L'introduzione di Salvatore Veca e la prefazione di John Rawls L'introduzione all’edizione italiana di Salvatore Veca Alla metà degli anni Settanta proposi alla Feltrinelli la traduzione italiana di A Theory of Justice di John Rawls. Ricordo le lunghe e appassionate discussioni con Gian Piero Brega, un grande direttore editoriale e un grande amico. Il libro sulla giustizia di Rawls, uscito da Harvard University Press nel 1971, era un’opera imponente e complessa e quasi completamente estranea alle maggiori tradizioni di ricerca in filosofia politica e sociale allora prevalenti in Italia, così come del resto in Europa continentale. Avevo maturato la convinzione che la teoria della giustizia come equità fosse uno dei più importanti contributi che la filosofia contemporanea potesse offrire a chi volesse orientarsi nella controversia politica democratica e nella discussione pubblica a proposito delle istituzioni, delle scelte pubbliche e delle pratiche sociali di una società equa. La teoria offriva criteri per il giudizio politico: ragioni e argomenti per valutare e giudicare le cose politiche alla luce di una concezione della giustizia sociale. E questa concezione mi sembrava coerente con una prospettiva di valore politico quale quella propria della tradizione di una sinistra liberale o, se si preferisce, di un socialismo liberale; a sua volta, quest’ultima prospettiva, allora nettamente minoritaria, era quella che politicamente favorivo rispetto ad altre e, in particolare, alla stanca ripetizione di discorsi ideologici in cui si consumava, in larga parte della sinistra, il declino della vulgata marxista. Le idee centrali della giustizia come equità potevano funzionare da bussola o stella polare per una politica della riforma sociale che aveva il suo nucleo normativo nella tesi esigente sull’eguaglianza democratica presa sul serio, entro la cornice costituzionale di istituzioni di base liberali. Mi aveva corroborato in questa convinzione il confronto delle idee con un gruppo ristretto di studiose e studiosi, avviato in quegli anni febbrili nei primi seminari della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, guidata dall’intelligenza vigile di un altro grande amico, Giuseppe Del Bo. Brega, la cui lealtà agli ideali della sinistra era pari solo alla sua persistente vocazione per l’eresia, alla fine si convinse e così decidemmo di avviare la traduzione di A Theory of Justice. La prima edizione italiana di Una teoria della giustizia, curata da Sebastiano Maffettone, fu pubblicata, dopo una lunga e complicata gestazione, vent’anni fa, nel 1982. Il libro che ora è presentato in edizione italiana, Justice as Fairness: A Restatement, uscito da Harvard l’anno scorso a cura di Erin Kelly, è il frutto maturo della lunga e tenace ricerca filosofica di Rawls che dalla metà degli anni Settanta alla fine del secolo appena concluso si è impegnato puntigliosamente nel riformulare ed esplicitare aspetti importanti della teoria della giustizia, rispondendo ai suoi critici e rivedendo in particolare alcuni errori presenti nella prima formulazione della teoria. La riformulazione della concezione della giustizia come equità, che Rawls porta grosso modo a termine nei corsi di filosofia politica degli anni Ottanta, mira in primo luogo a rendere coerente la teoria normativa e i suoi principi di giustizia per l’assetto delle istituzioni di base della società con la questione principale affrontata nelle lezioni di Political Liberalism, uscite da Columbia University Press nel 1993: la questione del pluralismo come tratto persistente delle società democratiche. Una questione difficile che richiede l’interpretazione appropriata della teoria della giustizia come una teoria politica e non come una dottrina morale, l’idea del consenso per intersezione e la distinzione fra ragionevolezza e razionalità. La teoria della giustizia riguarda così, nella nuova prospettiva del liberalismo politico, un sottoinsieme dei valori, quelli pertinenti per l’ambito del politico. E quest’ambito coincide con lo spazio degli elementi costituzionali essenziali, quelli su cui una società democratica bene ordinata avanza la richiesta della condivisione, della comune lealtà civile per cittadini e cittadine che hanno una varietà di prospettive di valore e una pluralità spesso confliggente di lealtà e devozioni. Si tratta della stessa logica che governa il tentativo, avviato da Rawls nei primi anni Novanta e presentato in The Law of Peoples, uscito da Harvard nel 1999, di estendere i principi di giustizia dal versante interno di comunità politiche, definite da confini, all’arena globale delle relazioni internazionali, con tutta l’eco del federalismo kantiano di Per la pace perpetua. Nella prima parte di Giustizia come equità. Una riformulazione Rawls presenta nella loro connessione le idee fondamentali che definiscono e mettono a fuoco la prospettiva della sua teoria della giustizia entro il quadro del liberalismo politico. Nella seconda e nella terza parte i due principi di giustizia e gli argomenti in loro favore sono riformulati – a volte in modo nettamente innovativo – e in ogni caso chiariti, anche alla luce delle critiche e delle prospettive alternative, dall’utilitarismo al libertarismo, all’intuizionismo. La quarta parte propone una gamma di tesi sostanziali a favore di una società che mantenga le promesse dell’eguaglianza democratica, rese fatue o ipocrite dal persistere di grandi ineguaglianze in risorse che distorcono il processo democratico e ne erodono le basi liberali. Rawls risponde alla critiche femministe, alle obiezioni non gravi del repubblicanesimo e alle severe e persistenti obiezioni marxiane a proposito della contraddizione, propria di una società capitalistica, fra gli eguali diritti di cittadinanza e i diseguali poteri sociali e titoli sulle risorse, e argomenta a favore di una democrazia proprietaria o di una qualche forma di socialismo liberale. Nella quinta parte il problema della stabilità, la questione principale del liberalismo politico, viene riformulato e affrontato rispondendo alle obiezioni del comunitarismo. Ancora una volta la filosofia politica della giustizia di Rawls, nella sua riformulazione, chiama in causa la responsabilità intellettuale di chiunque abbia a cuore la qualità della forma di vita democratica. La forma di vita democratica è incentrata sull’idea dei diritti di eguale cittadinanza e sull’idea connessa della società come schema equo di cooperazione nel tempo fra persone libere ed eguali, che hanno pari dignità. Le pagine di Giustizia come equità. Una riformulazione esemplificano la lealtà intransigente a un grappolo di valori politici che, in una varietà di tradizioni, dovremmo poter onorare. La distanza fra come stanno le cose politiche e come la teoria ci dice dovrebbero stare, una distanza di cui Rawls è pienamente consapevole in questo lucido bilancio di una ricerca filosofica sull’idea di giustizia che lo ha impegnato per mezzo secolo, può darci ragioni per giudicare e forse motivazioni per agire politicamente per il meglio, entro lo spazio che il mondo ci concede. E ciò vale, ai tempi della globalizzazione, tanto per la giustizia delle istituzioni e del processo democratico entro le nostre società, quanto per un diritto equo dei popoli sulla scena opaca e incerta del teatro del mondo, nella gran città del genere umano. La prefazione di John Rawls In questo lavoro mi propongo due scopi. Il primo è quello di correggere i difetti più gravi di Una teoria della giustizia, difetti che hanno reso meno chiare le idee fondamentali della concezione della giustizia in essa presentata, cui ho dato il nome di giustizia come equità. Poiché in quelle idee ho ancora fiducia e credo possibile superare le loro principali difficoltà, mi sono imbarcato in questa riformulazione nella quale cerco di migliorare l’esposizione, correggere un certo numero di errori, introdurre alcune revisioni (spero utili), e indicare come rispondere ad alcune fra le obiezioni più frequenti. In molti passi ho anche ristrutturato l’argomentazione. L’altro scopo è quello di mettere insieme in un’esposizione unificata la concezione della giustizia presentata nella Teoria e le principali idee dei saggi che ho scritto a partire dal 1974. Da sola, la Teoria sfiorava le seicento pagine, e i saggi più rilevanti (circa dieci) portano il totale a quasi mille; per di più tali saggi non sono del tutto compatibili fra di loro, e diverse idee – per esempio quella di consenso per intersezione – sono formulate in un modo ambiguo, il che rende difficile dare chiarezza e coerenza all’esposizione. È giusto aiutare il lettore interessato a vedere come si possano adattare l’uno agli altri questi saggi e la Teoria, quali punti siano stati rivisti e in che cosa consistano i cambiamenti; e io cerco appunto di aiutarlo presentando in un’unica sede un’esposizione del mio attuale modo di concepire la giustizia come equità che si rifà a tutti questi lavori. Ho cercato di rendere più o meno autosufficiente questa riformulazione. Per chi ha già qualche conoscenza della Teoria i cambiamenti più importanti sono di tre tipi: in primo luogo quelli, di forma e di sostanza, che riguardano i due principi di giustizia; in secondo luogo, quelli nel modo di organizzare gli argomenti a favore di tali principi nella posizione originaria; in terzo luogo, quelli nel modo di intendere la stessa giustizia come equità, che ora è una concezione politica della giustizia e non un capitolo di una dottrina morale comprensiva. Faccio, tanto per chiarire, due esempi di cambiamento del primo tipo. Uno consiste in una caratterizzazione molto diversa – resa indispensabile dalle dure critiche di H.L.A. Hart (§ 13) – delle uguali libertà di base e della loro priorità; un altro consiste in una trattazione riveduta e corretta dei beni primari, che ora vengono collegati al concetto politico e normativo dei cittadini come persone libere e uguali, per cui non appaiono più specificati come prima ( come molti, per esempio Joshua Cohen e Joshua Rabinowitz, mi avevano fatto notare), solo sulla base della psicologia e dei bisogni umani (§ 17). Cerco anche di venire incontro alle obiezioni di Amartya Sen (§ 51). Il principale cambiamento del secondo tipo è che ora l’argomento a favore dei due principi di giustizia a partire dalla posizione originaria è diviso in due confronti fondamentali: nel primo i due principi sono confrontati con quello dell’utilità media, nel secondo sono confrontati con una variante ottenuta sostituendo al principio di differenza un principio dell’utilità media vincolato a un minimo. I due confronti ci permettono di separare le ragioni a favore del primo principio di giustizia (quello che riguarda le libertà di base) e della prima parte del secondo (quella sull’equa uguaglianza delle opportunità) dalle ragioni a favore della seconda parte del secondo (il principio di differenza). Questa suddivisione dell’argomento mostra, contro quello che potrebbe far pensare l’esposizione della Teoria, che le ragioni a favore del principio di differenza non si basano (come hanno supposto, non irragionevolmente, K.J. Arrow, J.C. Harsanyi e altri) su una forte avversione all’incertezza intesa come atteggiamento psicologico (§§ 34-39) (che sarebbe un argomento debolissimo). Le ragioni più appropriate sono altre, e si basano sulle idee di pubblicità e reciprocità. Incontriamo i cambiamenti del terzo tipo là dove si cerca di chiarire in che modo vada intesa la giustizia come equità. La Teoria non si chiede mai se quest’ultima sia una dottrina morale comprensiva o una concezione politica della giustizia, ma c’è un punto in cui sostiene (§ 3, p. 32) che se la giustizia come equità avrà un successo apprezzabile il passo successivo sarà quello di studiare una concezione più generale che viene suggerita soltanto da un nome, “giustezza come equità”. Così, sebbene i problemi esaminati con un minimo di dettaglio nella Teoria siano sempre quelli, tradizionali e ben conosciuti, della giustizia politica e sociale, per il lettore non sarebbe irragionevole concludere che la giustizia come equità non è che un capitolo di una dottrina morale comprensiva che potrebbe essere sviluppata più avanti, se il successo premiasse questo primo tentativo. La nuova formulazione elimina tale ambiguità: ora la giustizia come equità è chiaramente una concezione politica della giustizia. Questo cambiamento del modo di intenderla ne porta con sé molti altri e richiede tutta una famiglia di idee che nella Teoria non ci sono, o almeno non hanno lo stesso significato o la stessa importanza. Oltre alla stessa nozione di concezione politica della giustizia abbiamo bisogno anche dei concetti di consenso per intersezione e di dottrina religiosa, filosofica o morale comprensiva, o parzialmente comprensiva, per costruire una concezione più realistica di società bene ordinata, data la pluralità di queste dottrine in una democrazia liberale. Inoltre abbiamo anche bisogno delle idee di base pubblica della giustificazione e di ragione pubblica, nonché di alcuni fatti generali di sociologia politica di senso comune dei quali rendono conto, in parte, quelli che chiamo oneri del giudizio – di nuovo un’idea che nella Teoria non è usata. A prima vista può apparire sorprendente che per fare della giustizia come equità una concezione politica, e non più un capitolo di una dottrina comprensiva, ci voglia tutta una famiglia di idee nuove; ma la ragione è che ora dobbiamo sempre distinguere la concezione politica da una serie di dottrine comprensive, religiose, filosofiche e morali. Di solito queste dottrine hanno idee di ragione e giustificazione tutte loro, ma anche la giustizia come equità in quanto concezione politica ha le sue – per l’esattezza le idee di ragione pubblica e di base pubblica della giustificazione – e deve specificarle in modo propriamente politico, quindi distinto dalle corrispondenti idee delle dottrine comprensive. Dato quello che chiamo il fatto del pluralismo ragionevole, dobbiamo sempre tener conto dei diversi punti di vista esistenti se la giustizia come equità (o in generale una concezione politica) deve avere una qualche probabilità di conquistarsi il sostegno di un consenso per intersezione. Per il momento, il significato di queste osservazioni non sarà chiaro come dovrebbe. Il loro solo scopo è quello di dare, a chi già conosce la Teoria, un’idea del tipo di cambiamento che troverà in questa breve riformulazione. Ringrazio, come sempre, molti colleghi e allievi per le osservazioni e le critiche, meditate e preziose, che mi hanno fatto anno dopo anno. Sono troppo numerosi per ricordarli qui, ma devo moltissimo a tutti. Desidero anche ringraziare Maud Wilcox per il lavoro redazionale, condotto con grande sensibilità, sulla versione del testo del 1989. E ho apprezzato dal profondo del cuore Erin Kelly e mia moglie Mardy, grazie alle quali è stato possibile portare a termine il libro nonostante il declinare della mia salute. Ottobre 2000 - J.R