Dal sito de Il Manifesto www.ilmanifesto.it 23 giugno 2004 INTERVISTAStati di massima insicurezzaLa crisi del welfare state lascia dietro di sé una moltitudine di uomini e donne che non hanno niente altro da vendere che la loro forza-lavoro. Ma la cancellazione dei dispositivi di protezione sociale conduce il capitalismo sul baratro di una irreversibile crisi sociale. Un'intervista con lo studioso Roberto Castel BENEDETTO VECCHI Arrivare alla Bicocca di Milano ha un effetto straniante, perché sembra di essere catapultati nel videogioco «SimCity». Strade tutte uguali, così come sono una uguale all'altra le abitazioni che hanno preso il posto delle case del vecchio quartiere operaio nato attorno alla fabbrica della Pirelli tra la fine Ottocento e i primi decenni del Novecento. Costruite tutte a nido d'ape, fluttuano su di un enorme cantiere di un centro commerciale che dovrebbe fornire un po' dei servizi di cui il quartiere al confine di Sesto San Giovanni è sprovvisto. E proprio come in SimCity, il polo settentrionale di sviluppo urbano segue solo una logica: costruire case e poi pensare ai servizi. Chi osserva tutto con curiosità è Robert Castel, invitato dal Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale della Bicocca per presentare l'ultimo suo libro - L'insicurezza sociale, Einaudi, pp. 100, 12 - e discuterlo con Ota de Leonardis, Giovanna Procacci e Costanzo Ranci. Castel è un signore placido, con due occhi che scrutano la realtà alla ricerca di increspature sulla superficie liscia delle rappresentazioni sociali dominanti. Parla piano, centellinando le parole, perché è uno studioso che ama lavorare con le contraddizioni dei fenomeni sociali e i paradossi cui danno vita. E da una contraddizione parte l'intervista.In questo suo ultimo libro, lei sostiene che nelle società moderne è da sempre vigente una contraddizione: più si è sicuri, più ci si sente esposti alle intemperie sociali. Cosa intende?Per prima cosa va posto un elemento analitico preliminare che riguarda il rapporto tra insicurezza e protezione. Sono due espressioni che hanno un legame di complementarietà, perché è difficile che la manifestazione di un sentimento di insicurezza, quasi sempre personale, si riveli antagonista rispetto a un sistema di protezione, quasi sempre collettivo. Nel lontano passato, la protezione era assicurata dall'affiliazione a una corporazione o dalla sudditanza a un signore locale. Il discorso cambia con le feroci guerre civili seicentesche. Il concetto di sovrano e di stato elaborati da Thomas Hobbes possono essere dunque interpretati anche come la risposta alla crisi dei sistemi di protezione fino ad allora dominanti. Lo stato, allora, diventa lo strumento di una nuova concezione della protezione, che viene delegata dalla società al sovrano. Con Locke questa nuova concezione della protezione si arricchisce con la sacralità della proprietà privata. Se si possiede qualcosa, si è meno esposti all'ignoto, perché si possiedono i mezzi per fronteggiarlo.Per quanto riguarda l'epoca attuale, va detto che il sentimento di insicurezza mantiene un rapporto travagliato, contraddittorio con i sistemi di protezione. In sintesi, direi che oramai esistono diffusi dispositivi di protezione sociale, ma individualmente spesso li percepiamo incapaci di far fronte a un domani che si annuncia peggiore del presente. Il paradosso è che la richiesta di maggior sicurezza può avvenire solo all'interno di società che pongono la protezione come uno degli obiettivi primari dell'azione pubblica.La protezione sociale nelle società capitalistiche ha un nome ben preciso: welfare state. Lei offre una descrizione lineare del suo sviluppo, quasi fosse il naturale esito dello stato moderno fino a quando si verifica una cesura, un elemento di crisi. Questo discontinuità è presente anche nel suo precedente lavoro, «Métamorphos de la question sociale». Quali sono gli elementi che contribuiscono a questa cesura?Il welfare state è il risultato di un lungo e travagliato periodo di modernizzazione della realtà europea che ha nel vecchio continente e negli Stati uniti il suo apice nei trenta anni che seguono la fine della seconda guerra mondiale. Negli anni Settanta, il capitalismo conosce però una crisi che non ha nulla dell'occasionale, né del contingente. Da quel momento in poi abbiamo assistito a una radicale metamorfosi del capitalismo industriale che prende il nome di mondializzazione. Lo sviluppo capitalista ha sempre avuto una vocazione mondiale, ma si è manifestato sopratutto all'interno di una cornice nazionale. Vorrei dunque sottolineare che uno dei primi effetti della mondializzazione è la perdita di sovranità degli stati nazionali. Da qui emerge la difficoltà, se non l'impossibilità, da parte degli stati-nazione di stabilire politiche sociali e economiche che governino lo sviluppo economico. E' a questo punto che il welfare state è indicato come un limite allo sviluppo economico. Ed è qui che avviene la cesura.Ne «Métamorphos de la question sociale» lei parla spesso di una crisi della società salariale, esemplificata dalla crescita di forme «atipiche» del rapporto di lavoro. Ad esempio, lei scrive che la diffusione di lavoro autonomo si accompagna da una contrazione dei lavoratori salariati. Mi sembra, invece, che, al di là della forma giuridica che assumono i contratti di lavoro, la regola dominante rimane il lavoro salariato. Può sembrare un paradosso, ma dalla crisi della «società salariale» si esce con la pervasività del rapporto salariale. Lei che ne pensa?Se assumiamo una prospettiva globale, il numero dei salariati è cresciuto invece che diminuire. Alla luce di questo dato, sarebbe improprio parlare di crisi della società salariale. Anzi, ritengo che la diffusione del rapporto salariale di lavoro non si è ancora compiuta del tutto. Questa pervasività del rapporto di lavoro salariato non è tuttavia in contraddizione con la crescita del lavoro autonomo. Sono due fenomeni paralleli. In quella ricerca volevo però sottolineare la crescita di rapporti di lavoro «fluttuanti» e sulla conseguente frammentazione delle forme contrattuali. Possiamo parlare di alternanza tra lavoro e non lavoro, di lavoro a tempo determinato, di intermittenti, di precari, di interinali, ma sono tutte figure accomunate dalla precarietà del rapporto di lavoro. In Métamorphos de la question sociale scrivevo della perdita di consistenza del lavoro salariato non della perdita di rilevanza statistica. Il lavoro salariato può essere statisticamente rilevante, senza per questo essere consistente socialmente e politicamente.Possiamo però constatare un altro paradosso: più il lavoro diventa precario, più deve diventare flessibile, duttile, capace cioè di capacità innovative e di gestione del flusso del processo lavorativo. In altri termini: precari si, ma con grandi capacità relazionali e gestionali...Quella che lei indica è la tensione costitutiva del nuovo capitalismo. La precarietà e la disoccupazione di massa sono infatti gli elementi costitutivi del capitalismo uscito dalla crisi degli anni Settanta. Non c'è nessun dubbio sul fatto che siamo di fronte a un superamento di un'organizzazione produttiva basata su lavoro ripetitivo e standardizzato. In passato si è spesso parlato di organizzazione scientifica del lavoro, di taylorismo: espressioni che connotavano comunque una dimensione collettiva del rapporto di lavoro. Ora, invece, assistiamo al dilagare di un'individualizzazione del rapporto di lavoro. I lavoratori devono essere mobili, flessibili, intraprendenti, polivalenti ma precari e con un un sistema di protezione sociale ridotto all'osso. Se il capitalismo vuol sopravvivere a se stesso deve sicuramente ripensare i sistemi di protezione sociale, ma deve comunque garantirli.Nel suo ultimo libro, lei afferma che il welfare state è sì un'istanza del collettivo che può rendere sicuro l'individuo, ma che ha agito come un potente fattore di individualizzazione. E' un altro paradosso dell'attuale capitalismo?Per i neoliberali, l'individuo è un soggetto capace di autonomia e intraprendenza: fattori che non possono emergere pienamente perché lo stato sociale pone dei vincoli, degli obblighi derivanti dal riconoscimento di alcuni diritti universali. Tolti i quali, recitano i neoliberali, l'individualità può manifestarsi liberamente e pienamente. Ma io appartengo ad un'altra scuola di pensiero, a quel filone teorico e analitico che parla di individuo solo a partire dalle sue relazioni sociali. Si è cioè individui solo se si vive in società. Per questo considero il welfare state il riconosciemento di una dimensione collettiva dell'individuo che vive in società. La ritirata e l'erosione dello stato sociale lascia dietro di sé una moltitudine di individui che non hanno nient'altro da vendere che la loro forza-lavoro.Non mi riferivo però solo alla critica neoliberale del welfare state. C'è stato un filone critico che ha denunciato il carattere normativo, omologante dello stato sociale, senza che questo coincidesse con la richiesta della cancellazione dei diritti sociali. Semmai veniva denunciato il controllo sociale sui comportamenti individuali che il welfare state induceva. D'altronde anche lei scrive che lo «stato securitario» è sempre dietro l'angolo.C'è sempre un rovescio della medaglia. E' un rischio che vale la pensa di correre. Il welfare state prevede ovviamente forme di controllo, di astrazione dei bisogni, di omogeneizzazione dell'offerta di servizi sociali. Ma la burocratizzazione è un male minore, un passaggio obbligato, perché lo stato sociale pone in equilibrio la legge e l'affermazione di un diritto universale e incondizionato. Inoltre, il welfare state prevedeva una possibilità di negoziare l'applicazione della legge, garantendo così il carattere dinamico e al tempo stesso universale dei diritti. Prendiamo la salute, un diritto che il welfare state garantiva. Non è certo detto che questo significhi che le terme siano un diritto che lo stato garantisce. Può essere un servizio a pagamento, oppure può rientrare, a seconda del livello di negoziazione degli attori sociali, tra le prestazioni previste dallo stato sociale. L'equilibrio instabile tra la legge e il diritto prevedono dunque la presa di parola e la negozione tra i diversi attori sociali. E' dunque meglio questa ambivalenza, che il nulla.Tuttavia, si sta affermando una concezione dello protezione sociale che nega il carattere universale e incondizionato dei diritti sociali. Mi riferisco a quello che viene chiamato «workfare», un insieme di politiche sociali in base alle quali si ha diritto ad alcuni servizi solo se si lavora. In epoca di disoccupazione di massa e di precarietà diffusa non finisce col diventare una negazione del carattere universale dei diritti sociali?Si, il workfare è un non sense, perché ipotizza che si possono garantire un insieme di servizi sociali minimi solo se chi ne ha bisogno dimostra che ne può fare a meno, lavorando o mettendo in piedi una piccola impresa. Prima dicevo che la contraddizione di questo capitalismo è di chiedere autonomia, polivalenza e intraprendenza e offrire precarietà e assenza di protezione sociale. Ripeto: se il capitalismo vuole sopravvivere a se stesso serve una pacata politica riformista che garantisca protezione e diritti sociali universali. Nella difesa del welfare state non c'è nulla di rivoluzionario. Semmai del buon riformismo.