Concezioni della razionalità nella tradizione filosofica occidentale

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LE PAROLE DEI FILOSOFI. APPUNTI SU: Logos – Ragione – Razionalità .
I
Sui significati di Ragione
Il sostantivo “razionalità” e l’aggettivo “razionale” sembrano esprimere lo svolgersi
dinamico di quella caratteristica (facoltà, potenza, realtà...) dell’umano pensare che in
italiano indichiamo con il termine “ragione”. Tale termine deriva (così come nelle
lingue romanze e in inglese) dal latino ratio, che a sua volta traduce anche se non in
via esclusiva e esaustiva il termine greco logos (basti pensare ad altri plessi di
significati che il termine greco esprime , in latino resi con verbum. Un esempio per
tutti: il Logos dell’incipit del Prologo del Vangelo si San Giovanni nella Vulgata
viene reso con Verbum).
Ratio in latino significava conto, calcolo, misura dei campi, significato rimasto ad
esempio nelle parole “ragioneria” e “ragioniere” ossia nel nome di quella scienza che
calcola e rappresenta e misura gli accadimenti economici nei commerci e
nell’industria. Reddere rationem prima ancora del suo significato figurativo
significava per i romani “rendere conto” in senso economico. Dal nucleo semantico
originario del latino arcaico si sono sviluppati, sempre in questo universo linguistico,
altri plessi di significati anche molto diversi tra loro : quello di pre-meditazione (per
cui ad esempio l’idea platonica fu talvolta tradotta da autori latini con ratione);
proporzione, rapporto in senso matematico; interesse, tornaconto; astuzia, intelligenza
pratica; causa fondante di un’azione o di uno stato di cose.... e altri ancora tra cui
quello più tecnicamente filosofico. Ha osservato Marta Cristiani, se non erro in una
voce enciclopedica, che in senso propriamente filosofico il termine volgare “ragione”
contiene la stessa multivocità del termine latino ratio che traduce indifferentemente
logos, diánoia e spesso anche nóesis designando così sia il fondamento intellegibile
delle cose nella loro oggettività, sia la capacità/facoltà umana di cogliere questo
stesso fondamento intellegibile. Ovvero, per usare una terminologia della Scuola di
Francoforte, tanto la “ragione oggettiva” quanto la “ragione soggettiva”.
Ragione per i romani aveva inoltre in molti casi valore di giustizia: il rendere
ragione nel rapporto tra i singoli quanto di giustizia nei confronti dello stato, la
ciceroniana ratio reipublicae che si distingue dal concetto tipicamente moderno della
“ragion di stato”. Logos ed Ethos. Ethos in senso etimologico indica un essere
situato, essere al proprio posto, al giusto posto con sé stessi, l’altro, la città, il cosmo:
la ragione, il logos ha quindi nel pensiero greco e romano anche una sua dimensione
essenzialmente politica ed etica.
Aristotele definisce l’uomo tanto come “animale politico”, quanto “animale che
parla”. Alla luce di quanto accennato le due definizioni si ricompongono
organicamente
Ragionare, ovvero l’azione della ragione è usato sopratutto in italiano anche per
“parlare”, “discorrere”, non solo per argomentare con rigore – considerare, discutere
– ma anche semplicemente per “dire”, si pensi al ragionar d’amore degli stilnovisti o
all’uso del termine in Leopardi. Quest’ultima accezione di ragione - ragionare –
razionalità ci riporta alla fondamentale duplicità di significati della parola greca lógos
come:

Parola - espressione linguistica discorso – il dire;
 Ragione come facoltà – espressione del pensare, giustizia del pensare e del dire
(orthos logos ) causa intellegibile delle cose, relazione proporzionale...
La interazione tra questi due poli di significati è inscindibile e la discussione in
proposito inesauribile e se, come nota Landsberg nel suo saggio L’uomo e il
linguaggio, vi è una priorità generativa, essa è del discorso sulla parola, ovvero del
nesso vitale tra gli oggetti, le parole di cui son segno e la ragione che ne stabilisce i
nessi: la parola isolata è solo un’estrazione successiva e già formalizzatrice.
II
Razionalità e realtà in Hegel
“Ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale”. Più che una
definizione questa celeberrima espressione di Hegel nella Prefazione ai Lineamenti
di filosofia del diritto, rappresenta una convinzione originaria e generativa tanto
della coscienza ingenua e del sapere comune (almeno del suo tempo), quanto della
filosofia che si fonda e si giustifica solo a partire da tale con-vincimento. Non voglio
e non posso in questa sede addentrarmi
nella disamina analitica di questa
espressione hegeliana, che implicherebbe una interpretazione complessiva di tutta la
complessa concezione hegeliana, ma mi limito a constatare come sulla base di
questo aforisma:
1. Non sia definibile la ragione e conseguentemente la razionalità mediante un
procedimento puramente razionale pena l’inevitabile tautologia e circolo
vizioso che si istaurerebbe;
2. La razionalità emerge solo in un rimando ad altro, il reale la realtà, a ciò che
successivamente Hegel chiamerà”presenza”;
3. Il reale nel suo darsi come presenza, presenza coglibile – pensabile e quindi in
qualche modo e misura dominabile – svela la sua struttura quantomeno
analogica se non dialetticamente identica con la razionalità che vi si rapporta
per mezzo di concetti o idee o più in generale pensieri. Per questa concezione,
che riassume e riesprime – pur attraverso il passaggio e le mediazioni
dialettiche del soggettivismo moderno- la concezione classica di razionalità
(almeno da Platone in poi), la ragione nell’atto in cui realizza una forma di
dominio, di possesso cosciente del rapporto con le cose mediato dal
linguaggio, avvia contestualmente una concezione del soggetto razionale
capace di accogliere in sé l’immediato dislivello tra ragione e ciò che
strutturalmente e incessantemente va oltre, che è altro.
Il “ ciò che è razionale è reale”, la prima parte dell’aforisma, secondo i critici
materialisti implicherebbe un idealismo assoluto, un ritorno ad un platonismo per cui
l’idea, il logos fonderebbe integralmente la struttura dell’essere senza residui
dissolvendolo nel concetto, un ritorno alla metafisica classica le cui origini risalgono
fin a Parmenide. Conseguenza sarebbe il relegare al regno dell’arbitrario e del non
essere la concreta e molteplice vita, dissolvendo e annichilendo l’irriducibile alla
ragione . La seconda parte dell’aforisma “ ciò che è reale è razionale”, valorizzato
invece dal marxismo, secondo una critica – che in senso metastorico si potrebbe
definire romantica – implicherebbe una santificazione e giustificazione del mondo e
della storia, ivi incluse di tutte le barbarie e orrori, della presenza del male. Una sorta
di nuova Teodicea. La pretesa di giustificare l’ingiustificabile. Sarebbe prova di un
ottimismo ingenuo quanto ottuso, l’ottimismo di chi ha la pancia piena, la
celebrazione dello Stato e dello stato di cose esistente e implicherebbe una sorta di
rassegnazione della ragione accettabile solo dai vincitori. A mio avviso ogni
accentuazione di uno dei due aspetti dell’aforisma hegeliano lo deforma
unilateralmente e solo il coglierlo nella sua totalità dialettica può permettere di
interpretarlo nel suo senso originario che ho cercato di riassumere nei tre punti
precedentemente schematizzati. Ovviamente dovrei dimostrare questa mia asserzione,
ma ciò richiederebbe un lavoro sul testo hegeliano che in questa sede non possiamo
svolgere per problemi ti tempo se vogliamo compiere il percorso che ci siamo
proposti nel nostro corso. Credetemi quindi se volete o prendete queste mie
affermazioni come un’ipotesi da verificare nel proseguio dei vostri studi ovvero ne
potremmo parlare in un seminario ad hoc da realizzare su vostra richiesta
III
Prevalente significato assunto dal termine razionalità nel mondo contemporaneo
Se chiediamo al giorno d’oggi all’uomo comune, anche intellettualmente
evoluto,
di spiegare cosa sia la ragione normalmente la prima reazione è
d’imbarazzo. Tale imbarazzo tradisce la sensazione che non ci sia nulla da spiegare,
che il concetto di ragione sia evidente in sé e che la domanda sia superflua. Se
insistessimo per avere comunque una risposta il più delle volte sentiremo dire
qualcosa del seguente tenore: “le cose ragionevoli sono quelle di evidente utilità e che
da tutti gli uomini ragionevoli ci si deve aspettare che sappiamo capire cosa è utile
per loro. Bisogna evidentemente tener conto delle circostanze particolari, delle leggi,
costumi e tradizioni, ma in ultima analisi ciò che rende possibili azioni ragionevoli è
la facoltà di classificare, la capacità di induzione e deduzione, cioè il funzionamento
astratto del meccanismo del pensiero, sempre identico quale che sia il suo contenuto”.
Una tale concezione di razionalità, è quella che Max Horkheimer definì, in un
suo scritto degli anni ’40, L’eclissi della ragione, “ragione soggettiva”.
Secondo il pensiero di Horkheimer e Adorno, che più di altri hanno tematizzato
l’idea di razionalità nella società contemporanea, la sua crisi e l’attuale ribaltamento
dialettico nel suo opposto, alla ragione soggettiva interessa in primo luogo il
rapporto tra mezzi e fini. La ragione soggettiva è essenzialmente strumentale e si
preoccupa della congruenza dei procedimenti adottati per raggiungere scopi che si
suppone si spieghino da sé. Non attribuisce tale concezione di ragione molta
importanza alla questione se in sé gli scopi siano ragionevoli.
I fini sono in sé “ragionevoli” in senso soggettivo, in quanto rispondano all’interesse
del soggetto per l’auto conservazione propria dell’individuo singolo o di quella
comunità, dalla cui sopravvivenza quella dell’individuo dipende. Secondo questa
forma di razionalità la ragione è esclusivamente una facoltà soggettiva della mente
umana: solo il soggetto può propriamente parlando possedere la ragione.
Quando si dice che un’istituzione o una qualsiasi altra realtà sono razionali,
intendiamo piuttosto dire che sono ragionevoli vale a dire che gli uomini le hanno
organizzate in modo utile, applicando ad esse la loro capacità di calcolo. In ultima
analisi la ragione soggettiva è capace di calcolare le probabilità e coordinare i mezzi
adatti ad un tale fine. Tale definizione si adatta perfettamente con le idee sviluppate
da una fondamentale linea di pensatori anglosassoni, da John Locke in poi.
Per la concezione soggettivistica della razionalità la validità dei nostri ideali,
convinzioni religiose, i principi basilari dell’etica e della politica sono fatti dipendere
da fattori diversi dalla ragione. Quali le conseguenze del processo di soggettivazione
e formalizzazione della ragione?
Sempre secondo la lettura dei francofortesi, i concetti di giustizia, libertà, felicità,
eguaglianza, fraternità, concetti che nei secoli precedenti al XX si credevano una cosa
sola con la ragione o comunque sanzionati da essa hanno perso le loro radici
razionali. Sono in molti casi ancora scopi e fini, ma non esiste più alcuna entità
razionale autorizzata a darne un giudizio positivo e a metterli in rapporto con una
realtà oggettiva. Pur godendo di prestigio e talvolta venerati, manca ad essi ogni
conferma da parte di questa concezione di ragione. Chi può razionalmente dire,
all’interno della concezione soggettivistica che questi ideali siano migliori o più
vicini alla verità del loro opposto?
In secondo luogo essendosi costituita un’unica autorità, cioè la scienza intesa come
classificazione di fatti e calcolo di probabilità, l’affermazione che la libertà o la
giustizia sono di per sé migliori della tirannia e dell’oppressione è scientificamente
indimostrabile e ancor più priva di senso. E’ equivalente all’affermazione che il rosso
sia più bello dell’azzurro o che le uova siano più buone del latte.
Quanto più la ragione diviene soggettiva e strumentale e formalizzata tanto più
facilmente porta alla manipolazione delle idee e alla propaganda delle menzogne più
sfacciate. L’illuminismo, categoria allo stesso tempo storica e metastorica, dissolve la
concezione oggettiva di razionalità per dissolvere in nome della stessa ragione
oggettiva, il dogmatismo e la superstizione; ma spesso reazione, oscurantismo,
barbarie e nuova superstizione mitologica traggono maggior vantaggio da questa
liquidazione “Il mondo interamente illuminato risplende di universale sventura” (
Adorno- Horkheimer, “Dialettica dell’illuminismo”), .
IV
Ragione soggettiva e Ragione oggettiva nella critica della ragione svolta da
Horkheimer e Adorno (Una lettura del primo capitolo dell’Eclisse della ragione)
Per molti secoli, dal costituirsi della filosofia occidentale, è prevalsa una
concezione di ragione che Horkheimer ed Adorno hanno chiamato “oggettiva” e Max
Weber “sostanziale” in opposizione a quelle “funzionale” che come detto i
francofortesi hanno invece indicato come “soggettiva”.
Per tale concezione oggettiva la ragione si ritrova non solo nella mente umana, ma
anche nella realtà del mondo oggettivo: nel rapporto tra gli esseri umani tra le classi
sociali, nello stato, nella natura e le sue manifestazioni.
Le grandi filosofie di
Platone, Aristotele, Plotino, il pensiero patristico, la scolastica e dallo stesso
idealismo tedesco furono impostate sulla base di teorie oggettive della ragione per cui
si stabilivano, con varie espressioni, ordine e gerarchie tra gli esseri in cui erano
compresi l’uomo e i suoi fini. L’uno e i molti fu la vera coppia antitetica cui si
misurava e non già . Il grado di ragionevolezza di una vita umana dipendeva dalla
misura in cui essa si armonizzava o comunque conciliava con la totalità. Questa
concezione non negava l’esistenza della ragione soggettiva, ma la considerava come
un momento di un’universalità razionale. La ragione è un principio immanente alla
realtà che trova o può trovare una corrispondenza con le facoltà del soggetto.
I primi filosofi concepivano la ragione come qualcosa in più, che non regolasse
solo il rapporto tra mezzi e fini, bensì capace di comprendere i fini e addirittura di
stabilirli. Socrate morì per aver sottoposto le idee più sacre e comunemente accettate
dalla sua polis alla critica del “demone” o pensiero dialettico come lo chiamò Platone
.
Per far questo si batté contro il conservatorismo ideologico e relativismo
mascherato da progressismo, ma in realtà subordinato a interessi professionali e
personali, si batté in fondo contro i primi campioni della ragione soggettiva e
formalistica, ovvero i sofisti. Il Socrate dei dialoghi platonici era convinto che la
ragione intesa come intelligenza universale potesse determinare le convinzioni umane
e regolare i rapporti tra uomo e uomo e con la natura.
La locuzione “ragione oggettiva” indica quindi una struttura propria e immanente
della realtà che di per sé impone un comportamento adeguato, un’etica ed un rigore
logico, si tratti di un atteggiamento pratico o teorico. La struttura razionale del reale
si manifesta come scriveva Hegel nella Fenomenologia dello spirito e in più luoghi
riprenderanno Adorno ed Horkheimer, a colui che si sobbarca la “fatica del
concetto”, del pensare dialetticamente o che (è lo stesso) è capace di eros.
Il rapporto tra razionalità oggettiva e razionalità soggettiva non è né di semplice
opposizione né tantomeno riducibile ad una sorta di dinamica evoluzionistica
positivisticamente intesa. Storicamente sia l’aspetto oggettivo che quello soggettivo
della ragione sono stati presenti sin dagli albori del pensiero occidentale. Basti
pensare al frammento 2 di Eraclito in cui si afferma l’universalità del logos, ma si
constata come la maggioranza seguisse una forma privata di razionalità. Tesi
riaffermata da Parmenide nella chiusa del primo frammento del suo poema.
Il predominio attuale della razionalità soggettiva e la sua pretesa totalitaria è esito
di un lungo processo. E’ nell’età moderna che la ragione ha rivelato con più forza la
tendenza a dissolvere il proprio contenuto oggettivo. Questo processo si dispiega
compiutamente a partire dalla dissoluzione storica e teoretica dell’ordo medievale,
con il nominalismo (in ambito logico e gnoseologico), la Riforma ( che trova la sua
giustificazione teoretica proprio dal nominalismo), le guerre di religione divenute
Instrumentum regni, la rivoluzione scientifica introdotta a partire da Galileo e che
trova i suoi prodromi proprio nel nominalismo e in Bacone. Tutto ciò portò alla
consumazione del divorzio della ragione dalla religione. Tale divorzio contribuì
ulteriormente ad indebolire l’aspetto oggettivo della ragione e a formalizzarla, come
si vede con tutta chiarezza nel pensiero dei lumi.
Nel XVII secolo la corrente filosofica che Hegel definì razionalistica (da Cartesio a
Wolff passando per Spinoza e Leibniz) si sforzò di formulare una dottrina dell’uomo
e della natura capace di svolgere almeno per l’elite della società borghese la funzione
intellettuale svolta nel Medio Evo dalla religione. I sistemi razionalistici furono
tentativi di chiarire il significato e le esigenze della realtà e presentare verità
vincolanti tutti in forza di un lumen naturale. Si trattò di un immane sforzo di
ricostruzione di ordine dopo la dissoluzione dell’ordo medievale cristiano che si
concepiva in continuità, come inveramento, con la grande tradizione filosofica della
razionalità espressa dalle grandi sistemazioni classiche: Platone, Aristotele, Plotino,
la Patristica e la scolastica. Il soggetto di questa razionalità moderna non era più il
cittadino delle polis o romano, non il fedele cristiano o suddito dell’impero, ma
l’individualità borghese allo stato della sua presa di coscienza.
Emerge la nozione moderna di io, di coscienza individuale, vocaboli e concetti
nuovi nell’universo filosofico. La priorità è vincere lo scetticismo che non riguarda
più come nelle sue forme antiche prevalentemente la ratio cognoscendi, ma la stessa
ratio essendi,
La necessità di fondare lo stesso soggetto della razionalità moderna e da lì
procedere alla ri-costruzione di un mondo esteriore e interiore e del garante
dell’esistenza della razionalità e del reale, Dio, rappresentano la grande opera di
Cartesio, il quale – per onestà intellettuale - non riuscì come invece si proponeva a
fondare un’etica e una politica razionali. Etica razionale invece imposta more
geometrico da Spinoza, che con la sua dottrina allo stesso tempo panteistica e pannaturalistica (Deus sive natura) risolse attraverso una rivisitazione (e impoverimento)
della nozione aristotelica/scolastica di sostanza le aporie di Cartesio.
Una semplificazione sicuramente conciliante e rassicurante sul potere della ragione,
ma che aprì nuove domande sul momento generativo del sapere e del sapersi del
soggetto, sulla vita e quindi la storia e la sua comprensibilità razionale.
I razionalisti moderni, le loro teologie razionali e le loro ricostruzioni speculative
dell’universo e non già le epistemologie sensiste, ovvero per esemplificare Giordano
Bruno e non Telesio, Spinoza e non Locke, entrarono direttamente in urto con la
religione tradizionale perchè la loro razionalità metafisica andava a competere con
questa su questioni chiave come Dio, la creazione, la destinazione dell’esistenza
umana e la sua libertà. Problemi da cui si smarcarono abilmente gli esponenti della
razionalità empirista.
Nel XVIII secolo l’Illuminismo ( tanto nella sua versione anglosassone quanto in
quella francese) sferrò un poderoso attacco contro ogni autorità costituita residuo
ormai slegato dal proprio nucleo generativo del mondo cristiano medievale. La lotta
in nome della ragione in funzione degli interessi della borghesia ormai in grado ,
almeno in alcune nazioni, di assumere direttamente il poter politico contro ogni
assolutismo basato sulla superstizione religiosa, investì tutti i campi: dal diritto, alla
politica, alla religione. La polemica della razionalità illuminista, strutturatasi in
ideologia, non risparmiò le metafisiche prodotte dai moderni sistemi di razionalità
oggettiva. La critica demolitrice di Voltaire alla teoria razionale di Leibniz fu senza
appello. La tragedia del terremoto di Lisbona fu solo uno spunto. La critica era pur
sempre ancorata ad un presentimento di una razionalità oggettiva che si ribellava a
giustificazioni dell’ordine esistente ad una situazione di insopportabilità.
Gli illuministi attaccarono la religione in nome della ragione, ma in definitiva
uccisero non la chiesa ma la metafisica e il concetto oggettivo di razionalità da cui in
ultima analisi le loro stesse idee traevano forza.
La ragione, come sostengono
Adorno ed Horkheimer nella Dialettica dell’illuminismo ha liquidato se stessa in
quanto possibilità di comprensione etica morale, religiosa. L’illuminismo nel senso
allo stesso tempo teorico e metastorico, ha perseguito da sempre l’obbiettivo di
togliere agli uomini la paura e di renderli attraverso la ragione padroni di se stessi.
“Ma la terra interamente rischiarata risplende all’insegna di trionfale sventura”.
Dalla critica del mito ad ogni livello si è passati ad un nuovo mitologismo della pura
fattualità del positivismo e del pragmatismo. Dallo spirito critico all’indottrinamento
delle masse, dalla ricerca della verità costi quel che costi all’oblio dell’idea stessa di
verità, dalla tolleranza al terrore, dall’affermazione della libertà del soggetto alla sua
soggiacenza acritica alla mentalità e moda dominanti mai così persvasiva della
struttura più intima dell’io, dal “regno puro dei fini”dell’ottimismo illuminista pur
presente in Kant, al dominio incontrastato dei mezzi, dall’ordine razionale alle nuove
barbarie. Come nel caso dell’apprendista stregone “la scopa magica” della ragione è
sfuggita di mano ad un pensiero imprudente e presuntuoso e paradossalmente
eccessivamente timido e impaurito.
V
Conclusione (inconclusiva, ma spero non inconcludente)
Il Romanticismo e l’idealismo tedesco - da Kant fino alla gigantesca sintesi
hegeliana - hanno rappresentato un tentativo a questo processo, dopo l’illuminismo e
i suoi esiti rivoluzionari,
di ristabilimento di un equilibrio tra i due poli della
razionalità soggettiva e oggettiva. Le risposte furono diversificate ma l’esigenza era
comunque la stessa: la ridefinizione di un nuovo ordine, di un nuovo sistema e
architettonica che salvasse l’originaria istanza del logos greco e della religione
cristiana, che della civiltà moderna rappresentavano comunque (all’interno del nuovo
paradigma borghese dell’uomo) due pilastri che tenevano in piedi la stessa civiltà.
Con Hegel e la sua poderosa sintesi l’autocomprensione della ragione moderna e
della doppia istanza (soggettiva e oggettiva) che rappresenta, l’autocomprensione del
soggetto di questa modernità (il soggetto cristiano- borghese) giungono al loro
culmine.
Ma come dice lo stesso Hegel “la filosofia [ivi inclusa la sua] è come la nottola di
Minerva che appare sul far della sera”, la filosofia si manifesta più compiutamente
nel momento stesso in cui l’universo che rappresenta e che costituisce,
si sta
dileguando. Con Hegel, da un certo punto di vista, il mondo moderno e la forme di
razionalità che esso esprime iniziano un lento quanto inesorabile declino, dal culmine
della modernità, come categoria storica e filosofica, ci si avvia a quella che sul finire
del XX secolo verrà definita come epoca postmoderna Il sorgere in antitesi ad Hegel
delle cosiddette filosofie irrazionalistiche (apparente contraddizione in termini); la
concezione di razionalità sviluppata da Marx e i suoi epigoni, il pragmatismo, i
tentativi anacronistici di “revivals” di antiche ontologie del novecento, mille altri
aspetti ancora dovrebbero essere trattati. Ma l’inesauribilità del tema e l’esaurimento
del tempo a nostra disposizione ci impediscono di proseguire oltre.
Riprenderemo, cercando da altre angolature di chiarire un po’ di più il problema della
razionalità, affrontando nel corso del seminario l’opposizione chiave che caratterizza
la modernità quella tra soggetto e oggetto e, successivamente - riprendendo le mie
lezioni - abbordando le ulteriori tre questioni che ci eravamo proposti di affrontare: il
termine verità; la coppia di termini teoria prassi; il problema dell’uomo e alcune
coppie di termini ad esso collegate quali corpo e anima; vita e morte; io e l’altro,
ecc.)
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