. Visitare, stare, passeggiare in un giardino – bello – è una delle più gradevoli sensazioni “artistiche” che si possano provare. A me piace tantissimo stare in giardino anche quando piove: i colori sono più vivi, il suono della pioggia è un ottimo compagno e attutisce con armonia i rumori della trafficata vita quotidiana. E, soprattutto, liberi da rimorsi e complessi, ci si può stare tranquilli a valutare, guardare, approfondire, progettare e... rimandare. È confortante e bello rinviare e non decidere, senza gli affanni di sempre, le tessere di quell’ampio puzzle di speranze, compromessi, vittorie, delusioni che compongono il grande quadro del giardino. Partita sempre più difficile e complessa se il giardino è un quadro articolato e se le superfici sono vaste e versatili. La pioggia porta in superficie la vita di un giardino, la rende palpitante e concreta: ogni goccia d’acqua è vita. Soprattutto per il mio giardino: le rocce che affiorano non trattengono l’acqua, la fanno scivolare, la sgrondano. Il giardino più felice è quello a cui si arriva per la via più semplice e razionale: con fatica e lavoro, sicuramente, ma senza troppo “rumore”. Il giardino troppo elaborato, troppo ricercato, troppo ripulito, diventa un incubo. Perché si dovrebbe vivere in uno “stanzino pieno di bibelots” o in una asettica atmosfera da sala operatoria? I giardini sono un posto tutto speciale dove la natura, se liberata da troppi vincoli e aiutata, può dare il meglio di sé. Quel giardino nel quale l’esperimento e il laboratorio prendono il posto del giardino stesso, sostituendo con la sperimentazione un’opera organizzata di vita e di architettura, può trasformarsi in un incubo. Ricordo con rimpianto ed enorme simpatia il vecchio giardino di Revello, nel Saluzzese. Era ben coltivato, ben organizzato, robusto e caratterizzato da una grande varietà di piante. Nella sua semplicità era essenziale e gradevolissimo. Il cuore era un prato rettangolare. Tutto intorno, in leggera e differente profondità, era chiuso da letti coltivati a piante. Erano, a beneficio delle piante stesse, tutti lievemente sollevati rispetto al terreno da un leggero muro a secco. Rose a profusione, tanti e antichi bossi, bellissime peonie, numerosi Phlox, gruppi di ribes, peri, meli, alcuni filadelfi, innumerevoli fragoline, felci, viole, mughetti, hoste e piccoli ciclamini selvatici. Queste ultime piante davano un tocco tra il tardogotico e il Biedermeier, e soprattutto molto profumo nei loro lunghi e meravigliosi momenti di “lavoro”. Era un giardino estremamente semplice e molto ben organizzato: le piante erano in ottima salute, perché coltivate in un terreno ricco e sano, e non necessitavano di troppo lavoro e di attenzioni. Ce n’erano infatti poche deboli e ammalate. Un giardino come quello aveva bisogno di piccoli interventi continui: le erbe cattive erano subito estirpate, i fiori secchi eliminati. In dicembre il giardino veniva ricoperto di vecchio letame, senza pietà. In quella fase, l’aspetto era ordinato, “minimale”, organizzato e ricco. Sarebbe stata una vera utopia pensare che quella terra leggera, nera, soffice e ricchissima di microelementi fosse lì per caso. I geli non li si temeva perché non c’erano piante che potessero temerli: il giardino era stato “ben temperato” di anno in anno, di stagione in stagione, eliminando i deboli e moltiplicando i forti. Una vera e intelligente selezione locale. I Delphinium di anno in anno davano problemi di posto, di collocazione, di coltivazione? Se ne dimenticavano i favori. I Phlox bianchi erano più delicati di quelli rosa? Potevano diventare rossi, rosa e, perché no?, violetti. Ricordo i grandi vasi di legno e i limoni: erano in tutto sei o otto, non di più, ma meravigliosi, sanissimi, stracarichi di frutti. D’estate erano messi in fila su di una terrazza assolata e ariosa; l’acqua con cui venivano innaffiati era un ricco ed elaborato “beverone” di casa: un cocktail rinforzato di tutto quanto si poteva reperire al fondo delle lettiere di conigliere, pollai e piccole stalle della casa e, se non bastava, di quelle dei vicini. Il tutto veniva diluito con acqua piovana, rimescolato, fermentato e shakerato prima dell’uso. Il suo caratteristico odore ne denunciava la sostanza e il programma. Per tutta l’estate i limoni, i gerani, le petunie e le proibitissime piante di tabacco venivano alimentati così riccamente da non aver bisogno di grandi vasi: erano infatti minuscoli e facilmente trasportabili ai primi geli. Poco ingombro e una straordinaria esuberanza, nessuna marcescenza e abbondantissimi, generosi e lussureggianti i risultati. Quello era un vero giardino. Esercitava un fascino irresistibile perché era palpabile l’amore con cui veniva curato da generazioni. Era, nel suo piccolo, una autentica enciclopedia di piante “giuste”, senza complessi e ipocrisie. Il ritmo delle stagioni o dei “lavori” ne scandiva i tempi. Un’aria borghese ed efficace, antica e sapiente ne saturava gli spazi. Ogni domanda, ogni scelta aveva la sua onesta e ragionata risposta: era un giardino “di successo” fatto di sicurezza, di semplicissimi assiomi e di traboccante e sincero amore.