CHE SIGNIFICA EVANGELIZZARE - WebDiocesi

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CHE SIGNIFICA EVANGELIZZARE?
di
Bruno Forte
Arcivescovo Metropolita di Chieti-Vasto
Italia
“Donaci, Signore, di amare la Tua Chiesa, l’amata. Fa’ che rimaniamo fedeli ad essa come
ad una madre amorevole, premurosa e benigna, affinché con lei e per mezzo suo possiamo meritare
di essere di casa presso di Te, Dio e Padre nostro. Amen!”: queste parole di San Quodvultdeus di
Cartagine (Sulla professione di fede per gli aspiranti al battesimo, III,12. 13), ci introducono nel
modo migliore alla meditazione sulla Chiesa dell’amore e sulla sua missione evangelizzatrice, della
quale si può veramente parlare soltanto a partire da una fede innamorata e umile. “Ubi amor, ibi
oculus”, dicevano i Medioevali: è l’amore che dona lo sguardo e offre la chiave per aprire la porta
del mistero, in particolare quello dell’essere e dell’agire della Chiesa, che Gesù è venuto a fondare
sulla terra. Che la Chiesa sia la comunità dei figli resi tali nel Figlio, degli amati nell’Amato, lo
mostra densamente una parola usata soprattutto dal Vangelo di Giovanni: la congiunzione
comparativa “kathós”, “come”. Essa ricorre sulle labbra del Signore Gesù per indicare il tipo di
relazione che esiste fra sé e i suoi, oltre che fra i suoi e l’unità che egli vive da sempre col Padre:
“Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Gv 15,12; cf. 13,34) - “Che essi siano uno, come
noi siamo uno” (Gv 17,21. 22). Da queste frasi risulta la ricchezza di significato del termine:
“kathós” indica una relazione al tempo stesso causale, esemplare e finale, che mostra nella Trinità la
fonte, il modello e la meta della comunione dei discepoli di Gesù, la Chiesa.
La Chiesa viene dall’amore dei Tre (“Ecclesia de Trinitate”), è immagine della comunione
trinitaria (“communio sanctorum”) e tende verso la Trinità nel cammino del tempo (“Ecclesia
viatorum”). Tutto nella Chiesa viene dall’amore del Dio tre volte Santo: il cuore pulsante della
Chiesa è l’“agápe”, l’amore che viene dall’alto e tende a tornare in alto. L’“agápe” è la regola di
vita dei discepoli di Gesù, che credono in forza della Sua rivelazione nell’amore infinito del Padre:
l’“agápe” è la fonte inesauribile dello slancio missionario della Chiesa al servizio
dell’evangelizzazione del mondo fino agli estremi confini della terra e del cuore. Il “kathós” ci fa
capire che la Chiesa vive del dinamismo fondamentale di lasciarsi amare dal Padre per Cristo nello
Spirito, per amare il Padre per Cristo nello stesso Spirito e il mondo intero in Loro. Amati
nell’Amato, siamo amati per amare: è per questo che il “kathós” si unisce in Giovanni a un’altra
espressione, il pronome di reciprocità “allélon - allélous” - “gli uni gli altri”. L’amore partecipatoci
dai Tre si manifesta nell’amore reciproco: amarci gli uni gli altri è l’altro volto dell’unico amore che
costituisce la Chiesa. Se il “come” dice il rapporto tra noi e la Trinità, “allélon - allélous” dice il
rapporto della reciprocità fra di noi e del servizio agli altri: la carità di Dio fonda la carità fraterna e
la missione ecclesiale!
Si può dire perciò che sin dalle origini la Chiesa ha compreso se stessa all’interno delle
missioni divine, come un segno e uno strumento della loro realizzazione nel tempo, completamente
inserita nella storia trinitaria di Dio con il mondo: “De unitate Patris et Filii et Spiritus Sancti plebs
adunata” - “Popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (S. Cipriano, De
Oratione Dominica 23: PL 4,553; cf. Concilio Vaticano II, Lumen Gentium 4). In quanto viene
dalla Trinità ed è strutturata a immagine della Trinità, la Chiesa - “icona della Trinità” - non ha altro
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scopo che la glorificazione del Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo. Tesa verso questa
meta, dimentica di sé e della propria gloria, la Chiesa realizza la sua missione evangelizzatrice vera e propria missio de Trinitate - anzitutto come “kènosi” della gloria divina: la Trinità mette le
sue tende nel tempo attraverso la Chiesa con tutto il peso dei limiti che a questa derivano dalla sua
dimensione storica e mondana. Di questa “kènosi”, che storicizza la missione divina facendone la
missione della Chiesa, artefice principale è lo Spirito: “Lo Spirito Santo - scrive Vladimir Lossky si comunica alle persone, segnando ogni membro della Chiesa con il suggello di un rapporto
personale ed unico con la Trinità, divenendo presente in ogni persona. Come? Qui permane un
mistero: il mistero dello spogliamento, della ‘kènosi’ dello Spirito Santo veniente nel mondo. Se
nella ‘kènosi’ del Figlio la persona ci è apparsa mentre la divinità rimaneva nascosta sotto le
sembianze del servo, lo Spirito Santo, nel suo avvento, manifesta la natura comune della Trinità, ma
lascia che la sua persona sia dissimulata sotto la divinità. Rimane non rivelato, nascosto per così
dire dal dono, affinché il dono che Egli comunica sia pienamente nostro, fatto proprio dalle nostre
persone” (V. Lossky, La teologia mistica della Chiesa d'Oriente, Bologna 1967, 160s). Lo Spirito è
insomma la dimensione storica del mistero ed è Lui che dona alla Chiesa di essere il volto - sempre
storicamente determinato e in continuo sviluppo - dell'unica vita divina che viene dall'alto. È così
che sotto l'azione dello Spirito la tensione evangelizzatrice, costitutiva dell'essere ecclesiale, ha
assunto forme diverse, sviluppatesi anche in rapporto alle diverse situazioni storiche del
cristianesimo: è possibile individuare alcuni modelli fondamentali dell’azione evangelizzatrice della
comunità cristiana nella storia.
1. Modelli storici dell’evangelizzazione
Il primo modello di evangelizzazione caratterizza il tempo della Chiesa dei martiri, segnato
dalla forte tensione escatologica e dallo slancio teso ad offrire al mondo la vita nuova in Cristo fino
alla testimonianza suprema del martirio. L'urgenza dominante è quella di portare dovunque il
fermento del Vangelo e l'attività missionaria è intesa soprattutto come missione in atto, come
animazione, cioè, che si realizza dappertutto grazie alla forza espansiva della presenza dei cristiani
vivificati dallo Spirito. Questo comportamento è ispirato al principio giovanneo dell'essere nel
mondo ma non del mondo (cf. Gv 17,11. 14) ed è descritto con efficacia dalla Lettera a Diogneto (II
sec.): “Ciò che è l'anima nel corpo, lo sono i cristiani nel mondo. L'anima è diffusa in tutte le
membra del corpo, i cristiani lo sono nelle città della terra. L'anima, pur abitando nel corpo, non è
del corpo; i cristiani, pur abitando nel mondo, non sono del mondo. L'anima invisibile è custodita
nel corpo visibile; i cristiani sono noti al mondo, ma resta invisibile la loro adorazione di Dio...” (Ad
Diognetum VI,1-7: Funk I, 318s.). La fecondità della missione evangelizzatrice scaturisce dunque
dalla sovrabbondanza dell'esistenza trasformata dallo Spirito, vissuta nei luoghi e negli ambienti più
diversi per una spontanea irradiazione del dono di Dio, che viene a pervadere la società in cui si è
immersi.
Col delinearsi della situazione di cristianità, caratterizzata dall'osmosi fra la Chiesa e
l'Impero, la coscienza missionaria tende a indebolirsi e il modello della missione in atto cede
sempre più il posto a quello della missione compiuta: la tensione si sposta dall'esterno all'interno
della comunità, perché sembra che la buona novella abbia ormai raggiunto l'intero spazio del cosmo
conosciuto e debba perciò essere proclamata e celebrata soprattutto a favore della vita spirituale e
liturgica dei cristiani. In tal modo, la specifica operosità evangelizzatrice della comunità passa dal
centro al margine dell'autocoscienza ecclesiale: la “missio ad intra” diventa la forma ordinaria
della vita ecclesiale, la “missio ad extra” quella straordinaria ed eccezionale. Proprio per la sua
eccezionalità, che ne richiede l'attuazione in tempi il più possibili brevi e con modi spesso
sbrigativi, la missione “ad extra” si profilerà non di rado con caratteri di decisionismo e di urgenza,
che cederanno perfino all'uso della violenza, ispirata dall'interpretazione strumentale
dell'espressione evangelica “compelle intrare” (“Spingili ad entrare, perché la mia casa si riempia”:
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Lc 14,23). Nel contesto della parabola queste parole esprimono solo il trionfo della grazia
sull'impreparazione di coloro che vengono invitati al banchetto all'ultimo momento, al posto di
quanti hanno rifiutato l'invito: nelle applicazioni dell'ideologia della cristianità stabilita, e ritenuta
come tale necessaria alla salvezza, esse arriveranno a giustificare forme diverse di sopraffazione e
di violenza.
Col tramonto del Medio Evo, la scoperta di nuovi mondi totalmente da evangelizzare e il
profilarsi del confronto dialettico fra la Chiesa e la modernità provocano una profonda modifica nei
modelli dominanti, cui si ispira la missione: è soprattutto il modello della missione “ad gentes” che
si va imponendo. I nuovi mondi da evangelizzare costituiscono un richiamo troppo forte alla
coscienza credente per poter essere eluso. Si va delineando la meravigliosa fioritura missionaria,
che porterà la Chiesa non solo ad espandersi nelle terre del nuovo mondo, ma anche a conoscere in
se stessa una vigorosa ripresa dell'anelito alla missione. Vissuta con una prodigiosa ricchezza di
mobilitazione di uomini e mezzi e con una non meno straordinaria fecondità di frutti, nonostante
tutti i limiti e le contaminazioni con l'opera colonizzatrice delle potenze imperialiste, la missione
“ad gentes” è stata progressivamente teorizzata dalla coscienza teologica della Chiesa: alla
prevalenza della tesi secondo cui essa consiste fondamentalmente nella predicazione del Vangelo
per chiamare alla fede i non cristiani e offrire loro la salvezza eterna, subentra la convinzione che il
suo scopo prioritario è la costituzione della struttura ecclesiale presso tutti i popoli, la cosiddetta
“plantatio Ecclesiae”, in modo da offrire a tutti, in maniera efficace ed accessibile nel proprio
mondo culturale, il luogo e i mezzi della salvezza. La missione “ad gentes” implica pertanto una
forte coscienza della necessità della Chiesa per la salvezza e, ancor più radicalmente, presuppone
una precisa affermazione dell'assolutezza del cristianesimo, della singolarità, cioè, del tutto unica e
irripetibile del Salvatore del mondo, Gesù Cristo, che nella Chiesa si rende presente ed opera grazie
al suo Spirito. In questo senso, lo slancio apostolico, che è alla base del movimento missionario “ad
gentes”, ha comportato una rinnovata consapevolezza della specificità della confessione cristologica
e dell'importanza della mediazione ecclesiale. La netta identificazione fra Corpo Mistico di Cristo e
Chiesa cattolica romana, presente nella Mystici Corporis, ha come sfondo anche l'urgenza di
motivare l'impegno missionario e di mobilitare a favore di esso tutte le energie della Chiesa.
Peraltro, lo stesso Vaticano II riconoscerà l'apporto decisivo della teologia della “plantatio
Ecclesiae”, quando affermerà che “il fine proprio dell'attività missionaria è l'evangelizzazione e
l'impiantazione della Chiesa nei popoli e nei gruppi in cui ancora non ha messo radici” (Concilio
Vaticano II, Decreto Ad Gentes, 6)..
Il merito del modello della missione “ad gentes” è di esplicitare in tutta la sua ricchezza il
valore dell'apostolicità della Chiesa: convocata dalla fede degli apostoli e in essa conservata, grazie
alla comunione dello Spirito Santo nel tempo e nello spazio, la comunità cristiana si riconosce
inviata a testimoniare questa fede fino agli estremi confini della terra ed a suscitare dappertutto
presenze della Chiesa, che rendano possibile il ricorso ai mezzi di grazia in essa offerti e
l'esperienza salvifica della vita nuova, donata in Gesù Cristo. La “plantatio Ecclesiae” riconosce
così il suo modello originario e normativo nella stessa opera missionaria degli apostoli, che
predicarono il Vangelo, fondando la Chiesa dovunque andavano e preoccupandosi di assicurare la
sua sopravvivenza in particolare con la costituzione del ministero apostolico. Proprio per questo,
però, il modello vale fin tanto e fin dove ci sia la Chiesa da impiantare: in questo senso, la
concezione che sta alla base della “missio ad gentes” non esclude del tutto il rischio di ricadere
nell'ideologia della missione compiuta. La denuncia preoccupata in tal senso partì dalla Francia e si
espresse nel libro manifesto di H. Godin e Y. Daniel che promuoveva precisamente una nuova
concezione dell’evangelizzazione nei paesi di antica cristianità: France, pays de mission? (1943). Si
è andata determinando così la necessità di integrare il modello della missione “ad gentes” con un
modello, che fondi l'urgenza missionaria come elemento costitutivo dell'essere ecclesiale nella sua
pienezza, a prescindere anche dalle condizioni contingenti che accentuino l'uno o l'altro aspetto
dell'azione apostolica: questo modello è quello che potrebbe definirsi della cattolicità della
missione evangelizzatrice della Chiesa.
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2. La cattolicità dell’evangelizzazione
La “cattolicità” della missione evangelizzatrice della Chiesa salda la nota dell'apostolicità,
ispiratrice della “missio ad gentes”, a quella della pienezza cattolica del popolo di Dio, secondo una
necessaria, mutua inabitazione delle proprietà essenziali della Chiesa: l'Una Sancta è anche ed
inseparabilmente Catholica et Apostolica. Ciò significa che la raccolta escatologica, che il Signore
Gesù viene a compiere, non solo raduna la comunione dei santi nell'unità a immagine della
comunione trinitaria, ma esige anche che questa convocazione raggiunga nella forza dello Spirito
tutti i tempi e tutti i luoghi mediante la continuità della tradizione apostolica e della successione del
ministero in essa e mediante il farsi presente della pienezza totale del dono della riconciliazione in
ogni tempo e in ogni luogo. La cattolicità della Chiesa è, in altre parole, inseparabilmente un dono e
un compito: la Chiesa universale già esiste come Israele finale, popolo del raduno escatologico dei
popoli, Catholica presente nella storia grazie alla missione del Figlio e dello Spirito; essa, tuttavia,
già realizzata in una vastissima molteplicità di Chiese locali, richiede di attuarsi ancora in pienezza
sia dove non esiste, sia dove la sua realizzazione è incompleta, sia dove, sebbene presente, la
pienezza cattolica deve ancora esprimere tutta la ricchezza delle sue potenzialità, carismatiche e
ministeriali. In questo senso, dovunque c'è la Catholica, c'è la missione, come realtà in atto o come
esigenza imprescindibile: la missione di evangelizzare si presenta come l'aspetto dinamico della
cattolicità, il suo effettivo compiersi nella storia della salvezza, sotto l'azione dello Spirito Santo.
Non si tratta, allora, di sostituire un modello all'altro, come erroneamente talora si è preteso
di fare, fino a svuotare il senso della missione “ad gentes” ed a svalutare l'immenso apporto da essa
dato alla Chiesa ed al mondo: anche in ecclesiologia occorre mantenere il principio trinitario della
“pericoresi”. La cattolicità non va separata dall'apostolicità, come testimonia la grande tradizione
della Chiesa indivisa, per la quale l'una non può sussistere senza l'altra: la “plantatio Ecclesiae”
continuerà ad essere un'urgenza apostolica ineliminabile dell'attività missionaria, fintanto che ce ne
sarà bisogno (e i tempi sembrano tutt'altro che brevi!); allo stesso modo, l'azione missionaria “ad
intra” sarà sempre necessaria al popolo di Dio, per rinnovarsi incessantemente nella fedeltà alla fede
apostolica e nell'apertura alle sorprese dello Spirito, che lo conduce verso il compimento della sua
cattolicità, della pienezza, cioè, del dono divino in esso riposto. Esplicitamente l'Enciclica
Redemptoris Missio afferma: “Il cosiddetto rientro o “rimpatrio” delle missioni nella missione della
Chiesa, il confluire della missiologia nell'ecclesiologia e l'inserimento di entrambe nel disegno
trinitario della salvezza, hanno dato un respiro nuovo alla stessa attività missionaria, concepita non
già come un compito ai margini della Chiesa, ma inserito nel cuore della sua vita, quale impegno
fondamentale di tutto il popolo di Dio. Occorre, però, guardarsi dal rischio di livellare situazioni
molto diverse e di ridurre, se non far scomparire, la missione e i missionari ad gentes. Dire che tutta
la Chiesa è missionaria non esclude che esista una specifica missione ad gentes, come dire che tutti
i cattolici debbono essere missionari non esclude, anzi richiede che ci siano i missionari ad gentes e
a vita per vocazione specifica” (Lettera enciclica Redemptoris Missio di Giovanni Paolo II, del 7
Dicembre 1990, 32).
Se la missione è dinamismo intrinseco alla cattolicità della Chiesa attuata dallo Spirito e la
Catholica si attua dovunque la Chiesa è presente, si potrà allora parlare di una triplice cattolicità
relativamente alla missione: alla cattolicità del soggetto missionario si unirà sia quella del contenuto
dell'annuncio, che è la fede cattolica custodita nella tradizione apostolica, sia quella del destinatario
della missione, che è tutto l'essere umano, in ogni persona umana. Tutta la Chiesa è inviata ad
annunciare tutto il Vangelo a tutto l'uomo, ad ogni uomo! Che tutta la Chiesa sia inviata, vuol dire
che, in forza del dono dello Spirito, non c'è nessuno in essa che possa ritenersi estraneo al compito
di evangelizzare: è questa la cattolicità del soggetto missionario. Fermo restando lo specifico del
ministero ordinato, cui spetta di discernere e coordinare i carismi in vista dell'azione
evangelizzatrice, ogni battezzato e ogni comunità locale devono impegnare i doni ricevuti al
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servizio della missione ecclesiale: se ciò implica l'esigenza di riconoscere e valorizzare il carisma di
ciascuno, esige non di meno lo sforzo di crescere in comunione con tutti, in modo che la stessa
comunione sia la prima forma della missione. "Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se
avrete amore gli uni per gli altri" (Gv 13,35). La missione non è opera di navigatori solitari, ma va
vissuta nella barca di Pietro, che è la Catholica in tutte le sue espressioni, in comunione di vita e di
azione con tutti i battezzati, ciascuno secondo il dono ricevuto.
L'unico Spirito datore dei doni fonda, dunque, l'esigenza della comunione come condizione
necessaria della missione di tutti e di ciascuno: ciò comporta l’urgenza di pronunciare tre grandi
“sì” e tre grandi “no”, necessari per tener vivo l’impulso missionario dell’evangelizzazione. Il
primo “no” è al disimpegno: nell’azione evangelizzatrice nessun battezzato ha diritto a stare alla
finestra; ognuno è impegnato secondo il dono ricevuto a servire la causa del Vangelo. Ecco perché a
questo “no” corrisponde il “sì” alla corresponsabilità, in forza della quale siamo tutti chiamati
all’amore reciproco e al servizio dell’evangelizzazione: siamo tutti responsabili nella Chiesa,
chiamati ad evangelizzare nella misura del dono ricevuto. Il secondo “no” da dire è quello alla
divisione: nessuno ha diritto nel popolo di Dio a sentirsi “tutto”, sì da pensare di poter fare a meno
degli altri, separandosi da loro! A questo “no” corrisponde il “sì” quanto mai necessario alla
comunione, in forza del quale nessuno deve assolutizzare se stesso, il proprio gruppo o movimento,
nella convinzione che il regno di Dio e il suo avvento sono più importanti di ciascuno di noi. Il
terzo “no” da dire è quello alla stasi e alla nostalgia del passato: il cristiano non vive di nostalgie,
ma della presenza viva e attuale di Cristo nello Spirito. Ecco perché a questo “no” corrisponde il
“sì”al rinnovamento nella Chiesa dell’amore, che la spinga a camminare nella speranza per essere
sempre più visibilmente la sposa bella del suo Signore, capace di offrirne la bellezza al mondo. In
rapporto allo specifico impegno pastorale dei battezzati la riscoperta della cattolicità della missione
comporta, allora, la necessità di passare dall’idea del fedele laico inteso come destinatario
privilegiato dell’evangelizzazione all’idea del battezzato come soggetto pienamente attivo della
missione evangelizzatrice, rispetto alla quale tutti sono responsabili in rapporto alla chiamata a
vivere la grazia del vangelo e a proclamarlo con le parole e con la vita a tutto l’uomo in ogni uomo,
fino alla fine del tempo e agli estremi confini della terra.
La cattolicità della missione, però, non investe solo il soggetto di essa, ma anche il suo
oggetto: lo "splendore" intrinseco alla verità salvifica esige che la Chiesa si faccia portatrice del
Vangelo nella sua interezza in tutte le diverse situazioni della storia. Tutta la Chiesa annuncia tutto
il Vangelo! La ragione fondamentale per cui la buona novella va annunciata integralmente, è che
essa propriamente non è una dottrina, ma una persona, Cristo: è lui, vivente nello Spirito, l'oggetto
della fede e il contenuto dell'annuncio, ed insieme è lui l'agente che opera in chi evangelizza. La
missione esige la testimonianza integrale del Cristo: in ciò consiste la cattolicità del messaggio, la
pienezza senza la quale esso viene adulterato e svilito. Questa testimonianza integrale abbraccia la
comunione della fede nel tempo e nello spazio, è voce, cioè, della comunione dello Spirito, che
attraverso la tradizione apostolica rende la Chiesa identica a se stessa nel fondamento della sua
cattolicità, perché la identifica nel mistero al suo principio sempre presente, il Cristo riconciliatore
annunciato dagli Apostoli. Di conseguenza, la cattolicità del messaggio richiede che vengano evitati
due opposti riduzionismi, in cui è vanificata in maniera diversa, anche se convergente, la forza dello
scandalo evangelico: da una parte, la riduzione secolare; dall'altra, quella spiritualista.
La riduzione secolare assolutizza il presente, identificando la parola della fede con una delle
forze in gioco nella storia: la testimonianza è ridotta a una presenza fra le presenze della vicenda
umana; il Vangelo è svuotato della sua forza di provocazione, risolvendosi in ideologia, progetto
mondano incapace di aprirsi alla novità divina. Contro questo rischio occorre ribadire la forza
sempre liberante e inquietante della Parola di Dio e l'azione sorprendente dello Spirito: non si
evangelizza, se non si testimonia la novità del Vangelo; non si amano veramente gli altri, se non si
ha il coraggio di essere anche diversi dagli altri, per amore loro e in obbedienza alle esigenze del
Dio vivente. Cristo non è una dottrina che si lasci manipolare a misura dei nostri gusti e delle nostre
attese, ma una Persona, il Vivente che viene a noi e ci chiama a seguirLo. La riduzione spiritualista,
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invece, consiste in quella forma di evasione dalla storia, per la quale si assolutizza talmente la
novità del dono "già" ricevuto da perdere di vista la problematicità dei contesti e delle storie
personali, cui esso va annunciato e mediato. Qui la cattolicità è impoverita, perché è ridotta a
risposte già pronte, senza passare attraverso la mediazione necessaria dell'interpretazione, al tempo
stesso fedele e creativa, richiesta dall'incontro con le culture e le persone reali e resa possibile
dall'azione dello Spirito Santo. Lo spiritualismo disincarnato sa dire i "no" dell'esigenza evangelica,
ma trascura spesso i "sì", anche umili e provvisori, di cui tutti abbiamo bisogno per vivere e per
morire. Il Dio dell'evangelo non è così: egli non è il Dio delle esigenze impossibili, ma il Dio con
noi, che "ha lavorato con mani d'uomo, ha pensato con mente d'uomo, ha agito con volontà d'uomo,
ha amato con cuore d'uomo", e proprio così, "rivelando il mistero del Padre e del suo amore, ha
svelato anche pienamente l'uomo all'uomo e gli ha fatto nota la sua altissima vocazione" (Concilio
Vaticano II, Costituzione Gaudium et Spes, 22). Contro ogni evasione spiritualista è necessario che
la Chiesa si faccia compagna di strada degli uomini, cui annuncia il Vangelo: l'uomo è via della
Chiesa!
La cattolicità del messaggio comporta anche inseparabilmente la cattolicità del destinatario
dell’evangelizzazione: la buona novella è risuonata per tutti ed esige di raggiungere tutti; lo
"splendore" della verità viene a mediarsi nella "kènosi" dei linguaggi e delle culture più diverse.
"Andate e fate discepole tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello
Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato" (Mt 28,19s). È proprio
nello slancio missionario, proteso a raggiungere tutto l'uomo in ogni uomo, che il Cristo garantisce
la presenza della sua fedeltà al suo popolo: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del
mondo" (v.20). Egli è là, dove il testimone annuncia il suo mistero pasquale, dove la Chiesa lo
rende presente e chiama alla sequela di Lui: la frontiera dell'evangelizzazione, perciò, non è la linea
di demarcazione esteriormente riconoscibile fra spazio sacro e spazio profano, ma è anzitutto il
luogo della decisione salvifica, il cuore umano, lì dove la totalità di un'esistenza raggiunta dallo
Spirito Santo si decide per Cristo o si chiude a lui. In tal senso, si può dire anche che la Chiesa
evangelizza, se continuamente si evangelizza, lasciandosi purificare e rinnovare dal giudizio della
Parola di Dio e dal fuoco dello Spirito, nel concreto del suo cammino storico e delle prese di
posizione, che le vengono richieste: così sta "sub Verbo Dei" e può celebrare fiduciosamente i
divini misteri per la salvezza del mondo.
La cattolicità della missione non è tuttavia ancora pienamente realizzata, se non si attua la
contemporanea apertura all'ampiezza dei bisogni umani e della destinazione universale
dell'evangelo: è qui che si pone l'esigenza imprescindibile per ogni battezzato, come per ogni
Chiesa particolare e per la Chiesa universale, di impegnarsi affinché l'annuncio raggiunga
veramente ogni persona umana e non vi sia spazio o dimensione di storia cui non pervenga il
messaggio. Se il Signore non chiederà conto ai suoi discepoli dei salvati, perché la salvezza è un
mistero di grazia e di libertà di cui nessuno può disporre dall'esterno, chiederà loro conto degli
evangelizzati: in tal senso, una Chiesa senza urgenza e passione missionaria tradirebbe la propria
cattolicità, sarebbe un campo di morti e non la comunità dei risorti nel Risorto.
3. Dialogo e proclamazione al servizio del Vangelo
Lo slancio missionario al servizio dell’evangelizzazione implica l’incontro con altri mondi
religiosi, presenti ormai anche nel cuore dei paesi di antica cristianità, come quelli europei a ragione
dei flussi immigratori crescenti nelle ultime decadi del ‘900. Si impone così, in tutta la sua
urgenza, la questione del rapporto fra l’evangelizzazione e il dialogo interreligioso. Una presenza
del Regno di Dio - di cui la Chiesa è sacramento - anche al di là della visibilità della Chiesa stessa,
non può in alcun modo essere negata: il disegno salvifico universale del Padre, la singolarità del
Cristo Redentore, l’azione dello Spirito per renderLo presente a tutto l’uomo, in ogni uomo, lo
dimostrano. Si comprende allora come non possa essere accettata una valutazione puramente
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negativa dei mondi religiosi non cristiani, nella logica di un “esclusivismo” della salvezza, fondato
sulla semplice identificazione di Chiesa e Regno. Peraltro, non si può - in direzione opposta ritenere ammissibile il pluralismo indiscriminato di alcune teologie delle religioni, che vanificano
l’assolutezza del cristianesimo e ignorano le lacune e resistenze delle altre esperienze religiose. Fra
questi orientamenti contrapposti, occorre proclamare la grazia e lo scandalo singolari della buona
novella, riconoscendo al tempo stessa l’azione dello Spirito orientata alla luce del Verbo dovunque
essa sia presente: “Quanto lo Spirito opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle
culture e religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica e non può non avere riferimento a
Cristo, Verbo fatto carne per l’azione dello Spirito” (Redemptoris Missio, 29).
Un simile riconoscimento non vanifica in alcun modo il dovere missionario del discepolo di
Cristo, lo motiva anzi ancora di più, perché è il criterio costituito dalla singolarità del Signore Gesù
e del Suo Vangelo a consentire di discernere e apprezzare i valori contenuti nelle altre religioni
(cf. quanto afferma la Dichiarazione Dominus Jesus al n. 8). “Anche se la Chiesa riconosce
volentieri quanto c’è di vero e di santo nelle tradizioni religiose del buddismo, dell’induismo e
dell’islam - riflessi di quella verità che illumina tutti gli uomini -, ciò non diminuisce il suo dovere e
la sua determinazione a proclamare senza esitazioni Gesù Cristo, che è la via, la verità e la vita” (cf.
Redemptoris Missio, 55). Perciò, il dialogo con le altre religioni “deve essere condotto e attuato con
la convinzione che la Chiesa è la via ordinaria di salvezza e che solo essa possiede la pienezza dei
mezzi di salvezza” (ib.). Né questo dialogo - in quanto congiunto al dovere della proclamazione
della verità evangelica - è da ritenersi strumentale, poiché coniuga la fedeltà irrinunciabile
all’identità del discepolo di Cristo al riconoscimento dei “semina Verbi” ovunque presenti, che
proprio da quella fedeltà è reso possibile.
Nel rapporto con le altre religioni è richiesto dunque sul piano pastorale un atteggiamento di
apertura e di rispetto, nella consapevolezza che Cristo non può essere imposto a nessuno, ma
soltanto proposto e incontrato nello scandalo, nella libertà e nell’audacia di una decisione vissuta
nello Spirito. In questa luce, ogni mondo diverso dal cristiano va accostato dai cristiani nella sua
dignità e consistenza, che non può essere vanificata da alcuna interpretazione ideologica
dell’assolutezza del cristianesimo. In particolare, il rapporto con la fede d’Israele, radice santa della
Chiesa come afferma l’Apostolo Paolo (cf. Rm 11,16 e 18) è di decisiva importanza: secondo una
bellissima intuizione patristica, questo rapporto è espresso dalla figura degli esploratori inviati nella
terra di Canaan (cf. Num 13,23), che tornano portando un'asta da cui pende un grappolo d'uva della
Terra Promessa. In quell’asta i Padri hanno visto il legno della Croce, da cui pende la vite che è
Cristo, presente specialmente nell’eucaristia (cf. Evagrio, Altercatio inter Theophilum et Simonem:
PL 20,1175). Nei due portatori, uniti e separati dal legno, sono visti Israele e la Chiesa (ib.: stesse
idee in S. Massimo di Torino nella metà del V sec.: Hom. 79: PL 57,423s). In quanto i due
marciano l'uno dietro l'altro, chi precede vede solo davanti a sé, ed è perciò figura d'Israele, popolo
della speranza e dell'attesa; chi viene dietro vede, invece, colui che gli sta davanti e l'orizzonte da
questi abbracciato attraverso il grappolo appeso al legno ed è perciò figura della Chiesa, che ha in
Cristo crocefisso la chiave di lettura anche dell'antico Israele e della promessa fatta ai padri. Col
mostrare la differenza, l'immagine afferma non meno la continuità che esiste fra i due popoli, non
solo per il legame dell'unica asta che entrambi gli esploratori sostengono, ma anche per lo sguardo
da essi rivolto alla medesima meta e l’ “osanna” che entrambi cantano per esprimere il giubilo del
desiderio di Dio. Uniti nel canto della speranza e dell'attesa, Israele e la Chiesa avanzano insieme,
distinti e congiunti al tempo stesso dalla Croce di Cristo: nessuna confusione deve esserci fra essi,
nessuna sostituzione dell’una all’altro, ma una riconciliazione in cammino che si realizzerà secondo
il disegno di Dio a tempo opportuno, prima per alcuni, quale segno e profezia del compimento, poi,
nella fase escatologica, per tutti.
L’atteggiamento di rispetto dovrà estendersi a tutti i mondi religiosi diversi dal
cristianesimo: esso non esimerà, tuttavia, il cristiano dal vivere la novità della sua fede in maniera
piena e totalizzante. La missione cristiana non sta nell’esportare una visione tranquillizzante del
mondo e della vita, ma nel trasmettere, per contagio e trasparenza, nello scandalo e nella libertà
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della fede, l’esperienza dell’incontro vivo e trasformante col Signore Gesù. Così si presentò
originariamente l’inizio del movimento cristiano; così deve offrirsi anche oggi l’appello che la fede
rivolge ad ogni uomo che voglia aprirsi ad essa nella libertà. Su questo stile di dialogo ed insieme di
proclamazione si gioca l’autenticità della presenza dei cristiani nelle più diverse situazioni storiche
e il loro contributo alla causa dell’incontro fra i popoli, le culture e le religioni (Cf. il documento
Dialogo e proclamazione, pubblicato nel maggio 1991 congiuntamente dal Pontificio Consiglio per
il Dialogo Interreligioso e dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli). Solo in questa
duplice e unica fedeltà - al dono della rivelazione divina in Gesù e al sacrario delle coscienze e della
loro libertà - la Chiesa potrà porsi al servizio della crescita della qualità della vita per tutti, nella
giustizia e nella verità, secondo l’universale disegno di Dio.
Una conclusione aperta...
Da questa riflessione sulla missione evangelizzatrice di tutta la Chiesa nel suo
pellegrinaggio verso la gloria della Trinità, nascono per ogni discepolo del Signore Gesù alcune
domande, volte ad aiutare il discernimento personale e comunitario: vivo senza risparmio il mio
impegno al servizio della missione confidata da Cristo al suo popolo? Lo vivo in comunione
responsabile con tutti nella comunione articolata della Chiesa dell'amore? annuncio tutto il Vangelo,
senza cedere a riduzioni secolarizzanti o a spiritualismi evasivi? Mi sforzo di raggiungere tutto
l'uomo in ognuna delle creature cui sono inviato in forza del dono ricevuto e del ministero che mi è
affidato? Cerco di vivere in costante rinnovamento sotto il soffio dello Spirito, sostenendo il
continuo rinnovamento di tutta la Chiesa? Vigilo di fronte al rischio sempre possibile di lasciarmi
sedurre dalle misure del potere o della grandezza di questo mondo? Cerco e testimonio al di sopra
di tutto la gioia e la pace di chi si riconosce pellegrino verso la patria e ad essa tende nel conforto
dello Spirito e della comunione fraterna della Chiesa? Nella Chiesa tutta intera impegnata
nell’azione evangelizzatrice il mistero divino di rivelazione e di nascondimento continua a farsi
presente. È perciò nella fede e nella preghiera che esso va riconosciuto, invocato, accolto,
chiedendo al Signore di avere in noi i fiumi d'acqua viva sgorganti dal Suo fianco, segno e frutto
della nostra partecipazione viva e profonda alla comunione della Sposa, icona della Trinità...
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