La comunicazione di massa La comunicazione di massa è un

La comunicazione di massa
La comunicazione di massa è un processo di comunicazione particolare che fa uso
di mezzi tecnici atti a diffondere con rapidità ed efficacia una serie di messaggi da
un emittente verso un pubblico relativamente indifferenziato (massa). Si tratta,
quindi, di una forma di comunicazione che va da uno a molti (per questo motivo
si parla di processo di comunicazione monodirezionale o unidirezionale) e che è
sempre mediata dalla tecnologia. La comunicazione di massa può avvenire,
infatti, attraverso l’etere, come nella televisione, lungo il cavo, come sempre nella
televisione, oppure attraverso copie di giornali, copie di libri, copie di dischi, e
così via. Aspetto centrale del processo di comunicazione di massa è l’impossibilità
di rispondere sullo stesso canale in tempo reale, cioè nello stesso tempo in cui
avviene la trasmissione, e con lo stesso potere di chi trasmette. Per superare
questo limite, spesso gli emittenti attuano dei tentativi per garantire ai riceventi
una possibilità di risposta (per es. con telefonate in diretta nelle trasmissioni
televisive o radiofoniche o con le tradizionali lettere ai giornali) ma si tratta pur
sempre di forme di interattività in qualche modo manipolate.
1. LA TEORIA IPODERMICA (1920-1940)
La prima reazione al fenomeno comunicazione di massa si ha negli Stati Uniti tra
gli anni Venti e Trenta, periodo nel quale prevale una considerazione dei media di
massa che oggi definiremo apocalittica. La teoria ipodermica, che si afferma
nell’intervallo tra le due guerre mondiali, è ben sintetizzata nell’affermazione del
sociologo americano C. R. Wright (1975, Mass Communication: A Sociologi-cal
Approach, Random House, N.Y.) secondo la quale “ogni membro del pubblico è
personalmente e direttamente attaccato dal messaggio”. .
Il modello ipodermico non sfocia in una vera e propria teoria fondata su ricerche
scientifiche; esso si fonda su una “sensazione” nei confronti della comunicazione
di massa motivata anche dalla coincidenza tra la diffusione dei media elettrici su
larga scala (in particolare della radio) e l’affermazione dei regimi totalitari. Il
modello ipodermico propone, infatti, una valutazione globale del fenomeno
comu-nicazione di massa, manifestando una certa indifferenza alla diversità dei
vari mezzi e facendo coincidere la teoria della comunicazione con una teoria della
propaganda. L’analisi sul ruolo e gli effetti dei media di massa è accompagnata da
riflessioni critiche sulla società di massa dalle quali emerge una valutazione
sostanzialmente negativa dell’influenza dei media sul pubblico nel suo insieme e
sul sin-golo individuo.
Il concetto di società di massa ha origini nel pensiero politico ottocentesco di
stampo conservatore che considera la società di massa come il prodotto del
processo di industrializzazione che impone la graduale perdita di esclusiva da
parte delle élites. Il processo di industrializzazione, con la fuga verso i centri
industrializzati, ha comportato anche la perdita dei legami sociali preesistenti,
conducendo le masse ad una condizione di isolamento e di alienazione. La massa
è un aggregato omogeneo di individui senza identità, senza autocoscienza senza
regole né tradizioni che non si conoscono e che hanno scarse possibilità di
interagire tra loro. Essa è inorganica, amorfa, non autonoma e incompetente. Gli
individui-massa sono isolati, distaccati, atomizzati.
La teoria ipodermica guarda all’individuo come atomo isolato, il cui
comportamento è determinato di-rettamente dalle suggestioni provenienti dai
mass media. L’individuo è, in altri termini, considerato come una tabula rasa su
cui i media sono liberi di agire senza resistenze alcune. La diffusione di un
messaggio identico ad una grande quantità di persone in modo indifferenziato
comporta, secondo i primi teorici della comunicazione di massa, degli effetti
persuasivi altrettanto indifferenziati. dei comportamenti (anch’essi osservabili e
misurabili).
2. IL MODELLO DI LASSWELL (1948)
Il modello di Lasswell, elaborato fin dagli anni Trenta e riproposto nel 1948,
rappresenta la sistema-zione organica e, allo stesso tempo, fornisce una
premessa per il superamento della teoria ipodermica. Per Lasswell, ogni atto di
comunicazione implica la risposta alle seguenti domande:
chi (emittenti)
dice cosa (contenuto dei messaggi)
attraverso quale canale (mezzo di comunicazione)
a chi (audience, pubblico)
con quale effetto (effetti della comunicazione)
Ad ognuna di queste domande corrisponde uno specifico settore di ricerca nel
campo della comunica-zione di massa: l’analisi gli emittenti (control analysis), del
contenuto dei messaggi (content analysis), dei mezzi tecnici (media analysis), del
pubblico (audience analysis), degli effetti della comunicazione (effect analysis).
Per Lasswell, la caratteristica saliente della comunicazione di massa è
l’asimmetria dei ruoli: l’iniziativa della comunicazione è sempre dell’emittente,
che riveste, dunque, un ruolo attivo, mentre gli effetti si ripercuotono sulla massa
passiva che, colpita dal messaggio, reagisce comportandosi in modo conforme
alla volontà del comunicatore. Inoltre, ogni atto comunicativo è intenzionalmente
mirato a produrre degli effetti, per cui la communication research deve
concentrarsi sull’analisi del contenuto dei messaggi (analisi del contenuto) per
misurare gli effetti dei media sul pubblico (analisi degli effetti). L’analisi degli
effetti privilegia quelli più agevolmente misurabili, quali il cambiamento di
opinione, i comportamenti manifesti, gli atteggiamenti indotti dai media. Nel
modello di Lasswell non si fa riferimento al contesto comunicativo: come la teoria
ipodermica, anche questo modello sot-tende una concezione della società di
massa come un aggregato di individui atomizzati. Non si considerano, quindi, le
relazioni interpersonali, l’appartenenza degli individui a gruppi sociali, ecc.
Nonostante questi limiti, nel modello di Lasswell già si pone la premessa per il
superamento del modello ipodermico. La misurazione degli effetti della
comunicazione di massa porta alla conclusione che essi non sono diretti ma
mediati, influenzati, cioè, da una serie variabili. Emerge lentamente la necessità
di selezionare e differenziare il pubblico per ottenere gli effetti desiderati (ad
esempio, nella pubblicità commerciale), necessità che porta gradualmente al
superamento del concetto di massa e alla revisione del modello comportamentista
S → R.
3. LA TEORIA DEGLI EFFETTI LIMITATI: L’APPROCCIO EMPIRICO PSICOLOGICO
L’approccio empirico-psicologico rappresenta il passo decisivo verso il
superamento del modello ipo-dermico e il rifiuto del modello della comunicazione
della psicologia comportamentista. Il processo di comunicazione non è più inteso
come un rapporto di tipo meccanico, per cui ad un messaggio (causa) segue
necessariamente una certa risposta (effetto), ma come un processo complesso
determinato da una serie di variabili che non dipendono solo dall’emittente
(Hovland, 1948). In sintesi, secondo un modello cognitivista del processo di
comunicazione, tra lo stimolo e la risposta bisogna inserire i pro-cessi psicologici
(o variabili intervenienti) del soggetto che riceve il messaggio:
L’approccio empirico-sperimentale studia gli effetti dei media in situazioni di
“campagna” (elettorale o pubblicitaria), per questo motivo le ricerche condotte in
questo ambito sono prevalentemente di tipo amministrativo. Si tratta, inoltre, di
ricerche volte a produrre dati utili per potenziare gli effetti dei me-dia attraverso
l’analisi dei fattori psicologici dell’audience. Tra i fattori relativi all’audience sono
particolarmente importanti:
→ Il grado di interesse
→ L’esposizione selettiva
→ L’attenzione selettiva
→ La percezione selettiva
→ La memorizzazione selettiva
Le teorie degli effetti limitati, contrariamente alla teoria ipodermica, si fondano
sull’idea che l’individuo che si espone ad un messaggio mediatico non è una
tabula rasa. La ricezione del messag-gio è, dunque, influenzata da fattori quali le
attitudini, i valori, le relazioni sociali, ecc. Anche la per-cezione è selettiva nel
senso che il destinatario non è indifeso nei confronti del messaggio ma lo
inter-preta, confermandosi come soggetto attivo dello scambio comunicativo. A
causa di queste variabili difficilmente prevedibili e controllabili, il contenuto di un
messaggio può essere interpretato anche in modo radicalmente difforme rispetto
all’intenzione del comunicatore. Altri esempi di distorsione del contenuto del
messaggio rispetto alle reali intenzione dell’emittente sono l’effetto di
assimilazione (il messaggio viene percepito come più prossimo alle proprie
opinioni di quanto realmente sia) e l’effetto di contrasto (la distanza tra la propria
opinione e il contenuto del messaggio viene percepita come più radicale di quanto
realmente sia). Non tutti i messaggi, infine, sono memorizza-ti. Di solito sono
ricordati più facilmente i messaggi dal contenuto più prossimo alla cultura, alle
a-spettative, alle attitudini del soggetto esposto ) e rimossi quelli più difformi.
Occorre, infine, tenere conto anche del cosiddetto effetto latente (o sleeper
effect): l’efficacia persuasoria del messaggio si può manifestare anche dopo un
certo lasso di tempo dall’esposizione.
Oltre ai fattori relativi all’audience, l’approccio empirico-sperimentale ha anche
analizzato i fattori relativi al messaggio, tra i quali rientrano:
→ La credibilità della fonte
→ L’ordine degli argomenti
→ La completezza degli argomenti
→ L’esplicitazione delle conclusioni
-----------------L’ARTE EFFIMERA DELLA PUBBLICITA’
Ci diverte, ci fa sognare, a volte ci irrita. E’ bella, è volgare. Ma più di ogni altra
cosa è dappertutto. Ha investito i muri delle nostre città, le pagine dei giornali, le
sale deicinema. E’ entrata nelle nostre case, la troviamo nella cassetta delle
lettere, alla fermata dell’autobus. Fa parte della nostra vita e della nostra storia,
ha marcato lanostra epoca.
Non c’è disciplina che non si sia confrontata con l’universo della pubblicità.
Lasemiologia affronta la storia della comunicazione pubblicitaria nell’ipotesi
generale che essa abbia rappresentato e rappresenti tuttora uno straordinario
laboratorio diproduzione di discorsi e di linguaggi. La sociologia ne prende in
considerazione larilevanza nella creazione della realtà sociale e nella formazione
dell’identità nazionale,perché in grado di definire risorse cognitive e culturali
utilizzate dagli individui.
L’economia pensa al fenomeno pubblicitario come fattore determinante nella
crescita del mercato e degli investimenti nel mondo della comunicazione.
Sono tante le campagne entrate nel costume e nella cultura popolare, qualunque
luogo geografico o periodo storico si prenda in considerazione. La pubblicità la
siodia o la sia ama, tanto per fare il verso all’ultimo claim di successo della
Superga.
Mai come oggi sembrano saltati i criteri di giudizio unitari, la percezione condivisa
che una cosa è bella o brutta, giusta o ingiusta, utile o dannosa. C’è chi continua
a sostenere che la pubblicità non serve, ma quando la Grecia ha deciso di bandire
la promozione di giocattoli nelle fasce a rischio per tutelare i bambini, il risultato è
stato un crollo delle vendite del 40%, che ha costretto l’Unione Europea a imporre
il ritiro del divieto. Nel 1896 un articolo della rivista Printer’s Ink chiudeva con
queste profetiche parole:
“forse, quando l’umanità sarà un po’ più illuminata, lo scrittore di testi pubblicitari
si metterà, come l’insegnante, a studiare psicologia”. Forse non possiamo
affermare con sicurezza che oggi l’umanità sia più illuminata di un secolo fa, ma è
un dato di fatto che il pubblicitario si è messo a studiare psicologia, e di questa si
è servita per comunicare e arrivare al consumatore.
Oggi la pubblicità non ha più bisogno di essere legittimata come forma di
comunicazione. Nessuno pensa più che sia composta da un manipolo di
persuasori occulti, il cui unico scopo è quello di ingannare la gente. Certo, a volte
il sua carattere intrinsecamente intrusivo può infastidire, ma capita anche che
l’interruzione pubblicitaria sia più interessante ed esteticamente rilevante del
programma, e che gli spot radiofonici facciano sorridere di più delle trasmissioni
entro le quali sono inseriti. Perché succede? Perché la pubblicità fa uso di tecniche
che un tempo erano patrimonio esclusivo del mondo artistico, e la sua
abbondante offerta vive in nome di un forte principio: lo straniamento. La
consuetudine ci vieta di vedere, di sentire gli oggetti; bisogna in qualche modo
deformarli se si vuole che possano catturare ancora la nostra attenzione. E il fine
del linguaggio creativo dell’arte, della comunicazione in generale e della
comunicazione pubblicitaria sta proprio in questo: sconfiggere l’abitudine.
Sorprendendo.
La spettacolarizzazione della pubblicità è innocente perché dichiarata, talmente
dichiarata che i suoi adepti possono ironizzarci sopra: “sono un pubblicitario,
inquino l’universo. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la
gente felice non consuma (…) farvi sbavare è la mia missione” (F.Beigbeder
“£29.500”). Come metafora della nostra vita costruisce e decostruisce
l’immaginario collettivo attraverso una comunicazione persuasiva intrinsecamente
scenografica.
In queste pagine l’intenzione è di ripercorrere la storia della pubblicità e
contemporaneamente considerarla un osservatorio privilegiato per cogliere
andamenti culturali e sociali più complessivi. Perché? Perchè viviamo in un mondo
in cui la pubblicità non è l’ultima a provocare emozioni e frustrazioni, a farci
trasportare dall’immaginazione. E come ha sottolineato Mc Luhan “gli storici e gli
archeologi scopriranno un giorno che gli annunci pubblicitari della nostra epoca
costituiscono il riflesso quotidiano più ricco e più fedele che una società possa mai
dare tra tutta la sua gamma di attività” (in “Gli strumenti del comunicare”).
La dialettica tra la dimensione storico-sociale e quella tecnica ha consentito di
identificare, con alcune forzature, quattro epoche fondamentali nell' evoluzione
della Pubblicità.
1. dall’Ottocento fino agli anni’30; si riferisce all’avvento della così detta
“società dei consumi”, ovvero al momento in cui la nascente “società di massa”
incontra la tecnica pubblicitaria; se all’inizio fu l’ingegno dei grandi cartellonisti a
dominare la scena, nei primi anni del 900 si comincia a diffondere un uso più
consapevole e scientifico di questa tecnica di comunicazione.
2. dal 1930 al 1950; durante gli anni ’30, gli Stati Uniti prima e l’ Europa poi,
entrano nell’ in quella che si può definire l’ “età del progresso”: il dopoguerra e la
crisi di Wall Street risulteranno determinanti per l’avvento del marketing
moderno.
3. dal 1950 agli anni ’80; il terzo grande cambiamento nello scenario sociale ed
economico vede entrare in scena un nuovo determinante attore, la televisione. E
per la prima volta la pubblicità dovrà imparare a difendersi dal pubblico oltre che
a conquistarlo.
4. dagli anni ’90 ai giorni nostri; la quarta epoca comincia negli anni ’90, con
l’avvento delle nuove tecnologie informatiche e prosegue tra critiche e lodi fino ai
giorni nostri.
L’ORIGINE DEL TERMINE
Le definizioni tecniche di ciò che oggi il marketing e le moderne teorie della
comunicazione fanno rientrare sotto il concetto di pubblicità sono innumerevoli.
Al contrario ben poco è stato scritto sulla nascita stessa del termine.
La parola “pubblicità” assume sfumature di significato diverse in italiano, inglese e
francese nel momento in cui si va a ricercare l’etimologia della parola e delle
rispettive traduzioni nei termini della comune lingua madre, il latino.
I motivi di queste differenze? Sono rintracciabili nei diversi modi in cui gli
operatori culturali ed economici dei Paesi presi in considerazione reagirono
all’avvento della comunicazione pubblicitaria.
Il termine francese réclame (richiamo)è il primo di cui si abbia testimonianza.
Esso trova le sue radici in clamare e mette in evidenza l’aspetto di richiamo ad
un’azione insito nel messaggio. E infatti il neologismo nasce per definire “un
piccolo articolo inserito dentro il corpo di un giornale, contenente l’elogio di un
libro, di un oggetto d’arte o di un prodotto” su cui appunto il lettore doveva
orientare la sua attenzione.
Viceversa il corrispondente inglese advertising (da to advertise: avvertire) deriva
dalla parola latina advertoe pertanto privilegia il processo di natura commerciale
finalizzato al raggiungimento del destinatario del messaggio. Il motivo è che il
pensiero che si sviluppò nei paesi anglosassoni si concentrò sugli aspetti
microeconomici e operativi della promozione commerciale, e del suo impatto sui
mercati e sui prodotti.
Infine il termine pubblicità in italiano deriva da publico, ed assume quindi il
semplice significato di rendere noto ciò che prima non lo era. Questo perché i
primi studiosi furono giuristi e storici dell’arte, che inquadrarono la pubblicità
come fenomeno culturale più che economico. Sarà proprio un giurisperito,
Eugenio Borsanti, nel 1899, che riflettendo sulla funzione dell’allora “richiamo”
(molto vicino all’inglese advertising), arriverà a coniare il termine che ancora oggi
usiamo, in linea con l’attività di diffusione di un atto o di una sentenza presso il
pubblico.
MA QUANDO E’ NATA LA PUBBLICITA’?
Gianluigi Falabrino ironicamente ha detto: “la pubblicità è vecchia come il mondo:
cominciò il serpente a decantare ad Eva le virtù della mela” (“Pubblicità serva e
padrona”).
Lo stesso Umberto Eco si è fatto tentare dall’ipotesi che il peccato originale sia da
attribuire “allo spot pubblicitario, senza il quale Eva non avrebbe convinto Adamo
a mangiare una mela, quando aveva kiwi, caviale e pernici a disposizione”. Ad
ogni modo i suoi primordi si possono rintracciare sin dall’antichità: cos’altro erano
le monete coniate con l’immagine dell’imperatore se non una prima forma di
promozione d’immagine dello stesso?
Nell’antica Grecia filosofi come Socrate e Aristotele, analizzando l’arte
dell’oratoria, notarono la sua capacità di persuasione, la sua influenza sugli animi.
La stessa mitologia nascondeva un insito primordio di pubblicità: lo spettatore,
ascoltando le narrazioni, finiva con l’immedesimarsi nei protagonisti e a viverne
gli eventi. Cicerone, nella vita politica, seppe ponderare ogni intervento a suo
favore, ammansendo con la ars dicendi gli avversari fino ad ottenere un accordo o
il loro tacito consenso. Già da tempo inoltre in politica esistevano vere campagne
elettorali (si servivano di comizi e slogan disseminati un po’ ovunque su mura e
pietre) e i grandi imperi diffondevano il proprio potere e la propria influenza
sponsorizzando opere di pubblica utilità e monumenti.
Oggi sono cambiati i modi e i mezzi di fare pubblicità, ma le fondamenta che la
comunicazione pubblicitaria ha cominciato a mettere in atto duemila anni fa non
sono poi così totalmente superate, come ci dimostra questo esempio: “Era in
gioco la sopravvivenza di una grande multinazionale. Il problema era
apparentemente insormontabile: il prodotto in questione, distribuito un po’
dovunque, era oggetto di dispute, perché il pubblico, giunto sul punto di vendita
non lo trovava. L’alone di sfiducia nei confronti della multinazionale cresceva a
dismisura e la prospettiva che si apriva era (un po’ come sta accadendo oggi) la
creazione di mercati paralleli con prodotti a “bassa performance”, se non
addirittura la distruzione del mercato. Nella soluzione di questo grave problema
volle cimentarsi un giovane copy-writer. La tecnica utilizzata fu sorprendente.
Non potendo fare una campagna pubblicitaria perché il prodotto esisteva
praticamente
da sempre, cambiò strategia. Definì il prodotto “perfetto” in quanto basato sulla
“qualità totale”, mentre gli altri prodotti da questo derivati potevano definirsi solo
“parzialmente perfetti”. La gente si accontentò di queste spiegazioni e continuò a
credere nell’esistenza del prodotto pur non avendolo mai visto. Il risultato? Da
allora ad oggi la multinazionale non ha mai più perso quote di mercato. Chi era il
copy-writer? Tommaso d’Aquino. Il cliente? La Chiesa Cattolica. E quale diavolo
poteva essere il prodotto? Ma Dio, naturalmente!”
dall’Ottocento al 1930: LA SOCIETA’ DEI CONSUMI
La prima epoca vede nascere la pubblicità nel senso contemporaneo del termine;
i
protagonisti del periodo sono gli “autori pubblicitari” (artisti e letterati) che
affiancarono le nascenti organizzazioni produttive nella pubblicizzazione e
diffusione delle merci.
DA GUTENBERG ALLA RADIO, PASSANDO PER LA RIVOLUZIONE
INDUSTRIALE
Possiamo restringere il nostro campo individuando gli albori della pubblicità nel
momento in cui nasce la carta stampata.
· Prima della rivoluzione apportata da Gutenberg, la funzione di pubblicizzare
merci ed eventi era svolta essenzialmente dalla comunicazione orale (banditori,
imbonitori e strilloni)
· Il primo annuncio pubblicitario a mezzo stampa di cui si abbia traccia risale al
1479 e viene fatto dall’editore inglese W.Caxton per promuovere i propri libri.
William Craxton Théophraste Renaudot
· Si deve però attendere il 1631 per assistere alla nascita di un vero e proprio
servizio pubblicitario: l’idea è del parigino Théophraste Renaudot che apre un
ufficio e fonda la Gazette Hebdomadaire per raccogliere e pubblicare annunci
pubblicitari a pagamento.
· L’esempio viene seguito vent’anni dopo in Inghilterra, dove esce, con finalità
analoghe, il Mercurius Politicus. Da allora i fogli contenenti le inserzioni
pubblicitarie si sono diffuse in tutto il mondo, andando di pari passo con la
produzione massificata di merci industriali e lo sviluppo delle attività artigianali.
· Sarà però, solo nel 1836, Emile de Girardin , editore di “La Presse” il primo ad
intuire che l’apporto sistematico degli introiti pubblicitari può consentire la
parziale copertura dei costi e la riduzione del prezzo di vendita. In nome del
principio “C’est aux annonces de payer le journal”(è compito degli annunci
pubblicitari pagare i giornali”).
I meriti storici di questi pionieri della comunicazione pubblicitaria e il loro
contributo alla modernizzazione della nascente classe borghese sono indiscutibili.
Bisogna comunque ricordare che trovavano un grosso limite nella loro dimensione
artigianale e nel fatto che raggiungevano un’audience strettamente limitata.
Per questo si può affermare che la pubblicità come la intendiamo noi oggi nasce
con la rivoluzione industriale, nasce con l’aumento della produzione, della varietà
dei prodotti e della concorrenza fra imprenditori. Le ragioni si possono rintracciare
parallelamente a livello sociologico e tecnico.
La pubblicità cerca il suo pubblico
I principi primi della comunicazione pubblicitaria trovano, infatti, le fondamenta
del loro sviluppo in concomitanza e in funzione di quel concetto chiave che è la
massa.
Gli autori e i filosofi hanno dato definizioni molteplici di questo concetto, ma
rimane per tutti il dato storico della sua nascita: la grande transizione
socioculturale del mondo occidentale tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800. Il
modello del consumismo e della conseguente comunicazione di massa si
sviluppano quando l’individuo comincia ad esprimere la propria libertà, al di là
della sfera politica produttiva e religiosa e trova nell’area del consumo il
soddisfacimento dei piaceri e bisogni personali. Ma al tempo stesso questi erano
globalizzati, perché trasmessi dai mezzi di comunicazione ormai accessibili a tutti.
Il manifesto: prove tecniche della comunicazione di massa
Per raggiungere un pubblico ampio ci voleva però un mezzo universale, generato
contemporaneamente al fenomeno dell’inurbamento del periodo: erano
necessarie la litografia e la fotoincisione. Avvisi e fotografie divennero
interscambiabili, e resero possibili i grandi aumenti di tiratura dei giornali e delle
riviste, che fecero a loro volta aumentare quantità e redditività delle inserzioni.
E’ la seconda metà del 1800 a vedere la nascita di due importanti canali di
comunicazione (l’affissione e i primordi del packaging) e l’evoluzione delle prime
regie pubblicitarie.
· Se per oltre la metà del XIX secolo i prodotti alimentari e di uso domestico a
largo consumo venivano venduti a peso prelevandoli da ampi recipienti, nel1880 i
produttori americani introdussero sul mercato prodotti confezioni in pacchetti e
con un proprio marchio, ampliando così il campo di visibilità dello stesso.
· I manifesti, attraverso l’uso del colore e di una superficie più ampia permettono
agli illustratori e agli artisti più affermati di realizzare dei capolavori. Nel 1866
Jules Cheret disegna la prima affiche per il profumiere Rimmel, seguito da
Toulouse-Lautrec e Edouard Manet.
La body copy del tempo seguiva la logica di un modello comunicativo di tipo
“informativo”: non si prescinderà mai non solo dalle funzioni d’uso del prodotto,
ma anche dall’origine industriale del produttore.
In questo stesso periodo (siamo alla fine dell’Ottocento) prendono vita i primi
dibattiti sulla rivalutazione delle arti applicate e si considera il riscatto sociale
dell’artigiano e dell’operaio, diventati soggetti attivi e consapevoli della
rifondazione del gusto. E il valore sociologico del manifesto sta proprio nelle sue
ambizioni universali di persuasione. Nei lavori di Cheret si legge una celebrazione
del progresso della moderna società industriale, che può e deve dimostrarsi
raggiungibile anche dall’ultimo dei passanti.
Walter Benjamin, osservatore partecipante e sedotto dell’avvento della pubblicità
e dell’estetica delle merci, coglierà proprio nell’affissione “quell’inno alla serialità
che sancisce il passaggio definitivo dalla tradizione borghese alla cultura di
massa, quella scintillante e sapiente democratizzazione delle aspirazioni che con
le proprie implicazioni persuasive aprirà il più importante e attuale dibattito
sociologico nel mondo contemporaneo”.
L’onda del cambiamento: agenzie, consumi e tecnologia · Nascono negli Stati
Uniti le prime forme moderne di agenzie di pubblicità: Volney Palmer nel 1840
apre una semplice concessionaria, che acquistava in blocco spazi pubblicitari sui
maggiori quotidiani per rivenderli ai suoi clienti.
Dal 1860 le concessionarie iniziano ad offrire, per favorire l’acquisto degli spazi,
anche la creazione del testo, l’impaginazione dell’annuncio e le illustrazioni.
All’inizio del ventesimo secolo le agenzie possiedono già una struttura ben
precisa, con regole e ruoli che si vanno definendo sempre più distintamente.
Il motivo per cui gli Stati Uniti sono il terreno più fertile per l’evoluzione delle
agenzie di pubblicità si deve ricercare nelle veloci trasformazioni economiche che
avvengono nel paese. E’ qui che si sviluppa la prima serie di concentrazioni
aziendali che la storia ricordi, e insieme ad esse i primi problemi di comunicazione
aziendale. Gli addetti delle agenzie furono impegnati, almeno fino ai primissimi
anni del 1900, nell’organizzazione della Corporate aziendale: prendono forma così
i primi studi del marchio e dell’immagine di un’azienda.
Dalla Belle Epoque dell’800 fino ai ruggenti anni ’20 si era diffusa la convinzione
che si fosse ormai entrati in un’età di costante e automatico aumento della
prosperità generale, determinata dai miracoli della libera impresa. Il consumo
viene identificato non più come un’aspirazione individuale, bensì come “uno
strumento di relazione e di comunicazione attraverso il quale gli uomini si
sforzano di rendere visibile il loro livello di vita e assicurarsi una posizione di
vantaggio nel contesto sociale in cui vivono”.
E se durante il ‘900 storia ed economia seguiranno lo sviluppo imprevedibile della
tecnologia, con l’avvento di cinema e radio il loisir si trasforma in una cultura
universale di realizzazione.
· Nel 1904, a Parigi, fece scalpore la proiezione del primo film pubblicitario. Fu
realizzato per lo champagne Moet et Chandon dai fratelli Lumiere, gli inventori del
cinematografo. E’il caso di dire che il primo spot della storia fu spumeggiante?
· Nell’agosto del 1922 una stazione della AT&T trasmise il primo comunicato
commerciale all’interno di un programma radiofonico per un’immobiliare
newyorkese. La durata dell’annuncio? 10 minuti!
Il cinema trasferì sugli schermi lo schema della vita americana “come
un’inserzione pubblicitaria ininterrotta” , ed insieme allo star - system, contribuì
ad ampliare l’immaginario collettivo e i suoi traguardi di consumo. E
l’immaterialità del testo radiofonico non impediva allo stesso di manifestarsi con
forza ed evidenza attraverso una voce fuori campo che guidava la conversazione
verso l’audience.
· Negli anni ’30 l’idea “stappa e versa” basata sul principio della collaborazione del
consumatore e della coscienza dell’illusione pubblicitaria farà decuplicare le
vendite di una bibita. Quale? La Coca-cola.
Con cinema e radio inoltre la pubblicità si espresse in forma di canzoni, con
l’intento di imprimere più facilmente nell’ascoltatore marche e prodotti: tecnica in
uso ancora ai giorni nostri.
Qualche anno fa Marshal Mc Luhan disse: “allevata a suon di canzoncine
pubblicitarie la moderna Cappuccetto Rosso non ha nulla in contrario a farsi
mangiare dal lupo”.
Nel frattempo il mondo dell’industria e del commercio cominciano a credere
sempre di più nella pubblicità: c’è quindi la necessità di affidare i primi budget
importanti a dei veri professionisti della comunicazione, che devono seguire certi
schemi, e non basarsi sull’improvvisazione.
· Negli Stati Uniti nascono riviste specializzate, come Printers’Ink, e
contemporaneamente escono i primi manuali di tecnica pubblicitaria: “The Theory
of Advertising” di William Scott (1903) e “Modern Advertising” di Mark Golden
(1905). Nel 1925 Daniel Stach pubblica un trattato in cui vengono fissate le
cinque regole fondamentali di ogni messaggio pubblicitario: esso deve essere
visto, letto, creduto, ricordato e spingere il consumatore all’acquisto.
· Nel 1915 T. Mac Manus crea il claim per la Cadillac “The penalty of leadership”.
L’immagine di un lettore modello, assolutamente fiducioso nei progressi
dell’industria, portò a produrre l’archetipo dell’annuncio descrittivo, non
descrivendo nessun prodotto e nessuna azienda. Ma si stabilisce per la prima
volta un modello di “conversazione testuale” con il lettore.
dal 1930 al 1950 : L’ETA’ DEL PROGRESSO
La seconda epoca è caratterizzata dalla nascita del marketing in senso moderno. I
mercati si sono allargati, e così pure i pubblici di riferimento: il problema non è
più solo quello di farsi conoscere, diventa indispensabile battere la concorrenza,
imporre il proprio marchio e invogliare all’acquisto di prodotti nuovi, mai offerti
prima sul mercato.
Crollo di Wall Street e nascita della tv: due date da ricordare
La rivoluzione industriale e le sue conseguenze sugli aspetti economici e sociali di
tutto il mondo continuava ancora alla vigilia degli anni ’30. Non era riuscito a
fermarla nemmeno il più grande conflitto che l’uomo potesse ricordare, la prima
guerra mondiale. Poteva essere fermata solo da se stessa; e nel ’29 il mondo
deve affrontare la più grande crisi economica dell’epoca contemporanea. Le cause
furono innumerevoli e complesse e credo sia il caso di rivolgere l’attenzione solo
al mio ambito di interesse. L’incredibile crescita di produzione e produttività da
una parte, e il non proporzionale aumento del potere d’acquisto e dei redditi della
popolazione dall’altra, portarono ad una forte propensione al risparmio sia delle
imprese che dei consumatori.
Ed è questo il nemico che gli operatori della comunicazione pubblicitaria dovettero
affrontare. L’arma? Conoscere il consumatore per soddisfarne i bisogni o
addirittura crearglieli: questa è la filosofia del new-marketing degli anni ’30. Di
fatto il marketing esisteva già negli anni ’20, ma consisteva unicamente nel
supportare le vendite con attività pubblicitarie e promozionali, presupponendo che
qualsiasi prodotto avesse un mercato. Dopo la crisi del ’29 ci si rese conto che era
la domanda, e non più la capacità produttiva degli impianti, a dover dettare legge
sulle scelte commerciali della aziende. E i primi a capirlo furono proprio i
pubblicitari.
· M. Gallup, professore di economia a Princeton, nel 1935 fondò l’istituto di
ricerche quantitative di mercato che porta tuttora il suo nome. Egli inventò due
strumenti che sono attualmente i più diffusi: gli exit-pool per le elezioni politiche
e le ricerche multi-client per le aziende, che potevano così capire attraverso le
quote di mercato e la classificazione sociodemografica dei loro consumatori, il
proprio posizionamento rispetto alla concorrenza e agli spazi del mercato.
· Negli stessi anni l’agenzia Ted Bates inaugurò il Reaserch Lab: questo
laboratorio fu il prototipo degli oggi numerosi istituti specializzati in ricerche
qualitative. E’ qui che si misero a punto tutti quegli strumenti che servono a
scoprire i bisogni latenti dei consumatori, a verificare la qualità percepita di un
prodotto, e testare l’efficacia di una campagna prima della sua immissione nel
mercato (all’interno della sede era stato ricavato un piccolo cinema per mostrare
gli spot in anteprima a campioni di consumatori!).
In questo contesto la pubblicità doveva perdere quell’istinto creativo che l’aveva
accompagnata fino agli anni ’20. Le agenzie divennero fornitrici di "pubblicità e
marketing" e tutti i pubblicitari del periodo si caratterizzarono per una fiducia
incrollabile, e a volte cieca, nella ricerca. In questo senso dunque i progetti di
comunicazione delle campagne del periodo non lasciavano nulla al caso; erano
scientificamente costruiti per un enunciatario (modello scientifico): il consumatore
proiettato nell' annuncio.
· Negli anni ’40 Rosser Reeves, dopo aver fondato proprio il Research Department
di Ted Bates, introdusse in “Reality in advertising” uno dei pilastri della
comunicazione pubblicitaria: la Unique Selling Proposition, che mirava ad
evidenziare i benefici che il prodotto offriva al consumatore, e la sua esclusività
rispetto alla concorrenza. Promessa (cio che fa il prodotto), reason-why (perché
lo fa) e atmosfera (come/per-chi lo fa) sono le 3 componenti della famosa
copy-strategy seguita da tutte le campagne del periodo.
Una volta Henry Ford avrebbe detto “so bene che metà della mia spesa
pubblicitaria è inutile, solo che non so quale metà”. Rosser Reeves è il primo che
tenta di dare una risposta.
celebre slogan ideato da R. Reeves per la campagna elettorale di Eisenhower La
situazione europea. Durante quegli stessi anni non si generò nelle agenzie
europee quella classe di copy writer che fu motore dell’evoluzione del sistema
pubblicitario in America. Ci rimangono così della pubblicità europea negli anni ’30
e ’50 solo meravigliose testimonianze illustrate; manifesti che ancora non
chiedevano al pubblico alcuno sforzo di partecipazione e di scambio simbolico, ma
si limitavano ad enunciare nella maniera più spettacolare un testo.
· Nel 1935 Cassandre disegna il personaggio Necton per i vini Nicolas, con le
bottiglie al centro di un labirinto di vini in movimento che anticipa le ricerche della
Pop Art.
· Armando Testa, con la sua incredibile capacità di sintesi grafica, crea uno stile
così personale da essere riconoscibile al di là del prodotto.
dal 1950 agli anni ’80: TV, CRITICHE E GRANDI REATIVI
La televisione, con il suo potere unico di abbattere distinzioni tra qui e là, tra
diretto e ediato, tra personale e pubblico, cambierà il “senso del luogo” al punto
che “le isgregazioni e i movimenti culturali iniziati alla fine degli anni ’60
troveranno il loro ondamento nella collisione di sfere sociali precedentemente
distinte. E i pubblicitari dovranno adattarsi a questo nuovo mezzo di
comunicazione, piegandolo al loro gioco. E ci riusciranno al punto che la pubblicità
verrà attaccata e criticata come non era mai accaduto fino a questo momento.
Gli anni ’50 assisteranno all’irruzione nella scena di un nuovo attore che
influenzerà in modo determinante società, mass media e pubblicità: la
televisione.
E contemporaneamente cominciano le prime critiche sull’influenza della pubblicità
nella costruzione del palinsesto televisivo o nella redazione degli articoli di
giornale.
Pubblicità serva o padrona?
· Quando negli States nascono le prime stazioni televisive commerciali senza
canone di abbonamento, gli introiti pubblicitari diventarono fondamentali per la
sopravvivenza degli stessi network. Il primo spot televisivo è del 1953 e andò in
onda nella NBC, su proposta dello stesso presidente della rete, Pat Weaver:
pubblicizzava un detersivo (soap) e venne inserito all’interno di un telefilm per
casalinghe.
· Il 3 febbraio 1957 fa il suo esordio in Italia un programma che avrebbe fatto
storia: Carosello. Ogni sera faceva riunire tutte le famiglie italiane, che
assistevano alla messa in onda di ministorie, con disegni animati e la
partecipazione dei più noti personaggi del mondo dello spettacolo: vi presero
parte attori come Totò, Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi, e registi del calibro di
Mauro Bolognini e dei fratelli Taviani. Una selezione di Carosello venne presentata
nel 1971 al Museo d’Arte Moderna di New York. Carosello viene sospeso dalla
commissione parlamentare di vigilanza della Rai nel 1976: l’ultima puntata è
seguita da 19 milioni di telespettatori.
La seconda metà del secolo fu dunque l’epoca della ripresa economica, e anche
l’epoca della crescita esponenziale del settore pubblicitario, che si trovò di fronte
un fenomeno del tutto nuovo: l’intera società che diventa ricevente di messaggi.
Oggi assistiamo ad un linguaggio disincantato, ad un approccio informale della
pubblicità verso il consumatore, e i metodi degli anni ’50 possono sembrare
troppo argomentati, informativi e parlati, ma siamo in presenza di una società
che ha appena superato una guerra e le ristrettezza coinvolgono la maggior parte
della popolazione. Ecco perché non si poteva “scherzare con il prodotto”: lavatrici,
lavastoviglie, automobili e detersivi rappresentano un passo avanti verso il
benessere.
E' il pubblicitario che si assume il ruolo di principale mediatore tra una civiltà
tradizionale, soprattutto in Europa ancora rurale, e il mondo della tecnologia e del
comfort. Ed è il pubblicitario che vive in prima persona lo scontro tra l’etica del
sacrificio, che connotava la società tradizionale, e l’edonismo della società dei
consumi.
Orgoglio e pregiudizio
Così nell’atmosfera post-bellica della ripresa economica e dell’esplosiva diffusione
dei mass media, la tv “generalista” degli anni ’50 propone un modello di presunta
uguaglianza e soddisfa i bisogni di aggregazione e consenso, diventando garante
di stabilità sociale. E i messaggi pubblicitari trasformano la fisionomia delle città e
modificano i comportamenti quotidiani, facendo nascere fenomeni di imitazione,
nuove mode...E nuove critiche.
· Dagli ambienti del femminismo arriva la protesta contro l’immagine della donna
oggetto, sfruttata per lanciare prodotti di ogni tipo e contro l’uso di stereotipi
offensivi a certe categorie. Si organizzano le prime associazioni in difesa del
consumatore, che chiedono regole e leggi per tutelare il pubblico da una
pubblicità ingannevole.
· Nel 1958 Vance Packard scrive “The hidden persueders”, una ricerca sui sistemi
subdoli con cui si cerca di conquistare il favore dei compratori, dove si parla
anche dei messaggi subliminali, destinati a lasciare una traccia nella memoria
delle persone che li percepiscono inconsciamente. Si è dimostrato che questa
teoria non ha nessun fondamento scientifico, ma nonostante questo il libro ha
lasciato un segno indelebile nell’opinione pubblica, diventando un autentico
leitmotiv contro la pubblicità e contro i pubblicitari.
· Durante il decennio successivo un’altra critica feroce alla società dei consumi
arrivò da Marcuse con “One dimension man”. Egli vide nella pubblicità non più
solo una tecnica di persuasione, ma uno dei luoghi centrali in cui veniva forgiata
l’ideologia capitalista. La pubblicità infatti, oscurando il vero valore delle merci
(valore di scambio), finiva per mascherare la natura della società capitalistica
fondata sullo sfruttamento degli operai.
Oggi si riconosce che i professionisti della comunicazione pubblicitaria, grazie
anche ai contributi della sociologia e della psicologia, dispongono di strumenti e
tecniche estremamente efficaci per porre in essere iniziative in grado di
influenzare sensibilmente le scelte di consumo. Ma dopotutto “la pubblicità non
mira all’obbiettività, non si limita a trasmettere fatti, ma cerca di influenzare
atteggiamenti; è un’attività più vicina al modo di procedere dell’avvocato che non
a quello del giornalista”. Anche se si narra che una volta Thomas Jefferson abbia
detto che “la pubblicità contiene le uniche verità affidabili di un giornale”.
· Una risposta alle critiche precedenti arriverà qualche anno più tardi, da
Lipovetsky in “L’impero dell’effimero”. Per l’autore è solo un luogo comune quello
per cui la pubblicità appiattisce la capacità di decidere e giudicare personalmente.
In realtà essa, screditando la propensione al risparmio e stimolando quella del
godimento immediato, ha diffuso la cultura edonistica, accelerando la ricerca di
personalità e indipendenza dei singoli.
Anche quando la guerra del Vietnam rimetterà al bando la logica dei consumi
rimpiazzandola con valori di pace e libertà, a questa crisi la pubblicità arriverà
preparata: si supera la logica di una comunicazione meramente informativa, che
mostra l’oggetto con il solo fine dell’immediata vendita. Si comincia a
preoccuparsi per la prima volta dell’immagine del prodotto, e in un’ottica di lungo
termine e per parlare ad un pubblico che non voleva starle a sentire le campagne
si fecero caute e minimali.
· Le campagne pubblicitarie di “Think Small” di Bernabach per Volkswagen e “Hill
Top” (la collina multirazziale) di Barry Day per Coca-Cola avevano già anticipato
lo spirito del tempo.
Con Bernbach la Wolksvagen diventa un mito, e la campagna è sopravvissuta al
suo stesso creatore. Chi inventò un marchio così anticonformista,
necessariamente dove rompere i ponti con la USP di Reeves “Rules are what the
artists breaks: the memorale never emerged from a formula”.
“Ora, se non ci si può permettere, o se non si vuole fare affidamento su un
budget sterminato per superare il muro della resistenza del consumatore, bisogna
ammettere che la pubblicità banale, abitudinaria, trita non ha futuro. Solo un
messaggio di enorme vitalità, realizzato con un trattamento grafico drammatico,
riuscirà a raggiungere il consumatore. Che senso ha dire delle cose giuste se
nessuno le legge? E credetemi nessuno le leggerà se non sono espresse con
freschezza, originalità ed immaginazione”. Parole pronunciate da Bernabach quasi
mezzo secolo fa.
E contro Reeves e le sue ricerche si schiererà qualche anno dopo anche Leo
Burnett, che per vendere sigarette inventò la figura di un cowboy che corre nelle
praterie, nella convinzione che “se avessimo aspettato di sapere che cosa voleva
il mercato non avremo mai avuto la ruota e tanto meno l’automobile”
Nel 1963 David Ogilvy pubblica “Le confessioni di un pubblicitario”, e darà il via
alla seconda grande rivoluzione nelle tecniche pubblicitarie dopo quella di Ross
Reeves. Si affermano i concetti di product image e brand image, in
contrapposizione alla reason why, come punti di riferimento centrali all’azione
persuasoria. Perché “alle caratteristiche funzionali dei prodotti vanno aggiunti dei
valori
emotivi,
che
costituiranno
la
personalità
di
una
marca”
L’internazionalizzazione dei mercati, la presenza di una miriade di prodotti simili
gli uni agli altri e la conseguente situazione sempre più competitiva fecero
diminuire l’importanza della razionalità nelle scelte d’acquisto dei consumatori, e
crescere aspettative diverse da quelle pratico-funzionali. Toccò alla pubblicità
operare sul piano psicologico la differenziazione dei prodotti, caricando l’immagine
di marca di elementi di natura emozionale e affettiva. Perché “se i prodotti sono
oggetti, le marche sono relazioni”4,e il loro valore può influire molto anche sui
contenuti e sulla credibilità della comunicazione. Ogilvy non intendeva
disconoscere il valore delle ricerche in campo pubblicitario, ma per lui “la ricerca è
come un lampione che illumina un pezzo di strada, ma non dobbiamo fare come
l’ubriaco che vi si appoggia” (Ogilvy, “La Pubblicità”), perché in pubblicità è tanto
decisivo ciò che si dice, quanto come lo si dice. e l’autore continua con un
esempio: “è vero che le marche possono essere labili, ma hanno un valore così
grande che non si devono risparmiare sforzi nell’impegno per mantenerle. Uno
studio del Boston Consultino Group analizzò le marche che erano leader nel 1923
e che continuavano ad eseerlo nel 1992. Tanto straordinario quanto vero kodak,
Gillette e Campbell’s si mantenevano intatte nel mercato mondiale.
Non perché gli anni non passano anche per loro, ma perché non si erano mai
stancate di impegnarsi per mantenere un’immagine moderna e nonostante la loro
età”
Genio e sregolatezza
Dopo Ogilvy la pubblicità non fu più la stessa: egli riuscì a coniugare funzione
commerciale e qualità della comunicazione, e il contenuto superò il contenente.
Le immagini divennero quasi autonome rispetto al prodotto, e consentivano di
“reinventarlo” agli occhi del consumatore per mezzo della comunicazione, di un
linguaggio confidenziale e persuasivo.
· Mentre l’Italia guardava Carosello lui scriveva l’head line del secolo: “il rumore
più fastidioso di una Rolls Royce a 100 km/h è il ticchettio dell’orologio”. E in
risposta alle pubblicità patinate del periodo lui crea “il guercio” come testimonial
per le camicie Hataway, introducendo per la prima volta un elemento di
discontinuità e imperfezione. Le campagne Benetton, Diesel e sorelle sono tutte
figlie di questa prima trasgressione. Gli spot, che finora erano semplici radio
comunicati animati, divennero delle storie, e i prodotti delle pubblicità televisive
divennero i nuovi miti dell’immaginario collettivo, scalzando le star
cinematografiche. E nasce il fenomeno Séguéla.
· Nel 1985 esce “Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario…lei mi crede
pianista in un bordello” e l’anno successivo “Hollywood lava più bianco”. Come la
star hollywoodiana, il primo caso di marketing della storia secondo Séguéla, il
prodotto deve trasformarsi in marca star. La pubblicità non deve quindi esaltarlo
in quanto tale, deve attribuirgli una individualità, una personalità, perché “l’uomo
ha bisogno di pane e sogni”. E per pubblicizzare la Citroen AX la catapulta su dei
sottomarini atomici in movimento.
Nel pensiero di Séguéla la pubblicità è una grande macchina dei sogni, e le
marche devono diventare le nuove dive, “così l’atto di consumo diventerà un atto
culturale, e la pubblicità guadagnerà quel diritto di cittadinanza che i pubbliofili le
rifiutano”.
Mentre il pubblicitario francese teorizzava la sua star-strategy, si affermavano
altri filoni creativi che rifiutavano gli eccessi spettacolari per adeguarsi ai nuovi
valori emergenti nella società, come quelli dell’ecologia, della naturalità e della
concretezza.
Si dice che Vigorelli, dell’omonima agenzia, un giorno abbia detto: “Séguéla
pensava che dopo -lavo più bianco- si dovesse arrivare ad aggiungere -e ho
anche un’anima-. Noi propendiamo per – e sono il più bravo-”.
Successivamente l’aggravarsi della recessione economica accentuava la
formazione di modelli di consumo più sobri e controllati, e si manifestava la
sensibilità del pubblico verso quelle forme di comunicazione pubblicitaria dei
“buoni sentimenti”, o dello human contact. Paladino in Italia sarà Gavino-Sanna:
niente automobili che si tuffano in mare, ma scene di intimità familiare al limite
della sdolcinatezza, per far comprare insieme a pasta e biscotti anche i
sentimenti. Forse ricordandosi di ciò che aveva detto anni prima il fondatore della
Revlon: “Noi produciamo lanolina, ma vendiamo speranza”.
· Nasce così il format della Barilla, “una specie di telenovela, un racconto popolare
presentato con un tono di voce discreto ma emozionante” (G.Sanna, “Le uova di
Woody Allen”) . La saga “dove c’è Barilla c’è casa” diventa un’epopea collettiva. Il
primo episodio annuncia il tema dell’intera campagna. Il ritorna a casa. Una casa
di felicità e affetto.
Ma anche l’approccio emotivo, proprio perché tende ad allontanare il contenuto
della comunicazione dall’utilità intrinseca del prodotto, mostra le sue debolezze
nel momento in cui il consumatore comincia a riconoscere i meccanismi
pubblicitari e si fa più attento alla sostanza. Siamo alla fine degli anni ’80, e dopo
la pubblicità spettacolo del decennio precedente, la crisi economica costringe al
ripensamento, al ripiegamento provvisorio sul beneficio-prodotto in termini
concreti. Calano i consumi, le marche restano sugli scaffali e i cittadini
disobbediscono a tutto, anche ai consigli per gli acquisti. E allora alla battuta
“produco lanolina, ma vendo speranza”, si contrappone la battuta di Jacques
Calvet “vendo auto, non aerei”, riferendosi alla pubblicità spettacolare di Séguéla
che nel 1985 aveva fatto decollare una “Visa” da una portaerei. E lo stesso
Séguéla arriverà a riabilitare la mitica “idea di vendita” di Reeves, dicendo: “il
primo colpo di genio del pubblicitario oggi sta nel mettersi all’ascolto del proprio
pubblico, guai al pubblicitario che manchi di realismo” Naturalmente sono scelte
razionali, che non escludono il ricorso all’emotività e alla drammaticità nel
presentarli come “vantaggio”. Si impongono scelte per la conquista di
“un’esclusività pubblicitaria” fondata sulla presentazione in chiave emotiva di un
requisito particolare, oppure operando un’opportuna segmentazione, o ancora
facendo ricorso a immagini, simboli, emozioni.
· Un annuncio della Wolkswagen di quegli anni mostrava diverse automobili
parcheggiate sulla neve, affiancate dalle impronte dei pneumatici di una vettura
che si era mossa. L’head-line recitava “da quel posto vuoto l’unica a partire è
stata una Wolkswagen”.
dagli anni ’90 ai giorni nostri: L’ERA DELL’INFORMAZIONE
L’andamento discontinuo della crescita dei consumi continua inarrestabile, e il
protagonista del periodo diventa il medium: internet, pay-tv, telefonia
determinano la crescente complessità nell’impatto della comunicazione su una
società non omogenea, che la pubblicità deve raggiungere.
Audaces fortuna iuvat
Negli anni ’90 troviamo un consumatore cambiato, più maturo perché sa tutto. E’
finita la sua innocenza, quella a cui si riferiva anche un sociologo come Eric
Fromm quando scriveva “l’uomo è solo in una complicata ed estranea società, ed
è sottoposto a condizionamenti, fra cui uno dei più pericolosi è quello
pubblicitario, produttore di falsi bisogni” (“Avere o essere”). Oggi giornali, riviste,
trasmissioni televisive hanno spiegato al pubblico cos’è il marketing, un
positioning, un claim. Sottoposto alla maturazione forzata di sei reti televisive più
due digitali, il consumatore anni ’90 chiede solo di non essere preso in giro,
perché ormai sa riconoscere un annuncio pubblicitario nuovo,
fresco, creativo, e si aspetta quell’evasione di 30 secondi che gli aveva promesso
Séguéla. Ed è disponibile a collaborare per l’interpretazione di citazioni e parodie;
è il periodo di Ronaldo e del Cristo brasiliano, delle sfide tra la Nike e i mostri, del
“Time is what you make of it della swatch”.
· Da qui al linguaggio comunicativo che spinge all’autocompiacimento e che si
focalizza sull’immagine dell’immagine del prodotto dei giorni nostri ormai il passo
è breve. Le fotografie di Oliviero Toscani, che non illustravano più i maglioni
Benetton, ma propongono immagini sconcertanti, non fecero soltanto un
momentaneo scalpore indicavano, negli anni’80, una nuova tendenza della
pubblicità, che aveva raggiunto un tale grado di autonomia da rinunciare alla sua
funzione originale, cioè a promuovere determinati prodotti che il pubblico doveva
acquistare.
Anche se Toscani rimane un caso a sé, l’idea di alludere soltanto alla merce in
vendita doveva fare scuola. La spettacolarità, la suspense, il paradossale, la
voglia di sbalordire, ispirano sempre più messaggi in concorrenza su teleschermi,
giornali, fiancate degli autobus e non solo. Nel 1999, per i cento anni
dell’aspirina, la Bayer ha trasformato la sede della sua centrale di Leverkusen in
una gigantesca scatola di pastiglie. Per il lancio di un “giallo", una casa editrice ha
proiettato con il laser nel cielo di Londra scritte in cui la protagonista veniva
definita a volte colpevole o innocente. Per reclamizzare la sua nuova
"businessclass", la Delta Airlines ha portato un aereo in una piazza di New York.
No logo no hope
Dove andremo a finire?
Secondo Naomi Klein, l’autrice di “No logo”, l’attuale evoluzione del mercato e dei
meccanismi pubblicitari producono un sentimento di “claustrofobia generale e la
sensazione che non ci siano più scappatoie”6. Questo perché le aziende spostano
il centro dei loro interessi dalle semplice produzione delle merci al marchio in sé:
puntano solo all’immagine investendo milioni di dollari nel marketing e
contemporaneamente trasferendo le sedi delle attività produttive nel terzo
mondo, per contenere la vertiginosa crescita della nuova voce di spesa. La IBM
non vende
computer, ma “soluzioni per aziende”, la Swatch non fabbrica orologi, ma “il
concetto stesso del tempo”. “La Nike nel ’92 ha pagato l’impiegato part-time
Michael Giordan più di quanto abbia pagato le 30.000 ragazze indonesiane
operaie nella fabbrica di scarpe…”. Molti non sanno che la Nike ha già risposto a
questo tipo di attacchi, evidenziando elementi che Naomi Klein omette: “durante
la crisi asiatica, in un periodo di altissima inflazione, la Nike è stata una delle
poche aziende ad aiutare i lavoratori ad uscire dalla grave situazione (…) in
Indonesia gli operai delle fabbriche hanno ricevuto tre incrementi di stipendio in
18 mesi e un aumento dei sussidi alimentari”.
L’autrice del libro più discusso degli ultimi anni pensa che un reale cambiamento
possa avvenire attraverso il riappropriarsi da parte dei governi del loro potere di
regolamentazione del mercato. La prima obbiezione che viene in mente è che
mentre il mercato è già globale e unico, i governi e la politica sono lontanissimi
dall’esserlo. E tanto per essere coerenti viene da chiedersi come mai la Klein
abbia fatto pubblicare il suo “manuale” con una dozzina di copertine e lay-out di
testo diversi a seconda del paese dove veniva commerciato.
Sostenendo l’invasione aggressiva da parte delle grandi corporations
internazionali, Naomi Klein ha invitato i sostenitori del movimento
anti-globalizzazione ad operare forme di culture jamming, o “interferenza
culturale”, pratica che consiste nel fare la parodia agli annunci pubblicitari e a
deturpare i cartelloni per alterarne drasticamente il messaggio esempio di culture
jamming Per tutta risposta molti pubblicitari hanno impostato la propria
comunicazione sfruttando gli stessi principi
· Una campagna Nike del 1997 utilizzava lo slogan “non sono un
mercato/bersaglio, sono un atleta”
· Il claim della Sprite “l’immagine è zero”, era affiancato dall’immagine di un
giovane che raccontava di essere stato succube della promozione di bibite che lo
avrebbero fatto diventare.
Ma anche “no-logo” nel frattempo è diventato un marchio, e l’autrice è stata
vittima dello stesso tipo di sabotaggio che ha sostenuto: l’”Economist” ha
dedicato una sua copertina ad un’immagine contraffatta del frontespizio del libro,
sostituendo il titolo originale con la scritta “PRO-LOGO”. L’autorevole settimanale
sostiene infatti che “le marche fanno bene”, perché la possibilità critica del
consumatore si annulla proprio nel momento in cui non esistono, come nell’ex
Unione Sovietica.
CONCLUSIONI
La pubblicità è così sopravvissuta a tutto: alle recessioni economiche, alle critiche
più feroci, ai cambiamenti della società, alle mutevoli predisposizioni dei
consumatori. Perché come ha scritto Ceserani in “I persuasori disarmati”: “la
società industriale, la comunicazione pubblicitaria e la società dei consumatori,
interagiscono, si influenzano, si condizionano vicendevolmente”.
Perché è solo così che sopravvivrà anche ai cambiamenti in atto, all’era di
internet
e della tv digitale, e non potrà più permettersi di applicare le vecchie regole, utili
solo a vendere il prodotto. E’ ciò che tutti odiano della pubblicità. Ma la
comunicazione pubblicitaria fa parte della nostra vita, cresce con noi, ed è uno
strumento fatto a misura delle esigenze umane. Come ogni strumento può essere
usata male. Ma quando è ben fatta entra al Musée de la Publicitè.
Il 15 giugno 1931, in un discorso all’Advertising Federation of America, Franklin
D. Roosevelt disse:
“Se ricominciassi la mia vita, credo che preferirei lavorare in pubblicità che in
qualsiasi altra professione. Perché la pubblicità è arrivata a coprire l’intera gamma
delle esigenze umane; e unisce autentica fantasia allo studio profondo della
psicologia umana. Poiché porta a un gran numero di persone la conoscenza di
cose utili, la pubblicità è essenzialmente una forma di educazione... Il generale
miglioramento delle condizioni di vita nelle civiltà moderne sarebbe stato
impossibile senza quella conoscenza di livelli più elevati che è diffusa dalla
pubblicità".
------------------------La Pubblicità commerciale, di pubblica utilità e sociale
Con il termine pubblicità commerciale si intende una forma di comunicazione a
pagamento diffusa su iniziativa di operatori economici attraverso differenti mezzi.
Essa tende in modo intenzionale e sistematico ad influenzare gli atteggiamenti e
le scelte degli individui in relazione al consumo di beni e all'utilizzo di servizi.Il
decreto legislativo 206/2005 definisce come pubblicità qualunque forma di
messaggio che sia diffuso, nell'esercizio di un’attività economica, allo scopo di
promuovere la vendita o il trasferimento di beni mobilio immobili, oppure la
prestazione di opere e servizi.
Con il termine pubblicità sociale si intende una forma di comunicazione che si
avvale dei metodi e dei mezzi di diffusione della pubblicità commerciale per
perseguire obietti di interesse collettivo e di utilità sociale.Si tratta, in altri
termini, delle campagne pubblicitarie che promuovono idee, atteggiamenti,
comportamenti o cause che possono riguardare singole persone, gruppi specifici o
l’intera collettività, ma la cui rilevanza è unanimamente riconosciuta.
La public service advertising verte su temi sociali condivisi da tutta al popolazione
destinataria della campagna. Mancini sottolinea come «è possibile che la
comunicazione sociale propriamente intesa affronti temi che, almeno in parte
presentano un certo livello di controversialità ma sottintende valori a proposito
dei quali sono ben poche le posizioni discordanti»(Mancini, P., Manuale di
comunicazione pubblica, Laterza, Bari, 1996).
La advocacy advertising verte su argomenti dichiaratamente controversi, sui quali
non vi è un consenso unanime, ma anzi diverse prese diposizioni discordanti. Una
comunciazione advocacy è ad esempio una campagna sulla caccia, o la
vivisezione, l’aborto, l’energia nucleare, l’espianto degli organi. Insomma una
comunicazione che affronta questioni cui sono sottesi universi valoriali
profondamente diversi (Gadotti, G., Il nuovo manuale di tecniche pubblicitarie,
Franco Angeli, Milano, 1998).
Il msg sociale non ha una ‘merce’ da pubblicizzare. Si tratta piuttosto di idee al
servizio della collettività, richieste di sostegno a categorie svantaggiate, divieti e
negazioni di comportamenti, proposte di azioni onerose. Una difficoltà consiste
nella necessita di articolare codici di comunicazione capaci di farsi intendere da un
pubblico estremamente eterogeneo
Al linguaggio iperbolico e al lieto fine, la pubblicità sociale predilige i lati d’ombra
e oscuri dell’advertising commerciale: angoscia, malattia, morte.
Negli anni ’70 la sensibilità verso l’etica assume una veste nuova.
L’idea di benessere era stata legata, sino a quel momento, all’offerta di livelli di
vita sempre più elevati e corrispondenti a un pacchetto di beni di consumo di una
certa entità. Si cominciavano invece ad evidenziare i danni naturali, sociali e
morali che la crescita mercantile portava con sé. Il consumo è in alcuni segmenti
demonizzato. Negli anni ’80 l’attenzione è posta sul valore simbolico dei beni: il
consumo ingloba gli intangibles.
Il rapporto con l’oggetto permette la costruzione di una rete di significati che si
esprimono mediante un linguaggio socialmente condiviso, che consente di dare
ordine e senso all’ambiente socio-culturale. La sensibilità etica che aveva portato
a demonizzare il mondo del consumo sembra essere assopita. Negli anni ’90
emerge un atteggiamento più maturo nei riguardi del consumo: basta con gli
eccessi. La più evidente conseguenza di ciò è lo sviluppo di una “ecologia del
consumo” caratterizzata da una maggiore autoconsapevolezza, da uno stile etico
soft,che ispira una nuova solidarietà sociale verso nuovi codici di convivenza. La
sensibilità etica stimola in questa fase la nascita di una percezione olistica:
l’individuo è un’entità agente in un contesto più ampio del quale occorre tener
conto.
Negli anni ’00 lo scenario è stravolto da due fenomeni, al contempo concausa ed
effetto l’uno dell’altro. Internet ha avuto il ruolo di amplificatore di questa presa
di coscienza etica; ha portato il dibattito in ogni angolo del mondo; ha dato una
voce a quanti non l’avevano. La Globalizzazione ha reso più scoperti gli effetti del
mercato, mettendo in luce questioni etiche e politiche; come le disuguaglianze tra
i consumatori e la necessità di politiche redistributive del reddito o le
conseguenze di lungo termine sull’ambiente delle attuali procedure economiche.
-------------------------------------------
Il marketing e la pianificazione strategica
In una società in continuo divenire, con un mercato, ormai, reso globale ed una
concorrenza sempre più spietata, quali sono le imprese che sopravviveranno?
La risposta potrebbe sembrare a prima vista dettata dall'etica, ma in realtà nasce
dal e nel mercato: sopravviveranno soltanto quelle aziende che riusciranno meglio
a soddisfare le richieste dei propri clienti.
Come? Attraverso un'attenta analisi di marketing. Pensare in funzione del
mercato, infatti, è la base di un business di successo.
Analizzare il mercato significa poter cogliere i problemi e le sfide che ogni giorno
imperversano sulle piccole e grandi realtà aziendali ed avere la possibilità di
tramutarli in opportunità.
“il marketing è il processo sociale e manageriale mediante il quale una persona o
un gruppo ottiene ciò che costituisce oggetto dei propri bisogni e desideri
creando, offrendo e scambiando prodotti e valore con altri”. La definizione di
marketing (per quanto poco comprensibile!!!) si basa su dei concetti
fondamentali, quali: bisogni, desideri e domanda; prodotti; soddisfazione;
relazioni e scambi; mercati; operatori di mercato.
Focalizziamo la nostra attenzione sul concetto di soddisfazione: come è possibile
soddisfare i bisogni ed i desideri dei consumatori (soddisfazione che crea
fidelizzazione, consenso e successo) in un mercato in continuo mutamento?
Analizzando il comportamento d'acquisto del consumatore e realizzando
un'accurata pianificazione strategica.
L'attività principale del marketing consiste nell'individuare e nel comprendere i
bisogni e i desideri dei consumatori. La comprensione deriva dall’analisi
dell’identità, personale e sociale, dei soggetti che costituiscono il mercato
obiettivo, ma anche dallo studio del comportamento d’acquisto degli stessi.
Perché le persone acquistano? E, soprattutto, perché acquistano quel
determinato prodotto?
Il primo passo è quello di considerare il consumatore come un soggetto, dotato di
sue caratteristiche peculiari, che elabora le informazioni che provengono
all’esterno e che reagisce a determinati stimoli producendo risposte
comportamentali (modello S-R: stimolo-risposta).
Gli stimoli esterni incidenti sul consumatore possono essere determinati
dall’azienda (stimoli di marketing, consistenti nelle quattro P: prodotto, prezzo,
punto vendita, promozione) oppure possono provenire dal macroambiente (fattori
ambientali, politici, culturali, eventi sociali, offerta della concorrenza,
comportamenti di altri consumatori che vengono assunti come riferimento).
Il consumatore elabora tali informazioni in base alle sue caratteristiche
sociodemografiche (status, età, titolo di studio, professione) e psicografiche
(valori, atteggiamenti, credenze, stili di vita, cultura, bisogni), determinando
particolari risposte agli stimoli, risposte che saranno diverse per ogni individuo,
nonostante la stimolazione sia stata la stessa.
Lo studio dei bisogni e dei desideri del consumatore, l’analisi dei fattori che
influenzano le sue decisioni d’acquisto, la ricerca in merito alle fonti a cui ricorre
per ottenere informazioni e la rilevazione delle opinioni e del complicato calcolo
razionale ed irrazionale che compie nella valutazione delle alternative di marca,
permettono all’azienda di comprendere come avviene una decisione d’acquisto.
Le fasi principali di una ricerca di mercato sono:
1. “definizione del problema;
2. formulazione delle finalità e degli obiettivi della ricerca;
3. pianificazione della ricerca;
4. valutazione economica;
5. raccolta dei dati;
6. elaborazione ed analisi dei dati;
7. relazione finale”
un esempio di ricerca interpretata correttamente è quella condotta dalla Swish
Jeans. Nel 1994 tale azienda ha realizzato un’indagine sui gusti dei consumatori
nel campo della jeanseria. I risultati hanno dimostrato che le donne erano
stanche dello stile unisex dei jeans. Grazie ad una corretta interpretazione dei
desideri delle consumatrici e ad un approccio pubblicitario inerente alla
personalità del target, la Swish Jeans è passata da un fatturato iniziale di 15
miliardi ad uno di 50 miliardi, in soli quattro anni;
Il marketing-mix
Qualunque strategia di marketing, anche geniale, non può essere efficace se non
tiene conto dei bisogni effettivi del consumatore.
La soddisfazione dei bisogni del target è il primo obiettivo degli operatori di
marketing.
Soddisfare un cliente significa realizzare un prodotto di qualità, proposto con una
comunicazione sincera ed efficace.
La qualità, però, per quanto importante, non è l’unica leva che spinge il
consumatore all’acquisto.
------------------