Diocesi Piacenza-Bobbio Ufficio Stampa: Servizio documentazione Collegio Alberoni, Sala degli Arazzi Tre giorni di aggiornamento del clero “La formazione cristiana: tra annuncio kerygmatico e itinerari di fede” Lambiasi mons. Francesco, Vescovo Assistente Generale dell’Azione Cattolica Italiana 26 settembre 2002 Ringraziamenti Grazie a voi in anticipo per l’attenzione e per l’ascolto. Ricordo di essere stato qui da voi tre anni fa, era il gennaio del ’99 quando venni per la prima volta qui a Piacenza (N.d.R. 12/01/99), in cui si fece l’incontro insieme con voi in preparazione alla prossima Missione diocesana (N.d.R. Tema: “La centralità della questione della fede, oggi”). Per la quale poi mi sono tenuto in contatto perché, da Vescovo di Anagni-Alatri, invitai poi il vostro Vicario Generale, il carissimo mons. Antonio Lanfranchi che ho visto stamattina, che venne a raccontarci la vostra missione, perché anch’io come Vescovo ho messo la diocesi in stato di missione. E proprio domenica scorsa ho portato “il testimone” al mio successore, il quale comunque mi ha assicurato che il cammino di preparazione verso la missione diocesana continuerà. Questo per dire che mi pongo davanti a voi come uno che forse ha qualche cosa da dare, spero di sì, ma sopratutto ha molto da ricevere. Proprio questa mattina, quando sentivo per telefono mons. Antonio, gli ho detto di mandarmi un po’ di materiale sulle vostre Unità Pastorali e la strutturazione territoriale delle parrocchie, perché m’interessa. Come m’interessava molto la “nota” che il Vescovo ha fatto per il Programma pastorale 2002/2003 “Per una fede adulta matura: la formazione nella comunità cristiana”. L’ho trovato molto interessante e molto in sintonia anche con l’ideale e il progetto del Programma dell’A.C. Nazionale. Introduzione Vi consiglio di tenere sotto gli occhi la traccia che vi ho consegnato, nella quale però man mano che andremo avanti voi vedrete che ho cercato di problematicizzare il titolo: “La formazione cristiana: tra annuncio kerygmatico e itinerari di fede”. Dove abbiamo come una specie di triangolo: - in alto c’è l’annuncio, - poi la formazione, - e all’altro angolo gli itinerari formativi. Dico subito che non parlerò molto degli itinerari di fede, sia perché è una riflessione che personalmente ho in corso, sia perché mi sembra giusto che siate poi voi ad elaborare questi itinerari. Cercherò poi di dare delle premesse, delle motivazioni, forse anche gli stimoli che possono portare a configurare questi itinerari. Quindi li terrò presente, ne parlerò anche in modo accennato, ma farò di più la grande premessa che come vedete è dedicata proprio al primo annuncio e quindi all’evangelizzazione. Premessa Una premessa che parte da tre affermazioni, che si trovano nel Nuovo Testamento, a proposito dell’Evangelizzazione. Possiamo dire che l’evangelizzazione è sospesa a un: 1 «guai!» (1 Cor 9,16); «purché…» (Fil 1,18); «chissà?» (Lc 18,8). 0.1. «Guai!» (1 Cor 9,16) È un grido terribile che troviamo sulla bocca di Paolo nella prima Lettera ai Corinzi (9,16), quando dice: «Guai a me se non predicassi il Vangelo». È una sorta di automaledizione che Paolo si dà. Paolo può anche battezzare, lo dice lui nella stessa Lettera (cfr. 1 Cor 1,14-15): che non è stato mandato per battezzare, può fare il fabbricatore di tende, quello che vuole, ma se lui non evangelizza, lui va in conflitto con la sua identità più vera. «Guai a me se non predicassi il Vangelo!», “guai a me se non evangelizzassi”. Penso che questo “guaio” dovremmo firmarlo tutti quanti. È un grido terribile. 0.2. «Purché…» (Fil 1,18) Ma c’è nel Nuovo Testamento, sempre sulla penna di Paolo nella Lettera ai Filippesi, anche una concessione, la più gratuita che troviamo. Quando Paolo dice: “Ci sono alcuni che predicano il Vangelo per interesse, per guadagno, per mettersi in mostra”, «[18] Ma questo che importa? Purché in ogni maniera, per ipocrisia o per sincerità, Cristo venga annunziato» (Fil 1,18). Cioè, purché questo obiettivo sia raggiunto non importa a che livelli. Quindi in questo contesto è proprio il caso di dire: “che il fine giustifica ogni mezzo”. Ovviamente, è un’affermazione paradossale, come dire che il fine primario irrinunciabile dell’apostolato della vita della Chiesa è appunto l’annuncio di Cristo, l’evangelizzazione. 0.3. «Chissà?» (Lc 18,8) Ma c’è anche un «chissà?». Una domanda aperta che questa volta troviamo in bocca a Cristo. È una domanda senza risposta, quando Cristo dice: «il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). È una domanda bruciante. Noi sappiamo certamente che la fede la troverà nella Chiesa; ma la troverà tra qualche anno nella Chiesa di Anagni-Alatri o nella Chiesa piacentina? Perché a Tessalonica, a Corinto o a Filippi pare che di fede cristiana non ci sia più niente. Cioè, ciò che è garantito in definitiva è il cammino nella Chiesa nella sua totalità, ma non è garantito il cammino della Chiesa particolare, perché questa responsabilità tocca a noi. È davvero una domanda bruciante che non possiamo non fare nostra. Dunque, l’evangelizzazione è qualcosa di prioritario, di irrinunciabile, di discriminante. Diceva Paolo VI nell’Evangelii Nuntiandi, che è il manifesto programmatico dell’evangelizzazione della Chiesa che stava andando verso il guado del nuovo millennio: “Evangelizzare è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare” (ibidem n. 14). Torno a dire: la Chiesa se non evangelizza non esiste. O, se vogliamo misurare la vitalità della Chiesa, dobbiamo vedere quanta evangelizzazione essa compie. Brevemente, innanzitutto il perché dell’evangelizzazione. Poi vediamo il cosa e il come e a quali condizioni; e più o meno da quelle parti dirò qualche cosa anche sulla formazione e gli itinerari formativi. 2 1. Il perché dell’evangelizzazione 1.1. Una situazione obiettivamente missionaria, perché segnata da: Il perché dell’evangelizzazione. Perché oggi viviamo in una situazione che è obiettivamente missionaria. Non è per lo “schiribizzo” di qualcuno, ma perché la situazione si presenta con tratti che sono obiettivamente missionari. 1.1.1. Il pluralismo religioso Primo tratto. Il pluralismo religioso. Una pluralità di religioni c’è sempre stata in Europa, ma oggi non c’è sola una pluralità di fatto, c’è una pluralità di diritto. Non solo ci sono, ma hanno diritto di esistere; non solo, ma oggi tutte le religioni hanno un uguale diritto di esistere. Questa è una cosa sacrosanta che la Chiesa in prima linea difende, perché è giusto la libertà religiosa, è la prima e fondamentale libertà, lo Stato non può privilegiare nessuna religione a motivo della libertà religiosa di quella confessione o di quella religione. Però per molte persone la conseguenza di questo tratto – che è positivo per sé – è il relativismo religioso; cioè il “relativismo in campo religioso”, per cui tutte le religioni sono uguali. Si confonde la “libertà religiosa” (quindi Dignitatis umane n. 2 del Concilio Vaticano II) con l’“indifferenza religiosa”. Siccome, “tutti i treni portano alla stessa stazione – così si pensa –, allora tanto vale la pena prendere quello che passa sotto casa”. Cioè dall’affermazione giusta e sacrosanta che tutte le coscienze sono egualmente libere, riguardo alla scelta religiosa, si arriva alla conclusione sbagliata che tutte le religioni sono egualmente vere. 1.1.2. Il soggettivismo individualista Secondo tratto che configura la nostra situazione come obiettivamente missionaria. Ho presente il vostro Vescovo Scalabrini, infatti questa mattina facendo visita in Cattedrale ho pregato davanti alla sua urna e non che di resti. Noi vediamo questa situazione segnata da un soggettivismo marcatamente individualista. “Ognuno fa per sé”, non esiste una rivelazione oggettiva di Dio, non esiste un’autorità della Chiesa. Ognuno sceglie liberamente il suo “menù”, il “self serves” o “il fai da te”. Il grande principio per tanta gente è: “secondo me”. Se adesso noi ci trasferissimo idealmente in una classe di Liceo e ponessimo un argomento religioso, subito inavvertitamente i ragazzi rispondono cominciando a dire con: “secondo me”; è così. La maggioranza degli europei crede in Dio; ma di quale Dio si tratta? Spesso è come l’indeterminato di Rasmagro Plateiro: “Dio come una forza, non come una persona”. Ma se Dio non è una persona, allora crolla tutto, allora questo Dio non parla, non interpella, e il peccato non è più peccato ma errore. 1.1.3. Il materialismo consumista ed edonista Terzo tratto. Il materialismo consumista ed edonista. “Ho diritto al piacere e ogni piacere è un mio diritto”. Oppure, “fai quello che ti pare e piace, perché ti piace, fin che ti piace”. E qui c’è il grosso abbaglio, il terribile equivoco nel quale la società adulta fa cascare tanti ragazzi e tanti giovani, perché noi ce la prendiamo con i ragazzi più giovani, ma noi dovremmo fare l’esame di coscienza. Cioè è l’identificazione della gioia con il piacere: “Vuoi provare che cos’è la gioia? Cerca di accontentarti più che puoi, in tutti i modi, in tutte le forme, senza nessuna regola, senza nessuno scopo, senza nessun senso”. E alla fine sappiamo che non solo non si trova la gioia ma nemmeno il piacere, se mai in fondo a questo vicolo cieco si trova la depressione. Alcuni dati. In Italia un ragazzo su quattro arriva al primo “spinello” in media all’età di dodici anni. Quello che è più grave non è tanto il fatto che lui a dodici anni arriva al primo “spinello”, ma ci 3 arriva con l’illusione, meglio con l’inganno: “perché tanto non è così traumatico se è uno spinello… lo puoi provare”; ma poi sappiamo dove porta questa logica. Sempre in Italia, un giovane su cinque è in depressione; è una cosa allarmante! Gioventù che (mentre ci sono tanti ragazzi che non sono in depressione) non coincide più con lo slancio, l’entusiasmo, la creatività e la gioia, ma con la morte lenta della depressione. Quando stavo a Toronto sono andato a fare una catechesi con il vostro Vescovo, e mi sono presentato con “Avvenire” sotto braccio (che usciva in contemporanea a Toronto) che portava questo titolo (che poi ho saputo essere stato l’unico giornale italiano a pubblicare quel dato): “Sono stati commessi in Italia 214 omicidi da parte di minorenni”; che poi hanno confessato di aver fatto quel delitto (di persone care anche di genitori o della fidanzata o del proprio ragazzo, storie che conosciamo) senza sapere perché o per futili motivi. Certo qui qualcuno mi potrebbe dire che in Italia (sempre se il dato è corretto, come riportano questa mattina sui giornali) il settanta per cento è favorevole alla donazione di organi, oppure che questa estate abbiamo sentito non solo molti fatti tristi ma anche di vicende belle, di chi ha rinunciato alla propria vita per salvare gli altri, per salvare dei ragazzi che stavano annegando. Quindi non è tutto “nero”, ma certo dobbiamo soprattutto tener presente le linee di tendenza per vedere dove stiamo andando. Non mi pare che “navighiamo in acque tranquille e ci attendono porti felici”. 1.2. Siamo una minoranza in un mondo tornato pagano Secondo tratto che configura la nostra situazione. Siamo una minoranza in un mondo tornato pagano. Siamo una minoranza; quanto? Il dieci per cento che frequenta la Messa? Oppure dobbiamo credere al novanta per cento che in Italia sceglie l’ora di religione? Qui è importante usare l’indicatore giusto. Ma mi sembra, tenendo presente tutti gli indicatori, che sia indubbio che oggi la fede in Italia sia vissuta da una minoranza, che certo è più consapevole di trent’anni fa. Quindi anche qui non è tutto sbagliato né tutto nero, ma di fatto siamo una minoranza. Essere minoranza non è una colpa, né un merito. È una sfida, può essere una chance. Il cristianesimo è nato come una religione di minoranza. Certamente viviamo immersi in una foresta di idoli, l’elenco è lugubre. Quello che noi chiamiamo per radici è il dio del denaro. Sento dire che un guadagno molto facile per certa gente, chiaramente adulti, è aprire una sala da giochi. Almeno dalle mie parti spopolano, sono “sale spilla soldi” per i ragazzi. Questo è un piccolissimo segno, ma il fatto è che il miraggio per tanti ragazzi è la scelta della professione che fa guadagnare di più: “Trova il modo di far più soldi che puoi”. Questo porta al delirio di onnipotenza che è l’anticamera della depressione, con tutto il resto. L’idolo del piacere. Una volta si diceva: “l’erba voglio non nasce nemmeno nel giardino del re”. Come dire che anche il re è soggetto a delle regole. Oggi se c’è un’“erba che cresce rigogliosa in tutti i giardini” è proprio l’“erba voglio”: “Siamo una coppia quindi abbiamo diritto alla felicità, vogliamo un figlio, lo vogliamo con questi occhi, con questi capelli”. Alberto Sordi avrebbe detto, incrociando gli aggettivi: “Con gli occhi biondi e con i capelli azzurri, lo vogliamo così!”; dunque, ne abbiamo diritto. L’idolo della immagine. Apparire per non morire. L’idolo del potere. Ha ragione sempre chi vince, vince sempre il più forte. La nostra è indubbiamente una delle società più violente che ci sia stata nella storia. Ma qui corre l’obbligo di citare Bonhoeffer, il quale diceva: “Il contrario della fede non è l’incredulità, ma è l’idolatria”. Penso che questa espressione possa concentrare molto della storia della salvezza. Il contrario della fede non è l’incredulità, invece per la Chiesa e per i cristiani è l’idolatria. Kirchhofer diceva nella metà dell’ottocento: “L’idolatria ha fatto nei confronti della cristianità quello che fa il vampiro che ti addormenta; ti inocula il veleno dolce e ti succhia il sangue”. Per cui troviamo delle comunità addormentate, in letargo, che non vivono la missione 4 proprio perché non si sono difese da questo “virus”, dal veleno dell’idolatria. Il pagano è dentro di noi, non è fuori di noi. Perciò quando io, Vescovo da pochi mesi ho detto, per la prima volta nella festa del nostro patrono S. Magno il 19 agosto del ’99, che “Anagni è ritornata pagana”, ho dovuto suggerire che il paganesimo non era come ai tempi di San Magno del III secolo (della persecuzione di Decimo del 235 d. C.), perché quel “paradiso” era fuori la vicenda. Adesso l’aria pagana è entrata in casa nostra. 1.3. Una pastorale ordinaria in crisi Terzo elemento, che configura la situazione come autenticamente missionaria, è la crisi della pastorale ordinaria. È inutile che ce lo nascondiamo, la pastorale ordinaria è in crisi. Abbiamo ridotto il cristianesimo alla pratica, all’osservanza di tre grandi cose: verità da credere, precetti da osservare, riti da praticare. Ma il cristianesimo è innanzitutto una storia, non è una pratica. Certo ci sono verità da credere, precetti da osservare, idee da praticare. Eccome no! Lo sappiamo, ma tutto questo è conseguenza. Certo il cristianesimo è anche morale, ma la morale deriva da una dottrina, e prima ancora che da una dottrina deriva da un evento, perché Cristo è morto e risorto. Se crolla, se cade questo primo gancio, cade tutta la catena. Lo riconosceva anche Sartre a modo suo: “Prima di scoprire la morale bisogna aver scoperto l’amore, altrimenti è lo strazio”. Cioè, se non scopro l’amore di Cristo fatto carne e sangue, l’Amore crocifisso e risorto, allora dove attacco la morale cristiana? Ecco, è il fondamento che vacilla, e dunque è il fondamento che va riassicurato. Il vero problema della nostra pastorale oggi non è tanto dei “credenti non praticanti”, ma quello dei “praticanti non credenti”. Perché, come possiamo noi evangelizzare se i “nostri” (per dire così tra virgolette con espressione impropria e ambigua) non credono; saranno dei praticanti ma non saranno mai dei missionari, dei testimoni. La pastorale ordinaria è in crisi perché è in crisi l’iniziazione cristiana. Tertulliano diceva: “Cristiani non si nasce, si diventa”. Oggi in Italia “si rischia di rinascere cristiani e di non diventarlo mai”. È il dramma di tanta nostra catechesi. In trent’anni noi ci siamo quasi dissanguati, per arrivare a trecento mila catechisti, che sono una benedizione e guai se non l’avessimo fatto. Però purtroppo poi vediamo l’esisto: di tutti questi ragazzi che noi riusciamo a portare alla Cresima, quanti poi di fatto non sono dei missionari ma dei dimissionari? Perché abbandonano e vanno via assai presto! Addirittura si sta abbassando l’età dell’abbandono perché si sta abbassando l’età della prima comunione, perché già la domenica dopo questi ragazzi non ci sono più. Dunque, abbiamo un’iniziazione cristiana che non inizia ma conclude. Ma se la Chiesa non genera cristiani, perdonate l’espressione, allora è una “chiesa in menopausa”. Se la Chiesa è Madre, ma se non genera… Allora, qual è la conclusione? La conclusione obbligata è che occorre l’evangelizzazione (chiamiamola o evangelizzazione o rievangelizzazione o primo annuncio o secondo primo annuncio o pre-evangelizzazione… ma non facciamo schermaglie verbali). L’evangelizzazione non può essere sostituita da niente, non può essere surrogata né dalla catechesi, né dalla liturgia, né dalla carità. Non può essere surrogata dalla catechesi, perché la catechesi suppone la fede, è sviluppo e maturazione della fede. Ma se la fede non c’è, che cosa porta allora alla fede? È l’evangelizzazione. Qui come vedete sto prendendo “evangelizzazione” in senso stretto. Perché c’è anche l’evangelizzazione in senso ampio, che è tutta la pastorale della Chiesa, quindi è anche la liturgia, la carità; così la presenta Paolo VI nella Evangelii Nuntiandi, e così l’intende Giovanni Paolo II nella Pastores missio. 5 Io preferisco questa nozione stretta, specifica, di “evangelizzazione”, che non è mia ma è di un Documento base, “Il Rinnovamento della Catechesi”, quando distingue evangelizzazione e catechesi proprio attraverso il criterio della fede. L’evangelizzazione porta alla conversione e alla fede, la catechesi porta alla maturazione della fede. L’evangelizzazione non può essere sostituita dalla catechesi. Un pastoralista, don Tonino Lasconi (che, dopo di me, il giorno 30 andrà a Castelsangiovanni per un incontro di formazione), in un libretto simpatico che ha scritto negli ultimi anni del millennio ormai trascorso, dal titolo “Per il duemila si cambia”, dice così: “Fare catechesi senza aver fatto prima evangelizzazione, anche nei confronti dei bambini, non si può dare per scontata la fede nemmeno in quelli che vengono a capire”. Di per sé dovrebbero essere già stati evangelizzati, ma spesso il Vangelo non lo fanno, la parrocchia non l’ha fatto, questi vengono, noi gli diamo 3/4/5 anni di catechesi… ma è come “mettergli un cappotto addosso e sotto il cappottino non portano niente, vanno nudi”. L’evangelizzazione non può essere surrogata nemmeno dalla liturgia. Il Sacrosanctum Concilium n. 9, dice: “Prima che i fedeli possano accedere alla divina liturgia, è necessario (quindi indispensabile) che siano chiamati alla fede e si convertano”. “Siano chiamati quindi che si convertano”, poi viene la liturgia. Non può essere sostituita nemmeno dalla carità; se per “carità” intendiamo le opere di carità. Ma le opere di carità sono l’espressione di una fede in Dio che è amore. Perché è di Dio l’iniziativa, è Lui ci ha amati per prima, non siamo noi. Ma questo, appunto, suppone la fede nel Vangelo, nella “bella notizia”: che Dio in Cristo crocefisso risorto ci ha amati. 2. Il cosa e il come dell’evangelizzazione Passo al secondo punto. Il cosa e il come dell’evangelizzazione. 2.1. Alla scuola della Chiesa delle origini Qui ci dobbiamo mettere alla scuola della Parola di Dio, concretamente della Chiesa primitiva. Che cosa ci dice questa lezione della Chiesa primitiva? Ci dice qual è il nucleo di questo Vangelo, quali sono le variabili, come si presenta questo annuncio, quali sono le dimensioni di questo annuncio, quali sono le vie di questo annuncio. Il nucleo è la Pasqua. Quando ero viceparroco, un giorno d’accordo con il parroco ho fatto un gioco molto semplice. All’uscita dalla Messa invitavo i fedeli se, nella fretta di andare in casa, la sentivano, quelli che volevano, di fermarsi un momento. E abbiamo fatto fare questo gioco (che si potrebbe fare mentalmente anche qui, poi l’ho fatto con dei seminaristi quando sono diventato Rettore, l’ho fatto con i catechisti e per i laici impegnati). Si consegna un foglio e si dice: disegnate il perimetro rettangolare di una busta da lettera, e poi in alto a destra disegnate il quadratino di un francobollo, il tutto a grandezza naturale. In quindici secondi scrivete, secondo voi, qual è il centro della fede. Prima c’era una sorta di black aut nella mente di questi che dovevano rispondere, poi dopo un po’ di concentrazione, vedi che scrivono. Dopo alcuni secondi proviamo a vedere che cosa c’è scritto: i più furbi scrivono parole a grandezza naturale, con una calligrafia da indirizzo per una busta da lettera, come “amore”, “pace”. Nel quadratino di un francobollo la parola “pace” e “amore” c’entrano, mentre è più difficile farci entrare la parola “preghiera”, “perdono”. Seconda fase dell’esercizio del gioco. Adesso voi provate a cancellare tutte le parole che potrebbe avere scritto anche un musulmano o un induista o un buddista. Allora vedi che ad uno ad una sono cancellate parecchie di queste parole. La parola “pace” va bene pure per un buddista, perché la parola “preghiera” va bene pure per un musulmano, la parola “amore” penso vada bene pure per un induista; alla fine non resta niente. Il centro noi lo sappiamo, qual è la risposta giusta: la parola è Gesù Cristo. Il centro della fede non è un argomento, non è una verità astratta, ma è una storia, un evento, meglio una persona. Quello che Giovanni Paolo II ha scritto in tutti i toni nella Novo millenio ineunte: “Non una formula ci salverà ma una Persona e la certezza che essa ci infonde”; e come l’apostolo 6 Tommaso, la Chiesa continuamente indica a toccare le sue piaghe, a riconoscerne cioè la piena umanità. Dunque, non un fatto magico o essere celeste, uno che precipita da un pianeta extraterrestre che con la tuta spaziale viene in mezzo a noi, ma la persona di Cristo. E questo è solo nel cristianesimo. Che cosa c’è nel cristianesimo? Un uomo in carne e ossa che è il Figlio di Dio, che è morto per noi! E fine a quando un cristiano arriva a dire che “è morto per me”, fa come Saulo prima di convertirsi. Quando Saulo diventa Paolo si fa battezzare, e Paolo arriva a dire: «Mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20); ecco la fede come appropriazione di questa verità che, ripeto, è una verità incarnata in una storia, in un evento, in una persona. Questo dunque è il nucleo della fede: il nucleo è la Pasqua. Fratelli miei, quanta gente, che pure viene a Messa tutte le domeniche, non sa più perché Gesù Cristo è morto in croce; perché? Oppure, dà delle risposte scontate, perché si vede che non sono appropriate. Sì, la nostra agente dice: “È morto per i nostri peccati”, “per salvarci”, “a causa dei miei peccati”… Ma se non scocca la scintilla della propria azione… Questa è la prima azione da farsi, quando dico: “Questo è vero per me, è vero nella mia vita, cioè mi cambia la vita”. Ecco, la conversione! Questo fa la differenza. Mentre, vediamo che non c’è ancora la fede. Certo c’è la fede battesimale, la fede come virtù infusa. Certo quello c’è anche nel bambino di 2/3 anni che sta appena cominciando a nominare Gesù o a identificare il Crocefisso. Ma per tanta gente il Battesimo resta “un sacramento legato”. Ricordate quella nozione teologica, la categoria dei “sacramenti legati”; due sposi che si sposano in peccato si sposano validamente, ma il sacramento è non rediscit, fino a quando con i figli non rientrano nella grazia di Dio; è a quel punto che il sacramento si sviluppa in pienezza. Per tanta gente il Battesimo è una sorta di “sacramento legato”, o se volete una prima rediscit, è come un contratto che è valido nella misura che ci sono le due firme dei contraenti. Ma il contratto del Battesimo è stato firmato da Cristo con il suo sangue! Ma fin quando lo firmo io il contratto non è valido, cioè non funziona, non è efficace. Allora, questo è il nucleo del vangelo ed è il nucleo della fede, ed è la risposta a questo annuncio. 2.1.1. I discepoli gridano la loro fede (il kerigma) Ma la Chiesa delle origini ci fa vedere però che questo annuncio viene modulato in diversi generi. Questa fede viene gridata; è il kerigma, che è l’annuncio sintetico e solenne della fede. Ricordate l’impresa di quel soldato ateniese Filippide che corse la distanza da Maratona ad Atene per annunciare la vittoria sui persiani dopo la battaglia di Maratona; arriva ad Atene di corsa a piedi e trova la gente nello stadio ad aspettare ansimante la notizia: “Abbiamo vinto o abbiamo perso contro i persiani?”. Arriva Filippide e ha appena il tempo di dire: Nike! Vittoria! E stramazza a terra. È come quando tu dai la notizia della vittoria della Nazionale: abbiamo vinto! Dici una parola. Appunto una “parola”, e questo è l’annuncio del Vangelo di Pasqua. Di quel 7 aprile (questa è la data probabile) dell’anno 30 d. C., in quella mattina di Pasqua quando quel grido, come un sibilo che attraversa la città di Gerusalemme e arriva fino alla Galilea, dice: “È risorto”. Chi? Cristo! Perché? Perché era morto! In questa formula, paroletta, c’è tutta la fede cristiana. Questo non lo crede un buddista, e neanche l’ebreo perché fin quando resta ebreo non crede nella resurrezione ma crede nella resurrezione finale, dei giusti alla fine; ma questo lo credevano anche i discepoli di Gesù. Quando Gesù ha annunciato la resurrezione il “terzo giorno”, per i discepoli non era il giorno “tre giorni dopo la morte”, ma era alla fine. Alla fine sì che “resusciteranno i giusti e Lui sarà il primo”. Va bene, ma alla fine; è come quando noi diciamo: “Alla fine ci sarà la resurrezione”. No, questo è un evento che avviene il terzo giorno, “quel terzo giorno avviene questo evento” (Lc 18,33): – È risorto! – Questo è il grido, questa è la notizia, e come di bocca in bocca e di casa in casa arriva fino al cenacolo e poi arriva fino alla Galilea. 7 2.1.2. I discepoli celebrano la loro fede (il cantico) Ma questo kerigma non solo viene annunciato, viene detto come una notizia breve; ma viene anche celebrato, viene cantato. Ecco i Cantici, che noi troviamo nel N. T., sono delle proclamazioni di fede cantata: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio» (Fil 2,5-6); e tutte le buone dizioni della Bibbia. Le parole dell’Inno dei Filippesi vanno riportate come un inno, come un cantico, perché la fede viene cantata, celebrata. Dunque, la fede non basta annunciarla ma va celebrata. 2.1.3. I discepoli narrano la loro fede (il Vangelo) Ma questa fede viene anche raccontata. Ecco il Vangelo, però è sempre questo kerigma che viene però raccontato. Perché kerigma deriva da corno. E kerigma perché? Perché è stato crocefisso. Ed è stato crocefisso perché? Perché è stato processato. È stato processato perché? E si va sempre più all’indietro. Per cui è interessante, se noi ora avessimo una lavagna potremmo tracciare una linea orizzontale di diagramma e segnare un punto su questa linea come anno cinquanta 50 d. C. Infatti 50/51 è la data del primo documento scritto per intero nel N.T. con la Lettera di Paolo ai Tessalonicesi. Ora Paolo in questa Lettera e in quelle successive, che cosa dice di Cristo? Non racconta i miracoli, non leggiamo Paolo per sapere una parabola di Gesù, o vi troviamo le Beatitudini. No, troviamo la notizia centrale nuda e cruda: la Pasqua: “Crocefisso per nostri peccati, risorto il terzo giorno per la nostra salvezza, per la nostra giustificazione”; questo dice Paolo ai Tessalonicesi, ai Romani, ai Filippesi, ai Corinti… Qui Paolo nell’anno 50 d.C. torna indietro a quegli “ultimi tre giorni” della vita terrena di Cristo e degli ingressi di Cristo nella gloria. Quindi Paolo ci racconta gli “ultimi tre giorni”, il primo sabato. Dopo di lui, una decina di anni dopo, viene Marco che nella comunità di Roma deve spiegare il perché questo Cristo è morto e risorto e perché è stato condannato. Perché è stato condannato? Perché ha fatto e detto delle cose. Appunto, Marco racconta questo Vangelo come una storia: com’è fatto e stato questo Regno? In Marco noi non troviamo esortazioni che troviamo invece in Paolo, come le esortazioni morali per la Chiesa. Marco, per spiegare l’evento degli ultimi tre giorni, parte ancora più indietro. Mentre Paolo dall’anno 50 è risalito all’anno 30, Marco arriva fino all’anno probabilmente 27 d.C., quindi tre anni prima, e racconta gli ultimi tre anni della storia di Cristo, dal battesimo al Giordano passando per la Galilea fino a Gerusalemme. Ecco, il racconto di Marco come un unico grande viaggio di Gesù fino a Gerusalemme. Poi sappiamo da Giovanni che Gesù ci è andato almeno tre volte, quindi si è trattato di tre anni, ma se noi avessimo solo il Vangelo di Marco sembrerebbe proprio un anno. Comunque un periodo di tempo che Gesù trascorre insegnando, guarendo, prendendo posizione, rivelando il volto di Dio, e dunque “mettendocela tutta per farsi condannare”. Perché se al processo, che Marco ci racconta, Gesù davanti al grande sinedrio avesse fatto l’autocritica, gli avrebbero offerto molti torti e lui non sarebbe morto e noi non saremmo qui adesso a parlare su di lui, non sarebbe morto in croce. Verso l’80 d.C., quindi 10/15 anni dopo Marco (le date sono ovviamente approssimative), vengono scritti il Vangelo di Luca e di Matteo, i quali non vanno all’indietro fino l’anno 27 d.C., fino al battesimo di Gesù al Giordano, ma vanno ancora più indietro fino alla nascita di Gesù. Ma non è che già nella nascita di questo Uomo noi troviamo delle premesse, delle anticipazioni che ci fanno capire quale sarà la sua sorte futura? Allora Matteo va fino all’annuncio a Giuseppe, Luca fino all’annuncio a Maria e da lì prendono le mosse per risalire poi in avanti. Finalmente abbiamo Giovanni il quale viene dopo, ma lui risale ancora più indietro perché Giovanni risale alla nascita eterna, alla generazione eterna del Verbo: «[1] In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio». Dunque, abbiamo racconti che man mano che si scandiscono nella via temporale vanno sempre più indietro. Allora, abbiamo grosso modo questi tre generi per dire il kerigma: 8 la professione di fede sintetica, il grido della fede; il cantico, la celebrazione; i racconti. 2.1.4. La variabile dei destinatari Ma c’è anche un’altra variabile, quella dei destinatari. Secondo il Libro degli Atti degli Apostoli (cfr. At 2) il giorno di Pentecoste Pietro fa, al popolo di Israele che è a Gerusalemme, tutto un discorso infarcito di citazioni dell’A.T. (il Salmo 16, Amos…). Ma quando lo stesso Pietro annuncia per la prima volta il primo kerigma ad un pagano, vedi Cornelio (cfr. At 10), è lo stesso kerigma, però è concentrato perché il richiamo alle Scritture è sintetico, secondo il richiamo delle profezie dei profeti ma senza citarle perché i pagani non conoscono Isaia o Davide, né conoscono l’A.T. Questo per dire come i destinatari entrano nell’Annuncio, perché lo condizionano in base alle precomprensioni e alle condizioni. Ma il nucleo resta sempre quello: “È risorto”. 2.1.5. L’annuncio è unico, provocatorio, intrattabile, trasformabile. L’annuncio di questo nucleo lo possiamo caratterizzare in questo modo: è unico, provocatorio, intrattabile, trasformabile. È unico perché non vale, per esempio, per il soggetto Maometto, perché per lui non è morto in croce, né Buddha né Confucio, e meno che meno per loro non sono risorti. Questo annuncio è provocatorio. Noi siamo abituati a dirlo come se fosse “il pareggio della Roma di ieri sera”; ormai la gente è abituato a sentirlo, magari sente di più la notizia del crollo della Borsa. Ma che “Gesù è morto” pare che non faccia né caldo né freddo. E quando si dice: Gesù è risorto! Qualcuno se ne esce dicendo: “Lo stai dicendo con tutta questa foga; ma che è successo questa notte?”. Cioè ormai non è più scandalo e follia, com’era quando la Chiesa lo ha annunciato e come dovrebbe essere sempre! Questo annuncio è scandaloso ed è irragionevole secondo la logica mondana. Ma è anche intrattabile, cioè non può essere soggetto a compromesso, a mediazioni diplomatiche, perché può essere solo o accettato o respinto, o credi o non credi! Non se ne esce… Però è trasformato, perché cambia tutto, fa la differenza. 2.2. Le dimensioni dell’annuncio (narrativa – esistenziale - catecumenale) La dimensione narrativa. Il messaggio non è una nozione ma una notizia. Non possiamo ridurre il cristianesimo ai grandi valori: la pace, la fraternità… perché abbiamo già avuto la rivoluzione francese che ci ha detto: libertà, uguaglianza e fraternità. Ieri sera leggevo un libro (che ho trovato, ma già lo conoscevo, l’avevo dimenticato nella stanza del Vescovo del Seminario), “Il diario del Concilio” di Henry Kesken, c’è una prefazione di Hans Kűng che dice: “In fondo il cristianesimo si può riassumere nel trinomio della rivoluzione francese, libertà, uguaglianza e fraternità”. Non so se ha scritto ancora delle stesse cose, ma questo “signore” mi ha creato qualche problema. Non vale un pezzo del Concilio, meno che meno vale un pezzo del Vangelo. Il cristianesimo non lo possiamo ridurre alla serie dei brani di valore. Di conseguenza se è una storia deve essere raccontata, non può essere una verità astratta, non è una teoria. Ignazio di Lodola (credo nella quarta annotazione dei suoi esercizi) dice: “Non è il molto sapere che sazia e soddisfa l’anima”. Dunque, la Chiesa non è un’accademia; questo non significa che non fa teologia, anzi fa la vera teologia, però dice giustamente Pier Angelo Sequeri: “Non è la fede dei sapienti ma è il sapere dei credenti”. La dimensione esistenziale. La fede come memoria per vivere la vita come una storia, ma non come un’antologia di storie poetiche. La dimensione catecumenale. Vuole dire: radicalità e gradualità di cammino. 9 2.3. Le vie dell’annuncio Per quanto riguarda le vie dell’annuncio, forse qui ci avviciniamo a qualche cosa sugli itinerari. Penso sia indispensabile mettere come discriminante, o come criterio primo e ultimo, il criterio della fede come scelta. Un conto è se questi cristiani praticanti, magari lontani o distanti, hanno fatto la scelta di fede, e un conto se non l’hanno fatta. Perché se la scelta è fatta la vita cambia, non nel senso che questi non sono più peccatori (e lo vediamo già per noi vescovi e preti che dobbiamo chiedere perdono almeno sette volte al giorno), non nel senso che io sono un uomo perfetto, la fede non mi fa diventare un essere perfetto; ma mi fa diventare più serio, cioè non mimetizza niente. Dice Paolo: “Cristo è la vita, per me vivere è Cristo” (Gal 2,20). Allora, può darsi che faccia fatica a perdonare ma non posso mettermi la coscienza in pace e fare la comunione, come purtroppo avviene per tanti cristiani praticanti, e poi non seguire la legge del perdono. Questa è la differenza che deve essere chiara: “Tu sei stato perdonato, tu dici il “Padre nostro”… Allora tu questo ce l’hai solo come un ideale…”. Quindi, un conto se c’è stata questa scelta, e un conto è se uno arriva anche a 50/60 anni e non ha fatto la scelta. 2.3.1. La preparazione evangelica (via finitudinis; via pulchhritudinis) E se la scelta deve essere ancora fatta? Ecco qui tutto il cammino della preparazione evangelica, e ci sono varie vie che possono entrarci. Ne richiamo due. La via finitudinis. Cioè, fratelli e sorelle, che razza di vita state vivendo? Questa è la domanda che si pone chi è veramente in cerca. Se la domanda non è posta, bisogna farla scattare: ti sta bene la vita che stai vivendo? Ti porti dentro il desiderio dell’infinito, e invece… Ti porti dentro un desiderio di felicità, e invece guarda che razza di vita che stai vivendo! Bisogna aiutare a entrare in se stesso; è la via dell’interiorità di sant’Agostino. Poi c’è l’esperienza del limite, dell’errore della tua vita, del peccato, del male. Ma c’è anche la via positiva, la via pulchhritudinis, la via della bellezza. Un giovane papà che strige tra le braccia il suo bambino appena nato fa un’esperienza di trascendenza, e forse senza saperlo, senza rendersene conto; non fa un’esperienza di male, questa è un’esperienza positiva. Si tratta di aiutarlo a scavare dentro a questa esperienza: perché provi questo brivido? Certo perché è carne della tuia carne, è sangue del tuo sangue; ma lo hai prodotto tu con tua moglie? C’è in questo “fazzoletto di carne” qualche cosa che ti fa pensare a Dio? Che cosa centra questo con la fede? Sono interrogativi preliminari, perché se la gente vive si pone le domande della vita, e la fede è la risposta alle domande vere della vita. 2.3.2. L’evangelizzazione diretta Allora si possono invocare gli itinerari di evangelizzazione, presentando la salvezza come: rivelazione; liberazione; divinizzazione. Ovviamente queste cose vanno insieme. Ma adesso io salto perché vorrei finire. 2.3. Il decalogo dell’evangelizzatore Mi permetto di leggere rapidamente il decalogo dell’evangelizzatore dettato però dai destinatari, non dagli evangelizzatori ma dei destinatari. Immaginiamo che siano i destinatari della nostra missione di evangelizzazione che ci dettano i dieci comandamenti. Questi fratelli e sorelle ce lo dicono non con le parole delle labbra ma con la loro vita. 0. Noi siamo coloro che tu vuoi portare alla fede in Gesù. 10 1. Non ci parlare di Gesù come di un argomento da top shove o da quart della TV, ma come la più bella notizia della nostra vita, e non come si dice un argomento. 2. Ricordati che il tuo messaggio ci interessa e ci provoca nella misura in cui tu non farai il professionista che parla di Gesù, ma vivi una vita che non si potrebbe spiegare se Gesù non fosse risorto. 3. È inutile che ci parli di Gesù Cristo se non conosci i nostri problemi, le nostre attese e la nostra vita. 4. Dimostraci che chi trova il Vangelo è uno che perde l’uno per cento ma guadagna il cento per uno. 5. Prima di dirci i “no” del Vangelo facci scoprire i “si”; prima di elencarci le rinunce cantaci le beatitudini. 6. Non chiederci di venire da te se prima non vieni tu da noi. Gesù ha detto a quelli come te: “Andate!”. Sei quindi tu che devi venire da noi. 7. Non fare il pioniere del Vangelo, sei un testimone in solido con altri fratelli. “Dove sono due o tre”, ha detto il Maestro… quindi meglio pochi ma uniti, che molti ma disuniti. 8. Una cosa che ci piace molto in quelli come te è la gratuità, non cercare la tua gratificazione, e non pretendere la nostra conversione. “Sei servo inutile”, ma sei servo a cuore pieno. 9. L’evangelizzazione è opera dello Spirito Santo, lui è regista, tu sei uno strumento; non ammalarti di protagonismo perché poi rischi di ammalarti anche di vittimismo. 10. Se è vero che il Vangelo è un annuncio di gioia, faccelo vedere dalla tua faccia, dal tuo sorriso. Diceva Maria Teresa di Calcutta di noi preti, che certi preti vanno in giro con una faccia che sembra dire: guarda che cosa abbiamo fatto. Se è vero che è un messaggio di amore non dirci che ci vuoi bene ma faccelo toccare con mano. 3. A quali condizioni è possibile evangelizzare? Rapidamente, a quali condizioni è possibile evangelizzare? 3.1. Occorre passare da una pastorale di conservazione ad una conversione pastorale Occorre passare da una pastorale di conservazione ad una conversione pastorale. Perché occorre passare da una fede di tradizione o di convenzione ad una fede per scelta. Dunque, ci vuole quella che viene chiamata “la conversione pastorale”, che è la conversione missionaria della pastorale. 3.2. È urgente transitare dall’istruzione sacramentalizzazione all’evangelizzazione È urgente transitare dall’“istruzione sacramentalizzazione” all’“evangelizzazione”. Noi diciamo che in Italia c’è stato il “Rinnovamento della catechesi”, ed è vero; in gran parte penso sia vero sinceramente. Però in quante parti ancora si sono cambiati i testi? Non sono cambiate le teste, solo i testi di catechismo, ma di fatto s’intende ancora l’alfabetizzazione; e questo dovrebbe essere per i bambini come istruzione religiosa che è importante per loro, ma non è la cosa più importante. Non possiamo ridurre formazione a istruzione, altrimenti sarebbe formazione uguale a informazione, formazione uguale a apprendimento. Come ha fatto Dio la formazione con i suoi discepoli? Non ha fatto come i rabbini o i shamans. Ha fatto camminare i suoi discepoli: “Venite dietro di me”. La formazione non è una serie di insegnamenti, ma è un cammino. Dice Tonino Vasconi: “La fede non nasce dalla lavagna, ma nasce dall’annuncio”. La Bibbia non ci dà né nozioni né definizioni di Dio, ma ci presenta un Dio che interviene nella storia. 11 L’obiettivo primo e ultimo dell’evangelizzazione non è il sacramento, ma la conversione. E la tappa conclusiva non è il sacramento, ma la vita. 3.3. Occorre privilegiare l’evangelizzazione degli adulti rispetto alla catechesi per i bambini Occorre privilegiare l’evangelizzazione degli adulti rispetto alla catechesi per i bambini. Questo è il dramma che tutti noi ci portiamo dentro, vescovi e preti; perché è facile dirlo come sto facendo io in questo momento, poi però quando siamo all’opera… C’è comunque un dato da tener presente. In Italia 274 mila catechisti su 300 mila sono impegnati per i bambini. Il resto per giovani e adulti. Dice un catechista che se ne intende, il direttore della rivista “Evangelizzare”: “Sarebbe come se i medici italiani fossero per il 90% pediatri e per il rimanente 10% si occupassero complessivamente della salute dei giovani, adulti e anziani. In sintesi In sintesi tre urgenze. Occorre ri-formare il presbiterio, cioè il cammino che voi state facendo con il vostro Vescovo. Se noi preti per primi non ci mettiamo in stato di missione l’evangelizzazione non avverrà. Anche qui è facile a dirlo. Personalmente l’ho dovuto dire ai miei preti: “Fratelli miei, noi vogliamo fare una missione; allora, qui se non cominciamo noi a spostarci, a muoverci… la missione la facciamo stando seduti, e lo fanno gli altri; e noi? Allora io, come vescovo, devo chiedere l’obbedienza a tutti, tutti quelli a cui ritengo opportuno e giusto e sacrosanto chiederlo, perché se sono vescovo non è colpa mia. Però se ci sono tra di voi alcuni che sono disponibili per tutti… Io chiedo obbedienza anche agli altri, però se ci sono alcuni tra di voi ve lo chiedo, e sarà un segno bello, il primo segno della missione che Dio dona a un prete: Dio non ci stacca da qualcuno se me lo ha dato”. Di fatto, un presbiterio, come quello di una piccola diocesi che il Signore mi ha affidato fino a qualche giorno fa, dodici preti su quarantaquattro hanno accettato di obbedire, quindi sono stati veramente missionari; perché sono andati da una parrocchia, che magari qualcuno ci stava anche da venti anni, e sono andati in un’altra parrocchia, e sono un segno di tutto il presbiterio. Ma per questo bisogna che ci facciamo carico della nostra fede. Cioè la domanda che noi preti non possiamo scaricare sui laici e sugli altri è: ma tu ci credi ancora o no? A che punto è il mio cammino di fede? Bisogna riformare la parrocchia. La parrocchia è insostituibile. Certo noi ci portiamo dentro tante pene e tante fatiche, perché la parrocchia è cambiata. Ma mi pare che fino ad ora non si è trovata ancora una via, qualcosa che la possa sostituire. La parrocchia non può essere sostituita da niente, è indispensabile, è insostituibile! E non si può appaltare la missione dicendo: la fate voi, la fa lui, ma non io. Ci sarà bisogno di “lui”, di realtà ecclesiali, di vari movimenti, ma è la comunità il primo soggetto della missione. Questo deve fare la parrocchia, che non è un movimento, perché nella parrocchia ci stanno tutti quelli che hanno la residenza anagrafica e sono stati battezzati e non hanno rinunciato alla fede; quindi tutti! Anche i cristiani che non sono impegnati, anche quelli che noi chiamiamo i “lontani”, tutti fanno parte di questa famiglia che è la comunità parrocchiale. Allora, quel 10% di cristiani impegnati, lo fanno vedere che sono impegnati se fanno sentire la parrocchia vicina a quelli che noi diciamo “i lontani”. Bisogna ri-formare i formatori. E facendo dei luoghi di formazione, quelli che il Papa ha chiamato i “laboratori della fede”. Cioè, passando dal modello scolastico – che potrà produrre dei bravi professori di teologia, e ce n’è bisogno – a persone che siano discepoli e testimoni, che vedono trasformare la loro vita per opera dello Spirito Santo, per grazia sua. 12 Quindi, bisogna passare alla trasformazione delle persone, perché assicuriamo quella “grande premessa” che è insostituibile, perché la formazione non si può fare con dei sussidi, ma bisogna farla con le persone. Conclusione Per concludere vorrei accennare almeno a due grandi itinerari. 1. Per la riscoperta della fede. Ed è l’itinerario kerigmatico esistenziale; se funziona tutto quello che abbiamo detto è facile anche a pensare. Per esempio, dei fidanzati che vivono la stagione dell’amore, è una stagione propizia per riscoprire la fede. Ma questo itinerario è legato alle situazioni di vita, dell’amore e del dolore. Un adulto che ha cinquant’anni si “becca il tumore”, la fede cosa c’entra in questa sua malattia? Chi ti dà l’annuncio? È Cristo che lo salva! Allora questa è un’altra situazione di vita che bisogna tener presente. Quanti malati ci sono… Ma bisogna tener presente non solo la malattia del corpo ma anche persone che stanno facendo fatica, quindi l’amore, il dolore, la ricerca dei giovani; e la ricerca degli adulti… che cambiano molto, cambiano marito, cambiano lavoro… e non trovano pace. La ricerca della verità e della felicità è una situazione che va evangelizzata. L’educazione, genitori e figli, che vivono una certa situazione, è una grande opportunità di evangelizzazione per arrivare alla scelta di fede. Una volta che la scelta di fede è stata compiuta – non significa, ripeto, che c’è un giorno preciso – in questa persona è entrata un’altra persona, come la viviamo ora noi: è entrato Gesù Cristo. 2. Allora lì il credente fa un cammino mistagogico. Qui vorrei indicare il grande itinerario liturgico mistagogico: l’itinerario domenicale, che è il minimo indispensabile; ma non nel senso che è banale, ma che è grande, l’itinerario dei cristiani che hanno fatto la scelta di fede e che di domenica in domenica si incontrano nella Chiesa. Allora qui c’è, per esempio, l’itinerario biblico evangelico, il Vangelo di Marco; il sussidio preparato dal vostro vescovo per la missione è fatto benissimo. L’Azione Cattolica quest’anno, in vista dell’anno B che comincerà in Avvento, ha prodotto (e sta arrivando a tutti i soci proprio in questi giorni, anche agli amici dell’A.C. di Piacenza) questo libretto che io mi permetto di donare in omaggio al vostro Vescovo, anche per avere un suo parere, che è stato preparato da noi del Centro nazionale, da titolo “Vogliamo seguire il Signore, discepoli dal Vangelo di Marco”. È l’itinerario domenicale, l’itinerario evangelico liturgico. Diceva Saint-Exupéry Antoine, l’autore del “Piccolo Principe”: “Se vuoi costruire una baracca, preoccupati sì di avere il legname, i carpentieri, i fuochisti e mozzi di bordo, ma più ancora preoccupati di dare a tutti la nostalgia del mare”. Io mi auguro che questo Convegno ci aiuti tutti, anche me sinceramente perché ne ho bisogno, a farci contagiare di nuovo dalla “nostalgia del mare”, il mare aperto. Allora, possiamo davvero rispondere a questo mistero: “a prendere il largo a tutte le acque” che il Signore ci dà. Vi ringrazio. * Documento rilevato dalla registrazione, adattato al linguaggio scritto, non rivisto dall’autore. 13