Testi di sociologia dell`educazione

Testi di sociologia dell’educazione
L'educazione,
la sua natura, la sua funzione*
1. Le definizioni dell'educazione. Esame critico
La parola educazione è stata talvolta impiegata in senso
molto lato per designare l'insieme delle influenze che la
natura o gli altri uomini possono esercitare sia sulla nostra
intelligenza, sia sulla nostra volontà. Essa comprende — dice Stuart Mill — « tutto quello che noi facciamo per conto
nostro e tutto quello che gli altri fanno per noi, allo scopo
di avvicinarci alla perfezione della nostra natura. Nella più
ampia estensione del termine, essa comprende finanche gli
effetti indiretti prodotti sul carattere e sulle facoltà umane
da cose che hanno uno scopo totalmente diverso: le leggi,
le forme di governo, le arti industriali e persino ancora i
fatti fisici, indipendenti dalla volontà dell'uomo, come il
clima, il suolo e la posizione geografica ».
Però questa definizione comprende dei fatti totalmente
disparati e che non possono esser riuniti sotto uno stesso
vocabolo, senza correre il rischio di commettere delle confusioni. L'azione delle cose sugli uomini è diversissima, come modo di agire e come risultati, da quella esercitata dagli
uomini stessi. E l'azione dei coetanei sui coetanei differisce
*Si tratta della voce « Éducation », in Nouveau Dictionnaire de
Pedagogie et d'instruction primaire, sotto la direzione di F. Buisson
Paris, Hachette, 1911, pp. .529-536; il saggio è tratto da È. Durkheim,'
La sociologia e l'educazione, trad. di S. Acquaviva, Roma, Newton
Compton Italiana, 1971.
da quella che gli adulti esercitano sui più giovani. È quest'ultima sola che qui ci interessa, e pertanto è ad essa che è
conveniente riservare il termine di « educazione ».
In che cosa consiste tale azione sui generis A questa
domanda sono state date risposte differentissime, che possono esser riunite in due gruppi principali.
Secondo Kant « lo scopo dell'educazione è di sviluppare
in ogni individuo tutta la perfezione che è nelle sue possibilità ». Che cosa si deve allora intendere per « perfezio1
ne »? È, ci è stato detto sovente, lo sviluppo armonico
di tutte le facoltà umane. Portare al più alto livello che
possa esser raggiunto la somma delle possibilità che sono
in noi, realizzarle nella completezza che è nei nostri mezzi,
senza che nuocciano le une alle altre, non è forse un ideale
al di sopra del quale non se ne saprebbe collocare uno più
grande?
Ma, se in una certa misura questo sviluppo armonico è,
effettivamente, necessario e desiderabile, non si può d'altra
parte realizzarlo interamente, perché si trova in contraddizione con un'altra regola della condotta umana, che non è
meno imperiosa: quella che ci ordina di consacrarci ad un
compito particolare e limitato. Noi non possiamo e non
dobbiamo votarci tutti allo stesso genere di vita; ma dobbiamo, secondo le nostre attitudini, svolgere delle funzioni
differenti, ed è indispensabile che ciascuno di noi si metta
in armonia con quella che gli incombe.
Non siamo stati fatti tutti per riflettere; occorrono anche
uomini d'intuito e d'azione. Al contrario, occorrono uomini
che abbiano il compito di pensare. Ora, il pensiero non può
svilupparsi che distaccandosi dal movimento, che ripiegandosi su se stesso, che sottraendo all'azione esteriore colui
che vi si dona per intero. Di qui una prima differenziazione
che non si crea senza una rottura d'equilibrio. E l'azione,
per parte sua, come il pensiero, è suscettibile di assumere
una moltitudine di forme differenti e particolari. Senza dubbio, tale specializzazione non esclude un certo fondo comune
e, di conseguenza, un certo equilibrio delle funzioni tanto
organiche che psichiche, senza il quale la salute dell’individuo resterebbe compromessa, nello stesso tempo che la
coesione sociale. Rimane ad ogni modo stabilito che un'armonia perfetta non può esser presentata come Io scopo
supremo della condotta e dell'educazione.
È ancor meno soddisfacente la definizione utilitaristica
secondo cui l'educazione avrebbe per oggetto il « fare dell'individuo uno strumento di felicità per se stesso e per i
suoi simili» (James Mill); perché la felicità è una cosa
essenzialmente soggettiva, che ognuno apprezza alla sua maniera. Una formula del genere lascia dunque indeterminato
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lo scopo dell'educazione e, di conseguenza, l'educazione
stessa, poiché l'abbandona all'arbitrio individuale. È bensì
vero che Spencer ha cercato di definire obbiettivamente la
felicità. Per lui, le condizioni della felicità sono quelle della
vita. La felicità completa è la vita nella sua completezza.
Ma che cosa dobbiamo noi intendere per « la vita »? Se
si tratta unicamente della vita fisica, si può ben indicare
quello che, mancando, la rende impossibile. Essa implica,
infatti, un certo equilibrio fra l'organismo ed il suo ambiente
e, poiché i due termini in rapporto sono dati definibili,
sarà anche definibile questo loro rapporto.
Però non si possono esprimere in tal modo che le necessità vitali più immediate. Ora, per l'uomo e sopratutto
per l'uomo d'oggi, una simile vita non è « la vita ». Noi
le domandiamo altre cose, differenti dal funzionamento presso a poco normale dei nostri organi. Uno spirito colto preferisce non vivere che rinunciare alle gioie dell'intelligenza.
Anche dal solo punto di vista materiale tutto quello che
oltrepassa lo stretto necessario sfugge a qualsiasi determinazione. Lo standard of life, il campione tipo dell'esistenza,
come dicono gli inglesi, il minimo al di sotto del quale ci
sembra non sia accettabile scendere, varia infinitamente a
seconda delle condizioni, degli ambienti e dei tempi. Quello
che ci sembrava ieri sufficiente, ci sembra oggi al di sotto
della dignità dell'individuo, quale noi la sentiamo attualmente, e tutto fa presumere che le nostre esigenze su questo punto andranno sempre aumentando.
Arriviamo qui alla critica generalizzata nella quale incorrono tutte queste definizioni. Partono da questo postulato,
che vi è un'educazione ideale, perfetta, valida istintivamente
per tutti gli uomini. Ed è questa educazione universale ed
unica che il teorico si sforza di definire, Ma, innanzi tutto,
se noi consideriamo la storia, non vi troviamo alcunché
capace di confermare questa ipotesi. L'educazione ha variato
infinitamente, secondo i tempi e secondo i paesi. Nelle città
greche e latine, l'educazione addestrava l'individuo ad esser
ciecamente subordinato alla collettività, a diventare la « cosa » della società. Oggi, essa si sforza a farne una personalità autonoma. Ad Atene si cercava di formare degli spiriti
delicati, accorti, sottili, appassionati di misura e di armonia,
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capaci di gustare il bello e le gioie della speculazione pura;
a Roma si voleva innanzi tutto che i ragazzi diventassero
degli uomini d'azione, appassionati di gloria militare, indifferenti per quello che riguardava le lettere e le arti. Nel
Medio Evo l'educazione era, innanzi tutto, cristiana; nel
Rinascimento ha preso un carattere più laico e più letterario;
oggi la scienza tende a prendere il posto che l'arte occupava
in altri tempi.
Si dirà che il fatto non rappresenta l'ideale? Che, se
l'educazione è cambiata, la cosa è avvenuta perché gli uomini
hanno preso abbaglio su quello che essa doveva essere? Ma
se l'educazione romana avesse ricevuto l'impronta d'un individualismo paragonabile al nostro, la « comunità » romana
non avrebbe potuto conservarsi; la civiltà latina non avrebbe
potuto sorgere ne, successivamente, la nostra civiltà moderna che ne è, in parte, derivata.
Le società cristiane del Medio Evo non avrebbero potuto
vivere, se avessero dato al libero esame l'importanza che
noi gli accordiamo ai giorni nostri. Vi sono dunque delle
necessità ineluttabili, dalle quali è impossibile fare astrazione. A che cosa può servire l'immaginare un'educazione
mortale per la società che la mettesse in pratica?
Questo stesso postulato tanto contestabile contiene un
errore più generale. Se si comincia così, col domandare a
se stessi quale debba essere l'educazione ideale, fatta astrazione da qualsiasi condizione di tempo e di luogo, vuol dire
che si ammette implicitamente che un sistema educativo
nulla ha di reale in se stesso. Non vi si vede un insieme di
pratiche e di istituzioni che si sono organizzate lentamente
nel corso dei tempi, che sono solidali con tutte le altre istituzioni sociali e che le esprimono; che, di conseguenza, non
si possono modificare a volontà più che non si possano
modificare le strutture stesse della società. Ma invece sembra
essere un semplice sistema di concetti realizzati; sotto questo
punto di vista pare dipendere dalla sola logica. Si immagina che gli uomini d'ogni epoca l'organizzino volontariamente per realizzare un fine determinato; che, se quest'organizzazione non è ovunque la stessa, il motivo è che ci si
è sbagliati sia sulla natura, sia sullo scopo che conviene
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perseguire, sia sui mezzi che permettono di raggiungerlo.
Sotto questo punto di vista, le forme educative del passato appaiono come altrettanti errori, totali o parziali. Non
se ne deve dunque tener conto. Non dobbiamo renderci
solidali con gli errori di osservazione o di logica che hanno
potuto fare i nostri predecessori; ma possiamo e dobbiamo
porci il problema, senza occuparci delle soluzioni che gli
sono state date, cioè lasciando da parte tutto quello che è
stato. Non abbiamo che da domandarci quello che deve
essere. Gli insegnamenti della storia possono, al massimo,
risparmiarci dal ricadere negli errori che sono già stati
commessi.
In effetti ogni società, considerata ad un momento determinato del suo sviluppo, ha un sistema d'educazione che si
impone agli individui con una forza generalmente irresistibile. È vano credere che noi possiamo allevare i nostri figli
come vogliamo. Vi sono delle consuetudini alle quali dobbiamo conformarci; se noi vi deroghiamo troppo gravemente, esse si vendicano poi sui nostri giovani. Questi, una
volta diventati adulti, non si troveranno in condizioni di
vivere fra i loro contemporanei, coi quali non si sentiranno
in armonia. Siano essi stati allevati in base ad idee o troppo
arcaìche o troppo avveniristiche, la cosa non ha importanza:
tanto in un caso quanto nell'altro non sono della loro epoca
e, di conseguenza, non si trovano in condizioni di vita normale. Vi è dunque, in ogni periodo, un modello normativo
dell'educazione, dal quale non possiamo discostarci senza
scontrarci con vive resistenze che contengono delle velleità
di dissidenza.
Ora, i costumi e le idee che determinano questo modello non siamo stati noi, individualmente, a crearli. Sono
il prodotto della vita in "comune e ne esprimono le necèssità.
"Sono finanche, nella maggior parte, opera delle generazioni
anteriori. Tutto il passato dell'umanità ha contribuito a
creare questo insieme di massime che inquadrano l'educazione di oggi; tutta la nostra storia vi ha lasciato delle tracce,
compresa la storia dei popoli che ci hanno preceduti. Avviene come per gli organismi superiori, che portano in sé
come l'eco di tutta l'evoluzione biologica della quale sono il
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risultato.
Quando si studia storicamente la maniera nella quale si
sono formati e sviluppati i sistemi d'educazione, ci si accorge che essi dipendono dalla religione, dall'organizzazione
politica, dal livello di sviluppo delle scienze, dalle condizioni dell'industria ecc. Se li si isola da tutte queste cause
storiche, diventano incomprensibili. In che maniera, allora,
può l'individuo pretendere di ricostruire, col solo sforzo
della sua cogitazione personale, quello che non è un'opera
del pensiero individuale? Egli non è di fronte ad una « tabula rasa », sulla quale può edificare quello che meglio crede, ma si trova in presenza di realtà esistenti che non può
ne creare ne distruggere ne trasformare a volontà. Non
può agire su di loro che nei limiti entro i quali ha imparato
a conoscerle, sapendo quale è la loro natura e quali sono
le condizioni dalle quali dipendono; ed egli non può arrivare a saperlo che mettendosi alla loro scuola, che cominciando coll'osservarle, come il fisico osserva la materia bruta
ed il biologo i corpi viventi.
In che maniera, d'altronde, procedere altrimenti? Quando
si vuole determinare, mediante la sola dialettica, ciò che
l'educazione deve essere, si deve incominciare con lo stabilire quali fini deve avere. Ma cosa ci permette di dire che
l'educazione ha questi scopi piuttosto che questi altri? Noi
non sappiamo, a priori, qual è la funzione della respirazione
o della circolazione nell'essere vivente. Grazie a quale privilegio saremmo noi meglio informati su quanto riguarda la
funzione educativa? Ci si risponderà, evidentemente, che
essa ha come obbiettivo di allevare dei giovani. Ma questo
significa semplicemente impostare il problema in termini appena leggermente differenti; non è risolverlo. Occorrerebbe
dire in che cosa consiste questo allevamento, a che cosa
tende, a quali necessità umane risponde. Ora non è possibile rispondere a queste domande se non cominciando con
l'osservare in che cosa è consistito, a quali necessità ha risposto nel passato. Perciò l'osservazione storica si dimostra
indispensabile, non fosse che per stabilire la nozione preliminare di « educazione », per determinare la cosa che si
denomina in tal maniera.
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2. Definizione dell'educazione
Per definire l'educazione, dobbiamo esaminare i sistemi
educativi che esistono o che sono esistiti, confrontarli, mettere in luce i caratteri che loro sono comuni. La somma di
questi caratteri costituirà la definizione che noi cerchiamo.
Abbiamo già determinato, strada facendo, due elementi.
Parche si abbia educazione occorre che esista la presenza di
una generazione di adulti e di una generazione di giovani,
nonché un'azione esercitata dai primi sui secondi. Ci rimane
ora da definire la natura di questa azione.
Non esiste, per così dire, società nella quale il sistema
educativo non presenti un doppio aspetto: esso è, contemporaneamente, uno e multiplo. È multiplo: infatti, in un
certo senso, si può dire che esistono tante specie diverse
d'educazione quanti sono i differenti ambienti sociali in questa società. È questa costituita in caste? L'educazione varia
da una casta all'altra. Quella dei patrizi non era quella dei
plebei; quella dei Bramini non era quella dei Cudra. Allo
stesso modo, nel Medio Evo, che differenza esisteva fra la
cultura che riceveva il giovane paggio, istruito in tutte le
arti della cavalleria, e quella del villano che andava ad imparare alla scuola della parrocchia qualche magro elemento
di calcolo, di canto e di grammatica! Ancora oggi, non vediamo noi variare l'educazione con la classe sodale od anche
semplicemente con l'ambiente? Quella della città non è quella delle campagne, quella del borghese non è quella dell'operaio. Si dirà che questa organizzazione non è moralmente
giustificabile, che non vi si può vedere che una sopravvivenza destinata a sparire? La tesi è facile a difendersi. È
evidente che l'educazione dei nostri figli non dovrebbe dipendere dal caso che li fa nascere qui o là, da questi genitori
piuttosto che da quegli altri. Ma anche se la coscienza morale del nostro tempo avesse ricevuto su questo punto il
soddisfacimento che attende, l'educazione non diventerebbe,
per questo motivo, più uniforme. Quand'anche la carriera
di ogni giovane non fosse più, in gran parte, determinata a
priori da una cieca eredità, la differenza morale delle professioni non eviterebbe di portare con sé una grande diversità
pedagogica. Ogni professione, infatti, costituisce un ambien7
te sui generis, che richiede attitudini particolari e conoscenze
speciali, dove regnano certe idee, certi usi, certe maniere
di vedere le cose; e siccome il giovane deve essere preparato
in vista della funzione che sarà chiamato a svolgere, l'educazione, a partire da una certa età, non può più rimanere
la stessa per tutti i soggetti ai quali viene applicata. È per
tale motivo che noi la vediamo, in tutti i paesi civilizzati,
tendere sempre più a differenziarsi ed a spedalizzarsi; e
questa specializzazione diventa ogni giorno più precoce. L'eterogeneità che così si produce non si basa, come quella
della quale abbiamo constatato poco fa l'esistenza, sopra
ingiuste ineguaglianze; ma essa non è, pur tuttavia, minore.
Per trovare un'educazione assolutamente omogenea ed egualitaria, occorrerebbe risalire fino alle società preistoriche, in
seno alle quali non esisteva alcuna differenziazione; ed ancora, queste società non rappresentavano che un momento
logico nella storia dell'umanità.
Ma, qualunque sia l'importanza di queste educazioni speciali, esse non sono « tutta » l'educazione. Si può anzi dire
che esse non bastano a se stesse. Ovunque le si osservino,
esse non divergono le une dalle altre che a partire da un
certo punto, al di qua del quale si confondono. Esse riposano tutte su una base comune. Non v'è popolo nel quale
non esista un certo numero d'idee, di sentimenti e di pratiche che l'educazione deve inculcare a tutti i fanciulli indistintamente, qualunque sia la categoria sociale alla quale appartengono. Anche là dove la società è divisa in caste chiuse
le une alle altre, vi è sempre una religione comune a tutti,
e, di conseguenza, i principi della cultura religiosa, che è
allora fondamentale, sono gli stessi per tutta la massa della
popolazione. Anche se ogni casta, ogni famiglia ha i propri
dèi particolari, vi sono delle divinità generali, riconosciute
da tutti e che tutti i fanciulli imparano ad adorare. E siccome queste divinità incarnano e personificano certi sentimenti, certi modi di concepire il mondo e la vita, non si può
esser iniziati al loro culto senza contrarre, contemporaneamente, ogni sorta di abitudini mentali che superano la sfera
della vita puramente religiosa. Allo stesso modo, nel Medio
Evo, servi, villani, borghesi e nobili ricevevano in maniera
egualitaria la medesima educazione cristiana.
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Se così avviene in società nelle quali la diversità intellettuale e morale raggiunge un tal grado di contrasto, con quanta maggior ragione avviene la stessa cosa presso i popoli
più progrediti, nei quali le classi, benché rimanendo distinte,
sono pur tuttavia separate da un abisso meno profondo!
Anche là dove tali elementi comuni a qualsiasi educazione
non si esprimono sotto forma di simboli religiosi, non mancano tuttavia d'esistere. Nel corso della nostra storia, si è
costituito tutto un insieme d'idee sulla natura umana, sull'importanza rispettiva delle nostre differenti facoltà, sul diritto e sul dovere, sulla società, sull'individuo, sul progresso, sulla scienza, sull'arte ecc. che sono alla base stessa del
nostro spirito nazionale. Tutta l'educazione, quella del ricco
come quella del povero, quella che conduce alle carriere
liberali come quella che prepara alle funzioni industriali, ha
lo scopo di fissarle nelle coscienze.
Da questi fatti risulta che ogni società si forma un certo
ideale dell'uomo, di quello che deve essere tanto dal punto
di vista intellettuale che fisico e morale; che questo ideale
è, in certa misura, lo stesso per tutti i cittadini; che a partire da un certo punto, si differenzia secondo gli ambienti
particolari che comprende nel suo seno qualsiasi società. È
questo ideale, contemporaneamente uno e diverso, che costituisce il polo dell'educazione. Questa ha dunque come funzione di suscitare nel fanciullo: 1° un certo numero di stati
fisici e mentali che la società, alla quale appartiene, considera
come non dover esser assenti in alcuno dei suoi mèmbri 2° certe condizioni fisiche e mentali, che il particolare gruppo sociale (casta, classe, famiglia, professione) considera
egualmente doversi riscontrare in tutti coloro che lo costituiscono. In tal modo, è la società nel suo insieme e ciascun ambiente sociale in particolare, che determinano questo
ideale che l'educazione realizza.
La società non può vivere se non esiste fra i suoi mèmbri
una omogeneità sufficiente; l'educazione perpetua e rinforza
tale omogeneità, fissando a -priori nell'anima del fanciullo
le similitudini essenziali che impone la vita collettiva. Ma,
d'altro canto, senza una certa diversità qualsiasi cooperazione sarebbe impossibile. L'educazione assicura la persi9
stenza di questa diversità necessaria, diversificandosi essa
stessa e specializzandosi. Se la società è arrivata a un livello
di sviluppo tale che le sue antiche divisioni in caste e in
classi non possono più conservarsi, prescriverà un'educazione più unificata alla base. Se, allo stesso momento, il
lavoro è maggiormente diviso, provocherà nei fanciulli, su
un primo fondamento d'idee e di sentimenti comuni, una
diversità di attitudini professionali più ricca. Se vive in
stato di guerra con le società ambientali, si sforzerà di formare gli spiriti su un modello fortemente nazionale; se
la concorrenza internazionale prende una forma più pacifica,
il tipo che cercherà di realizzare sarà più generale e più
umano.
L'educazione non è dunque per essa che il mezzo mediante il quale la società creerà nel cuore delle giovani generazioni le condizioni essenziali per la propria esistenza. Vedremo più avanti come l'individuo stesso ha interesse a
sottomettersi a queste esigenze. Arriviamo dunque alla formula seguente: l'educazione e l'azione esercitata dalle generazioni adulte su quelle che non sono ancora mature per la
vita sociale;ha per obbiettivo di suscitare e sviluppare nel
fanciullo un certo numero di stati fisici, intellettuali e morali
che a_ lui sono richiesti tanto dalla società politica nel suo
insieme, quanto dall'ambiente particolare al quale è in modo
specifico destinato.
3. Conseguenze della definizione precedente: carattere sociale dell'educazione
Dalla definizione che precede risulta che l'educazione consiste in una socializzazione metodica della giovane generazione! In ognuno di noi, si può dire, esistono due esseri, i
quali, pur essendo inseparabili eccetto che per via di astrazione, non possono evitare tuttavia d'essere distinti. L'uno
è fatto di tutti gli stati mentali che non si riferiscono che
a noi stessi ed agli avvenimenti della nostra vita personale
è quello che si potrebbe chiamare l'essere individuale. L'altro è un sistema di idee, di sentimenti e di abitudini, che
esprimono in noi, non la nostra personalità, ma il gruppo
o i gruppi diversi dei quali facciamo parte. Di questo genere
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sono le credenze religiose, le credenze e le pratiche morali,
le tradizioni nazionali o professionali, le opinioni collettive
d'ogni genere. Il loro insieme forma l'essere sociale. Costituire questo essere in ciascuno di noi, tale è lo scopo finale
dell'educazione.
È da questo, d'altronde, che meglio viene dimostrata
l'importanza del suo ruolo e la fecondità della sua azione.
Infatti, non soltanto questo essere sociale non è precostituito, già preparato, nella primitiva costituzione dell'uomo:
ma non è neppure il risultato d'uno sviluppo spontaneo.
Spontaneamente, l'uomo non sarebbe stato propenso a sottomettersi ad un'autorità politica, a rispettare una disciplina
morale, ad aver dedizione ed a sacrificarsi. Nulla vi era nella
nostra natura congenita che ci predisponesse necessariamente a diventare i servi di divinità, emblemi simbolici della società, a rendere loro un culto, a privarci di qualcosa per render loro onore. È la società stessa che, a misura che si è
formata e consolidata, ha estratto dal suo seno queste grandi
forze morali, davanti alle quali l'uomo ha sentito la propria
inferiorità.
Ora, se noi facciamo astrazione dalle vaghe ed incerte
tendenze che possono esser dovute all'eredità, il fanciullo,
entrando nella vita, non vi introduce che l'apporto della sua
natura individuale. La società si trova quindi, ad ogni nuova
generazione, in presenza d'una tavola pressoché rasa, sulla
quale deve costruire con sforzi rinnovati. Occorre che, mediante gli accorgimenti più rapidi, all'essere egoista ed
asociale che viene al mondo ne venga sovrapposto un altro,
capace di condurre una vita morale e sociale. Ecco qual è
l'opera dell'educazione: e se ne scorge tutta la grandezza.
Essa non si limita a sviluppare l'organismo individuale nella
direzione indicata dalla sua natura, a rendere apparenti dei
poteri nascosti che non domandavano che di manifestarsi.
Essa crea nell'uomo un essere nuovo.
Questa virtù creatrice è, d'altronde, uno speciale privilegio dell'educazione umana. Ben differente è quella che ricevono gli animali, se può esser dato questo nome all'allenamento progressivo al quale sono sottoposti per opera dei
loro genitori. Questo può effettivamente accelerare lo sviluppo di certi istinti che sonnecchiano nel piccolo, ma non
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l'inizia ad una vita nuova. Esso facilita il gioco delle funzioni naturali, ma non crea nulla. Istruito dalla madre,
l'uccellino sa volare più presto o fare il nido. Ma non impara quasi nulla che non avrebbe potuto scoprire con la
propria esperienza personale.
Questo dipende dal fatto che gli animali o vivono al di
fuori di qualsiasi organizzazione sociale, o formano delle
società assai semplici, che funzionano grazie a meccanismi
istintivi che ciascun individuo porta in se stesso, completamente costituiti, dal momento della nascita. L'educazione
non può quindi nulla aggiungere d'essenziale alla natura,
poiché questa basta a tutto, alla vita del gruppo come a
quella dell'individuo. Viceversa nell'uomo le attitudini di
ogni sorta che presuppone la vita sociale sono troppo
complesse per poter incarnarsi, in qualche maniera, nei nostri tessuti e materializzarsi sotto forma di predisposizioni
organiche. Ne consegue che esse non possono trasmettersi
da una generazione all'altra per la via dell'eredità. La trasmissione viene fatta mediante l'educazione.
Peraltro, si dirà, se effettivamente è possibile concepire
che le qualità puramente morali, dato che impongono all'individuo delle privazioni, che disturbano i suoi impulsi naturali, non possano essere suscitate in noi che mediante
un'azione venuta dall'esterno, non ve ne saranno altre che
ciascun individuo ha interesse ad acquisire e che ricerchi
spontaneamente? Tali sono le diverse qualità dell'intelligenza, che gli permettono di meglio adattare la propria condotta alla natura delle cose. Tali sono anche le qualità fisiche
e tutto quello che contribuisce al vigore ed alla salute dell'organismo. Per queste, perlomeno, sembra che l'educazione, sviluppandole, non faccia che andar incontro allo sviluppo stesso della natura, piuttosto che condurre l'individuo
ad uno stato di perfezione relativa verso la quale lui stesso
tende, anche se può raggiungerlo più rapidamente grazie al
concorso della società.
Ma ciò che indica bene, malgrado le apparenze, che qui
come altrove l'educazione risponde innanzi tutto a delle necessità sociali, è il fatto che vi sono delle società nelle quali
simili qualità non sono state del tutto coltivate e che, ad
ogni modo, sono state interpretate molto diversamente se12
condo la società stessa. Si è ancora lontani dal vedere riconosciuti da tutti i popoli i vantaggi d'una solida cultura. La
scienza, lo spirito critico, che noi collochiamo oggi tanto in
alto, sono stati per lungo tempo guardati con sospetto. Non
conosciamo noi una grande dottrina che proclama « beati
i poveri di spirito »? Bisogna guardarsi bene dal ritenere che
questa indifferenza per il sapere sia stata imposta artificialmente agli uomini, in violazione della loro natura. Essi non
hanno in se stessi l'istintivo appetito per il sapere che loro
è stato spesso ed arbitrariamente attribuito. Essi non desiderano la scienza che nella misura in cui l'esperienza ha loro
insegnato che non possono farne a meno. Ora, per quel che
riguarda l'organizzazione della loro vita individuale, non ne
avevano bisogno. Come diceva già Rousseau, per soddisfare
le necessità vitali potevano bastare le impressioni, l'esperienza e gl'istinti, come bastano all'animale. Se l'uomo non
avesse conosciuto altri bisogni oltre a quelli molto semplici
che hanno le loro radici nella sua costituzione individuale,
non si sarebbe messo alla ricerca della scienza, tanto più
che questa non è stata acquisita senza dolorosi e laboriosi
sforzi. Egli non ha conosciuto la sete del sapere che quando
la società l'ha svegliata in lui e la società non l'ha svegliata
che quando essa stessa ne ha sentito il bisogno. Questo
momento arrivò quando la vita sociale, sotto tutte le sue
forme, divenne troppo complessa per poter funzionare altrimenti che grazie al concorso del pensiero meditato, cioè
del pensiero illuminato dalla scienza. Allora la cultura scientifica divenne indispensabile ed è per questo motivo che la
società l'esige dai suoi mèmbri e l'impone loro come un
dovere. Ma alle origini, finché l'organizzazione sociale è semplicissima, pochissimo variata, sempre uguale a se stessa, basta la cieca tradizione, come l'istinto all'animale. Ne deriva
che il pensiero ed il libero esame sono inutili se non pericolosi, poiché non possono che minacciare la tradizione. È
per questo motivo che essi sono proscritti.
Nulla di diverso avviene per le qualità fisiche. Che le condizioni dell'ambiente sodale facciano propendere verso l'ascetismo la pubblica coscienza, e l'educazione fisica sarà
respinta in secondo piano. È un poco quello che si è prodotto nelle scuole del Medio Evo. E questo ascetismo era
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necessario, perché la sola maniera di raggiungere un adattamento alla rudezza di quei tempi difficili era quella di
amarla. Allo stesso modo, secondo il corso dell'opinione,
questa stessa educazione verrà intesa nei sensi più diversi.
A Sparta, essa aveva soprattutto lo scopo d'indurire le
membra alla fatica; ad Atene, rappresentava la maniera di
fare dei corpi belli per l'occhio; ai tempi della cavalleria, le
si domandava di formare dei guerrieri agili e svelti; ai nostri giorni, essa non ha più che uno scopo igienico e si
preoccupa sopratutto di limitare i pericolosi effetti d'una
cultura intellettuale troppo intensa. Così, anche le qualità
che sembravano, a prima vista, tanto spontaneamente desiderabili, non sono ricercate dall'individuo che quando la
società gliene rivolge l'invito ed egli le ricerca nella maniera
che essa gli prescrive.
Siamo così in grado di rispondere ad una domanda che
è provocata da tutto quello che precede. Mentre noi mostravamo la società che modellava secondo i propri bisogni gli
individui, poteva sorgere il dubbio che questi subissero per
tal fatto una intollerabile tirannia. Viceversa, in realtà, sono
essi stessi interessati a questa sottomissione perché l'essere
nuovo che l’ azione collettiva, attraverso l'educazione, edifica
in tal modo in ciascuno di noi, rappresenta quello che vi
è di meglio in noi, quello che vi è in noi di propriamente
umano. L'uomo, infatti, e uomo solo e in quanto vive
in società. È diffìcile, nei limiti d'un articolo dimostrare
rigorosamente un'affermazione così generale e così importante, che riassume i lavori della sociologia contemporanea.
Ma, per incominciare, si può dire che essa è sempre meno
contestata. Inoltre, non è impossibile ricordare sommariamente i fatti più essenziali che la giustificano.
Innanzi tutto, se vi è oggi un fatto storicamente stabilito,
questo è che la morale è strettamente m rapporto con la
natura della società, poiché, come abbiamo indicato cammin
facendo, essa cambia quando le società cambiano. Cioè essa
dipende dalla vita in comune. È la società, infatti, che ci
fa uscire dal nostro egocentrismo che ci obbliga a tener
conto di altri interessi che non sono i nostri, che ci ha insegnato a dominare le nostre passioni, i nostri istinti, a dare
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loro una legge, ad aver soggezione, a privarci, a sacrificarci,
a subordinare i nostri scopi personali a -scopi più elevati.
Tutto il complesso di rappresentazioni che provoca in noi
l'idea ed il sentimento della regola della disciplina tanto
interiore che esteriore, è la società che l'ha imposto alle
nostre coscienze. È per tale motivo che abbiamo acquisito
questa forza di resistere a noi stessi, questa padronanza
sulle nostre tendenze che è una delle caratteristiche della
fisionomia umana e che è tanto più sviluppata quanto più
noi siamo degli uomini nel pieno senso della parola.
Né dobbiamo meno alla società dal punto di vista intellettuale. È la scienza che elabora le nozioni basilari che
dominano il nostro pensiero: nozioni di causa, di legge, di
spazio, di numero, dei corpi, della vita, della coscienza,
della società ecc. Tutte queste idee fondamentali sono perpetuamente in evoluzione. Ciò avviene perché esse sono il
riassunto, la risultante di tutto il lavoro scientifico, ben lontano dall'esserne il punto di partenza come invece credeva
Pestalozzi. Noi non ci rappresentiamo l'uomo, la natura,
le cause, lo spazio stesso come se lo rappresentava l'uomo
del Medio Evo; ciò dipende dal fatto che le nostre conoscenze ed i nostri metodi scientifici non sono più gli stessi.
Ora, la scienza è un'opera collettiva, poiché suppone una
vasta collaborazione di tutti gli uomini di scienza non soltanto della stessa epoca, ma di tutte le epoche successive
della storia.
Prima che le scienze fossero organizzate, la religione aveva lo stesso ufficio; perché qualsiasi mitologia costituisce
una rappresentazione, già elaboratissima, dell'uomo e dell'universo. La scienza, del resto, è stata l'erede della religione. Ora, la religione è un'istituzione sociale. Imparando
una lingua, noi apprendiamo tutto un sistema di idee distinte e classificate e siamo gli eredi di tutti i lavori dai
quali sono derivate queste classificazioni che riassumono
secoli d'esperienza .^Ma v'è di più: senza il linguaggio, noi
non avremmo, per così dire, delle idee generali, perché !
è la parola che, fissandole, da ai concetti una consistenza
sufficiente perché possano esser maneggiati comodamente
dallo spirito. È dunque il linguaggio che ci ha permesso
15
d'elevarci al disopra della pura sensazione; e non è necessario dimostrare che il linguaggio è, innanzi tutto, un elemento sociale.
Da questi pochi esempi, si può capire a che cosa si ridurrebbe l'uomo se gli si ritirasse tutto quello che egli riceve
dalla società: ricadrebbe al livello degli animali. Se ha
potuto oltrepassare lo stadio al quale gli ammali si sono
arrestati, lo si deve innanzi tutto al non essere egli ridotto
al solo frutto dei propri sforzi personali ma di cooperare
regolarmente coi suoi simili; il che rafforza il rendimento
dell'attività di ciascuno. Di più e soprattutto, i prodotti del
lavoro di una generazione non sono perduti per la generazione che viene dopo. Di quello che un animale ha potuto
imparare nel corso della sua esistenza individuale, quasi nulla
può sopravvivergli. Al contrario, i risultati dell'esperienza
umana si conservano quasi integralmente e anche nel più
minuto particolare, grazie ai libri, ai monumenti figurativi, agli attrezzi, agli strumenti d'ogni sorta che si tra-;
smettono di generazione in generazione, alla tradizione orale ecc. Il terreno naturale si copre in tal modo d'una
ricca alluvione che va aumentando senza arresto. Invece di
andar dispersa tutte le volte che una generazione si spegne
ed è sostituita da un'altra, la saggezza umana si accumula
senza arresto ed è questa accumulazione indefinita che eleva
l'uomo al disopra della bestia ed al disopra di se stesso.
Ma, al pari della cooperazione della quale si è trattato
prima, questo accumulo non è possibile che nell'interno e i
per opera d'una società. In quanto, affinchè i lasciti di ciascuna generazione possano essere conservati ed aggiunti agli
altri, occorre che esista una personalità morale che duri al
di sopra delle generazioni che passano, che le colleghi le :
une alle altre: è questa la società. In tal modo, l'antagonismo che troppo spesso è ammesso esistere tra l'individuo
e la società non corrisponde per niente alla realtà. Anzi,
ben lontani dall'esser in opposizione e dal non poter svilupparsi che in senso contrario, questi due termini s'incastrano l'uno nell'altro. L'individuo volendo la società, vuole
se. Stesso. L’azione che questa esercita su di lui, soprattutto
per la via ..dell'educazione, non ha affatto lo scopo di comprimerlo, dì diminuirlo, di snaturarlo; al contrario, vuole
16
ingrandirlo e farne un essere veramente umano. Senza dubbio, egli non può ingrandirsi così che facendo uno sforzo.
Ma è precisamente la possibilità di fare volontariamente
uno sforzo quella che costituisce una delle caratteristiche
più essenziali dell'uomo.
4. La funzione dello Stato in materia d'educazione
Questa definizione dell'educazione permette di risolvere
facilmente il problema, tanto controverso, dei doveri e dei
diritti dello Stato in materia d'educazione. Si oppone loro
il diritto della famiglia. Il fanciullo, si dice, è innanzitutto
dei suoi genitori: è dunque a questi che spetta di dirigere,
come giudicano necessario, il suo sviluppo intellettuale e
morale. L'educazione è allora concepita come una cosa essenzialmente privata e domestica. Quando ci si colloca da
simile punto di vista, si tende, naturalmente, a ridurre al
minimo possibile l'intervento dello Stato in questa materia.
Lo Stato dovrebbe, si dice, limitarsi a servire d'ausiliario
e di sostituto alle famiglie. Quando queste non sono in condizioni di compiere i loro doveri è naturale che quello se ne
incarichi. È anche naturale che renda loro il compito il più
facile possibile, mettendo a loro disposizione delle scuole,
dove possano, se vogliono, inviare i loro figli. Ma deve contenersi strettamente entro questi limiti, e vietare a se stesso
qualsiasi azione positiva destinata ad imporre un orientamento determinato allo spirito della gioventù.
Viceversa il suo compito è ben lontano dal dover rimanere così negativo. Se, come noi abbiamo cercato di stabilire,
l'educazione ha, innanzi tutto, una funzione collettiva; se
essa ha per oggetto l'adattamento del fanciullo all'ambiente
sociale nel quale è destinato a vivere, è impossibile che la
società si disinteressi d'una tale opera. Come potrebbe esser
assente, quando è questo il punto di riferimento verso il
quale l'educazione deve dirigere la propria azione? È quindi
ad essa che tocca ricordare senza arresto al docente quali
sono le idee, i sentimenti che devono esser inculcati al fanciullo per metterlo in armonia coll'ambiente nel quale è chiamato a vivere. Se non restasse sempre presente e vigilante,
17
per costringere l'azione pedagogica ad esercitarsi in un senso
sociale, questa si metterebbe necessariamente al servizio
di ideologie particolari e la grande anima della Patria si
frantumerebbe e si ridurrebbe ad una moltitudine incoerente di piccole anime frammentarie in conflitto le une contro
le altre. Non si potrebbe andare più completamente contro
lo scopo fondamentale di qualsiasi educazione.
Occorre scegliere: se si da qualche valore all'esistenza
della società — e veniamo dal vedere quello che essa rappresenta per noi — occorre che l'educazione assicuri tra i
cittadini una sufficiente comunità di idee e di sentimenti,
senza la quale qualsiasi società è impossibile. E perché possa dare un simile risultato, occorre pure che essa non sia
totalmente abbandonata all'arbitrio dei privati.
Dal momento che l'educazione è una funzione essenzialmente sociale, lo Stato non se ne può disinteressare. Al contrario, tutto quello che le si riferisce deve essere, in qualche
maniera, sottoposto alla sua superiore azione. Non si deve
dire, con questo, che lo Stato debba monopolizzare l'insegnamento. La questione è troppo complessa perché sia
possibile trattarla così di sfuggita: ci riserviamo di approfondirla a parte. Si può ritenere che i progressi scolastici siano
più facili e più pronti dove un certo margine è lasciato
alle iniziative individuali, dato che l'individuo è più facilmente innovatore dello Stato. Ma da questo, cioè dal
dover lo Stato, nell'interesse pubblico, lasciar aprire altre
scuole oltre a quelle delle quali ha più direttamente la
responsabilità, non deriva che egli debba rimanere estraneo
a quello che vi succede. Al contrario, l'educazione che viene
in quelle impartita deve rimanere soggetta al suo controllo.
Neppure è ammissibile che la funzione dell'educatore possa
esser esercitata da qualcuno che non presenta delle garanzie
speciali delle quali lo Stato solo può essere giudice.
Senza dubbio, i limiti entro i quali deve svolgersi il suo
intervento possono essere determinati con difficoltà una
volta per tutte, ma il principio di questo intervento non
può essere contestato. Non vi è scuola che possa accampare
il diritto di dare, con piena libertà, un'educazione antiso18
ciale. È ad ogni modo necessario riconoscere che lo stato
di divisione nel quale sono, in questo momento, gli spiriti
nel nostro paese, rende tale dovere particolarmente delicato
ma, d'altra parte, nello stesso tempo ancor più importante.
Non è compito dello Stato, infatti, la creazione di questa
comunità di idee e di sentimenti senza i quali una società
non può sussistere; questa deve costituirsi da sola e lo Stato
non può che consacrarla, mantenerla, renderne più consapevoli i singoli. Ora, è disgraziatamente incontestabile che
da noi questa unità morale non è quella che dovrebbe essere, sotto tutti i punti di vista. Noi siamo divisi da concezioni divergenti e persino, talvolta, contraddittorie. Vi è,
in queste divergenze, un fatto che è impossibile negare e del
quale occorre tener conto. Non sarebbe ammissibile il riconoscimento alla maggioranza del diritto d'imporre le proprie
idee ai fanciulli della minoranza. La scuola non può essere
la cosa d'un partito ed il docente manca ai suoi doveri
quando fa uso dell'autorità della quale dispone per trascinare i suoi alunni nel solco dei suoi parteggiamenti personali,
per quanto gli possano sembrare giustificati. Ma, a dispetto
di tutte le dissidenze, si ha già attualmente, alla base della
nostra civiltà, un certo numero di principi che, implicitamente o esplicitamente, sono comuni a tutti, che ben pochi,
ad ogni modo, osano negare apertamente e direttamente:
rispetto della ragione, della scienza, delle idee e dei sentimenti che sono alla base della morale democratica. Il compito dello Stato è di mettere in vedetta questi principi essenziali, di farli insegnare nelle sue scuole, di vegliare acciocché da nessuna parte politica si lascino ignorare ai giovani, che dappertutto se ne parli col rispetto che loro è
dovuto. Sotto questo rapporto ha un'azione da esercitare,
che sarà, può darsi, tanto più efficace quanto sarà meno aggressiva e meno violenta e saprà meglio contenersi entro
saggi limiti.
OUTSIDERS
Tutti i gruppi sociali creano delle norme e tentano, in determinati
momenti e circostanze, di farle rispettare. Le norme sociali indicano i
19
tipi di comportamento propri di determinate situazioni, definendo
certe azioni "giuste" e vietandone altre "sbagliate". Quando una
norma è imposta, la persona che si presume l'abbia infranta può essere vista come un individuo particolare, che non si può essere sicuri viva
secondo le regole concordate dal gruppo. Tale tipo di persona è considerato come un outsider.
Ma la persona cui viene attribuita l'etichetta di outsider può avere
un altro punto di vista della questione. Può non accettare la norma in
base alla quale è giudicata, e non ritenere coloro che la giudicano competenti o legittimamente qualificati a farlo. A questo punto emerge un
secondo significato del termine: il trasgressore della norma può considerare i suoi giudici come outsiders.
Cercherò ora di chiarire la situazione e il processo indicati da questa ambiguità: le situazioni di trasgressione e di imposizione delle
norme, e i processi attraverso i quali certe persone si trovano a trasgredire le norme e altre a imporle.
Sono necessarie alcune distinzioni preliminari. Le norme possono
essere di molti tipi: possono essere decretate formalmente e introdotte nella legge, e in tal caso le forze dell'ordine dello stato possono essere utilizzate per farle rispettare. In altri casi, rappresentano delle convenzioni informali, recenti o rivestite dall'autorità del tempo e della
tradizione; vari tipi di approvazioni informali vengono usate per fare
rispettare tali norme.
Allo stesso modo, se una norma è in vigore secondo la legge o la tradizione, o se è semplicemente il risultato di un consenso, il compito di
farla rispettare può essere di un'istituzione specializzata, come la polizia o i probiviri di un'associazione professionale, anche se far rispettare una norma può essere compito di chiunque o, almeno, di chiunque
faccia parte del gruppo al quale la norma si dovrebbe applicare.
Molte norme non vengono imposte e non sono, se non da un punto
di vista strettamente formale, il tipo di norme che qui ci interessano.
Ne sono esempi le leggi puritane, che rimangono scritte anche se non
applicate da un secolo. (E tuttavia importante ricordare che una legge
non più in vigore può essere riattivata per vari motivi e può riacqui20
stare la sua forza originale, come è successo recentemente rispetto alle
leggi che regolano l'apertura domenicale degli stabilimenti commerciali nel Missouri). Norme informali possono anch'esse estinguersi per
carenze di applicazione. Mi occuperò principalmente di quelle che
possiamo chiamare le norme di gruppi effettivamente operative, cioè
quelle mantenute attraverso tentativi di imposizione.
Varia da un caso all'altro, infine, anche solo la misura in cui una
persona è outsider, in ognuno dei sensi che ho menzionato. Siamo portati a pensare che la persona che commette un'infrazione del codice
stradale, o che beve un po' troppo a un party, non sia tutto sommato
molto diversa dal resto di noi, e giudichiamo con tolleranza la sua
infrazione. Vediamo il ladro come meno simile a noi e lo puniamo
severamente. Delitti come l'omicidio, il rapimento o il tradimento ci
inducono a guardare il violatore come un vero outsider.
Allo stesso modo, certi trasgressori non pensano di essere stati giudicati ingiustamente. Il violatore del codice della strada di solito
approva la norma stessa che ha trasgredito. Gli alcolisti sono spesso
ambivalenti: pensano talvolta che coloro che li giudicano non li capiscono e, altre volte, convengono che il bere compulsivo è dannoso.
All'estremo, certi devianti (gli omosessuali e i tossicodipendenti sono
buoni esempi) sviluppano mirabolanti ideologie che spiegano perché
loro hanno ragione e perché coloro che li disapprovano e li puniscono
hanno torto.
Definizioni di devianza
L'outsider - il deviante rispetto alle norme di un gruppo - è stato
oggetto di molte speculazioni, teorie e studi scientifici. Ciò che un profano vuole sapere sui devianti è: perché lo fanno? Come possiamo
spiegare la loro trasgressione? Cosa c'è in loro che li porta a fare cose
proibite? La ricerca scientifica ha tentato di trovare risposte a queste
domande. Facendolo, ha accettato la premessa posta dal buon senso
comune secondo cui c'è qualcosa di inerentemente deviante (distinto
qualitativamente) negli atti che infrangono (o sembrano infrangere) le
norme sociali. La scienza ha anche accettato la supposizione di senso
21
comune secondo la quale l'atto deviante awiene perché certe caratteristiche della persona che lo commette rendono necessario e inevitabile il commetterlo. Di solito gli scienziati non si pongono domande
sull'etichetta "deviante" quand'è applicata ad azioni o persone particolari, ma la considerano come un dato di fatto. Così facendo, accettano i valori del gruppo che emette il giudizio.
E facilmente osservabile che gruppi diversi giudicano cose diverse
come devianti. Ciò dovrebbe attirare la nostra attenzione sul fatto che
la persona che emette un giudizio di devianza, il processo per cui si è
raggiunto questo giudizio e la situazione in cui è stato emesso, possono essere intimamente coinvolti nel fenomeno di devianza. Il comune
punto di vista sulla devianza e le teorie scientifiche che si fondano su
tali premesse, nella misura in cui presuppongono che gli atti che
infrangono delle norme siano intrinsecamente devianti e accettino,
quindi, le situazioni e i processi di giudizio, possono trascurare una
variabile importante. Se gli scienziati non tengono conto del carattere
variabile del processo del giudizio, rischiano con tale omissione di
limitare i paradigmi teorici che si possono sviluppare e il tipo di comprensione che è possibile raggiungere1.
Il primo problema, quindi, è di costruire una definizione della
devianza. Prima di farlo, prendiamo in considerazione alcune delle
definizioni usate oggi dagli scienziati, vedendo che cos'è stato trascurato se le prendiamo come punto di partenza per lo studio degli
outsiders.
L'interpretazione più semplice della devianza è essenzialmente di
tipo statistico, in quanto definisce deviante qualunque cosa troppo
diversa dalla media. Quando uno statistico analizza i risultati di un
esperimento in campo agricolo, definisce il gambo di granoturco eccezionalmente alto e quello eccezionalmente corto come deviazioni dalla
media. Allo stesso modo, si può descrivere qualunque cosa diversa da
ciò che è comune come una deviazione. In questo senso, essere mancino o avere i capelli rossi è deviante, perché la maggior parte della
gente usa di preferenza la destra e ha i carpelli castani.
Così descritta, l'interpretazione statistica sembra ingenua, persino
22
banale, ma semplifica il problema, eliminando molte questioni importanti che di solito emergono nelle discussioni sulla natura della devianza. Per valutare un caso particolare, basta calcolare la distanza tra il
comportamento in questione e la media. Ma è una soluzione troppo
semplice. Se andiamo a caccia con una tale definizione, torniamo con
un sacco "pieno di tutto", gente eccessivamente grassa o magra, assassini, gente dai capelli rossi, omosessuali, violatori del codice della strada. Tale miscela contiene gente che solitamente viene vista come
deviante, e altra che non ha trasgredito nessuna norma. In breve, la
definizione statistica di devianza è troppo lontana dal problema della
trasgressione che è alla base dello studio degli outsiders.
Un'interpretazione meno semplice ma molto più comune identifica
la devianza come qualcosa di essenzialmente patologico, che rivela la
presenza di una "malattia". Tale interp relazione si basa ovviamente su
un'analogia medica. L'organismo umano, quando funziona efficientemente e non è soggetto a nessun disturbo, è considerato "sano".
Quando non funziona efficientemente, è considerato malato. L'organo
o la funzione che è l'oggetto del disturbo è detto patologico; naturalmente, c'è qualche disaccordo su cosa costituisca un sano stato dell'organismo. Ma c'è molto meno accordo quando analogicamente si
usa la nozione di patologia per descrivere tipi di comportamento che
sono considerati devianti. Poiché la gente non si trova d'accordo su
cosa costituisca un comportamento sano, è difficile trovare una definizione che possa soddisfare anche un gruppo selezionato e limitato
come quello degli psichiatri; è impossibile trovarne una che venga
generalmente accettata come sono accettati i criteri di salute per l'organismo2.
Si da talvolta all'analogia un significato più rigoroso, ritenendo la
devianza "prodotto" di una malattia mentale. Il comportamento di un
omosessuale o di un tossicomane è considerato come il sintomo di una
malattia mentale, così come la difficoltà con cui si cicatrizzano le ferite
del diabetico è considerata come un sintomo della sua malattia. Ma la
malattia mentale assomiglia alla malattia fìsica solo metaforicamente.
23
Partendo da entità quali la sifìlide, la tubercolosi, la febbre tifoidea, i
carcinomi e le fratture, abbiamo creato la classe "malattia", In un primo
tempo,
questa era composta solo da poche voci, tutte quante caratterizzate da un
elemento comune, il riferimento, cioè, a uno stato di alterazione
strutturale
o funzionale del corpo umano, inteso quale macchina fisico-chimica. Con
il
procedere del tempo altre voci furono aggregate alla classe, ma ciò
awenne
non già perché si trattasse di turbe somatiche appena scoperte:
l'attenzione
del medico era stata distolta da tale criterio, per concentrarsi invece
sull'invalidità e sulla sofferenza quali nuovi criteri di scelta. Così, lentamente
dapprima, l'isterismo, le ipocondrie, le nevrosi ossessivo-compulsive e le
depressioni furono aggregate alla categoria della malattia; poi, con
crescente zelo, i medici, e soprattutto gli psichiatri, presero a parlare di malattia
(vale a dire, è ovvio, "malattia mentale") ogni volta che scoprivano
qualche
segno di disfunzione, in base a non importa quale norma. Ne consegue
che
l'agorafobia è una malattia dal momento che nessuno dovrebbe essere
spaventato dagli spazi aperti; l'omosessualità è una malattia perché
l'eterosessualità costituisce la norma sociale; il divorzio è una malattia perché è
l'espressione del fallimento matrimoniale. Delitto, arte, una leadership
contraria ai propri desideri [Undesired politicai leadership, NdT], la
partecipazione o il rifiuto a partecipare alle attività sociali - sono tutte cose
che,
24
insieme a molte altre, furono proclamate sintomi di malattia mentale3.
Su questo punto cfr. C. Wright Milis, The Professional Ideology of Social
Pathologists, «American Journal of Sociology», XLIX (settembre 1942),
pp. 165-180.
3) T. Szasz, The Myth o/Menta! lllness (trad. il.: Il mito della malattia
mentale, II
Saggiatore, Milano 1966, pp. 55-56); cfr. anche E. Goffman, The Medical
Model and
Mental Hospitalization, in Asylums: Essays on the Social Situation of
Mental Patients and
Other Inmates (trad. it.: Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi
dell'esclusione e
della violenza, Einaudi, Torino 1968, pp. 337-399).
La metafora medica limita ciò che vediamo così come l'interpretazione statistica. Accetta che un profano giudichi qualcosa come
deviante e, attraverso l'analogia, individua la sua origine nell'individuo, il che ci impedisce di vedere il giudizio stesso come una componente cruciale del fenomeno.
Alcuni sociologi usano anche un modello di devianza basato essenzialmente sulle nozioni mediche di salute e malattia. Esaminano una
società, o parte di una società, e si chiedono se al suo interno agiscano
dei processi tendenti a ridurne la stabilità, e di conseguenza a diminuirne le "chances" di sopravvivenza. Definiscono tali processi come
devianti o li identificano come sintomi di disgregazione sociale.
Discriminano tra quelle caratteristiche della società che promuovono
la stabilità (e sono perciò "funzionali") e quelle che rompono la stabilità (e sono perciò "disfunzionali"). Una tale interpretazione ha la
grande virtù di indicare in una società aree problematiche di cui la
gente può non aver coscienza4.
Ma nella pratica, più di quanto sembra in teoria, è difficile specificare ciò che è "funzionale" e ciò che è "disfunzionale" per una società o un gruppo sociale. La questione di qual è lo scopo, la meta (funzione) di un gruppo e, di conseguenza, cosa potrà aiutare o impedire
il raggiungimento di questa meta, è molto spesso una questione politi25
ca. Fazioni all'interno del gruppo entrano in disaccordo e manovrano
per fare prevalere la loro definizione della funzione di gruppo. La funzione di un gruppo o di un'organizzazione non è inscritta nella natura
dell'organizzazione, ma viene definita in un conflitto politico. Se questo è vero, è altrettanto vero che devono anche essere considerate
come politiche le questioni circa quali regole vadano imposte, quale
comportamento considerato come deviante, e quali persone definite
come outsiders5. L'interpretazione funzionale della devianza, se si
ignora l'aspetto politico del fenomeno, limita la nostra comprensione.
4 Cfr. R.K. Merton, Social Problems and Social Theory, in R.K. Merton R.A. Nisbet
(a cura di), Contemporary Social Problems, Harcourt, Brace and Worid
Ine., New York
1961, pp. 697-737; e T. Parsons, Thè Social System (trad. it.: Il sistema
sociale, Edizioni
di Comunità, Milano 1965, pp. 259-334).
5H. Brotz, allo stesso modo identifica la distinzione tra quali fenomeni
siano "fun- zionali" o "disfunzionali" come una questione di tipo politico in
Functionalisin and
Dynamic Analysis, «European Journal of Sociology», II (1961), pp. 170179.
Un'altra interpretazione sociologica è più relativistica. Identifica la
devianza come la mancanza di obbedienza alle norme. Una volta
descritte le norme che il gruppo impone ai suoi mèmbri, possiamo dire
con buona precisione se una persona le ha infrante o meno e se è, in
questo senso, deviante.
Questa interpretazione è quella che più si avvicina alla mia, ma non
riesce a dare un peso sufficiente alle ambiguità che emergono nel decidere quali norme vadano prese come campione cui riferirsi per "misurare" un comportamento e giudicarlo deviante. Una società ha molti
gruppi, ognuno con il proprio insieme di norme, e la gente appartiene
simultaneamente a molti gruppi. Una persona può infrangere le norme
di un gruppo proprio nel conformarsi alle norme di un altro gruppo.
E, allora, deviante? Sostenitori di questa definizione possono obietta26
re che, mentre l'ambiguità può emergere rispetto alle norme particolari di questo o quel gruppo, ci sono alcune norme che generalmente
sono accettate da tutti, e in tal caso la difficoltà non emerge. Questa è
naturalmente una questione da chiarire con una ricerca empirica. Non
credo siano molte le aree in cui si verifichi un tale consenso, e penso
sia meglio usare una definizione che ci permetta di trattare tutte le
situazioni: ambigue e non.
La devianza e le reazioni degli altri
L'interpretazione sociologica che ho appena discusso definisce la
devianza come l'infrazione di una norma accettata. Cerca poi di individuare chi infrange le norme, e ricerca i fattori che, nelle loro personalità e nelle situazioni della loro vita, potrebbero spiegare il perché di
quelle infrazioni. Ciò presuppone che coloro i quali hanno infranto
una norma costituiscano una categoria omogenea, perché hanno commesso lo stesso atto deviante.
Mi sembra che un tale presupposto non tenga conto dell'aspetto
centrale della devianza: essa è creata dalla società. Non voglio dire,
come comunemente avviene, che le cause della devianza sono da individuarsi nella situazione sociale del deviante o in "fattori sociali" che
suggeriscono la sua azione, ma voglio dire che / gruppi sociali creano la
devianza istituendo norme la cui infrazione costituisce la devianza stessa, applicando quelle norme a determinate persone e attribuendo loro
l'etichetta di outsiders. Da questo punto di vista, la devianza non è una
qualità dell'atto commesso da una persona, ma piuttosto una conseguenza dell'applicazione, da parte di altri, di norme e di sanzioni nei
confronti di un "colpevole". Il deviante è una persona alla quale questa etichetta è stata applicata con successo; un comportamento deviante è un comportamento che la gente etichetta come tale6.
Dal momento in cui la devianza è, tra le altre cose, una conseguenza della reazione degli altri nei confronti dell'atto di una persona, gli
studiosi della devianza non possono partire dal presupposto che si
occupano di una categoria omogenea quando studiano delle persone
etichettate devianti. In altri termini, non possono presupporre che
27
queste persone abbiano effettivamente commesso un atto deviante o
infranto qualche norma, perché il processo dell'etichettare non è
necessariamente infallibile; certe persone possono essere definite
devianti mentre in realtà non hanno infranto nessuna norma. Inoltre,
gli studiosi non possono presupporre che la categoria degli individui
etichettati come devianti sia costituita da tutti quelli che effettivamente hanno infranto una norma, perché molti violatori possono non essere scoperti e non sono quindi inclusi nella popolazione di "devianti"
che loro studiano. Finché la categoria manca di omogeneità e non
include tutti i casi che ad essa appartengono, non si può pensare seriamente di trovare fattori comuni di personalità o di situazioni di vita
che possano spiegare la presupposta devianza.
6Le principali formulazioni precedenti a questa interpretazione possono
essere trovate in: F. Tannenbaum, Crime and Community, Me Graw Hill Book Co.
Ine., New
York 1951. Un recente articolo che presenta una posizione molto simile
alla mia è J.
Kitsuse, Societal Reaction to Deviance: Problems. of Theory and Method,
«Social
Problems», 1962, 9, pp. 247-256. [Quest'ultimo articolo, ripubblicato
successivamente in H.S. Becker (a cura di), Thè Other Side, Thè Free Press, New York
1964, pp. 87102, è stato tradotto e pubblicato in italiano con il titolo La reazione
societaria al comportamento deviante nel testo Interazionismo simbolico, a cura di M.
Ciacci, II Mulino,
Bologna 1983, pp. 149-104; NdT].
Cosa hanno, allora, in comune le persone definite devianti? Condividono perlomeno l'etichetta e l'esperienza di essere etichettati come
outsiders. Comincerò la mia analisi con questa somiglianzà di base e
guarderò la devianza come il prodotto di una transazione che ha luogo
28
tra un gruppo sociale e qualcuno che da questo gruppo viene visto
come un trasgressore. Mi interesserò più del processo tramite il quale
vengono considerati come outsiders e delle loro reazioni a questo giudizio, che non delle caratteristiche personali e sociali dei devianti.
Molti anni fa, nel suo studio sulle isole Trobriand, Malinowsld scoprì
l'utilità di questa interpretazione per capire la natura della devianza.
Un giorno uno scoppio di lamenti e una grande agitazione mi fecero
capire
che qualcuno era morto da qualche parte nelle vicinanze. Fui informato
che
Kima'i, un giovane ragazzo di più o meno sedici anni che conoscevo, si
era
ucciso cadendo da un albero di cocco. [...] Scoprii che, per qualche misteriosa coincidenza, un altro giovane era stato gravemente ferito. Al
funerale
c'era un'evidente atmosfera generale di ostilità tra il paese dove era morto
il
ragazzo e quello in cui veniva portata la salma per l'inumazione.
Fu solo molto più tardi che riuscii a scoprire il vero significato di questi
avvenimenti. Il ragazzo si era suicidato. La verità era che aveva infranto
la
legge dell'esogamia con la cugina materna, la figlia della sorella di sua
madre. La faccenda si era saputa ed era stata disapprovata da tutti, ma
nessuno fece nulla finché non prese l'iniziativa il pretendente scartato dalla
ragazza, il quale voleva sposarla e si sentiva personalmente oltraggiato.
Costui cominciò col minacciare il rivale di usare la magia nera contro di
lui,
senza peraltro ottenere molto effetto. Poi una sera insulto il colpevole in
pubblico, accusandolo di incesto davanti a tutta la comunità e lanciandogli
espressioni intollerabili per un indigeno.
Dopo questo c'era un solo rimedio; al disgraziato giovane non rimaneva
che una via di scampo. La mattina seguente si mise abiti e ornamenti festivi, si arrampicò su un albero di cocco e, parlando tra le foglie, si rivolse
alla
29
comunità salutandola per sempre. Spiegò le ragioni del suo gesto disperato e lanciò anche una velata accusa contro l'uomo che lo aveva spinto alla
morte, per cui diventò dovere dei mèmbri del suo clan vendicarlo. Poi lanciò un grido come è usanza, saltò dall'albero alto una ventina di metri e
rimase ucciso sul colpo. Ne seguì una lotta nel villaggio durante la quale
venne ferito il rivale; e il litigio si ripetè durante il funerale. [...]
Se doveste indagare sulla questione tra i Trobriandesi, scoprireste che gli
indigeni mostrano orrore all'idea di violare le leggi dell'esogamia e credono che un incesto all'interno del clan può essere seguito da ferite, da
malattie o persino dalla morte. È l'ideale della legge indigena, e nelle faccende
morali è facile e piacevole aderire rigorosamente all'ideale quando si
giudica la condotta degli altri o quando si esprime un'opinione sulla condotta in
generale.
Quando però si tratta di applicare moralità e idealità alla vita reale, la
situazione cambia. Nel caso descritto, era ovvio che i fatti non combaciassero
con l'ideale di condotta. L'opinione pubblica non è stata affatto oltraggiata dalla conoscenza del crimine, ne ha reagito direttamente. Si sarebbe
dovuta mobilitare in seguito all'esposizione dei fatti e agli insulti lanciati
al
colpevole dalla parte interessata.
Ma persino a questo punto ha dovuto lui stesso eseguire la punizione. [...]
Approfondendo l'esame del caso e raccogliendo informazioni concrete,
scoprii che la violazione dell'esogamia - per quanto riguarda i rapporti
sessuali e non il matrimonio - non è affatto cosa rara, e l'opinione pubblica è
indulgente, anche se decisamente ipocrita. Se la faccenda è portata avanti
sub rosa con un certo senso della dignità, con discrezione e senza
provocare guai, "l'opinione pubblica" spettegolerà, ma non richiederà nessuna
punizione severa. Se invece scoppia lo scandalo, tutti si indigneranno
con30
tro la coppia colpevole e l'ostracismo e gli insulti potranno indurre l'uno o
l'altro membro al suicidio7.
Un atto sarà considerato deviante o no, quindi, a seconda della reazione della gente. Si può commettere un incesto nel clan e non dover
sopportare nient'altro che chiacchiere finché nessuno lancia un'accusa
pubblica; ma si è spinti alla morte se l'accusa è lanciata. La questione è
che la reazione degli altri deve essere vista come problematica: il solo
fatto che qualcuno abbia commesso un'infrazione non significa necessariamente che gli altri reagiranno come se fosse successo (viceversa, il
solo fatto che qualcuno non abbia infranto una norma non significa che
non sarà, trattato, in certe circostanze, come se lo avesse fatto).
1B. Malinowski, Crime and Custom in Savage Society (trad. it.: Diritto e
costume nella
società primitiva, Newton Compton, Roma 1972, p. 110). La versione qui
riportata è di
nostra traduzione.
Diverso è il grado di reazione di chi definisce un determinato atto
come deviante. Alcuni tipi di variazione non sembrano degni di attenzione. Innanzitutto, va considerata la variazione nel tempo. Una persona che si ritiene abbia commesso un determinato atto "deviante"
può essere, in un dato momento, considerata con molta più tolleranza
di quanto lo sarebbe in un altro momento. Chiari esempi di queste tendenze sono le varie "campagne" contro questo o quel tipo di devianza. Periodicamente, funzionar! preposti all'applicazione della legge
possono decidere di lanciare un'offensiva contro un tipo particolare di
devianza, come il gioco, la tossicodipendenza o l'omosessualità. Essere
m uno di questi "giri" è ovviamente molto più rischioso durante una
di queste "campagne" che in qualunque altro momento. (In uno studio molto interessante sulla cronaca nera nei quotidiani del Colorado,
Davis ha scoperto che la quantità di crimini segnalati nei giornali non
presentava una correlazione significativa con gli effettivi aumenti o
diminuzioni dei crimini avvenuti nello Stato del Colorado. Davis scoprì inoltre che le valutazioni della gente in merito all'aumento del cri31
mine in questo Stato erano legate non tanto alle variazioni effettive del
tasso di criminalità quanto all'aumento di notizie di cronaca nera)8.
La misura in cui un atto verrà considerato come deviante dipende
anche da due altri importanti fattori: chi lo commette e chi si sente
leso. Le norme tendono ad essere applicate più a certe persone che ad ^
altre, come dimostrano chiaramente studi sulla delinquenza giovanile.
Ragazzi provenienti dai quartieri della classe media, quando sono arrestati, non vengono coinvolti nel processo giudiziario fino al punto in
cui lo sono i ragazzi dei bassifondi. Il ragazzo della classe media preso
dalla polizia rischia meno di essere portato al commissariato; qualora
ciò avvenga è più difficile che venga trattenuto; ed è molto improbabile che venga dichiarato colpevole e condannato9. Questa differenza
permane anche se l'infrazione originale della legge è la stessa nei due
T.J. Davis, Crime News in Colorado Newspapers, «American Journal of
Sociolosy»
LVII (gennaio 1952), pp. 325-330.
''Cfr. A.K. Cohen - J. F. Short Jr., Juvenile Delinquency, in Merton-Nisbet,
Contemporary Social Problems, cit., p. 87.
casi. Nello stesso modo, la legge è applicata in maniera differenziata
nei confronti dei neri e dei bianchi. Tutti sanno che un nero che ha
aggredito una donna bianca rischia di essere punito più di un bianco
che ha commesso lo stesso reato; non tutti sanno invece che un nero
che uccide un altro nero rischia meno di essere punito di un bianco
che commette un omicidio10. Questo è naturalmente uno dei punti
principali dell'analisi di Sutherland11 sui «crimini dei colletti bianchi»:
i crimini commessi da grandi società sono quasi sempre perseguiti
come casi civili, ma lo stesso crimine commesso da un individuo è solitamente considerato di pertinenza penale. Certe leggi vengono applicate soltanto in funzione delle conseguenze. Il caso delle ragazze madri
ne fornisce un chiaro esempio. Vincent12 fa osservare che raramente le
relazioni sessuali illecite danno esito a punizioni severe o censure
sociali per i colpevoli; però se una ragazza rimane incinta, la reazione
degli altri sarà probabilmente severa. (La gravidanza illecita costituisce
32
anche un esempio interessante della differente applicazione delle
norme nei confronti di differenti categorie di persone. Vincent osserva che i padri sfuggono alla severa censura esercitata sulle madri).
Perché ripetere queste banali osservazioni? Perché, messe insieme,
, sostengono questa proposta: la devianza non è una semplice qualità,
I presente in certi tipi di comportamento e assente in altri, ma è piutto\ sto il prodotto di un processo che implica le reazioni di altre persone
\ a un determinato comportamento. Lo stesso comportamento può
essere un'infrazione delle norme in un certo momento, e non in un
altro; può essere un'infrazione se è commesso da una certa persona,
ma non se commesso da un'altra; certe norme sono infrante con impu\ nità, e altre no. In breve, che un determinato atto sia deviante o meno
\ dipende in parte dalla natura dell'atto stesso (cioè se ha o meno viola| to qualche norma), e in parte dalla reazione delle altre persone.
10 Cfr. H. Garfìnkel, Research Notes on Inter and Intra Racial
Homicides, «Social
Forces», 1949, 27, pp. 369-381.
n E.H. Sutherland, White Collar Criminality, «American Sociological
Review», V
(febbraio 1940), pp. 1-12.
"C. Vincent, Unmarried Mothers, Thè Free Press of Glencoe, New York
1961, pp.
3-5.
Si potrebbe obiettare che si tratta di un "bisticcio" puramente terminologico: è senz'altro vero che i termini, tutto sommato, possono
essere definiti come meglio si crede, e se la gente vuole parlare di un
comportamento trasgressivo come deviante, è libera di farlo. Però
potrebbe essere utile riferirsi a tale comportamento come comportamento trasgressivo, e riservare il termine di deviante a quei comportamenti che una qualche parte della società così etichetta. Non insisto
affinchè sia adottato questo uso. Ma dovrebbe essere chiaro che, finché uno scienziato userà "deviante" riferendosi a qualsiasi comportamento trasgressivo, e come oggetto di studio assumerà solo quelli che
sono stati etichettati come devianti, sarà ostacolato dalle disparità tra
33
le due categorie.
Se prendiamo in esame un comportamento che viene etichettato
come deviante, dobbiamo riconoscere che non possiamo sapere se un
determinato atto sarà così etichettato finché non avrà suscitato la reazione degli altri: la devianza non è una qualità che risiede nel compor- ,
lamento stesso, ma nell'interazione tra la persona che commette un J
atto e coloro che reagiscono ad esso.
fì
Le leggi di chi?
Ho usato il termine outsiders riferendomi a quelle persone che dalle
altre vengono giudicate come devianti, e perciò rimangono fuori dalla
cerchia dei mèmbri "normali" del gruppo. Ma il termine ha un altro
significato, la cui analisi ci porta a un altro aspetto importante dei problemi sociologici: gli outsiders, dal punto di vista della persona etichettata deviante, possono essere coloro che hanno istituito le norme
che il deviante avrebbe trasgredito.
Le norme sociali sono create da specifici gruppi sociali. Le società
moderne non sono semplici organizzazioni in cui ognuno è d'accordo
su cosa siano le norme e su come debbano essere applicate in situazioni specifiche. Al contrario, sono molto differenziate secondo criteri
di classe, di etnia, di professione e cultura. Non è necessario che questi
gruppi condividano le stesse norme e in realtà ciò avviene raramente.
I problemi che incontrano affrontando il loro ambiente, la storia e le
33
tradizioni che portano con sé conducono alla evoluzione di insiemi di
norme diverse. Le contraddizioni e i conflitti tra le norme dei diversi
gruppi genereranno sempre disaccordi sul tipo di comportamento da
adottare per ogni diversa situazione.
Gli immigrati italiani, che durante il proibizionismo continuarono a
produrre vino per loro e per gli amici, agivano in accordo con la norma
italiana, ma trasgredivano la legge del loro nuovo paese (naturalmente
come facevano molti dei loro vicini americani da più generazioni). I
pazienti che cambiano medico in continuazione fanno - dal punto di
34
vista del loro proprio gruppo - ciò che è necessario per proteggere la
loro salute, assicurandosi quello che a loro sembra il migliore; ma, dal
punto di vista del medico, ciò che fanno è sbagliato perché guasta il
rapporto di fiducia che il paziente dovrebbe instaurare con il proprio
medico. Il delinquente di bassa estrazione sociale che lotta per il suo
territorio fa ciò che considera necessario e giusto, ma gli insegnanti, gli
operatori sociali e la polizia la vedono diversamente.
Mentre si può argomentare che molte o la maggior parte delle
norme di una società sono generalmente accettate da tutti i suoi mèmbri, le ricerche empiriche su una determinata norma rivelano atteggiamenti diversi della gente nei confronti della stessa. Leggi formali, fatte
rispettare da qualche gruppo appositamente costituito, possono differire da quelle che la maggior parte della gente ritiene più appropriate13. In un gruppo, alcune fazioni possono disapprovare quelle che ho
chiamato le norme effettivamente operative. Per lo studio dei comportamenti solitamente etichettati come devianti è importante osservare che il punto di vista di chi assume questo comportamento sarà
probabilmente diverso da quello di chi lo condanna. In questa ultima
situazione, una persona può sentirsi giudicata secondo norme, all'elaborazione delle quali non ha potuto partecipare e che non accetta,
norme che gli sono imposte da outsiders.
Fino a che punto e in quali circostanze le persone cercano di imporre le loro norme ad altre persone che non le approvano? Distinguiamo
"A.M. Rose - A.E. Prell, Does thè Punishment Fit thè Crime?, A Study in
Social
Valuation, «American Journal of Sociology», LXI (novembre 1955), pp.
247-259.
due casi. Nel primo, solo i mèmbri effettivi del gruppo hanno qualche
interesse a elaborare e imporre determinate norme. Se un ebreo ortodosso disubbidisce alle leggi del "kashruf, solo altri ebrei ortodossi
vedranno in ciò una trasgressione; i cristiani o gli ebrei non-ortodossi
non considereranno allo stesso modo tale atto, e non avranno perciò
nessun interesse a interferire. Nel secondo caso, i mèmbri di un gruppo considerano importante per il loro benessere e per la loro sicurezza
35
che i mèmbri di altri gruppi obbediscano a certe norme. Ad esempio,
chi esercita una professione medica è tenuto a rispettare certe regole;
ecco perché lo stato rilascia una licenza ai medici, alle infermiere e ad
altri, e vieta a chiunque non ne sia in possesso di praticare tale attività.
Nella misura in cui un gruppo cerca di imporre le sue norme ad altri
gruppi sorge un altro problema: chi può, in pratica, imporre le proprie
norme agli altri, e come può riuscirci? È naturalmente una questione
di potere politico ed economico. Più avanti esamineremo il processo
politico ed economico attraverso il quale si creano e si fanno rispettare delle norme. Per il momento è sufficiente osservare che le persone,
in realtà, obbligano sempre gli altri ad accettare le loro norme, applicandole più o meno contro la volontà e senza il consenso degli altri.
Ad esempio sono di solito gli adulti a elaborare le norme riguardanti i
giovani. Nonostante questi ultimi, negli USA, esercitino una potente
influenza culturale - basti pensare che i loro interessi determinano le
scelte stesse dei mass media - molte importanti norme che li riguardano sono elaborate dagli adulti. Le norme inerenti la frequenza nelle
scuole e il comportamento sessuale non sono pensate tenendo conto
dei problemi dell'adolescenza. Anzi, rispetto a questi problemi, gli
adolescenti si trovano circondati da norme redatte da persone più
anziane e più posate. Ciò è considerato legittimo perché i giovani non
sono ritenuti sufficientemente saggi e responsabili da elaborare correttamente norme che li riguardano.
Allo stesso modo e sotto molti aspetti, è vero che nella nostra società le leggi riguardanti le donne sono fatte da uomini (nonostante in
America le cose stiano cambiando rapidamente). I neri si trovano soggetti a norme fatte per loro da bianchi, come gli immigrati e le altre
minoranze etniche sono soggetti a quelle fatte per loro dalla minoranza anglosassone protestante. La classe media elabora delle norme alle
quali le classi sociali inferiori si devono attenere, nelle scuole, nei tribunali e altrove.
Le differenze nella capacità di stabilire le norme e imporle ad altri
sono essenzialmente differenze di potere (sia legale che extralegale). I
gruppi più capaci di imporre le proprie norme sono quelli che, grazie
alla loro posizione sociale, dispongono di armi e potere. Le distinzio36
ni di età, di sesso, di etnia e di classe sono tutte correlate alle differenze di potere. Questa correlazione evidenzia i diversi livelli nelle capacità dei gruppi di stabilire norme per gli altri.
Per prima cosa dobbiamo riconoscere che la devianza è creata dalla
reazione delle persone a particolari tipi di comportamento e dal processo di etichettamento di questi comportamenti come devianti. Ma
dobbiamo anche tener presente che le norme create e mantenute da
questo processo di etichettamento non sono universalmente accettate,
ma sono oggetto di disaccordi e conflitti e fanno parte del processo
politico della società.
(da H. Becker, Outsiders, EGA, 1987, pp. 21-36)
Peter Woods
L'interazionismo e la scuola*
L'interazione simbolica
Per sua natura, l'interazionismo non è tanto un corpus teorico compatto, quanto piuttosto un insieme composito di idee che si è, di conseguenza, disseminato in un'ampia gamma di studi. Il mio intento è di raggruppare questi studi attorno ad alcuni concetti interazionisti fondamentali
e di vedere che cosa è stato conseguito.
Il nucleo essenziale dell'interazionismo simbolico è la nozione di
persona, artefice delle proprie azioni e costruttrice dei propri significati.
Le persone vivono nel mondo fisico, ma gli oggetti del mondo hanno per
loro un «significato». Gli oggetti non sono sempre gli stessi per persone
diverse, ne le situazioni vengono interpretate in un unico modo. Per
qualcuno la scuola è un posto gioioso e liberatorio, per altri è noiosa e
restrittiva, paragonabile a una prigione o a una caserma. Per la stessa
persona un gessetto può essere di volta in volta un attrezzo per scrivere
oppure un missile. In altre parole, si tratta di simboli che indicano a una
persona certi significati. Tali significati dipendono, per la loro costruzione, dai simboli stessi.
Le persone interagiscono tramite simboli. Un simbolo è «uno stimolo
che ha un significato e un valore acquisito; la risposta dell'uomo a un
simbolo è più nei termini del suo significato e del suo valore che nei
termini della stimolazione fisica dei suoi organi di senso» (Rose, 1962).
37
Il linguaggio è uno di questi simboli, così come i gesti e gli oggetti.
Attraverso l'interazione, una persona apprende un'enorme quantità di
simboli. Il significato di molti simboli è, ovviamente, condiviso da più
persone e ciò permette una facile interazione sociale. Alcuni simboli
sono perfino più ricorrenti e ad essi rispondiamo quasi per istinto; li
abbiamo chiamati «segni naturali» per differenziarli dai «simboli significanti» (Mead, voi. 1, 1936). Questi ultimi sono acquisiti tramite l'apprendimento.
Ciò che permette la costruzione del significato è il possesso individuale di un «sé». Noi possiamo entrare in contatto con i nostri «sé»,
oppure possiamo rimaner fuori dai nostri «sé» e guardare a noi stessi con
«altri» occhi. Questo suggerisce due aspetti del sé: un «Io» soggettivo,
che inizia l'azione, la parte che percepisce e che costruisce; e un «Me»
più oggettivo, la parte del sé vista dagli altri e che l'«io», mettendosi
nella posizione degli altri, può a sua volta vedere (Mead, 1934; Blumer,
1976). Ciò è stato chiamato «l'assumere il ruolo dell'altro»; è di cruciale
importanza per la vita sociale, e per le attività fatte in comune, che una
persona impari come si fa. Conosciamo tutti l'apparente egoismo del
bambino, che vuoi far tutto a modo suo. In questa fase egli possiede
soltanto un «io» e il suo sviluppo sociale è incompleto. Gradualmente
però egli impara a mettersi nei panni degli altri e a guardare se stesso da
questa posizione. Uno dei meccanismi fondamentali della socializzazione è quello del gioco poiché è in questa attività che il bambino «deve
esser pronto a far la parte di chiunque altro stia giocando; e questi ruoli
devono avere una ben precisa relazione l'un con l'altro» (Natanson,
1973, p. 13).
Si può osservare il proprio comportamento dal punto di vista di altri
specifici, ma col tempo importanti caratteristiche di queste percezioni
vengono collegate tra loro e si arriva a considerare se stessi alla luce di
norme, valori e credenze astratte e generalizzate, di valori e credenze. In
tal modo, prendendo ancora l'esempio del gioco infantile, si può percepire la posizione di una specifica madre o di uno specifico padre e si può
poi arrivare a «le madri» e «i padri» in generale; in seguito, avendo
compreso le regole che agiscono nell'interazione generale, si può capire
38
come tutti gli altri ruoli ne percepiscano uno in particolare. Emerge qui
l'importante concetto di «altro generalizzato», che fornisce il legame
concettuale tra comportamento individuale e società, mostrando nel
modo più evidente come il comportamento sia un prodotto sociale.
Gli individui possono sviluppare un sé completo soltanto nella misura
in cui sono in grado di assumere, nei confronti delle attività del gruppo,
l'atteggiamento del gruppo sociale di cui sono mèmbri. Allo stesso modo
un gruppo sociale, o una società in via di formazione, è possibile soltanto
nella misura in cui i suoi mèmbri possono ricoprire il ruolo di tutti gli
altri mèmbri per ciò che concerne le attività organizzate del gruppo e
possono costruire la propria azione in relazione ad esso. In tal modo,
l'individuo può diventare «completo», nel senso di persona sociale,
interiorizzando le aspettative incarnate nell’altro generalizzato; è attraverso l'altro generalizzato che la comunità esercita la sua influenza
sull'individuo tramite i suoi stessi processi mentali (Mead, voi. 1, 1936,
p. 155).
Gli esseri umani sono dunque gli artefici delle proprie azioni. Poiché
sono in grado di vedere se stessi come oggetti, possono dare indicazioni
sia a se stessi che a coloro che essi interpretano. Le interpretazioni,
sebbene guidate da prospettive influenzate culturalmente, portano con
sé l'essenza dell'individuo. Per agire l'individuo deve identificare ciò
che vuole, stabilire un obiettivo o una meta, scegliere quale linea di
condotta adottare, notare e interpretare le azioni di altri, valutare la
propria situazione, verificare a che punto è in questo o in quel momento,
immaginare cosa fare in altre situazioni e spesso spronare se stesso se si
trova davanti a situazioni che si trascinano o a condizioni sfavorevoli
(Blumer, 1976).
Per ciò che riguarda i risultati, è l'interpretazione che conta e quindi
non contano ne l'istinto, ne semplicemente la realtà «obiettiva» della
situazione, bensì i pensieri e le valutazioni fatte dalle persone.
L'«azione» non è la conseguenza di una decisione improvvisamente
diventata univoca, non più di quanto il «sé» sia una componente singola.
C'è un'interazione continua tra l'«io» e il «me» quando l'individuo
costruisce, modifica, soppesa i prò e i contro, li riconsidera, e così via: è
39
un continuo stato di flusso o processo. L'azione è dunque una successione di fasi, una delle quali è, appunto, il comportamento manifesto.
Questo processo implica che ci sia un iniziatore, cioè l'«io» che riflette
sui vari «me» nella forma di altri particolari, significanti o generalizzati,
che sono a loro volta il prodotto di molte interazioni passate; ma ciò
implica anche l'assumere il ruolo dell'altro, farsi una rappresentazione
di se stessi, interpretare e infine compiere l'azione visibile.
Questo non significa che le interpretazioni siano tanto variabili da
non essere mai realmente formulabili. Le azioni hanno infatti bisogno di
una base su cui orientare le loro interpretazioni, ed è a questo scopo che
le persone definiscono prima di tutto la situazione. Ciò da loro una
chiave interpretativa e serve alla costruzione delle proprie azioni. In tal
modo gli alunni possono imparare a identificare ciò che costituisce una
«lezione vera e propria», una «situazione di conflitto» oppure una «cosa
da ridere». Vengono stabilite delle definizioni chiave e le ripetizioni e le
situazioni nuove vengono strutturate proprio perché l'interazione precedente ha stabilito una comprensione comune di che cosa siano. Questo è il modo in cui nascono le culture e il modo in cui esse forniscono
una base sia per l'interpretazione che per nuovi sviluppi.
Queste modalità diventate abitudini sono i «ruoli»: non ruoli prescritti dalla società, che agiscono meccanicamente, ma attività costruite
in conformità con la definizione che l’individuo dà della situazione. il
processo dinamico, contrapposto alla concezione prescrittiva o statica
dei ruoli, è ben illustrato da Plummer: «L'interazionista prende le mosse
dalla nozione di uomini impegnati a costruire immagini e aspettative su
come gli altri agiscono nel? assumere ruoli, uomini che elaborano delle
idee su come essi stessi si aspettano di agire in una determinata situazione (costruzione di ruolo) e cosa piacerebbe loro essere o fare immaginariamente se fossero in una determinata posizione» (identità di ruolo)
(Plummer, 1975, p. 18).
La concezione interazionista della relazione tra individui e società è
quindi dialettica: «La società è un fenomeno dialettico, in quanto è un
prodotto umano e null'altro che un prodotto umano, che tuttavia rimanda continuamente al suo produttore. La società è un prodotto dell'uomo. Non c'è null'altro al di fuori di ciò che viene creato dall'attività
40
umana e dalla coscienza. Non ci può essere nessuna realtà sociale fuori
dall'uomo. Tuttavia si può anche dire che l'uomo è un prodotto della
società. Ogni biografia individuale è un episodio all'interno della storia
della società, che la precede e le sopravvive. [...] Inoltre, è all'interno
della società, e come risultato dei processi sociali, che l'individuo diventa persona, che raggiunge e mantiene un'identità e che realizza i vari
progetti che costituiscono la sua vita [...]» (Berger, 1969, p. 3).
Così, naturalmente, le azioni sono solo di rado totalmente originali,
ne l'individuo è mai completamente vincolato da condizionamenti culturali o strutturali. Alcune esperienze culturali riguardano i ruoli più che
gli individui, altre sono fatte per le variazioni più che per la norma; i
significati culturali sono delle possibilità e non delle coercizioni, e spesso
sono intrinsecamente incoerenti. All'interno di questi significati e influenze culturali, gli individui hanno dunque alcune possibilità innovative (Rose, 1962, p. 3).
Nei termini di Berlak: «il pensiero è un elaborato processo di adattamento della persona all'ambiente sociale e fisico. È un'estensione del
concetto darwiniano di adattamento che include la "mente" —vale a
dire la capacità che l'individuo possiede di esaminare coscientemente il
problema da differenti punti di vista per creare soluzioni nuove e finora
sconosciute al problema della vita. Il processo che nel nostro linguaggio
delle entità possiamo chiamare "mente", è ciò che permette all'homo
sapiens sia di adattarsi all'ambiente sia di modificarlo per essere all'altezza dei problemi che la specie ha di fronte» (Berlak e Berlak, 1981).
La concezione secondo cui l'individuo reagisce agli altri e forma un sé
per gli altri a cui, per l'appunto, reagisce, è stata formulata da Goffman
in termini letterarmente drammatici. In Thè Presentation ofSelfin Everyday Life (1959) e in altri lavori (1967; 1971) Goffman ha elaborato una
teoria che si può riassumere come segue:
i) nell’interazione gli individui cercano di ?gestire? le impressioni che
gli altri hanno di loro. Si mettono in scena. Cercano di influenzare la
definizione che gli altri hanno della situazione;
ii) anche gli «altri», ovviamente, proiettano le loro definizioni della
situazione. I conflitti vengono evitati e l'ordine viene mantenuto grazie
a individui che accantonano i loro più intimi bisogni e desideri e contri41
buiscono così a un copione che tutti accettano. Essi stabiliscono un
«consenso che funziona»;
iii) nel proiettare le loro impressioni, gli individui prendono in considerazione la conoscenza che hanno degli altri. Quando l'interazione va
avanti e le loro «presentazioni» diventano più mirate e precise, essi vi
aderiscono di più;
iv) quando gli eventi contraddicono le presentazioni, si verifica un
crollo dell'interazione sociale, il che porta a imbarazzo, rabbia, sconforto o vergogna.
Goffman pone un accento particolare sul modo in cui l'attore concepisce il sé degli altri. Questo viene visto come il prodotto di elementi sia
teatrali che sostanziali del comportamento degli altri. Noi rispondiamo
agli altri a seconda dell'immagine che abbiamo di loro. Gli altri costruiscono queste «immagini» a seconda di ciò che vogliono che noi vediamo,
per esempio drammatizzando il proprio «sé». Noi controlliamo dunque le
nostre «espressioni» in modo che gli altri ci definiscano come noi vorremmo facessero. Queste espressioni sono fatte di parole ed azioni, abbigliamento e ostentazione. Tutta questa attrezzatura viene chiamata da Goffman «facciata» (front). «Gli attori devono rispondersi l'un l'altro in
modo significativo per emergere in quanto tali. Essi sono in grado di
rispondersi a vicenda in modo significativo perché ognuno di loro fa i
passi necessari per assicurarsi che essi palesino le proprie intenzioni —sia
verbalmente che a gesti —in modo che vengano sollecitate le necessarie
risposte di cui si ha bisogno: essi drammatizzano i loro significati e creano
un'azione sociale» (Perinbanayagam, 1974, p. 537).
Tutto ciò ha portato Goffman (nel suo famoso libro Asylums, 1961) a
interessarsi in modo particolare alle strategie e agli adattamenti attraverso cui le persone fanno fronte alle situazioni.
Concetti fondamentali
Un approccio simbolico interazionista porta a fecalizzare l'attenzione su
aree determinate. Quelle principali, che qui analizzerò a grandi linee,
sono: i contesti, le prospettive, le culture, le strategie, le negoziazioni e
le carriere.
42
Contesti
La scuola presenta un certo numero di contesti e di situazioni differenti,
che sono stati interpretati a loro volta in modo diverso. Si pensi, ad
esempio, alla distinzione goffmaniana tra zone «di facciata» e zone
«nascoste» {«front» and «back» regions). La «zona di facciata» si utilizza
quando la rappresentazione richiesta dal proprio ruolo formale viene
messa in scena; mentre una «zona nascosta» «può essere definita come
un luogo, attinente a una determinata rappresentazione, in cui le impressioni create dalla rappresentazione stessa vengano clamorosamente
contraddette [...] È qui che la capacità di una rappresentazione di
esprimere qualcosa al di là di se stessa può essere accuratamente affinata; è qui che vengono costruite le illusioni e le impressioni. I materiali di
scena e gli oggetti della facciata personale vengono conservati in una
specie di precipitato compatto di interi repertori di azioni e di personaggi [...] Qui l'attore può rilassarsi; può lasciar da parte la facciata, rinunciare a pronunciare le sue battute e uscire dalla parte» (Goffman, 1959,
pp. 114-115).
Le «zone nascoste» hanno un ruolo importante nella gestione delle
impressioni, fornendo i significati attraverso cui «gli individui tentano
di difendersi dalle richieste deterministiche che ci circondano». Chiaramente la sala insegnanti e il cortile possono essere considerate in questa
prospettiva. Il contrasto tra «zona di facciata» e «zona nascosta» si
evidenzia spesso nel linguaggio, quello della zona nascosta è un «linguaggio in cui ci si da del tu, di decisioni prese in comune, bestemmie,
espliciti apprezzamenti sessuali, brontolii, fumo, vestiti alla buona, star
seduti scomposti, uso del dialetto o di un linguaggio gergale, borbottare
o parlare ad alta voce, aggressività scherzosa e prese in giro» (Goffman,
1959, p. 129).
La situazione non è semplicemente la scena dell'azione. Ha unsef tetto
sull'azione stessa, un effetto che è determinante e che la rende possibile.
La situazione deve infatti essere interpretata da attori. Deve essere
conferito loro un significato. Persone diverse possono dunque vedere
nella stessa situazione cose diverse oppure interpretare le stesse cose in
modo diverso. Possono cercare di manipolare alcuni aspetti della situa43
zione per influenzare l'interpretazione altrui. La «definizione della situazione» è quindi di importanza cruciale. Dopo tutto, le situazioni
sono come noi le rendiamo. E questa la questione che sottende il seguente e ben noto brano di W.I. Thomas: «Spesso c'è una notevole discrepanza tra la situazione quale essa appare ad altri e la situazione quale
appare all'individuo, il che determina [...] evidenti difficoltà di comportamento. Per fare un esempio limite, il direttore della prigione di Danremora ha recentemente rifiutato di applicare la decisione del tribunale
che dava la possibilità di far uscire un detenuto dalla prigione per certi
specifici motivi. Egli si è giustificato dicendo che quell'uomo era troppo
pericoloso. Aveva ucciso diverse persone che avevano la malaugurata
abitudine di parlare tra sé e sé per strada. Dal movimento delle loro
labbra desumeva che lo stessero insultando e si comportava come se ciò
fosse stato vero. Se gli uomini definiscono come reali certe situazioni,
sono reali anche le loro conseguenze» (1928, p. 572).
Il contenuto dell'ultima frase ha messo a dura prova, negli ultimi
anni, molti studenti durante gli esami. Ma il messaggio è chiaro: a
prescindere da quali siano le circostanze oggettive o la definizione ufficiale corrente, se una persona definisce una situazione in un certo
modo, quello sarà il contesto in cui prenderanno forma i suoi piani
d'azione.
Le situazioni vengono dunque costruite ed è compito dell'interazionista scoprire come sono costruite e non darle per scontate.
Prospettive
Esse si riferiscono alle strutture attraverso cui le persone danno senso al
mondo. E attraverso di esse che allievi e docenti costruiscono le loro
realtà e definiscono le situazioni. Le persone non vedono universalmente un'unica realtà oggettiva. La loro visione della realtà passa piuttosto
attraverso un filtro, un codice interpretativo che essi impiegano per
capire il mondo. Queste prospettive aiutano a definire la situazione, a
identificare e situare l'«altro». Nell'interazionismo il termine «prospettiva» deriva soprattutto dal lavoro di Becker e dei suoi colleghi: «Usiamo
il termine "prospettiva" per definire un insieme articolato di idee e
azioni che vengono utilizzate da una persona quando deve affrontare
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alcune situazioni problematiche, con riferimento al modo di pensare, di
sentire e di agire ricorrente in tali situazioni. Questi pensieri e queste
azioni sono articolate in modo tale che, dal punto di vista dell'attore, le
azioni sgorghino ragionevolmente dalle idee contenute in questa prospettiva. [...] Una persona sviluppa e conserva una determinata prospettiva quando affronta una situazione che richiede un'azione che non è già
stata stabilita dai suoi precedenti convincimenti o da imperativi situazionali. In altre parole, le prospettive nascono quando le persone affrontano delle scelte. In molte situazioni cruciali, le prospettive precedenti
dell'individuo non gli permettono delle scelte e gli fanno credere che in
tali circostanze possa fare una sola cosa. In molte altre situazioni lo
spettro delle possibilità e delle alternative plausibili è talmente limitato
dall'ambiente fisico e sociale che l'individuo non può scegliere quali
azioni compiere. Ma quando l’individuo viene chiamato ad agire e le sue
scelte non sono costrette, egli comincia a sviluppare una prospettiva. Se
un tipo particolare di situazione si ripete di frequente, la prospettiva
diventerà probabilmente una parte stabile del modo con cui una persona
affronta il mondo (Becker, Geer, Hughes e Strauss, 1961, pp. 34-7).
Tuttavia, come ha sottolineato Lacey (1977), le azioni e il sistema di
azioni-idee sono meglio classificabili utilizzando la nozione di strategia,
mentre la prospettiva si riferisce più a un insieme di idee, alla struttura
della mente attraverso cui fluiscono i processi del pensiero. Esse si
basano su certi assunti che sono culturalmente specifici e legati al contesto. Come abbiamo già notato, situazioni differenti possono dare
avvio a prospettive differenti. Vediamo ora il nesso tra le prospettive e
le culture.
Culture
Le prospettive derivano dalle culture, non esistono in sé e per sé, ne
sono create nel vuoto. A loro volta le culture si sviluppano quando le
persone si riuniscono per scopi specifici, in maniera più o meno intenzionale, più o meno volontaria. Le persone creano forme distinte di vita
— modi di fare o non fare le cose, forme del discorso e della comunicazione, argomenti di conversazione, regole e codici di comportamento,
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valori e credenze, cose su cui si è d'accordo o in disaccordo. Tutto ciò
non è regolato f crinalmente, ma è largamente implicito. Quale sia la
propria parte in tutto ciò può non essere riconosciuto coscientemente:
piuttosto, uno ci cresce dentro e può credere che si tratti di un modo di
vita naturale. Un fatto concomitante è, ovviamente, che culture (e
prospettive) opposte a questi modi di vita possono essere considerate
innaturali o sbagliate.
Attraverso i normali processi di socializzazione le persone sono messe
a contatto con certe culture, magari con quella di una determinata classe
sociale, di una religione, di una professione, di una etnia. Talvolta
possono subire uno «shock culturale» —come si dice con un termine che
descrive la sensazione di straniamento e confusione che emerge se si è
posti di fronte a forme culturali totalmente nuove, come nel caso di
molti bambini che iniziano la scuola, di docenti che iniziano a insegnare
o di chi viene messo in prigione per la prima volta. Non si tratta solo, o
principalmente, di imparare nuove conoscenze e abilità. Si tratta piuttosto di impratichirsi, di imparare i trucchi del mestiere, di escogitare i
modi con cui cavarsela, di scoprire come fanno gli altri, di adattarsi, di
capire le gerarchle e chi comanda, quali sono gli argomenti di conversazioni giusti, gli argomenti tabù, ciò che è considerato importante e
perché, la quantità di lavoro accettabile, le attività del tempo libero, le
carriere tipiche.
Come ha notato Lacey, Becker e i suoi colleghi enfatizzano troppo
l'omogeneità della cultura studentesca e l'influenza inesorabilmente
costrittiva della struttura istituzionale. Essi ne deducono che esistano
poche variazioni nelle prospettive degli studenti (Lacey, 1977). Come
hanno invece mostrato un precedente lavoro di Lacey e uno studio di
Hargreaves, le subculture studentesche possono costituirsi contro la
cultura formale scolastica, ed esistere, a volte con difficoltà, a volte più
facilmente, al suo interno (Lacey, 1970; D.H. Hargreaves, 1967). Opere successive hanno dimostrato come, all'interno della scuola, esistano
molte culture che vengono attivamente costruite da allievi e docenti
(Dale, 1972; Furlong, 1976).
Strategie
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Le prospettive, derivate dalle culture, sono legate all'azione tramite
determinate strategie. Questo viene sempre di più considerato come il
concetto chiave dell'approccio interazionista, in quanto è qui che l'intenzione individuale e le costrizioni esterne si incontrano. Le strategie
sono modi per raggiungere degli obiettivi: per un insegnante tali ostacoli
possono venire, ad esempio, da risorse inadeguate, da classi numerose,
dalla natura recalcitrante di alcuni allievi, dall'organizzazione della scuola, dalla competizione tra colleghi e così via. L'insegnante deve quindi
prendere in considerazione questi ostacoli e fare di conseguenza un
piano più o meno articolato.
Escogitare e adottare delle strategie non è semplice. Sebbene un insieme di azioni identificabili e ripetibili siano legate a vasti obiettivi generali, essi non possono essere dati per scontati poiché potrebbero invece far
parte della «presentazione di facciata». In altre parole, gli scopi manifesti
possono essere solo una parte della strategia, ed essere in realtà al servizio
di scopi nascosti. Ci possono essere altri scopi all'interno degli scopi,
alcuni dei quali possono forse essere stati rimandati in attesa di condizioni
più favorevoli. Oppure un insegnante può impiegare un'ampia serie di
strategie all'interno delle quali introduce dei cambiamenti che dipendono
dal variare sia delle situazioni sia di se stesso. Tanto più alto è l'obiettivo
tanto più complessa è la strategia; e tanto più alto è l'obiettivo tanto
maggiore è il rischio. Infatti sono proprio i problemi che si frappongono
tra le intenzioni e il rischio che danno alle strategie il loro carattere
peculiare. La scuola è un luogo che invita a strategie complesse poiché gli
ideali sono alti, ma lo spazio che separa gli ideali dalla pratica è notevole
proprio a causa dei problemi che abbiamo già menzionato.
Per quanto riguarda gli allievi, vedremo che diverse prospettive portano a differenti orientamenti verso la scuola e il «lavoro». Le definizioni delle situazioni variano e gli allievi mettono in atto diverse strategie
per affrontarle, anche se queste sono messe in ombra dall'uso di un
vocabolario standardizzato per tutte le attività. Ad esempio, «lavoro» è
un termine normalmente usato da tutti gli allievi, ma il significato varia.
Ci sono diverse realtà che esistono spesso dietro facciate del tutto simili.
Tuttavia spesso vengono usati simboli diversi, un vocabolario diverso o
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diverse forme di comunicazione. Questi bisogni vanno identificati e il
loro significato va indovinato chiaramente. E chiaro che il vocabolario e
le ragioni degli allievi sono indispensabili per capire la loro costruzione
di significati.
Qual è la relazione tra culture, prospettive o strategie? Secondo
Lacey «quando un gruppo di individui sviluppa o raggiunge il senso di
uno scopo comune, l'insieme di strategie che viene adottato acquista un
elemento comune. E questo elemento comune che permette alla prospettiva del gruppo di emergere. Quando la prospettiva si sviluppa
sul lungo periodo e le situazioni che il gruppo deve continuamente
affrontare hanno un elemento comune, a quel punto si consolidano e
si sviluppano le condizioni per produrre una sub-cultura. I segni distintivi della sub-cultura sono che i suoi elementi più importanti non
vanno persi subito qualora un individuo abbandoni il gruppo e la comunità dei suoi mèmbri. Le prospettive vengono assunte e abbandonate
più rapidamente che le sub-culture. In realtà gli elementi della subcultura vengono spesso annullati e possono essere quasi completamente
cancellati da modelli di comportamento successivi, ma la cosa importante è che questi elementi provocano cambiamenti profondi all'interno
della struttura della personalità dell'individuo e sono responsabili della
ricchezza, complessità e unicità della personalità individuale» (Lacey,
1977, p. 70).
Lacey ricorda il concetto beckeriano di «cultura latente», una cultura
che ha origini e referenti sociali al di fuori del gruppo a cui l'individuo
normalmente appartiene. Nella vita gli individui acquisiscono progressivamente un miscuglio di queste culture che possono, in differente
misura, essere trasformate in strategie. Tuttavia, come è stato a più
riprese sottolineato, l'azione è culturalmente specifica, vale a dire è
limitata, ma anche facilitata dalla cultura. Come scrive Lacey: «In situazioni come quelle di una scuola in cui la classe sociale costituisce una
cultura latente, gli allievi della classe operaia avranno una scelta limitata di strategie e queste limitazioni saranno difficili da superare» (1977,
p. 71).
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Negoziazione
Prendere in considerazione separatamente le prospettive e le strategie
comporta il rischio di minimizzare l'interazione tra persone. Ma ne gli
insegnanti ne gli allievi si limitano a questi tipi di attività, ne si arroccano al loro interno. La vita scolastica è piuttosto un continuo processo di
negoziazione. Le caratteristiche proprie dell'atto di identificazione, interpretazione, misurazione e scelta conservano una dinamica che, nelle
relazioni interpersonali di natura conflittuale, mette al centro l'effettiva
interazione tra persone, poiché ognuno cerca di massimizzare i propri
interessi. A scuola ci si può quindi aspettare che per tutta la giornata si
verifìchino negoziazioni di diverso tipo.
Queste negoziazioni possono essere pacifiche e aperte e costituire
accordi fattivi. Altre volte, invece, quando gli insegnanti e gli allievi
cercano di imporre la propria versione della realtà, spesso si verificano
dei complotti da sventare. Una classe può cercare di trasformare una
lezione formale in uno «scherzo», oppure un insegnante libertario può
cercare di minare l'autorità del preside. Una comunità del genere è
spesso segnata da scomode tregue, nelle quali l'imbarazzo viene usato
come arma per tentare di rafforzare la propria versione. Ne seguono due
cose. Prima di tutto le «negoziazioni» non sono sempre pacifiche ne
caratterizzate dalla buona volontà e dall'aspirazione al raggiungimento
di un terreno comune. Spesso sono invece negoziazioni conflittuali,
contraddistinte da rancori e da sentimenti negativi, animate dalla preoccupazione non soltanto di ottimizzare i propri interessi, ma anche di
sminuire quelli altrui. In secondo luogo, in questa prospettiva, si è
portati a valutare il relativo potere delle due parti in causa. Talvolta gli
interazionisti sono accusati di trascurare le considerazioni che riguardano il potere, ma questo è un elemento essenziale della negoziazione. C'è
una rigida gerarchla fra gli insegnanti, fra gli allievi, nonché tra le varie
forme di conoscenza. Gli insegnanti e gli allievi hanno posizioni e status
differenti. Gli insegnanti stabiliscono lo scenario, le regole fondamentali e le mete, con l'obiettivo di trasformare gli allievi attraverso conoscenze nuove; mentre gli allievi sono invece costretti ad operare sul
terreno voluto dall'insegnante, seguendo le sue regole, e ciò viene compensato soltanto dalla forza dei numeri e da certe capacità di recupero
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insite nella loro cultura di fondo.
Il concetto di «negoziazione» deriva dall'opera di Strauss e dei suoi
colleghi sulle relazioni sociali negli ospedali psichiatrici (Strauss et al.,
1964). La loro analisi comprende vari elementi delle diverse culture,
delle differenti ideologie del lavoro e delle diverse basi del potere, e
mostra in che modo si siano raggiunti accordi tra lo psichiatra e il
paziente e tra gli psichiatri stessi. Queste negoziazioni spesso sono
sottilmente implicite e vengono raggiunte attraverso simboli sofisticati
e abbreviati. Essi rappresentano i «meccanismi nascosti» che tengono
insieme una comunità attiva.
L'interazionista si occupa dunque della scoperta delle regole informali che sottendono la negoziazione. In un certo senso esistono soltanto
regole informali, in quanto le stesse regole formali sono negoziate. Con
le parole di Strauss et al.: «La maggior parte delle regole può essere
estesa, negoziata, ignorata o applicata al momento buono. Infatti se si
analizzano da vicino l'informazione sulle regole, i loro cambiamenti e le
loro applicazioni, la conclusione è che c'è un «ordine negoziato» all'interno del quale ogni regola viene a situarsi» (1964, p. 313).
Si potrebbe obiettare che, considerate da una posizione «ufficiale»,
molte di queste istanze negoziate costituiscano casi «devianti», anarchici e spesso «insignificanti». Naturalmente esse sono insignificanti solo a
a partire dalla posizione «ufficiale». Quando gli allievi cercano uno
spazio maggiore nell'interazione, si tratta proprio della ricerca di significati. E compito del ricercatore adottare una posizione interazionista
per scoprire questi significati dal punto di vista dei loro costruttori. Da
questa prospettiva, l'apparente anarchia, il disordine e la «perdita di
tempo» che sembra così tipica di molte scuole si dimostra in effetti
sensata, regolata e chiaramente connessa ai processi ufficiali della scuola
stessa (Marsh, Rosser e Harré, 1978).
In altre parole, tutto ciò fa parte di un'attività di negoziazione tra
insegnanti e allievi. «Ridere», «lavorare», «fare i lavativi», «far confusione» sono dunque cose importanti per la comprensione reale della vita
scolastica, forse le più importanti, dal punto di vista degli allievi; mentre
invece, dal punto di vista dell'insegnante, sono rilevanti anche i momen50
ti di relax rubati nella sala insegnanti e gli intervalli nella giornata.
Ancora di più l'approccio interazionista, che sviluppa la sua analisi
dall'interno delle esperienze e delle costruzioni dei soggetta in questione, solleva dei problemi che riguardano la stessa attività manifesta. Lo
stesso insegnare e imparare diventano attività problematiche. Che cosa
fanno allora realmente gli insegnanti e gli allievi e perché lo fanno? Per
una maggiore chiarezza su questo punto, è necessario prendere in considerazione le carriere degli insegnanti e degli allievi.
Camere
II concetto di «carriera» comunemente inteso implica una «successione
di lavori collegati tra loro, che si susseguono in una gerarchla di prestigio, attraverso cui le persone si muovono in una sequenza ordinata e
prevedibile». Per gli insegnanti una struttura
di carriera tipica va dal tirocinante all'insegnante assistente [assistant
teacher), poi a una maggiore specializzazione fino al vice e, eventualmente, al capodipartimento, oppure a ruoli di consulenza come quelli di tutor
annuale; successivamente si passa alla posizione di insegnante senior, di
vicepreside ed eventualmente di preside. Ma questo è solo lo scheletro
della struttura formale della carriera. Se noi chiediamo alle persone
come vivano realmente le loro carriere, invariabilmente le cose non
appaiono altrettanto ordinate e sistematiche. Una carriera individuale
può non corrispondere a un progresso lineare e letterale verso l'alto, ma
può invece essere «la prospettiva in movimento nella quale una persona
vede la propria vita e interpreta il significato dei vari compiti, attività ed
altro che gli è accaduto di fare» (Hughes, 1937, p. 409). Questa «carriera soggettiva» è al centro dell'interesse degli interazionisti e, come
vedremo, ci da modo di collegare l'esperienza individuale alla disposizione istituzionale delle carriere formali e, in ultima analisi, alla società
nel suo complesso.
Due aspetti importanti della carriera sono l'«impegno» e l'«identità».
L'impegno è descritto da Kanter nei seguenti termini: «esso sorge all'intersezione tra i requisiti organizzativi e l'esperienza personale. Da un
lato i sistemi sociali si organizzano in modo da venire incontro ai "biso51
gni" sistematici; dall'altro lato le persone si orientano positivamente o
negativamente, emozionalmente e razionalmente rispetto alle situazioni. Siccome gli ordinamenti sociali sono sostenuti dalla gente, un problema delle collettività è quello di venir incontro ai requisiti istituzionali
in modo tale che i partecipanti siano allo stesso tempo coinvolti in modo
positivo nel sistema, ma anche leali, affezionati, fedeli e obbedienti. Ciò
richiede delle soluzioni ai problemi organizzativi o sistemici che siano al
contempo dei meccanismi per assicurarsi l'impegno attraverso i loro
effetti sugli individui stessi, le loro esperienze e i loro orientamenti.
L'impegno si riferisce dunque alla volontà degli attori sociali di assicurare la propria energia e la propria fedeltà ai sistemi sociali e l'adesione
dei sistemi di personalità alle relazioni sociali considerate come espressive del sé» (1974, p. 126).
L'impegno è strettamente collegato all'identità. Gli individui mutuano tutta una serie di caratteristiche dai molteplici ruoli disponibili nella
società e proiettano immagmi di sé ad altri in un processo di «autoassestamento» con cui «gli esseri umani traducono caratteristiche essenziali
dela loro identità nei sé, nelle memorie e nell'immaginazione di altri
significativi» (Denzin, 1978). Ovviamente la nozione di «presentazione
di facciata» di Goffman è molto vicina a questa idea, come pure l'intero
campo della teoria dell'identità, che «inizia con l'idea che ognuno di noi
ha interesse a diventare qualcuno di speciale, abbastanza diverso dai
suoi simili per potersi salvare dall’anonimato, e diverso anche nei modi
che gli permettono di suscitare ammirazione, rispetto e affetto» (Cohen,
1976).
Parte del lavoro dell'insegnante consiste nell'influenzare lo sviluppo
dell'allievo sia nel senso dell'individualità e dell'iniziativa (come avviene nelle ideologie progressiste) sia nel senso della conformità e della
cooperazione (come avviene nelle ideologie tradizionaliste). Questi due
tipi di sviluppo non sono necessariamente incompatibili. Il processo di
«autoassestamento» deve essere collegato agli interessi degli altri, ma
all'interno di questa restrizione generale, l'incoraggiamento all'iniziativa è nell'interesse dell'affermazione dell'individuo e solo successivamente della società. Tuttavia, gli strumenti pedagogici usati dall'inse52
gnante appaiono legati ad una cultura specifica, cosicché, per molti di
quegli allievi che sono cresciuti all'interno di culture differenti, l'insegnante è colui che sembra colpire la loro vera identità. La presentazione
del sé desiderato può quindi risultare enfatizzata e al contempo possono
verifìcarsi dei tentativi di screditare colui che attacca, minando le basi
della sua identità.
Una delle affermazioni principali dell'approccio interazionista è che
le persone sviluppino, proiettino e salvaguardino un'immagine desiderata del proprio sé. Ma i sé non sono necessariamente unilineari o
unidimensionali. Le persone possono cioè scegliere di proiettare immagini diverse di sé in contesti differenti. Alcune possono essere complementari, altre compensatorie. Ad esempio, una particolare forma di
presentazione di sé può essere indotta forzatamente anziché scelta deliberatamente, come ad esempio nel caso dell'allievo ribelle che è costretto ad essere obbediente oppure dell'insegnante comprensivo costretto
ad essere autoritario. Tanto più grande è il conflitto all'interno della
scuola, tanto più è probabile che sussista questa presentazione falsa e
forzata del sé con un crescente peso della compensazione nelle «zone
nascoste».
-4
Quando la «scena» della scuola diventa più difficile, gli «appoggi»
pochi e il «pubblico» indifferente, l'insegnante avrà delle difficoltà a
presentare un'immagine di sé completamente gratificante. Quando gli
allievi si trovano ad essere involontariamente, o in maniera solo parzialmente volontaria, a far parte del «pubblico della scena», essi non faranno il lavoro necessario a costruire un'area di interazione produttiva di sé
adeguati e credibili. Ma questo lavoro, nonostante tutto, è necessario se
l'istituzione deve sopravvivere. E dove viene fatto allora? Per alcuni il
lavoro principale della costruzione dell'identità è eseguito negli interstizi della giornata scolastica — tra le lezioni, negli intervalli, durante il
pranzo, etc. -—e nelle «zone nascoste» —l'aula degli insegnanti, il
cortile, i corridoi.
Tuttavia altri senza dubbio preferiscono associare i loro ‘sé’ all’istituzione e la loro attività comporta delle rappresentazioni più pianificate
e organizzate. (Turner, 1976). Possiamo qui notare che la costruzione, la
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proiezione e la conservazione dell'identità è una delle questioni fondamentali che riguardano l'individuo e che le situazioni di conflitto aperto
che si verificano a scuola rappresentano, in un certo senso, un campo di
battaglia per la propria vita, anche se quella battaglia può essere intrapresa senza investirci troppo, in quanto la propria identità preferita è
altrove. Il tipo di investimento del sé dipende dal tipo di impegno; un
investimento parziale del sé aiuta la negoziazione, sia perché si abbandona del tutto il campo oppure perché ci si confronta con il parziale
investimento degli allievi.
Riepilogo
Un approccio simbolico interazionista mette l'accento su:
—gli individui come costruttori delle proprie azioni;
—le vari componenti del sé e il modo in cui esse interagiscono; le
indicazioni date al sé, i significati attribuiti, i meccanismi interpretativi,
le definizioni della situazione; in breve, il mondo dei significati soggettivi e i simboli attraverso cui sono prodotti e rappresentati;
—il processo di negoziazione, attraverso cui i significati sono costruiti continuativamente;
—il contesto sociale nei quali sussistono e da cui derivano.
«Assumere il ruolo dell'altro» è un concetto dinamico che implica la
costruzione di come altri desiderano o possono agire in determinate
circostanze e come gli individui stessi possono agire: in breve, gli individui calibrano le loro azioni su quelle degli altri.
Su queste aree della vita sociale si può far luce con lo studio dei
contesti, delle prospettive, delle culture, delle strategie, delle negoziazioni e delle carriere, sia in maniera separata che nelle loro interrelazioni.
Per ciò che riguarda la scuola il tipo di domande che emergono sono:
—Come interpretano, gli insegnanti e gli allievi, i processi scolastici,
il personale della scuola e l'organizzazione, come le lezioni, il curriculum, i pari di età, e come, insegnanti ed allievi, si interpretano a vicenda?
—Quali fattori influenzano queste interpretazioni? Quali altri signi54
ficativi o generalizzati li hanno influenzati?
- Come vivono, gli insegnanti e gli allievi, i processi scolastici?
—Come organizzano, gli insegnanti e gli allievi, la loro attività
scolastica?
Avendo definito la situazione (attraverso le prospettive poste nel
contesto) e avendola vissuta (in relazione alle loro questioni di identità),
che strategie adottano?
—Come, gli insegnanti e gli allievi, percepiscono le loro carriere
nella scuola?
Che forma di impegno mostrano e quali sono le questioni legate alla
loro identità?
Queste questioni pongono il nucleo centrale dell'indagine all'interno
degli individui come costruttori delle proprie azioni. Ma il luogo dell'interazione non è in loro stessi, bensì tra di loro. La questione di fondo è
dunque:
—Che cosa accade tra insegnanti e allievi a scuola?
Una nota di metodo
II metodo chiave della ricerca interazionista è quello dell'osservazione
partecipativa. Ciò implica prender parte alla vita quotidiana del gruppo o
dell'istituzione che si sta studiando, in un ruolo stabilito, e osservare sia
il gruppo che se stessi. La partecipazione permette l'analisi delle proprie
reazioni, dei motivi e delle intenzioni e da dunque accesso a quella complessa interazione tra «io», «me» e «altri» all'interno del sé. Non è un ruolo
semplice, anzi è pieno di insidie, come ad esempio quello di «trasformarsi
in indigeno», vale a dire essere travolto dalle prospettive richieste dal
ruolo e perdere la prospettiva del ricercatore. Di conseguenza alcuni
hanno preferito l'osservazione non partecipativa. Quest'ultima, associata a interviste informali e non strutturate, è il metodo usato più di frequente. Ovviamente non saremo mai in grado di entrare nella mente
dell'altro e vedere esattamente come funziona (Schutz, 1967; Laing
1967), ma del resto spesso è difficile analizzare i nostri stessi pensieri ed
azioni. Un'osservazione ravvicinata e interviste simpatetiche fatte in un
periodo di tempo lungo —la durata che viene solitamente scelta è un anno
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—e in vari contesti ci può portare però ad apprezzare da vicino quel
lavoro interpretativo, quella costruzione dei significati, che è il cuore
della vita sociale. Per questo lavoro sono state messe a punto delle procedure rigorose, per distinguerlo, come scienza sociale, dall'osservazione
puramente intuitiva e causale, e c'è un'ampia letteratura che da conto
del crescente numero di ricerche compiute (Woods 1977 e 1979; Open
University 1979; Hammersiey 1981 e Hammersiey 1983).
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