CHE SIGNIFICA EVANGELIZZARE? di Bruno Forte Arcivescovo Metropolita di Chieti-Vasto Italia “Donaci, Signore, di amare la Tua Chiesa, l’amata. Fa’ che rimaniamo fedeli ad essa come ad una madre amorevole, premurosa e benigna, affinché con lei e per mezzo suo possiamo meritare di essere di casa presso di Te, Dio e Padre nostro. Amen!”: queste parole di San Quodvultdeus di Cartagine (Sulla professione di fede per gli aspiranti al battesimo, III,12. 13), ci introducono nel modo migliore alla meditazione sulla Chiesa dell’amore e sulla sua missione evangelizzatrice, della quale si può veramente parlare soltanto a partire da una fede innamorata e umile. “Ubi amor, ibi oculus”, dicevano i Medioevali: è l’amore che dona lo sguardo e offre la chiave per aprire la porta del mistero, in particolare quello dell’essere e dell’agire della Chiesa, che Gesù è venuto a fondare sulla terra. Che la Chiesa sia la comunità dei figli resi tali nel Figlio, degli amati nell’Amato, lo mostra densamente una parola usata soprattutto dal Vangelo di Giovanni: la congiunzione comparativa “kathós”, “come”. Essa ricorre sulle labbra del Signore Gesù per indicare il tipo di relazione che esiste fra sé e i suoi, oltre che fra i suoi e l’unità che egli vive da sempre col Padre: “Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Gv 15,12; cf. 13,34) - “Che essi siano uno, come noi siamo uno” (Gv 17,21. 22). Da queste frasi risulta la ricchezza di significato del termine: “kathós” indica una relazione al tempo stesso causale, esemplare e finale, che mostra nella Trinità la fonte, il modello e la meta della comunione dei discepoli di Gesù, la Chiesa. La Chiesa viene dall’amore dei Tre (“Ecclesia de Trinitate”), è immagine della comunione trinitaria (“communio sanctorum”) e tende verso la Trinità nel cammino del tempo (“Ecclesia viatorum”). Tutto nella Chiesa viene dall’amore del Dio tre volte Santo: il cuore pulsante della Chiesa è l’“agápe”, l’amore che viene dall’alto e tende a tornare in alto. L’“agápe” è la regola di vita dei discepoli di Gesù, che credono in forza della Sua rivelazione nell’amore infinito del Padre: l’“agápe” è la fonte inesauribile dello slancio missionario della Chiesa al servizio dell’evangelizzazione del mondo fino agli estremi confini della terra e del cuore. Il “kathós” ci fa capire che la Chiesa vive del dinamismo fondamentale di lasciarsi amare dal Padre per Cristo nello Spirito, per amare il Padre per Cristo nello stesso Spirito e il mondo intero in Loro. Amati nell’Amato, siamo amati per amare: è per questo che il “kathós” si unisce in Giovanni a un’altra espressione, il pronome di reciprocità “allélon - allélous” - “gli uni gli altri”. L’amore partecipatoci dai Tre si manifesta nell’amore reciproco: amarci gli uni gli altri è l’altro volto dell’unico amore che costituisce la Chiesa. Se il “come” dice il rapporto tra noi e la Trinità, “allélon - allélous” dice il rapporto della reciprocità fra di noi e del servizio agli altri: la carità di Dio fonda la carità fraterna e la missione ecclesiale! Si può dire perciò che sin dalle origini la Chiesa ha compreso se stessa all’interno delle missioni divine, come un segno e uno strumento della loro realizzazione nel tempo, completamente inserita nella storia trinitaria di Dio con il mondo: “De unitate Patris et Filii et Spiritus Sancti plebs adunata” - “Popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (S. Cipriano, De Oratione Dominica 23: PL 4,553; cf. Concilio Vaticano II, Lumen Gentium 4). In quanto viene dalla Trinità ed è strutturata a immagine della Trinità, la Chiesa - “icona della Trinità” - non ha altro 1 scopo che la glorificazione del Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo. Tesa verso questa meta, dimentica di sé e della propria gloria, la Chiesa realizza la sua missione evangelizzatrice vera e propria missio de Trinitate - anzitutto come “kènosi” della gloria divina: la Trinità mette le sue tende nel tempo attraverso la Chiesa con tutto il peso dei limiti che a questa derivano dalla sua dimensione storica e mondana. Di questa “kènosi”, che storicizza la missione divina facendone la missione della Chiesa, artefice principale è lo Spirito: “Lo Spirito Santo - scrive Vladimir Lossky si comunica alle persone, segnando ogni membro della Chiesa con il suggello di un rapporto personale ed unico con la Trinità, divenendo presente in ogni persona. Come? Qui permane un mistero: il mistero dello spogliamento, della ‘kènosi’ dello Spirito Santo veniente nel mondo. Se nella ‘kènosi’ del Figlio la persona ci è apparsa mentre la divinità rimaneva nascosta sotto le sembianze del servo, lo Spirito Santo, nel suo avvento, manifesta la natura comune della Trinità, ma lascia che la sua persona sia dissimulata sotto la divinità. Rimane non rivelato, nascosto per così dire dal dono, affinché il dono che Egli comunica sia pienamente nostro, fatto proprio dalle nostre persone” (V. Lossky, La teologia mistica della Chiesa d'Oriente, Bologna 1967, 160s). Lo Spirito è insomma la dimensione storica del mistero ed è Lui che dona alla Chiesa di essere il volto - sempre storicamente determinato e in continuo sviluppo - dell'unica vita divina che viene dall'alto. È così che sotto l'azione dello Spirito la tensione evangelizzatrice, costitutiva dell'essere ecclesiale, ha assunto forme diverse, sviluppatesi anche in rapporto alle diverse situazioni storiche del cristianesimo: è possibile individuare alcuni modelli fondamentali dell’azione evangelizzatrice della comunità cristiana nella storia. 1. Modelli storici dell’evangelizzazione Il primo modello di evangelizzazione caratterizza il tempo della Chiesa dei martiri, segnato dalla forte tensione escatologica e dallo slancio teso ad offrire al mondo la vita nuova in Cristo fino alla testimonianza suprema del martirio. L'urgenza dominante è quella di portare dovunque il fermento del Vangelo e l'attività missionaria è intesa soprattutto come missione in atto, come animazione, cioè, che si realizza dappertutto grazie alla forza espansiva della presenza dei cristiani vivificati dallo Spirito. Questo comportamento è ispirato al principio giovanneo dell'essere nel mondo ma non del mondo (cf. Gv 17,11. 14) ed è descritto con efficacia dalla Lettera a Diogneto (II sec.): “Ciò che è l'anima nel corpo, lo sono i cristiani nel mondo. L'anima è diffusa in tutte le membra del corpo, i cristiani lo sono nelle città della terra. L'anima, pur abitando nel corpo, non è del corpo; i cristiani, pur abitando nel mondo, non sono del mondo. L'anima invisibile è custodita nel corpo visibile; i cristiani sono noti al mondo, ma resta invisibile la loro adorazione di Dio...” (Ad Diognetum VI,1-7: Funk I, 318s.). La fecondità della missione evangelizzatrice scaturisce dunque dalla sovrabbondanza dell'esistenza trasformata dallo Spirito, vissuta nei luoghi e negli ambienti più diversi per una spontanea irradiazione del dono di Dio, che viene a pervadere la società in cui si è immersi. Col delinearsi della situazione di cristianità, caratterizzata dall'osmosi fra la Chiesa e l'Impero, la coscienza missionaria tende a indebolirsi e il modello della missione in atto cede sempre più il posto a quello della missione compiuta: la tensione si sposta dall'esterno all'interno della comunità, perché sembra che la buona novella abbia ormai raggiunto l'intero spazio del cosmo conosciuto e debba perciò essere proclamata e celebrata soprattutto a favore della vita spirituale e liturgica dei cristiani. In tal modo, la specifica operosità evangelizzatrice della comunità passa dal centro al margine dell'autocoscienza ecclesiale: la “missio ad intra” diventa la forma ordinaria della vita ecclesiale, la “missio ad extra” quella straordinaria ed eccezionale. Proprio per la sua eccezionalità, che ne richiede l'attuazione in tempi il più possibili brevi e con modi spesso sbrigativi, la missione “ad extra” si profilerà non di rado con caratteri di decisionismo e di urgenza, che cederanno perfino all'uso della violenza, ispirata dall'interpretazione strumentale dell'espressione evangelica “compelle intrare” (“Spingili ad entrare, perché la mia casa si riempia”: 2 Lc 14,23). Nel contesto della parabola queste parole esprimono solo il trionfo della grazia sull'impreparazione di coloro che vengono invitati al banchetto all'ultimo momento, al posto di quanti hanno rifiutato l'invito: nelle applicazioni dell'ideologia della cristianità stabilita, e ritenuta come tale necessaria alla salvezza, esse arriveranno a giustificare forme diverse di sopraffazione e di violenza. Col tramonto del Medio Evo, la scoperta di nuovi mondi totalmente da evangelizzare e il profilarsi del confronto dialettico fra la Chiesa e la modernità provocano una profonda modifica nei modelli dominanti, cui si ispira la missione: è soprattutto il modello della missione “ad gentes” che si va imponendo. I nuovi mondi da evangelizzare costituiscono un richiamo troppo forte alla coscienza credente per poter essere eluso. Si va delineando la meravigliosa fioritura missionaria, che porterà la Chiesa non solo ad espandersi nelle terre del nuovo mondo, ma anche a conoscere in se stessa una vigorosa ripresa dell'anelito alla missione. Vissuta con una prodigiosa ricchezza di mobilitazione di uomini e mezzi e con una non meno straordinaria fecondità di frutti, nonostante tutti i limiti e le contaminazioni con l'opera colonizzatrice delle potenze imperialiste, la missione “ad gentes” è stata progressivamente teorizzata dalla coscienza teologica della Chiesa: alla prevalenza della tesi secondo cui essa consiste fondamentalmente nella predicazione del Vangelo per chiamare alla fede i non cristiani e offrire loro la salvezza eterna, subentra la convinzione che il suo scopo prioritario è la costituzione della struttura ecclesiale presso tutti i popoli, la cosiddetta “plantatio Ecclesiae”, in modo da offrire a tutti, in maniera efficace ed accessibile nel proprio mondo culturale, il luogo e i mezzi della salvezza. La missione “ad gentes” implica pertanto una forte coscienza della necessità della Chiesa per la salvezza e, ancor più radicalmente, presuppone una precisa affermazione dell'assolutezza del cristianesimo, della singolarità, cioè, del tutto unica e irripetibile del Salvatore del mondo, Gesù Cristo, che nella Chiesa si rende presente ed opera grazie al suo Spirito. In questo senso, lo slancio apostolico, che è alla base del movimento missionario “ad gentes”, ha comportato una rinnovata consapevolezza della specificità della confessione cristologica e dell'importanza della mediazione ecclesiale. La netta identificazione fra Corpo Mistico di Cristo e Chiesa cattolica romana, presente nella Mystici Corporis, ha come sfondo anche l'urgenza di motivare l'impegno missionario e di mobilitare a favore di esso tutte le energie della Chiesa. Peraltro, lo stesso Vaticano II riconoscerà l'apporto decisivo della teologia della “plantatio Ecclesiae”, quando affermerà che “il fine proprio dell'attività missionaria è l'evangelizzazione e l'impiantazione della Chiesa nei popoli e nei gruppi in cui ancora non ha messo radici” (Concilio Vaticano II, Decreto Ad Gentes, 6).. Il merito del modello della missione “ad gentes” è di esplicitare in tutta la sua ricchezza il valore dell'apostolicità della Chiesa: convocata dalla fede degli apostoli e in essa conservata, grazie alla comunione dello Spirito Santo nel tempo e nello spazio, la comunità cristiana si riconosce inviata a testimoniare questa fede fino agli estremi confini della terra ed a suscitare dappertutto presenze della Chiesa, che rendano possibile il ricorso ai mezzi di grazia in essa offerti e l'esperienza salvifica della vita nuova, donata in Gesù Cristo. La “plantatio Ecclesiae” riconosce così il suo modello originario e normativo nella stessa opera missionaria degli apostoli, che predicarono il Vangelo, fondando la Chiesa dovunque andavano e preoccupandosi di assicurare la sua sopravvivenza in particolare con la costituzione del ministero apostolico. Proprio per questo, però, il modello vale fin tanto e fin dove ci sia la Chiesa da impiantare: in questo senso, la concezione che sta alla base della “missio ad gentes” non esclude del tutto il rischio di ricadere nell'ideologia della missione compiuta. La denuncia preoccupata in tal senso partì dalla Francia e si espresse nel libro manifesto di H. Godin e Y. Daniel che promuoveva precisamente una nuova concezione dell’evangelizzazione nei paesi di antica cristianità: France, pays de mission? (1943). Si è andata determinando così la necessità di integrare il modello della missione “ad gentes” con un modello, che fondi l'urgenza missionaria come elemento costitutivo dell'essere ecclesiale nella sua pienezza, a prescindere anche dalle condizioni contingenti che accentuino l'uno o l'altro aspetto dell'azione apostolica: questo modello è quello che potrebbe definirsi della cattolicità della missione evangelizzatrice della Chiesa. 3 2. La cattolicità dell’evangelizzazione La “cattolicità” della missione evangelizzatrice della Chiesa salda la nota dell'apostolicità, ispiratrice della “missio ad gentes”, a quella della pienezza cattolica del popolo di Dio, secondo una necessaria, mutua inabitazione delle proprietà essenziali della Chiesa: l'Una Sancta è anche ed inseparabilmente Catholica et Apostolica. Ciò significa che la raccolta escatologica, che il Signore Gesù viene a compiere, non solo raduna la comunione dei santi nell'unità a immagine della comunione trinitaria, ma esige anche che questa convocazione raggiunga nella forza dello Spirito tutti i tempi e tutti i luoghi mediante la continuità della tradizione apostolica e della successione del ministero in essa e mediante il farsi presente della pienezza totale del dono della riconciliazione in ogni tempo e in ogni luogo. La cattolicità della Chiesa è, in altre parole, inseparabilmente un dono e un compito: la Chiesa universale già esiste come Israele finale, popolo del raduno escatologico dei popoli, Catholica presente nella storia grazie alla missione del Figlio e dello Spirito; essa, tuttavia, già realizzata in una vastissima molteplicità di Chiese locali, richiede di attuarsi ancora in pienezza sia dove non esiste, sia dove la sua realizzazione è incompleta, sia dove, sebbene presente, la pienezza cattolica deve ancora esprimere tutta la ricchezza delle sue potenzialità, carismatiche e ministeriali. In questo senso, dovunque c'è la Catholica, c'è la missione, come realtà in atto o come esigenza imprescindibile: la missione di evangelizzare si presenta come l'aspetto dinamico della cattolicità, il suo effettivo compiersi nella storia della salvezza, sotto l'azione dello Spirito Santo. Non si tratta, allora, di sostituire un modello all'altro, come erroneamente talora si è preteso di fare, fino a svuotare il senso della missione “ad gentes” ed a svalutare l'immenso apporto da essa dato alla Chiesa ed al mondo: anche in ecclesiologia occorre mantenere il principio trinitario della “pericoresi”. La cattolicità non va separata dall'apostolicità, come testimonia la grande tradizione della Chiesa indivisa, per la quale l'una non può sussistere senza l'altra: la “plantatio Ecclesiae” continuerà ad essere un'urgenza apostolica ineliminabile dell'attività missionaria, fintanto che ce ne sarà bisogno (e i tempi sembrano tutt'altro che brevi!); allo stesso modo, l'azione missionaria “ad intra” sarà sempre necessaria al popolo di Dio, per rinnovarsi incessantemente nella fedeltà alla fede apostolica e nell'apertura alle sorprese dello Spirito, che lo conduce verso il compimento della sua cattolicità, della pienezza, cioè, del dono divino in esso riposto. Esplicitamente l'Enciclica Redemptoris Missio afferma: “Il cosiddetto rientro o “rimpatrio” delle missioni nella missione della Chiesa, il confluire della missiologia nell'ecclesiologia e l'inserimento di entrambe nel disegno trinitario della salvezza, hanno dato un respiro nuovo alla stessa attività missionaria, concepita non già come un compito ai margini della Chiesa, ma inserito nel cuore della sua vita, quale impegno fondamentale di tutto il popolo di Dio. Occorre, però, guardarsi dal rischio di livellare situazioni molto diverse e di ridurre, se non far scomparire, la missione e i missionari ad gentes. Dire che tutta la Chiesa è missionaria non esclude che esista una specifica missione ad gentes, come dire che tutti i cattolici debbono essere missionari non esclude, anzi richiede che ci siano i missionari ad gentes e a vita per vocazione specifica” (Lettera enciclica Redemptoris Missio di Giovanni Paolo II, del 7 Dicembre 1990, 32). Se la missione è dinamismo intrinseco alla cattolicità della Chiesa attuata dallo Spirito e la Catholica si attua dovunque la Chiesa è presente, si potrà allora parlare di una triplice cattolicità relativamente alla missione: alla cattolicità del soggetto missionario si unirà sia quella del contenuto dell'annuncio, che è la fede cattolica custodita nella tradizione apostolica, sia quella del destinatario della missione, che è tutto l'essere umano, in ogni persona umana. Tutta la Chiesa è inviata ad annunciare tutto il Vangelo a tutto l'uomo, ad ogni uomo! Che tutta la Chiesa sia inviata, vuol dire che, in forza del dono dello Spirito, non c'è nessuno in essa che possa ritenersi estraneo al compito di evangelizzare: è questa la cattolicità del soggetto missionario. Fermo restando lo specifico del ministero ordinato, cui spetta di discernere e coordinare i carismi in vista dell'azione evangelizzatrice, ogni battezzato e ogni comunità locale devono impegnare i doni ricevuti al 4 servizio della missione ecclesiale: se ciò implica l'esigenza di riconoscere e valorizzare il carisma di ciascuno, esige non di meno lo sforzo di crescere in comunione con tutti, in modo che la stessa comunione sia la prima forma della missione. "Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" (Gv 13,35). La missione non è opera di navigatori solitari, ma va vissuta nella barca di Pietro, che è la Catholica in tutte le sue espressioni, in comunione di vita e di azione con tutti i battezzati, ciascuno secondo il dono ricevuto. L'unico Spirito datore dei doni fonda, dunque, l'esigenza della comunione come condizione necessaria della missione di tutti e di ciascuno: ciò comporta l’urgenza di pronunciare tre grandi “sì” e tre grandi “no”, necessari per tener vivo l’impulso missionario dell’evangelizzazione. Il primo “no” è al disimpegno: nell’azione evangelizzatrice nessun battezzato ha diritto a stare alla finestra; ognuno è impegnato secondo il dono ricevuto a servire la causa del Vangelo. Ecco perché a questo “no” corrisponde il “sì” alla corresponsabilità, in forza della quale siamo tutti chiamati all’amore reciproco e al servizio dell’evangelizzazione: siamo tutti responsabili nella Chiesa, chiamati ad evangelizzare nella misura del dono ricevuto. Il secondo “no” da dire è quello alla divisione: nessuno ha diritto nel popolo di Dio a sentirsi “tutto”, sì da pensare di poter fare a meno degli altri, separandosi da loro! A questo “no” corrisponde il “sì” quanto mai necessario alla comunione, in forza del quale nessuno deve assolutizzare se stesso, il proprio gruppo o movimento, nella convinzione che il regno di Dio e il suo avvento sono più importanti di ciascuno di noi. Il terzo “no” da dire è quello alla stasi e alla nostalgia del passato: il cristiano non vive di nostalgie, ma della presenza viva e attuale di Cristo nello Spirito. Ecco perché a questo “no” corrisponde il “sì”al rinnovamento nella Chiesa dell’amore, che la spinga a camminare nella speranza per essere sempre più visibilmente la sposa bella del suo Signore, capace di offrirne la bellezza al mondo. In rapporto allo specifico impegno pastorale dei battezzati la riscoperta della cattolicità della missione comporta, allora, la necessità di passare dall’idea del fedele laico inteso come destinatario privilegiato dell’evangelizzazione all’idea del battezzato come soggetto pienamente attivo della missione evangelizzatrice, rispetto alla quale tutti sono responsabili in rapporto alla chiamata a vivere la grazia del vangelo e a proclamarlo con le parole e con la vita a tutto l’uomo in ogni uomo, fino alla fine del tempo e agli estremi confini della terra. La cattolicità della missione, però, non investe solo il soggetto di essa, ma anche il suo oggetto: lo "splendore" intrinseco alla verità salvifica esige che la Chiesa si faccia portatrice del Vangelo nella sua interezza in tutte le diverse situazioni della storia. Tutta la Chiesa annuncia tutto il Vangelo! La ragione fondamentale per cui la buona novella va annunciata integralmente, è che essa propriamente non è una dottrina, ma una persona, Cristo: è lui, vivente nello Spirito, l'oggetto della fede e il contenuto dell'annuncio, ed insieme è lui l'agente che opera in chi evangelizza. La missione esige la testimonianza integrale del Cristo: in ciò consiste la cattolicità del messaggio, la pienezza senza la quale esso viene adulterato e svilito. Questa testimonianza integrale abbraccia la comunione della fede nel tempo e nello spazio, è voce, cioè, della comunione dello Spirito, che attraverso la tradizione apostolica rende la Chiesa identica a se stessa nel fondamento della sua cattolicità, perché la identifica nel mistero al suo principio sempre presente, il Cristo riconciliatore annunciato dagli Apostoli. Di conseguenza, la cattolicità del messaggio richiede che vengano evitati due opposti riduzionismi, in cui è vanificata in maniera diversa, anche se convergente, la forza dello scandalo evangelico: da una parte, la riduzione secolare; dall'altra, quella spiritualista. La riduzione secolare assolutizza il presente, identificando la parola della fede con una delle forze in gioco nella storia: la testimonianza è ridotta a una presenza fra le presenze della vicenda umana; il Vangelo è svuotato della sua forza di provocazione, risolvendosi in ideologia, progetto mondano incapace di aprirsi alla novità divina. Contro questo rischio occorre ribadire la forza sempre liberante e inquietante della Parola di Dio e l'azione sorprendente dello Spirito: non si evangelizza, se non si testimonia la novità del Vangelo; non si amano veramente gli altri, se non si ha il coraggio di essere anche diversi dagli altri, per amore loro e in obbedienza alle esigenze del Dio vivente. Cristo non è una dottrina che si lasci manipolare a misura dei nostri gusti e delle nostre attese, ma una Persona, il Vivente che viene a noi e ci chiama a seguirLo. La riduzione spiritualista, 5 invece, consiste in quella forma di evasione dalla storia, per la quale si assolutizza talmente la novità del dono "già" ricevuto da perdere di vista la problematicità dei contesti e delle storie personali, cui esso va annunciato e mediato. Qui la cattolicità è impoverita, perché è ridotta a risposte già pronte, senza passare attraverso la mediazione necessaria dell'interpretazione, al tempo stesso fedele e creativa, richiesta dall'incontro con le culture e le persone reali e resa possibile dall'azione dello Spirito Santo. Lo spiritualismo disincarnato sa dire i "no" dell'esigenza evangelica, ma trascura spesso i "sì", anche umili e provvisori, di cui tutti abbiamo bisogno per vivere e per morire. Il Dio dell'evangelo non è così: egli non è il Dio delle esigenze impossibili, ma il Dio con noi, che "ha lavorato con mani d'uomo, ha pensato con mente d'uomo, ha agito con volontà d'uomo, ha amato con cuore d'uomo", e proprio così, "rivelando il mistero del Padre e del suo amore, ha svelato anche pienamente l'uomo all'uomo e gli ha fatto nota la sua altissima vocazione" (Concilio Vaticano II, Costituzione Gaudium et Spes, 22). Contro ogni evasione spiritualista è necessario che la Chiesa si faccia compagna di strada degli uomini, cui annuncia il Vangelo: l'uomo è via della Chiesa! La cattolicità del messaggio comporta anche inseparabilmente la cattolicità del destinatario dell’evangelizzazione: la buona novella è risuonata per tutti ed esige di raggiungere tutti; lo "splendore" della verità viene a mediarsi nella "kènosi" dei linguaggi e delle culture più diverse. "Andate e fate discepole tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato" (Mt 28,19s). È proprio nello slancio missionario, proteso a raggiungere tutto l'uomo in ogni uomo, che il Cristo garantisce la presenza della sua fedeltà al suo popolo: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (v.20). Egli è là, dove il testimone annuncia il suo mistero pasquale, dove la Chiesa lo rende presente e chiama alla sequela di Lui: la frontiera dell'evangelizzazione, perciò, non è la linea di demarcazione esteriormente riconoscibile fra spazio sacro e spazio profano, ma è anzitutto il luogo della decisione salvifica, il cuore umano, lì dove la totalità di un'esistenza raggiunta dallo Spirito Santo si decide per Cristo o si chiude a lui. In tal senso, si può dire anche che la Chiesa evangelizza, se continuamente si evangelizza, lasciandosi purificare e rinnovare dal giudizio della Parola di Dio e dal fuoco dello Spirito, nel concreto del suo cammino storico e delle prese di posizione, che le vengono richieste: così sta "sub Verbo Dei" e può celebrare fiduciosamente i divini misteri per la salvezza del mondo. La cattolicità della missione non è tuttavia ancora pienamente realizzata, se non si attua la contemporanea apertura all'ampiezza dei bisogni umani e della destinazione universale dell'evangelo: è qui che si pone l'esigenza imprescindibile per ogni battezzato, come per ogni Chiesa particolare e per la Chiesa universale, di impegnarsi affinché l'annuncio raggiunga veramente ogni persona umana e non vi sia spazio o dimensione di storia cui non pervenga il messaggio. Se il Signore non chiederà conto ai suoi discepoli dei salvati, perché la salvezza è un mistero di grazia e di libertà di cui nessuno può disporre dall'esterno, chiederà loro conto degli evangelizzati: in tal senso, una Chiesa senza urgenza e passione missionaria tradirebbe la propria cattolicità, sarebbe un campo di morti e non la comunità dei risorti nel Risorto. 3. Dialogo e proclamazione al servizio del Vangelo Lo slancio missionario al servizio dell’evangelizzazione implica l’incontro con altri mondi religiosi, presenti ormai anche nel cuore dei paesi di antica cristianità, come quelli europei a ragione dei flussi immigratori crescenti nelle ultime decadi del ‘900. Si impone così, in tutta la sua urgenza, la questione del rapporto fra l’evangelizzazione e il dialogo interreligioso. Una presenza del Regno di Dio - di cui la Chiesa è sacramento - anche al di là della visibilità della Chiesa stessa, non può in alcun modo essere negata: il disegno salvifico universale del Padre, la singolarità del Cristo Redentore, l’azione dello Spirito per renderLo presente a tutto l’uomo, in ogni uomo, lo dimostrano. Si comprende allora come non possa essere accettata una valutazione puramente 6 negativa dei mondi religiosi non cristiani, nella logica di un “esclusivismo” della salvezza, fondato sulla semplice identificazione di Chiesa e Regno. Peraltro, non si può - in direzione opposta ritenere ammissibile il pluralismo indiscriminato di alcune teologie delle religioni, che vanificano l’assolutezza del cristianesimo e ignorano le lacune e resistenze delle altre esperienze religiose. Fra questi orientamenti contrapposti, occorre proclamare la grazia e lo scandalo singolari della buona novella, riconoscendo al tempo stessa l’azione dello Spirito orientata alla luce del Verbo dovunque essa sia presente: “Quanto lo Spirito opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica e non può non avere riferimento a Cristo, Verbo fatto carne per l’azione dello Spirito” (Redemptoris Missio, 29). Un simile riconoscimento non vanifica in alcun modo il dovere missionario del discepolo di Cristo, lo motiva anzi ancora di più, perché è il criterio costituito dalla singolarità del Signore Gesù e del Suo Vangelo a consentire di discernere e apprezzare i valori contenuti nelle altre religioni (cf. quanto afferma la Dichiarazione Dominus Jesus al n. 8). “Anche se la Chiesa riconosce volentieri quanto c’è di vero e di santo nelle tradizioni religiose del buddismo, dell’induismo e dell’islam - riflessi di quella verità che illumina tutti gli uomini -, ciò non diminuisce il suo dovere e la sua determinazione a proclamare senza esitazioni Gesù Cristo, che è la via, la verità e la vita” (cf. Redemptoris Missio, 55). Perciò, il dialogo con le altre religioni “deve essere condotto e attuato con la convinzione che la Chiesa è la via ordinaria di salvezza e che solo essa possiede la pienezza dei mezzi di salvezza” (ib.). Né questo dialogo - in quanto congiunto al dovere della proclamazione della verità evangelica - è da ritenersi strumentale, poiché coniuga la fedeltà irrinunciabile all’identità del discepolo di Cristo al riconoscimento dei “semina Verbi” ovunque presenti, che proprio da quella fedeltà è reso possibile. Nel rapporto con le altre religioni è richiesto dunque sul piano pastorale un atteggiamento di apertura e di rispetto, nella consapevolezza che Cristo non può essere imposto a nessuno, ma soltanto proposto e incontrato nello scandalo, nella libertà e nell’audacia di una decisione vissuta nello Spirito. In questa luce, ogni mondo diverso dal cristiano va accostato dai cristiani nella sua dignità e consistenza, che non può essere vanificata da alcuna interpretazione ideologica dell’assolutezza del cristianesimo. In particolare, il rapporto con la fede d’Israele, radice santa della Chiesa come afferma l’Apostolo Paolo (cf. Rm 11,16 e 18) è di decisiva importanza: secondo una bellissima intuizione patristica, questo rapporto è espresso dalla figura degli esploratori inviati nella terra di Canaan (cf. Num 13,23), che tornano portando un'asta da cui pende un grappolo d'uva della Terra Promessa. In quell’asta i Padri hanno visto il legno della Croce, da cui pende la vite che è Cristo, presente specialmente nell’eucaristia (cf. Evagrio, Altercatio inter Theophilum et Simonem: PL 20,1175). Nei due portatori, uniti e separati dal legno, sono visti Israele e la Chiesa (ib.: stesse idee in S. Massimo di Torino nella metà del V sec.: Hom. 79: PL 57,423s). In quanto i due marciano l'uno dietro l'altro, chi precede vede solo davanti a sé, ed è perciò figura d'Israele, popolo della speranza e dell'attesa; chi viene dietro vede, invece, colui che gli sta davanti e l'orizzonte da questi abbracciato attraverso il grappolo appeso al legno ed è perciò figura della Chiesa, che ha in Cristo crocefisso la chiave di lettura anche dell'antico Israele e della promessa fatta ai padri. Col mostrare la differenza, l'immagine afferma non meno la continuità che esiste fra i due popoli, non solo per il legame dell'unica asta che entrambi gli esploratori sostengono, ma anche per lo sguardo da essi rivolto alla medesima meta e l’ “osanna” che entrambi cantano per esprimere il giubilo del desiderio di Dio. Uniti nel canto della speranza e dell'attesa, Israele e la Chiesa avanzano insieme, distinti e congiunti al tempo stesso dalla Croce di Cristo: nessuna confusione deve esserci fra essi, nessuna sostituzione dell’una all’altro, ma una riconciliazione in cammino che si realizzerà secondo il disegno di Dio a tempo opportuno, prima per alcuni, quale segno e profezia del compimento, poi, nella fase escatologica, per tutti. L’atteggiamento di rispetto dovrà estendersi a tutti i mondi religiosi diversi dal cristianesimo: esso non esimerà, tuttavia, il cristiano dal vivere la novità della sua fede in maniera piena e totalizzante. La missione cristiana non sta nell’esportare una visione tranquillizzante del mondo e della vita, ma nel trasmettere, per contagio e trasparenza, nello scandalo e nella libertà 7 della fede, l’esperienza dell’incontro vivo e trasformante col Signore Gesù. Così si presentò originariamente l’inizio del movimento cristiano; così deve offrirsi anche oggi l’appello che la fede rivolge ad ogni uomo che voglia aprirsi ad essa nella libertà. Su questo stile di dialogo ed insieme di proclamazione si gioca l’autenticità della presenza dei cristiani nelle più diverse situazioni storiche e il loro contributo alla causa dell’incontro fra i popoli, le culture e le religioni (Cf. il documento Dialogo e proclamazione, pubblicato nel maggio 1991 congiuntamente dal Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli). Solo in questa duplice e unica fedeltà - al dono della rivelazione divina in Gesù e al sacrario delle coscienze e della loro libertà - la Chiesa potrà porsi al servizio della crescita della qualità della vita per tutti, nella giustizia e nella verità, secondo l’universale disegno di Dio. Una conclusione aperta... Da questa riflessione sulla missione evangelizzatrice di tutta la Chiesa nel suo pellegrinaggio verso la gloria della Trinità, nascono per ogni discepolo del Signore Gesù alcune domande, volte ad aiutare il discernimento personale e comunitario: vivo senza risparmio il mio impegno al servizio della missione confidata da Cristo al suo popolo? Lo vivo in comunione responsabile con tutti nella comunione articolata della Chiesa dell'amore? annuncio tutto il Vangelo, senza cedere a riduzioni secolarizzanti o a spiritualismi evasivi? Mi sforzo di raggiungere tutto l'uomo in ognuna delle creature cui sono inviato in forza del dono ricevuto e del ministero che mi è affidato? Cerco di vivere in costante rinnovamento sotto il soffio dello Spirito, sostenendo il continuo rinnovamento di tutta la Chiesa? Vigilo di fronte al rischio sempre possibile di lasciarmi sedurre dalle misure del potere o della grandezza di questo mondo? Cerco e testimonio al di sopra di tutto la gioia e la pace di chi si riconosce pellegrino verso la patria e ad essa tende nel conforto dello Spirito e della comunione fraterna della Chiesa? Nella Chiesa tutta intera impegnata nell’azione evangelizzatrice il mistero divino di rivelazione e di nascondimento continua a farsi presente. È perciò nella fede e nella preghiera che esso va riconosciuto, invocato, accolto, chiedendo al Signore di avere in noi i fiumi d'acqua viva sgorganti dal Suo fianco, segno e frutto della nostra partecipazione viva e profonda alla comunione della Sposa, icona della Trinità... 8